ELEZIONI E DEMOCRAZIA NEL BRASILE DEL 2022

Del Risentimento e dell’azione: elezioni e democrazia nel Brasile del 2022

di Carolina Correia dos Santos* e Luciano Nuzzo**

1.

Giovedì 3 novembre, quattro giorni dopo le elezioni che hanno proclamato Lula presidente del Brasile, i social network si sono riempiti di variazioni comiche, collage grotteschi e creativi, video montaggi amatoriali di una medesima scena: un militante bolsonarista, aggrappato al parabrezza di un camion in corsa sull’autostrada BR-232.

Girati da varie angolazioni, tra cui quella del camionista, i video riproducono sarcasticamente la scena, usando diverse colonne sonore (“Stay on these roads”, di A-ha, è una di queste) e diversi sfondi, come quello in cui “il patriota del camion” è ripreso nella cabina di un razzo lanciato nello spazio. I meme, tra i tanti creati, mostrano una versione del giocattolo Lego, in cui ai pezzi del camion si aggiungono il pupazzetto, con la maglietta e il berretto giallo, e le foto che ritraggono il “camion con bolsonarista” sullo sfondo di Parigi, di Londra e delle piramidi d’Egitto.

La scena del “patriota do caminhão” accade a Caruaru, stato di Pernambuco, Nordest del paese. dove era in corso uno dei più di seicento blocchi stradali che hanno paralizzato le grandi arterie del paese nei giorni immediatamente successivi le elezioni. Probabilmente il camion forza il blocco, o forse il bolsonarista con la maglietta giallo verde della seleção si rifiuta di scendere dal cofano e lasciarlo passare. Le versioni ovviamente sono discordanti. Così come poco chiara la successione degli eventi. Ma in fondo poco importa.

Quello che importa, invece, è la scena in sé, la sua irrealtà. Le immagini che riprendono un uomo   afferrato ad un camion, in corsa lungo l’autostrada, anche senza alcun effetto speciale, sono incredibili, sembrerebbero esse stesse risultato di un abile montaggio, solo l’ennesima fake news. Tuttavia è propria la realtà irreale di questa scena, con tutta l’assurdità che contiene, che ci sembra possa esprimere lo spaesamento di molti di noi di fronte a ciò che accade e è accaduto negli ultimi anni in Brasile.

L’uomo in giallo, che si rifiuta di scendere dal camion (l’autista riferisce di avergli proposto di fermarsi per due volte prima che il bolsonarista accettasse finalmente di lasciare il “luogo della protesta”), l’uomo che mette a rischio la sua vita in una presunta manifestazione per la libertà e la democrazia (ma in cui si chiede l’intervento dei militari), dà la giusta misura di una situazione difficile da comprendere e che spesso anche chi vive in questo paese è tentato di classificare solo come delirio. Un delirio collettivo, visto che l’uomo dei video è solo uno dei tanti uomini e donne che si sono radunati in diverse parti del paese, prima bloccando le strade e poi manifestando davanti alle caserme dell’esercito, invocando a lor dire un “intervento federale” in risposta alla vittoria di Lula. (1)

2.

Per spiegare le manifestazioni golpiste non è sufficiente, però, fare riferimento solo alla rabbia che la vittoria di Lula ha scatenato. La frustrazione per la sconfitta certamente ha giocato un ruolo importante, ma c’è dell’altro. Le manifestazioni sono diretta espressione di qualcosa di più radicato e profondo, che si basa e si alimenta della convinzione, ampiamente diffusa tra i militanti, che Lula abbia vinto perché le elezioni sono state truccate.

Tale convinzione, a sua volta, rinvia e fa riferimento ad una vera e propria realtà parallela, costruita attraverso una serie di fake news. In questo universo parallelo, i risultati delle elezioni sono stati fraudati e un futuro governo Lula è una minaccia alle libertà individuali così come ai valori della famiglia e della patria. Lula e il PT sono accusati di promuovere la così detta ideologia di genere, di incentivare l’aborto e di costringere i proprietari a dividere i propri appartamenti con i senza tetto.  Durante le manifestazioni successive al secondo turno, circolavano diverse fake news che eccitavano i militanti, come per esempio l’annuncio dell’arresto per frode elettorale del presidente del TSE (Tribunale superiore elettorale), Alexandre de Moraes, o la “notizia” che mostrava la foto di una presunta “giudice” della Corte dell’Aia, Stefani Germanotta (meglio conosciuta come Lady Gaga), in conversazione con Bolsonaro, denunciando brogli e promettendo tutti gli interventi necessari per perseguire penalmente e a livello internazionale i presunti malfattori.

