J. HALEVI: LA RIVOLTA NEI CAMPUS

Intervista a Joseph Halevi

RP. Come descriveresti ciò che sta avvenendo negli USA, ora con le rivolte nei Campus universitari in tutto il territorio nazionale, ma già dall’indomani dell’inizio dei massacri israeliani nella Striscia di Gaza da metà ottobre scorso con le massicce manifestazioni di solidarietà con i palestinesi e contro l’appoggio incondizionato statunitense a Israele?

J.H. Dal punto di vista del movimento nelle università, mi sembra proprio simile a quello che avvenne durante la guerra del Vietnam. Con due differenze.

La prima è che all’epoca del Vietnam, i movimenti di protesta cominciarono dentro le università e si estesero all’esterno, unificandosi con i movimenti per i diritti civili. All’inizio lo stesso Martin Luther King era piuttosto neutro rispetto al Vietnam. Quindi le proteste contro la guerra andarono in parallelo con quelle nei ghetti neri, che avevano anche una ragione interna.

La seconda, è che fin dall’inizio, dopo il 7 ottobre, ci sono state grandi manifestazioni. Appena si è visto il tipo di reazione israeliana, di distruzione totale e di aggressione alla popolazione civile, molte volte superiore a quanto era successo il 7 ottobre negli insediamenti israeliani intorno a Gaza, si è messa in moto la protesta da subito assai ampia: nei supermercati, nei centri commerciali. Anche cortei di massa veri e propri. Mentre nelle università è arrivato più recentemente.

RP. Una delle caratteristiche di queste proteste è che sono state animate e hanno visto protagonisti i giovani delle comunità ebraiche statunitensi, in rottura con l’appoggio incondizionato di queste a Israele. Quello che sembra è che negli Stato Uniti la Palestina si diventata una questione nazionale. Come valuti tutto questo?

J.H. Tra gli organismi ebraici che radunano i giovani, il più importante è il  Jewish Voice for Peace, che da molto tempo martella sulla questione palestinese. Questi giovani sono molto e ben informati, alcuni conoscono l’ebraico assai bene e quindi leggono la stampa israeliana. Sono stati i primi, all’indomani del 7 ottobre a dire “qui comincia un genocidio” “Stop Gaza genocide”.

Sono stati i primi a mobilitarsi e questo è un elemento molto importante. Sono stati l’avanguardia di tutto il movimento. Loro questo particolare non lo sottolineano, se lo facessero sarebbe improprio. Lo faccio io, basandomi sulle immagini che ho visto delle occupazioni dell’atrio del Congresso e di molte altre iniziative. Sono stati l’elemento coagulante all’inizio, ora un po’ di meno: non perché si sono ritirati, ma perché si è allargato moltissimo il fronte ed ha cambiato dimensione entrando nelle università.

Anche la trasformazione della questione palestinese, intesa come diritti dei palestinesi, non solo dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, era in atto già da parecchio tempo. Ritengo almeno dall’attacco a Gaza del 2014, si è acuito con le uccisioni indiscriminate nel 2018 dei palestinesi che marciavano da Gaza verso il filo spinato che funge da confine con Israele. Infine con l’ultimo bombardamento di Gaza del 2022, quando lo stesso New York Times pubblicò le foto dei bambini palestinesi uccisi, il giornale pensò che quest’atto fosse sufficiente ad assolvere tutti per poi tornare alla “normalità”.

Invece, io pensai che fosse una svolta, come quando all’epoca del Vietnam ad un certo punto lo stesso giornale, si oppose proprio alla guerra. Invece, non è stata la stessa cosa.

Questa è proprio la posizione liberal-democratica finché i palestinesi, a Gaza, ma anche in generale, si fanno bombardare, ecc., senza reagire andava anche bene prendere le loro parti. Quando hanno reagito, per alcuni in maniera inconsulta, sono passati automaticamente dalla parte del torto e bisogna sostenere il “diritto all’autodifesa” di Israele. Mentre come ha spiegato benissimo Francesca Albanese, rappresentante speciale dell’Onu per i Territori Occupati palestinesi, un Paese occupante in nessun caso ha diritto all’autodifesa.

Nel contesto della presa di coscienza e di mobilitazione politica nel mondo universitario, soprattutto nelle facoltà umanistiche, va sottolineata l’importanza di molti contributi che in questi ultimi anni si sono aggiunti al lavoro di JVP.

Per esempio, gli studi giuridici di Noura Erakat, nipote di Saeb un leader di Fath che ha preso parte ai negoziati di Oslo. Lei è una palestinese americana e nei suoi testi ha spiegato il diritto degli occupati ad attaccare l’occupante, quindi a fare azioni di resistenza; mentre l’occupante non ha diritto a difendersi, perché in quanto tale non può proprio riferirsi al concetto di autodifesa: l’occupazione in quanto tale è un’aggressione permanente. Per altro, questo ragionamento sia affianca a quello di Francesca Albanese, di cui abbiamo già parlato.

