SOGNARE PER IMMAGINARE DI ESSERE SVEGLI

di Davide Gatto

Ibrahim Nasrallah, Gaza Weddings

“Ti ha mai detto nessuno perché la gente sogna, ragazza?”

“No”, riconobbi.

È perché non hanno abbastanza vita. Sognano per poter immaginare di essere svegli – di non aver perso nulla”.

Questo romanzo breve di Ibrahim Nasrallah, pubblicato la prima volta in arabo nel 2004 e poi in inglese nel 2017 (Hoopoe, Cairo-New York, edizione cui qui si fa riferimento), presenta il requisito fondamentale della grande letteratura, la capacità cioè di proiettare sfumati e ingigantiti i contorni di una vicenda contingente sul fondale universale di un umano che è senza tempo e senza luogo, così che ciascuno possa facilmente riconoscersi.

Il frammento di dialogo citato in apertura, infatti, insiste in un contesto ben preciso, quello della Prima intifada (1987-1993) a Gaza, quando la reazione popolare all’occupazione israeliana scatena una rappresaglia militare indiscriminata che inasprisce le già difficili condizioni di vita nella Striscia fino al punto da renderla impossibile: fino al punto da far scattare meccanismi compensativi di emergenza – come appunto il sogno – per preservarla comunque.

Quando perciò la nonna Wasfiya dice a sua nipote Randa, la principale voce narrante del libro, che si sogna perché nella vita reale qualcosa è andato perduto, pur riferendosi a suo marito morto già ai tempi della Nakba del 1948 e da allora presenza fantasmatica ricorrente nei suoi sogni essa enuncia altresì il principio antropologico fondamentale per cui il sogno è una sorta di ricovero per tutti i desideri che la violenza del reale ha schiacciato e mortificato, un asilo fantastico dove essi possano conservare intatta la loro carica per nuovamente riaffacciarsi alla vita vera una volta che la tempesta sarà passata.

Se il libro rientra pertanto a pieno titolo nel filone delle opere di testimonianza del dramma palestinese e di lotta per il diritto negato all’indipendenza nazionale e alla libertà individuale, esso funge però anche da specchio molto efficace delle dinamiche emotive e delle strategie esistenziali che ciascun uomo sperimenta quando la fiamma della vita si fa esile e tutto attorno soffiano venti di burrasca.

L’effetto finale è di quelli che la lingua inglese definirebbe win-win, perché le prove estreme affrontate dai palestinesi rappresentati nel libro consentono di esplorare con precisione di dettaglio certa fenomenologia di resistenza connaturata all’essere umano da una parte, dall’altra perché l’inevitabile identificazione nei personaggi fa sentire al lettore intimamente suo il dramma storico dei palestinesi, al di là del battage propagandistico che li vorrebbe tutti terroristi e quindi irrimediabilmente diversi.

Sospesa così sul discrimine sottile tra vicenda contingente e più generali dinamiche esistenziali, la narrazione prende forma a posteriori attraverso le parole di due giovani donne di Gaza tra loro molto legate: Randa, aspirante giornalista e scrittrice, e quindi in certo modo testimone consapevole degli eventi, e Amna, già sposata e madre di due figli, il vero personaggio tragico contro cui la storia si accanisce e che, in preda a un lucido vaneggiamento degno di una Fedra o di una Medea, indica tuttavia la strada per sottrarre la memoria, gli uomini e l’intero suo popolo all’annientamento.

Nella successione dei venti capitoletti dal taglio fortemente dialogato le due voci si alternano pressoché sistematicamente senza però offrire al lettore nient’altro che dettagli sparsi di una storia che resta frammentaria pressoché fino alla fine, da una parte perché nel suo delirio Amna fonde passato e presente, realtà e desiderio, dall’altra perché Randa avvolge di delicato riserbo la figura di Amna impazzita dal dolore e inframmezza il flashback della triste storia di lei con riflessioni personali e ricordi sparsi di vita familiare.