Se questo è il clima che si respirava dopo la chiusura dei seggi, è necessario chiarire che il lavoro ideologico era stato iniziato molto tempo prima.

Nel 2018, l’elezione di Bolsonaro aveva permesso che il “gabinetto dell’odio”, organizzato dal figlio Carlos, fosse istituzionalizzato, diventando una delle strutture più importanti di articolazione della comunicazione tra il governo e la propria base elettorale. Attraverso una complessa strategia di manipolazione e diffusione di notizie false, ma anche attraverso vere e proprie intimidazioni contro tutti coloro che per un motivo o per un altro erano rappresentati come una minaccia alla santa alleanza “Dio Patria Famiglia”, uno sconosciuto capitano riformato, eletto presidente, alimentava la sua base e creava un clima di odio e di delegittimazione delle istituzioni democratiche.

A partire dal gennaio del 2019, la strategia ufficiale di comunicazione adottata dal governo avrebbe dato preferenza alle lives del presidente, ai commenti su Twitter, alla diffusione di notizie apertamente false,  ai video che pubblicizzavano e rendevano virali le conversazioni informali, e senza alcuna cautela istituzionale, che Bolsonaro quotidianamente intratteneva con i propri sostenitori nel c.d. “cercadinho” (il luogo usato per gli incontri e, simbolicamente, ubicato fuori e di fronte il Palazzo della Alvorada).

Il disprezzo di Bolsonaro per i media ufficiali, l’avversione nei confronti di giornalisti e intervistatori, in breve, il suo dichiarato e rivendicato rifiuto di rispondere in forma istituzionale a chi lo interrogasse sulle attività svolte dal governo, hanno evidentemente incoraggiato la creazione e il mantenimento di un sistema precario di diffusione delle informazioni, incline a malintesi, offese, attacchi personali, minacce.

Per quattro anni Bolsonaro ha usato apertamente e senza alcuno scrupolo la sua carica di presidente per costruire e consolidare un sistema di potere basato su una inedita e sfacciata sovrapposizione tra interesse pubblico e privato. Le istituzioni pubbliche non solo sono state utilizzate per tutelare e promuovere gli interessi privati dei vari gruppi e lobbie che hanno sostenuto e appoggiato il governo. Ma, sono diventate esse stesse, in modo diretto e senza mediazione alcuna, espressione di questi interessi. Le stesse forze armate non si sono sottratte a questo processo di “privatizzazione”. Perdendo la funzione, rivendicata e più volte minacciata, di forza di equilibrio tra i poteri dello stato, sono state completamente fagocitate all’interno di questo meccanismo politico affaristico che le ha trasformate apertamente e al di là dei limiti istituzionali, in un gruppo di interesse particolarmente potente e pericoloso.

Il giornalista Bruno Paes Manso ha definito questo modello politico, semi pubblico e semi privato, che combina affarismo e gestione violenta del territorio, con il sintagma Repubblica delle Milizie. (2)

Le milizie sono organizzazioni paramilitari, composte principalmente da ex poliziotti che, con metodi mafiosi e con la complicità di amministratori locali, forze armate e polizia, “governano” interi quartieri alla periferia di Rio de Janeiro. Bolsonaro in qualche misura avrebbe esportato il modello affaristico criminale della “milizia” carioca a livello “federale”, trasformandolo in una vera e propria forma di governo.

Dopo la sconfitta elettorale, Bolsonaro è rimasto in silenzio per quasi 48 ore. Nessuna apparizione pubblica, nessuna intervista, nessun tweet, commento, niente di niente. Ora se è vero che quel silenzio non detestava stupore, vista la miserabilità del personaggio e il suo palese disprezzo per le istituzioni democratiche, allo stesso tempo, però, era un segnale abbastanza chiaro che in quelle ore si stava valutando concretamente la possibilità di un golpe più o meno violento, motivato dall’esistenza di presunti brogli elettorali.