Poi c’è anche Rashid Khalidi, una persona moderata, i cui testi sono letti e studiati alla Columbia University, dove ha preso la cattedra di Edward W. Said e che ha scritto un bel libro sui cento anni di guerra ai palestinesi, in occasione del centenario della Dichiarazione Balfour nel 2017. Anche Joseph Massad, un altro professore palestinese che collabora con Khalidi ha prodotto contributi importanti su questi argomenti. E questo è un aspetto importante, infatti lo stesso Netanyahu andava dicendo che erano cento anni di guerra dei palestinesi ai sionisti, invertendo i termini della questione.

Poi ci sono i giornalisti che hanno contribuito. Come, per esempio, Max Blumenthal e Aaron Maté, che con il loro programma Grayzone smontano regolarmente le posizioni israeliane e americane, vanno alle conferenze stampa quotidiane fatte dal Dipartimento di Stato e dalla Presidenza della Casa Bianca o quelle del consigliere alla sicurezza Jack Sullivan e pongono domande problematiche. Tra l’altro non sono riusciti a prenderli in fallo proprio sulla loro sistematica ricostruzione di ciò che è accaduto il 7 ottobre, demolendo molte cose utilizzando le informazioni ufficiali che riescono a ottenere.

Fra l’altro il padre di Blumenthal ha avuto incarichi importanti alla Casa Bianca all’epoca di Bill Clinton, come consigliere senior del presidente.

Infine, c’è Chris Hedges, capo dell’ufficio del New York Times a Gerusalemme per molti anni e che lasciò il giornale per la supina accettazione di qualunque cosa facesse Israele. Come Seymour Myron Hersh, il quale vinse il premio Pulitzer nel 1970 dopo un reportage dal Vietnam in cui svelò la strage de My Lai del 1968, anche Hedges ha avuto lo stesso premio nel 2002 per i suoi reportages su Al Qaida.

In America ci sono degli organismi che si chiamano Community Center, luoghi dove si fanno attività culturali e Chris Hedges viene spesso invitato a parlare. In questi posti vanno in genere mille persone…Questi centri non sono nelle grandi città, ma in quelle più piccole, di quaranta, cinquanta mila abitanti che sono molto diffuse negli Stati Uniti.

L’elemento finale che voglio evidenziare è anche il voto massiccio per Bernie Sanders, quando era candidato alle primarie per la Presidenza contro Hillary Clinton, da parte delle comunità arabo musulmane e iraniane del Michigan. Ha influito anche l’elezione di Alexandria Ocasio-Cortez, insieme a Ayanna Pressley, Rashida Tlaib e Ilhan Omar – le chiamavano “la squadra” – che hanno coagulato e fatto emergere queste forze che oggi vediamo in azione. Anche se sulle forniture di armi a Israele non si sono comportate bene e infatti sono state abbandonate

RP. Secondo l’establishment statunitense si aspettava tutto quello che sta avvenendo con le proteste contro la complicità USA nell’aggressione israeliana? Oppure è stato sorpreso?

J.H. Non se lo aspettavano. I politici che appaiono in TV e sulla stampa sicuramente non se lo aspettavano, forse alcuni dietro le quinte lo avevano in qualche modo previsto.

Negli Stati Uniti, già da un po’ di tempo, succede che persone di notevole spessore della CIA che hanno avuto responsabilità importanti o incarichi ambasciatoriali, ora in pensione, quindi possono parlare: stanno dicendo molte cose e criticano apertamente e duramente la politica americana. Forse queste persone potevano aspettarsi qualcosa, ma non penso che abbiano il polso delle situazioni, soprattutto dentro le università. Anche perché bisogna sempre pensare che, queste ultime, sono il frutto delle manifestazioni precedenti che vedevano la partecipazione di decine di migliaia di persone a New York, Boston, Washington. Quindi c’era già un processo molto forte e persistente, non altalenante, per cui gli intervalli temporali tra una manifestazione di massa (uso questo termine in senso letterale, senza dargli una valenza politica) e l’altra erano punteggiati da iniziative significative nelle stazioni, nei supermercati, proteste nei consigli comunali, e via dicendo. In questo, il ruolo di Jewish Voice for Peace è stato molto importante proprio nello stabilire questa continuità.

Per esempio, il primo appello per una manifestazione a Washington contro i bombardamenti su Gaza, già tra ottobre e novembre scorsi, è stata opera loro.

RP. Secondo te, tutto ciò che sta avvenendo che ricaduta ha nella campagna elettorale in corso negli Stati Uniti?

J.H. Siccome non è possibile prevedere il futuro, dobbiamo rifarci a due esempi del passato: Dwight D. Eisenhower nel 1952 e Richard Nixon nel 1968. Nel primo caso, quella di Corea fu una guerra democratica come lo fu quella in Vietnam.

Eisenhower, candidato Repubblicano, nel ’52 durante la sua campagna elettorale disse: vi prometto che terminerò questa guerra e dopo essere stato eletto alla Casa Bianca mise fine alla guerra nell’estate del ’53, con l’armistizio.