La natura quasi sempre indiziaria e dislocata della narrazione, d’altronde, lascia intendere bene che non è la storia di Amna – e in parte di Randa – il centro ispiratore del romanzo, anche perché essa finirebbe per assomigliare a un’infinità di altre vicende simili della terra di Palestina di ieri e di oggi: gli sforzi di condurre una vita normale – Amna psicologa all’ospedale Al Shifa, suo marito ingegnere, il matrimonio d’amore, i due figli, i familiari, gli amici; l’esperienza quotidiana degli abusi e della persecuzione, emblematicamente rappresentati da famiglie tutte di donne e di bambini come quelle delle due protagoniste, i cui uomini sono in carcere, o sono stati uccisi, o sono costretti alla clandestinità; i bombardamenti incessanti e la brutalità degli occupanti che per il loro arbitrio e per la loro ineluttabilità sembrano rispondere ai comandi di un soprannaturale angelo sterminatore; infine la tragedia, il lutto, il naufragio della mente e di un’intera vita che, osservati tante volte nelle persone vicine, arrivano ad abbattersi anche su chi prima ne era solo testimone, anche su Amna e sulla stessa Randa, l’una privata del marito e del figlio Saleh, l’altra della sorella gemella Lamis.

È a Randa che, nel modo obliquo proprio degli artisti, Nasrallah affida la conclusione che in un regime di occupazione cose e persone “nascono e muoiono come vuole l’occupante, non come vogliono loro”, con il sottinteso corollario metanarrativo che la ricchezza possibile di mille storie diverse è in questo caso esteriormente ridotta alla ripetitività seriale di un’unica storia drammaticamente sempre uguale. Non sull’ennesima storia di sopraffazione pone dunque l’accento Nasrallah, ma sulle tortuose strade che tra conscio e inconscio, tra deliberazioni estreme e mobilitazioni simboliche l’individuo e i popoli perseguitati percorrono per non darla vinta al male, per traghettare paradossalmente intatta la vita verso il mondo che verrà.

La prima e più importante di queste forme, quella a cui è legata la suggestione del titolo non a caso parodico delle nozze di Cana in cui Gesù compie il miracolo della ricomparsa del vino che era del tutto finito, è quella del matrimonio. È questa, in particolare, l’ossessione di Amna che, pietosamente assecondata dalla famiglia di Randa, propone e prepara le nozze tra Lamis e suo figlio Saleh quando quest’ultimo è già stato ucciso. A Gaza non solo il vino e la festa, ma gli stessi matrimoni sembrano interdetti dalle forze di occupazione, come provocatoriamente dirà un soldato del check point alla stessa Amna al tempo del suo matrimonio (“Weddings no allowed”). Come si comprende, la posta in gioco di questo divieto, e della contrapposta ostinazione ad infrangerlo, è la continuazione della Vita attraverso i figli, figli che Amna immagina, in uno dei soliloqui con i suoi morti, come grumi del corpo delle donne sottratti alla morte e destinati a farsi a loro volta grandi e a moltiplicarsi, in una fuga in avanti che nessuno sterminio riuscirà mai ad arrestare.

Ma capaci di sconfiggere simbolicamente la morte sono anche le fotografie, spesso associate alla cura dei morti e delle tombe su cui esse campeggiano vicino al nome del defunto. In questa polarizzazione che da storica si fa esistenziale, risulta del tutto coerente che l’esercito di Israele, che incarna l’energia distruttrice, bombardi anche il Cimitero dei Martiri, e che d’altra parte Randa fin da piccola raccolga le fotografie dei bambini uccisi, piangendo a dirotto quando esse li ritraggono già dilaniati e irriconoscibili. In fondo, conservare integro un corpo o la sua immagine da vivo allude simbolicamente alla possibilità di fargli attraversare il deserto della morte per restituirlo quando sarà di nuovo alla vita, ed è per questo che i soldati di occupazione non si accontentano di uccidere, ma usano i loro strumenti di morte per smembrare definitivamente i corpi – osserva Aziz, il ragazzo del cimitero che per questo si sforza caparbiamente di ricomporli nella bara: “dovrebbero altrimenti, il giorno della Resurrezione, mettersi a cercare dappertutto le parti dei loro stessi corpi?”.

