SOSTENERE IL DISSENSO STUDENTESCO

di Davide Gatto*

La protesta nelle università: un dito puntato contro il cancro delle democrazie occidentali

Ci sono eventi della storia apparentemente marginali, confinati magari in regioni piccole e distanti da noi in cui vive una frazione davvero esigua della popolazione mondiale, che finiscono però per travalicare intenzioni e azioni dei loro protagonisti fino al punto da innescare dinamiche di ben altra portata, finanche epocale.

L’impressione che a questa particolare categoria potesse essere ascritta l’attuale crisi mediorientale era in effetti giustificata già nei giorni immediatamente successivi all’incursione armata di Hamas in territorio israeliano dello scorso 7 ottobre, quando le dichiarazioni di autorevoli esponenti del governo Netanyahu e la condotta dell’esercito di Israele nella Striscia di Gaza e poi anche in Cisgiordania sono apparse subito sintonizzate sulla punizione collettiva e sul disprezzo delle leggi internazionali poste a presidio dei diritti umani. Il tempo e l’immane tragedia che la rete di informazione globale – formale e informale – dispiega ogni giorno sotto i nostri occhi hanno poi confermato questa intuizione iniziale: nella Striscia e nei Territori Occupati non è soltanto in gioco il destino di due popoli che difficilmente potrebbero essere definiti altrimenti che come uno oppressore e l’altro oppresso, ma la credibilità stessa dei valori e delle istituzioni dell’Occidente cosiddetto democratico.

Non può essere un caso infatti se proprio in Occidente, proprio nelle università e soprattutto a partire dai loro giovani studenti un movimento di protesta sempre più ampio si sta diffondendo contro il governo Netanyahu e il suo pervicace e illegale ricorso alla violenza ai danni dei civili palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, contro i governi e le istituzioni occidentali che armano con i loro finanziamenti e con il loro know-how il braccio dell’IDF, soprattutto contro gli stessi governi e le stesse istituzioni che predicano libertà, giustizia, diritti umani, ma poi per cinico opportunismo razzolano repressione del dissenso e indulgenza complice verso chi da decenni calpesta il diritto internazionale e negli ultimi sette mesi ha fatto strage di migliaia di bambini.

Ad oggi sono circa centoventi le università americane, alcune delle quali prestigiose e note in tutto il mondo, coinvolte nella protesta, seguite da altri atenei francesi, inglesi, australiani, italiani e finanche giapponesi. È bene ricordare, perché altamente significativo, che qualche giorno fa un gruppo di studenti della Columbia University ha occupato un edificio del campus, la Hamilton Hall, ribattezzandolo “Hind’s Hall”, in memoria di Hind Rajab, la bambina di Gaza uccisa senza pietà da un tank israeliano che aveva prima sterminato tutti i membri della sua famiglia. Come si ricorderà, l’episodio diventò subito iconico della indiscriminata brutalità dell’esercito di Israele che, dopo aver colpito quell’auto di civili in fuga verso il più vicino ospedale di Gaza City, non aveva esitato a sparare ancora su Hind, la bambina di sei anni unica superstite: la sua straziante richiesta di soccorso è rimasta impressa sul nastro del centralino a cui era riuscita a telefonare.

In precedenza, la stessa Hamilton Hall era stata occupata nel 1968, per protestare contro la guerra del Vietnam, e nel 1985, per dare sostegno alla lotta contro l’apartheid che Nelson Mandela conduceva in Sudafrica dal carcere in cui era rinchiuso da vent’anni. In quest’ultima occasione la Hamilton Hall venne ribattezzata “Mandela Hall”. La storia diede poi ragione a quegli studenti, che seppero usare il sapere e la disubbidienza civile per sostenere una causa nobile. Mandela venne infatti insignito del premio Nobel per la Pace (1993) e divenne quindi il primo Presidente nero del Sudafrica (1994-1999).