Quando Bolsonaro finalmente appare, con il volto teso e circondato dai suoi sodali, ancora una volta sceglie il silenzio. Non riconosce la sconfitta, insinua, senza assumersi la responsabilità di una dichiarazione esplicita, che le elezioni sono state truccate. Afferma che le manifestazioni golpiste sono espressione della legittima indignazione popolare contro il risultato elettorale. Allo stesso tempo, però, prudentemente, prende, anche se debolmente, le distanze dai manifestanti per quanto riguarda il “metodo”. Ancora una volta il suo silenzio è significativo. Il golpe evidentemente era stato scartato, non era una strada realisticamente percorribile, e i suoi stessi alleati, il presidente del senato, quello della camera, e il suo vice, generale Mourão, sembravano più interessati ad una trattativa con il futuro governo che ad una avventura golpista piuttosto confusa. Allo stesso tempo, però, quello che non diceva pesava più che mai, perché quel silenzio alimentava, ancora una volta, il magma di risentimento, violenza e paranoia collettiva che costituiva e costituisce il collante del suo consenso politico.   

Le stesse forze armate, con un comunicato congiunto, firmato dai comandanti dell’esercito, della marina e della aereonautica, venerdì 11 novembre, hanno avallato, seppur ambiguamente, la linea di Bolsonaro. Il comunicato rivendica il ruolo moderatore che le forze armate hanno svolto, da sempre, nella storia brasiliana, come se fossero un vero e proprio quarto potere, accanto al legislativo, esecutivo e giudiziario, pronte ad intervenire nel caso di conflitti tra questi. Il comunicato continua inviando una mal celata minaccia al potere giudiziario, in particolare a Moraes che avrebbe adottato, secondo i militari, misure eccesive di limitazione dei diritti dei manifestanti. Infine si conclude con un appello al Popolo (parola scritta a lettere maiuscole) brasiliano e ai suoi valori profondi.

Il giorno prima del comunica delle forze armate, il ministro della difesa, Nogueira, pubblicava un rapporto sulle urne elettroniche, dicendo che allo stato dei fatti non c’erano indizi di frode elettorale. Ventiquattro ore dopo, il ministro pubblicava una seconda nota in cui chiariva che sì, è vero che non c’erano indizi sufficienti per affermare l’esistenza di brogli, allo stesso tempo, però, allo stato dei fatti, non era possibile neanche completamente escluderli.

3.

In un certo senso, le proteste sembrano continuare una serie di “incidenti” iniziati pochi giorni prima del secondo turno. Nel giorno stesso della votazione, la Polizia Rodoviaria Federale realizzava un numero inedito di blitz, sorprendendo tutto il paese e suggerendo che l’organo agisse per favorire Bolsonaro.

La PRF avrebbe operato in modo irregolare e in chiara violazione di un ordine del tribunale, fermando almeno 610 autobus, per lo più nella regione nord-orientale del paese, dove Lula storicamente ottiene la maggior parte dei suoi voti. Impedire alle persone di votare avrebbe potuto essere la mossa vincente per cambiare il corso delle elezioni senza la necessità di ricorrere ad un golpe militare.   

Le operazioni del PRF, diretta da Silvinei Marques – una figura inquietante legata alla famiglia Bolsonaro, nominato su indicazione dal figlio primogenito del presidente, il senatore Flávio, e la cui vita professionale è segnata da numerosi reati (tra cui il pestaggio a sangue freddo di un impiegato di una stazione di servizio) – non sono riuscite a cambiare l’esito della elezione. Anche grazie alla fermezza con cui Alexandre de Moraes e il Tribunale Superiore Elettorale hanno gestito la faccenda. Venuto a conoscenza dei blitz in corso, Moraes ha immediatamente denunciato le misure, indirizzando al responsabile della polizia un ordine perentorio affinché ponesse fine alle operazioni. Allo stesso tempo, però, dichiarava che le operazioni di polizia, fino a quel momento realizzate, non avevano turbato il regolare svolgimento delle elezioni. In questo modo con una mossa abbastanza pericolosa, ma che si sarebbe rivelata molto intelligente, evitava di adottare provvedimenti straordinari che prolungassero le votazioni oltre l’orario previsto e che inevitabilmente avrebbero prestato il fianco a possibili contestazioni giudiziarie dei risultati elettorali.