Ovviamente le fotografie che ritraggono chi si è opposto alla furia distruttrice dell’occupante e per questo è stato ucciso diventano il corrispettivo iconico di una testimonianza e di un modello d’azione per chi resta, come avviene per Saleh che mostra a tutti la foto del padre morto nel desiderio ansioso di sentirsi dire che lui gli somiglia perfettamente, ciò che alla fine ammetterà soltanto Lamis, la sorella gemella di Randa. Significativamente, alla convergenza dello sguardo di questi due personaggi sulla somiglianza con il Martire – l’uno a chiederla, l’altra a riconoscerla – corrisponde il solenne impegno di entrambi a contrastare sul terreno i soldati che li opprimono, “l’uno durante la notte, l’altra durante il giorno”.

Questo è però un libro in cui la resistenza declinata al maschile, quella armata e politicamente connotata, è lasciata sullo sfondo e comunque destinata alla sconfitta; pertanto, pur non trascurando l’eccezione in realtà ambivalente rappresentata da Lamis e di cui si dirà più sotto, le ragioni della vita sono affidate a forme più intime e più elaborate di contrapposizione, forme appunto tipicamente femminili: su tutte, anche per la centralità in cui Nasrallah la incastona nella successione dei capitoli, la scrittura letteraria.

Esattamente a metà del romanzo, infatti, Amna rievoca quando il marito Jamal le diceva che la resa comincia nel momento esatto in cui si smette di pensare alle persone a cui si vuole bene, e le viene naturale associare a questo pensiero le riflessioni di Randa su Ghassan Kanafani, che scriveva proprio per strappare la vita e le persone – le cose belle – dagli artigli della morte: lui sapeva bene che le storie non raccontate “diventano proprietà del nemico”.

È per questo che a due capitoli dalla conclusione, quando ormai la presa del vortice tragico appare irresistibile e generalizzata, Amna affida a Randa quasi in limine mortis e quindi con tutta la forza sacra di una verità rivelata e di una disposizione testamentaria il compito di scrivere quello che i corpi dilaniati dei bambini sono stati da vivi, “ciò che essi hanno detto, ciò di cui hanno sognato”, con una proiezione verso il futuro negato che è già una dichiarazione di guerra contro la morte – contro il soldato occupante.

Ma è a questo punto che emerge con chiarezza il valore simbolico della gemellarità, di coloro che sono diversi ma al contempo così uguali da sembrare una persona sola. Se pure fisicamente identiche, le gemelle mostrano infatti fin dalle prime pagine caratteri divergenti, tanto intraprendente e aperta agli altri e al mondo Lamis, quanto chiusa e riflessiva Randa, più incline a distillare le esperienze e le riflessioni degli altri in appunti scritti che a vivere in prima persona. Nonostante però i modi rispettivi di reagire al male della storia siano coerenti con queste premesse e quindi apparentemente inconciliabili – la resistenza militante da una parte, la letteratura di testimonianza e di memoria dall’altra -, ancora nel centro del libro, in quello che potremmo definire il suo cuore metaletterario, Nasrallah afferma invece la loro sostanziale interscambiabilità.

Qui infatti Randa racconta di aver sognato Kanafani, lo scrittore e poeta palestinese ucciso in Libano dagli israeliani nel 1972. Nel sogno lei vede in lontananza Kanafani su una strada circondata da acque che stanno per chiudersi, vorrebbe raggiungerlo ma, nonostante lui la chiami a sé per nome e la sproni, è frenata dalla sua timidezza, finché, fattasi coraggio, arriva finalmente a toccargli la mano; non è però Kanafani quello che si rivela al suo sguardo un istante prima del risveglio, ma la sua gemella Lamis.

L’identità funzionale di letteratura e azione verrà poi confermata nell’ultima pagina del romanzo, quando la madre confronta la grafia con cui le due sorelle hanno scritto la parola “Palestina” per capire quale delle due sia morta, ma non riesce a trovare alcuna differenza: la Intifada (“rivolta”) delle pietre e delle manifestazioni è la stessa della penna e di quei libri che Randa brandisce come uno scudo, nel cortile di casa, contro gli elicotteri Apache e gli F16, urlando che possono fare quello che vogliono, ma i libri di Kanafani non riusciranno mai ad ucciderli.

*** ***

A leggere le pagine di questo libro di Nasrallah non si può fare a meno di tornare con la mente alla nostra grande letteratura di Resistenza, per esempio a Uomini e no di Vittorini: la stessa riconciliazione di letteratura e storia, lo stesso stile asciutto e dialogato, le stesse impennate poetiche che sanno bucare le quinte su cui è disegnata la realtà contingente e darle profondità e vita nella prospettiva dell’Altrove.

