CONTRO LE INGERENZE USA SENZA APPLAUDIRE MADURO

Intervista di Jorge Angeloni a Manuel Sutherland [1]

“Sono contro un’invasione militare, ma non posso applaudire questo governo”

J. Angeloni Quali probabilità di successo avrebbe un nuovo dialogo tra il governo e l’opposizione, dopo svariati fallimenti?

M. Sutherland – Il governo vuole sempre dialogare per guadagnare tempo, per raffreddare le piazze. Un dialogo ratificherebbe Maduro come presidente, ma Voluntad Popular (il partito di Guaidó) è l’estrema destra e non ha niente da fare in un dialogo.

J. A.Le aspettative di Guaidó non sembrano molto compatibili con quello che Maduro è disponibile a trattare in un eventuale dialogo.

M. S. – Esatto. La cosa più probabile è che Guaidó continui sulla via dello scontro, in questo momento il dialogo non gli interessa. Neppure il governo vuole grandi cambiamenti, vuole mantenere il Consiglio Nazionale Elettorale [CNE] per non perdere il potere, non vuole alternative.

J. A.Quali possibilità ci sono allora di concretizzare un dialogo che consenta di intravedere una via d’uscita?

M. S. – Credo che vi potrebbe essere un dialogo con l’altra parte dell’opposizione, la parte non coinvolta nel golpe contro Maduro, ma nel rispetto della legalità e al margine dei piani statunitensi. Forse, da questo lato… Ma è difficile che in questo momento Guaidó tratti alcunché, perché gli Stati Uniti hanno dato l’ordine tassativo che non ci siano trattative. Attualmente Guaidó punta a un intervento più diretto degli Stati Uniti. In questo momento ci sono tre strade perché questo succeda: 1) che possano comprare militari d’alto rango perché ritirino l’appoggio a Maduro; 2) che Maduro rinunci per la pressione internazionale, per l’accerchiamento economico e la forza in piazza della gente che sta morendo di fame; 3) un intervento militare straniero più o meno chirurgico, che somiglierebbe molto a quel che è avvenuto a Panama con l’ex generale Manuel Noriega, perché qui non ci sono milizie armate, come in Libia o in Siria. Sono queste le tre carte che ha Guaidó; e altre carte per la trattativa ci possono essere solo se si negoziano le dimissioni immediate dell’intero governo, mentre la trattativa per elezioni non si pone.

J. A.Quanto sarebbe concretamente possibile che i militari che dirigono imprese statali ed espropriate lascino il governo?

M. S. – Nell’immediato la probabilità sembra bassa, perché c’è una divaricazione troppo grande tra la truppa e l’alto comando militare, e ci sono circa 500 generali che hanno assunto l’incarico di maggiori generali [in Italia equivale a generale di divisione]. Ci son anche molti militari che hanno un certo potere; sono governatori, sindaci, ministri e, quel che più conta, hanno in mano PDVSA. Controllano anche miniere, l’impresa di esportazione dell’oro e stanno facendo soldi a palate. Vale a dire che hanno nelle loro mani il cuore dell’economia, per cui è molto difficile che questi militari, con una vita agiatissima, possano pensare di star meglio con Guaidó. Hanno ora l’agognata condizione del governo diretto, in cui Maduro si assume tutti i contraccolpi per i problemi governativi e loro ne ricavano tutti i vantaggi derivanti dal gestire operazioni relative a diamanti, coltan, rame, ecc. Ho molti dubbi che i militari girino le spalle a Maduro in questo momento.

J. A.Cosa dovrebbe accadere perché cambiassero fronte?

M. S. – Penso che dovrebbe esserci un potenziale enorme massacro di gente, un tentativo di guerra civile o una sorta di minaccia con vicino una portaerei statunitense per consegnare Maduro e condurre trattative. L’Assemblea Nazionale (AN) ha già concesso loro una sorta di legge di amnistia, che stanno trattando per i crimini dei militari. Tranne alcuni militari di basso rango, che verrebbero arrestati immediatamente, gli altri atti di corruzione, appropriazione indebita, dolo, peculato, si perdonerebbero se muovessero un passo e abbandonassero Maduro.

J. A.Prima accennavi, come uno dei possibili scenari preliminari all’apertura di un dialogo, a un intervento statunitense tipo Panama. Un embargo petrolifero o un boicottaggio finanziario non avrebbero lo stesso effetto?