Le operazioni della polizia, anche se non hanno ottenuto il risultato voluto, hanno mostrato in modo evidente tanto l’uso privato e illegale dell’apparato statale quanto il livello profondo di infiltrazione del bolsonarismo all’interno delle istituzioni pubbliche.

La trasformazione della repubblica in una repubblica delle milizie ha raggiunto il suo apice nel giorno stesso delle elezioni. Le operazioni della PRF, infatti sono l’espressione più evidente di una campagna elettorale, quella di Bolsonaro, che ha utilizzato l’apparato statale completamente al di fuori dei limiti costituzionali. Bolsonaro, si può dire, ha governato negli ultimi mesi con il chiaro obiettivo di essere rieletto a tutti i costi e le decisioni più importanti sono state orientate al raggiungimento di questo scopo.

4.

I mesi precedenti alle elezioni sono stati segnati da un’intensa e ostentata campagna elettorale che si è svolta, illegalmente, attraverso meccanismi (extra)ordinari di governo. L’incremento significativo delle famiglie beneficiarie del programma di ausilio emergenziale, creato dal governo Bolsonaro durante la pandemia e che ha assunto quest’anno un altro carattere – non più assistenza temporanea ma una presunta distribuzione sociale del reddito – è stato uno tra gli strumenti, orchestrati dal governo federale, per recuperare consenso alla vigilia delle elezioni. La Bolsa Família (il pluripremiato programma di assistenza sociale di Lula, che interveniva su diversi piani, combinando gli aiuti in denaro alle famiglie con altri sussidi legati, per esempio alla avvenuta vaccinazione dei bambini e alla loro iscrizione a scuola) era stata abrogata e con quella, disarticolata tutta la complessa rete di sostegno sociale e di politiche pubbliche, costruite faticosamente nei decenni precedenti. Alla vigilia delle elezioni, quando la sua rielezione sembrava minacciata da un indice di approvazione molto basso, derogando ai limiti previsti per la spesa pubblica in periodo elettorale, in modo del tutto strumentale, Bolsonaro estendeva l’Auxilio Brasil – un compenso di 600 reais – ad una parte significativa della popolazione, aggiungendo la possibilità di accedere ad un prestito bancario, attraverso la Caixa Economica Federal, di circa 2000 reais.  In pratica, un vero e proprio prestito da restituire pagando interessi molto alti.

Oltre all’Auxílio Brasil, Bolsonaro, sempre nei mesi immediatamente precedenti le elezioni, ha comprato il voto dei camionisti, tassisti e autisti di Uber, depositando sui loro conti bancari, una sorta di indennità di servizio per l’aumento del costo della benzina. L’aiuto ai tassisti, ad esempio, è stato creato attraverso l’emendamento costituzionale n. 123, del luglio 2022, e prevede che le rate di 1000 reais siano pagate a tutti i tassisti registrati. Come gli altri aiuti, anche questo è stato utilizzato in campagna elettorale come manifesto del buon governo e della preoccupazione di Bolsonaro per le condizioni di vita dei cittadini brasiliani.

Attraverso il sostegno – anche questo comprato- del congresso nazionale, il governo Bolsonaro ha approvato leggi e emendamenti costituzionali, riuscendo a convincere una buona parte della popolazione a rivotarlo. È con questi meccanismi che ha cominciato a recuperare consenso. Se all’inizio dell’anno, Lula aveva circa il 50% delle intenzioni di voto e Bolsonaro solo il 25%, già a settembre la differenza tra i due candidati si era ridotta considerevolmente, fino ad arrivare, nei giorni precedenti il voto, a quello che gli analisti definivano come “empate técnico”, un testa a testa, deciso per una manciata di voti. Nonostante tutto questo, nonostante abbia mobilizzato l’intero apparato governamentale, Bolsonaro è stato il primo presidente, nella breve storia della Nuova Repubblica, a non essere rieletto dopo il primo mandato.

Da questo punto di vista la vittoria di Lula è stata straordinaria. In un Brasile segnato da tendenze autoritarie, da una nuova alleanza tra teologia evangelica e neoliberalismo, dal risentimento di una classe media impoverita dalla crisi economica, dalle fake news e dall’abuso delle istituzioni pubbliche per fini elettorali, Lula emerge, ancora una volta, come il principale protagonista della scena politica. L’unico che poteva sconfiggere Bolsonaro.