Nel caso del Vietnam, l’offensiva del Tet ebbe come conseguenza la sconfitta del candidato democratico a favore di quello repubblicano. Una Convention Democratica a Detroit fu sanguinosissima, con manifestazioni fortissime e una reazione brutale della polizia. Nixon promise di finire la guerra e fu votato, con uno spostamento a destra, con la stessa logica di Eisenhower: chiudere il capitolo. Anche se poi la guerra continuò altri sette anni perché la strategia di Nixon era quella dello scontro inter vietnamita, poi il terribile bombardamento della Cambogia, i fatti della Kent State University, in Ohio, dove l’intervento della guardia nazionale uccise alcuni studenti che manifestavano.

Rispetto ad oggi, penso che la posizione di Biden sia molto in pericolo, nello stesso modo in cui lo fu Humphrey all’epoca di Nixon, infatti gli ultimi sondaggi dicono che Trump è in vantaggio.

Penso che la campagna elettorale di Biden sarà travolta da manifestazioni sulla Palestina, come quella di Humphrey fu investita dalle proteste contro la guerra in Vietnam. Se poi avrà le stesse dimensioni non lo so, anche perché nel ’68 c’erano anche le rivolte nei ghetti neri che si saldarono alla contestazione studentesca. Il movimento nero era molto forte con martin Luther King, ci fu l’assassinio di Bob Kennedy…

RP. Dopo il Vietnam, gli Stati Uniti hanno vissuto la cosiddetta “sindrome vietnamita” che significava una riduzione degli interventi militari diretti nei diversi scenari internazionali, che è stata superata solo dopo l’11 settembre 2001 e i successivi interventi in Afghanistan e in Iraq. Anche se nel caso di Gaza, malgrado la complicità esplicita con Israele nei massacri con la fornitura di armi, pensi che questa ondata di proteste e il terremoto politico che ne sta derivando, può avere lo stesso effetto?

J.H.  La sindrome del Vietnam è stata allentata anche dal crollo dell’Unione Sovietica. Dopo l’intervento vietnamita in Cambogia, la situazione si ribaltò a favore degli Stati Uniti, con l’alleanza di questi con la Cina in appoggio a Pol Pot, che con la sua guerriglia logorava il Vietnam. Dopo la vittoria e la riunificazione tra il nord e il sud del Paese, l’URSS vi stabilì una importante base militare, da cui poteva interferire nelle rotte commerciali privilegiate degli USA.

Oggi la situazione in Medio Oriente si impone per via della presenza in America di quattro o cinque milioni di ebrei, in sé piccola, ma che sta creando molti problemi. Tra l’altro c’è una frattura nelle comunità ebraiche americane: le giovani generazioni sono contro le precedenti, anche quelle intermedie dei cinquantenni. Questo diventa un problema interno perché le comunità ebraiche rappresentavano la lobby pro israeliana, collegata al sistema militare e con l’industria di quel settore. Infatti, una delle più importanti industrie militari israeliane, la El Bit, è stata dichiarata dal governo americano di interesse nazionale per gli Stati Uniti. Questo dimostra quanto Israele sia dentro la politica americana e agisca di conseguenza: nessun primo ministro di un Paese straniero poteva aggirare il Presidente andando a parlare al Congresso, come ha fatto Netanyahu. Certo, il personaggio è di una sfrontatezza unica, ma nessun altro avrebbe agito così, avendone in qualche modo una sorta di prerogativa. Nessun Paese lo fa: Israele sì.

Israele è un elemento interno agli Stati Uniti anche semi autonomo, non perché ne abbia la sovranità, ma perché fa ricatti, assecondato dalla lobby israeliana, americana, che ha molta influenza sui deputati, ecc.

Adesso, con le proteste contro l’aggressione a Gaza, tutto questo comincia ad incrinarsi ed il fronte non è più compatto. Però accanto a questo, c’è un altro elemento: alcuni circoli Repubblicani, riprendendo in buona sostanza una posizione dell’Ottocento, si esprimono contro la presenza americana all’estero. Sono contrari alla dimensione tentacolare degli USA all’estero, perché non porta alcun beneficio, anzi provoca scontri con tutti. Sostengono: dobbiamo occuparci dei nostri problemi. Se si prendono alcune riviste vicine ai Repubblicani, per esempio American Conservative, dà voce a queste posizioni e tra l’altro usano termini inequivocabili del tipo “basta con l’imperialismo americano”. Altro esempio, Ron Paul, ex deputato repubblicano, tra i fondatori del Tea Party (il partito del tè) che segna uno spostamento a destra dei Repubblicani, con una visione economica conservatrice e contro l’aumento della spesa pubblica, perché l’immissione infinita di dollari va nelle tasche del blocco militare-industriale, mentre il Paese continua a deindustrializzarsi.

Tutto questo è interessante ed importante perché i fondamentalisti cristiani sionisti sono tutti voti repubblicani, dato che considerano i Democratici come gente di Sodoma e Gomorra, per le posizioni sul riconoscimento di diversi generi sessuali, ecc.

Sulla Palestina sostengono che quella terra appartiene agli ebrei. Poi alla fine vi sarà l’Armageddon, l’apocalisse: gli ebrei che si convertiranno si salveranno e gli altri…cavoli loro. Sono profondamente antisemiti.

06.05.2024

Intervista a cura di Cinzia Nachira

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