Come Amna parla con i suoi cari trucidati dall’invasore e ne acquisisce una consapevolezza che chiamerà Randa a diffondere nei suoi scritti, così anche Berta trae finalmente il coraggio di condividere con Enne 2 la sua vita da gappista contro il regime nazifascista dal dialogo con le vittime civili della rappresaglia esposte sul selciato di Largo Augusto a Milano:

Ora Berta va oltre la soglia di quello che sono loro morti, e alla consapevolezza nuova che ha da loro […].

Può apprendere da loro e da sé insieme come sia liberarsi.

Un modo diverso per ognuno?

È, le dice il vecchio, una parola sola.

Dilla, dice Berta. Che sciolga tutti i legami?

Che sciolga tutti i legami”. (Uomini e no, cap. LXXVIII)

Ma anche – soprattutto a guardarlo da questi tempi nostri di individualismo (indotto) così narcisistico da aver trasformato l’altro in un ologramma social fatto a nostra immagine e somiglianza–, tanto in Nasrallah che in Vittorini il respiro sociale si fa ampio e mosso, la vita e la morte non sono questioni private ma collettive, e se le forze demoniache della distruzione colpiscono indiscriminatamente, le loro vittime umane tornano a solidarizzare, ad avere fiducia reciproca, a diventare le une per le altre dei veri e propri angeli.

È questa per esempio la conclusione a cui giunge Amna al termine del lungo episodio nel Cimitero dei Martiri, dove molte donne vegliano insieme a lei sulla tomba di un uomo sfigurato che ognuna pensa sia il proprio congiunto. Man mano che le notizie affluiscono più precise, poi, una alla volta si congedano vergognose con il senso di colpa di aver lasciato ad un’altra un lutto che ciascuna sente anche proprio. Quando alla fine si scopre che il defunto è proprio suo marito Jamal, Amna incontra un’ultima volta le due ragazze dolci e taciturne che erano rimaste nel caso il morto non avesse avuto nessun altro a vegliarlo: esse abbassano le loro ali su di lei e, circonfuse di splendore e con una voce che sembra fatta di luce, la invitano a tornare dai suoi figli perché loro comunque non lo lasceranno mai solo.

Il fatto è che ci sono fasi in cui la storia non consente distrazioni, in cui tutto diventa necessario, tutto diventa l’eterno affare collettivo degli uomini, della lotta contro il male, della responsabilità. Sono questi certamente i tempi dello strazio, ma anche della fioritura di un’umanità profonda, solidale, capace di visione e della bellezza ad essa connaturata, capace quanta altra mai di amore per la vita fino al punto di essere disposta a sacrificare per essa il successo, il piacere del momento, una sopravvivenza che sarebbe oltraggioso definire vita.

È inutile misurare nella controluce della nostra Resistenza e della sua letteratura, della Resistenza palestinese e della sua letteratura la qualità di questi tempi nostri che fin dai loro albori Pasolini definiva causticamente “superflui”. Eppure proprio noi, proprio oggi, proprio in questo Occidente vuoto e tronfio come un nobile decaduto avremmo bisogno della reazione di Randa contro l’editore che seleziona i testi “con la testa incastrata nel dizionario” invece che aperta alla realtà; avremmo bisogno della determinazione di Lamis che smette di guardarsi nello specchio per non riconoscersi nell’immagine inautentica che il Discorso dominante ha preparato per lei, ma gira il vetro verso la parete e si dà alla lotta clandestina; avremmo bisogno di uscire dalla prigione narcisistica dell’algoritmo per riscoprire l’altro e una ragione valida per vivere e per morire.

Dato però che l’età dolorosa ma piena della nostra Resistenza è terminata, e mentre siamo in attesa che altri si accorgano che la vera Resistenza non può mai avere fine, possiamo sempre allargare lo sguardo oltre il confine sempre più globale del nostro Strapaese occidentale e respirare a pieni polmoni l’autenticità, la pienezza, la bellezza che vengono da chi, come Ibrahim Nasrallah e altri scrittori e poeti palestinesi, il tempo denso, dolorosissimo e però altrettanto fecondo della storia lo sta suo malgrado vivendo.

Potrebbe piacerti anche Altri di autore