La figura di Lula è esemplare. In un paese fortemente classista e razzista come il Brasile, incarna la storia della maggioranza oppressa. Nasce in uno stato povero, nel Nord-Est del paese, migra, giovanissimo, per San Paolo, lavora come metal meccanico nella cintura industriale paulista. Insomma, Lula come molti brasiliani (secondo dati dell’IBGE -Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica – i poveri, quelli che soffrono la fame, in Brasile, sono 33 milioni) conosce la fame, è un migrante interno, è un lavoratore. Questo non è poca cosa in un paese in cui le classi dirigenti sono tradizionalmente composte dalle antiche oligarchie fondiarie e industriali.

E come se la figura di Lula, la sua storia, la memoria collettiva che incarna, riuscisse a infrangere la realtà parallela costruita da Bolsonaro e dal suo esercito di miliziani. In un momento in cui la politica si riduce ai tweet, il fatto che Lula riesca a parlare a migliaia di persone non è qualcosa che può essere sottostimato. Un tempo si sarebbe chiamato carisma, oggi questa capacità di comunicare in modo semplice e diretto, ci riporta alla materialità dei rapporti sociali, ma anche ad una dimensione della politica come responsabilità individuale e collettiva di fronte agli impegni assunti.

Lula era l’unico candidato che avrebbe potuto sconfiggere Bolsonaro, non solo per la sua storia personale e politica, per la capacità di riportare l’attenzione alla vita prosaica, ma anche perché è capace di negoziare, mediare tra i diversi segmenti che compongono la società brasiliana, è capace di muoversi in una scena politica e in un paese molto complesso e frammentato. Senza Lula sarebbe stato impossibile creare quel fronte ampio per la democrazia che ha riunito intorno alla sua candidatura diverse figure (alcune anche abbastanza discutibili) politicamente molto distanti tra loro. Così come sarebbe stato impossibile ottenere, alla vigilia del secondo turno, l’appoggio di molti governatori di stati e municipi, nelle più diverse e sperdute zone del paese.

Forse, potremmo considerare la vittoria di Lula come il tentativo riuscito di disarticolare un golpe che era già iniziato da molto tempo, nel 2016 con l’impeachment di Dilma Roussef.  Continuato con la militarizzazione della politica e con la prigione del vecchio sindacalista. Normalizzato con l’elezione di Bolsonaro nel 2018. Un golpe che si era materializzato con l’assassinio di attivisti e militanti, da Marielle Franco a Bruno Pereira e Don Philips, con la guerra contro la popolazione negra, indigena e povera.

La straordinaria vittoria di Lula, allora, è soprattutto la sconfitta del golpe e della sua normalizzazione attraverso mezzi democratici, un sospiro di sollievo per un paese sottoposto ad attacchi autoritari quotidiani e di diverso tipo. Ancora una volta, non è poco: la scelta per Lula è una rivendicazione radicale di democrazia.

* Carolina Correia dos Santos è professoressa di Teoria letteraria alla Università Statale di Rio de Janeiro (UERJ)
** Luciano Nuzzo è professore di Sociologia del diritto all’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ)
NOTE
1) A Rio de Janeiro, migliaia di manifestanti bolsonaristi, per lo più lavoratori informali, di classe medio bassa (il cui reddito familiare è compreso tra 2000 e 6000 reais) hanno invaso, con slogan e bandiere del Brasile, lo spazio antistante la grande caserma di Duque de Caxias. Un edificio tetro che assomiglia ai grandi palazzi moscoviti costruiti durante lo stalinismo e che si trova nel centro della città, vicino la stazione Central do Brasil.
I manifestanti invocavano un “intervento federale”, ovvero qualcosa che non esiste, dal momento che la
Costituzione del 1988 non riconosce alle forze armate questo potere. Ma il neologismo, “intervento federale”, che involontariamente hanno coniato, permette di comprendere quel processo di normalizzazione della violenza e della emergenza che è uno dei tratti salienti del fascismo bolsonarista.
2) Paes Manso, Bruno. A Repúbblica das Milícias. Dos Esuqdrões da morte à era Bolsonaro. São Paulo: Todavia 2020.

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