Oggi gli studenti della Columbia e molti loro professori, così come studenti e professori di un numero sempre più numeroso di altre università americane e ora anche di tutto il mondo, chiedono alle amministrazioni dei loro atenei di interrompere ogni programma di collaborazione con Israele che possa direttamente o indirettamente configurare una forma di complicità con la disumana rappresaglia sui civili che ogni giorno vediamo avere luogo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Da decenni ormai politologi, sociologi e anche semplici cittadini con il loro crescente astensionismo in tutte le tornate elettorali denunciano lo stato di malattia latente in cui versano le democrazie occidentali; sembra ora che l’inarrestabile rappresaglia israeliana sui palestinesi e la connivenza più o meno esplicita degli altri governi a guida americana abbiano fatto esplodere contraddizioni finora ben dissimulate, con un effetto di disvelamento che non può che essere traumatico: le regole democratiche, il distillato delle immani tragedie del Novecento e della sapienza razionale di stampo illuministico, sono state degradate anch’esse a strumento del potere, non diversamente da ciò che sono stati gli articoli di fede in un passato che si credeva superato.

A conti fatti, non sorprende che artefici coraggiosi di questa impietosa diagnosi pubblica e tumultuante del male di cui soffrono le nostre democrazie siano stati giovani studenti dei campus universitari. Nonostante infatti la tendenza occidentale a professionalizzare i saperi, asservendo il sistema dell’istruzione alle esigenze del mercato e tentando di ridurre il futuro cittadino ad una scialba figura di tecnico specializzato, nelle università stiamo assistendo all’effetto che quasi necessariamente deriva dall’attività del conoscere.

Banalmente, la visione del mondo diviene più razionale, dei fenomeni si cerca la logica che li tiene insieme come tessere di un mosaico, il metodo scientifico così a lungo praticato non consente più alle parole di distorcere il dato di fatto: per dirla con Galileo, non è più il “mondo di carta” che conta, ma la realtà, e ogni autoritarismo aristotelico-dogmatico è bandito.

È impossibile oggi non vedere drammaticamente realizzato in Palestina questo scarto tra parole e realtà; quanto sta accadendo oggi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania è il simbolo delle nostre democrazie e dei nostri diritti umani “di carta”: violate ripetutamente e impunemente le Convenzioni di Ginevra, snobbate le numerose risoluzioni dell’ONU, rigettate con protervia le pressioni tanto internazionali – persino quelle per la verità un po’ equivoche dello storico alleato americano –, quanto quelle nazionali che non cessano di essere esercitate all’interno di Israele con manifestazioni contro il governo Netanyahu e per un rapido cambio della guardia, preventivamente negata la giurisdizione della Corte Penale Internazionale che potrebbe da un momento all’altro emettere un mandato di arresto per genocidio contro Netanyahu e alcuni suoi ministri.

Derubricare dunque le proteste studentesche a puro sostegno di parte alla causa palestinese, con ciò consentendo oltretutto che esse vengano trascinate nel fango delle accuse strumentali di antisemitismo e di complicità con i “terroristi” di Hamas, non solo finirebbe per scambiare il fattore scatenante con il fondamentale obiettivo non dichiarato della contestazione, cioè l’appello forte a ricongiungere le parole della democrazia con la prassi da esse sempre più divaricata, ma darebbe ulteriore manforte a quel potere che è abituato a nascondere i suoi abusi proprio dietro la retorica falsa della democrazia. Rientra in questo schema il recentissimo progetto di legge approvato dalla Camera dei Rappresentanti statunitense che estende il reato di antisemitismo anche alle contestazioni contro lo Stato di Israele, “inteso come una comunità di ebrei”, il cui scopo è ancora una volta quello di forzare il senso delle parole per reprimere il dissenso che alto si alza dai campus universitari.

All’indomani dell’attacco alle Twin Towers Jean Baudrillard diede una lettura simbolica del crollo di quei due simboli della potenza americana e occidentale, vedendo nelle immagini del loro collasso la manifestazione repentina e brutale di una malattia che da lungo tempo ne corrodeva la struttura. Dopo poco più di venti anni i giovani universitari con le loro proteste pacifiche sono come le cellule di un sistema immunitario che torna finalmente a funzionare per combattere una malattia ormai diventata sistemica e che oggi ha colpito il distretto di Gaza, domani non si sa.

Il loro dissenso va dunque sostenuto, alimentato, diffuso quanto più possibile anche a queste nostre latitudini – geopoliticamente parlando – miti e sonnacchiose: un dissenso a cui è legato il futuro delle nostre democrazie e dell’intero ordine globale.

*Davide Gatto, docente e scrittore

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