M. S. – Il boicottaggio finanziario non avrebbe alcuna conseguenza, dato che da tempo il Venezuela non accede ai mercati finanziari, a causa delle sanzioni, ma soprattutto per il tracollo del paese, completamente distrutto. La situazione peggiora giorno dopo giorno e nessuno è disposto a prestare. Il Venezuela ha strettissimi rapporti con il gruppo dei Brics, meno con il Sudafrica e ormai non più con il Brasile, ma con India, Russia, Cina e Turchia li mantiene. Nonostante questo, nessuno vuole ancora prestare un solo dollaro. I prestiti della Cina vanno direttamente alle imprese di quel paese che estraggono petrolio in Venezuela.

Il blocco petrolifero non avverrebbe con un blocco specifico, ma tramite la consegna di CITGO a Guaidó. CITGO è un’impresa venezuelana che opera negli Stati uniti, con circa 16.000 installazioni, raffinerie e distributori di benzina. È il gioiello della corona. Acquista il petrolio venezuelano semigrezzo e grezzo e lo raffina e lo vende in migliaia di stazioni di servizio negli Stati Uniti. È praticamente l’unico introito in denaro effettivo del Venezuela. Inoltre, vende a Caracas la metà dei diluenti necessari per alleggerire il petrolio pesante e extra-pesante che il paese produce e che costituisce la maggior parte della sua produzione petrolifera, visto che il governo ha deciso di abbandonare i pozzi maturi di quello leggero e di concentrarsi sulla Faglia dell’Orinoco, dove il petrolio è pesantissimo e richiede diluente per poterlo vendere.

Tra l’altro, qui in Venezuela la benzina si regala, con un dollaro si possono riempire 5.000-10.000 serbatoi, ma le raffinerie non stanno lavorando o lavorano al 10-15%. CITGO vende componenti di benzina al Venezuela per mescolarla qua. E l’eventuale perdita di CITGO comporterebbe: 1) una crisi per scarsezza di benzina; 2) l’immediata riduzione delle esportazioni di petrolio, finché non si trovi un altro fornitore di diluente (va poi segnalato che CITIGO vende a credito allo Stato i diluenti); 3) la perdita dei 300.000-400.000 barili al giorno che GITGO acquista direttamente da PDVSA. L’impresa petrolifera statale dovrebbe cercare altri mercati per venderli, il che significa maggiori costi e più tempo. Per finire, comporterebbe che il paese perderebbe la sua principale fonte di divise; smetterebbe di ricevere da CITGO soldi in dollari, che praticamente costituiscono le uniche divise che ottiene il Venezuela visto che dalla Cina non arriva quasi niente per il petrolio che sta prendendo, sia perché lo ha già pagato in anticipo, o per i crediti concessi a Caracas.

La consegna di CITGO a Guaidó consentirebbe a quest’ultimo di accaparrarsi un’enorme quantità di denaro, con cui potrebbe organizzare milizie armate con mercenari dalla parte occidentale del paese – Tachira, Zulía – creando al governo un problema gravissimo.

J. A.In tal caso gli Stati Uniti non avrebbero bisogno di un intervento militare classico…

M. S. – Il problema è che l’opzione CITGO non suscita consenso in seno all’opposizione e la sostiene solo Volontà Popolare. L’altra posizione nell’opposizione è favorevole a una trattativa, per ritornare alla normalità, ancorché questa sembri una possibilità remota. VP vuole impossessarsi della trattativa, renderla non inclusiva emarginando i principali partiti dell’opposizione radicale. All’opposizione moderata VP non piace perché ha una posizione settaria di appropriazione esclusiva del governo e vuole essa stessa impossessarsi di CITGO. In un contesto del genere, il governo intende giocare a fomentare questa spaccatura per evitare che gli altri si approprino di CITGO, ma CITGO sta negli Stati Uniti e non c’è modo di difenderla.

Non ci dovrebbe essere il classico intervento militare, dato che il Venezuela dispone di una difesa missilistica di provenienza russa di ultima generazione, usata in Siria, che potrebbe causare notevoli perdite, stando ad alcune fonti vicine al governo; ma altre fonti segnalano che queste difese non hanno avuto una manutenzione dal 2010, che non è stato aggiornato il sistema, che si è rubato denaro consegnato per investimenti, che le truppe percepiscono due dollari al mese, senza logistica né beni alimentari.

Penso che le cosa più probabile potrebbe essere un intervento tramite mercenari, in attesa che Guaidó si impadronisca di CITGO e di altre imprese venezuelane all’estero; e in un paese dove la gente guadagna tre o quattro dollari mensili cresce la probabilità di trovare persone disposte a combattere.

J. A.Che appoggi ha Guaidó e quale solidità ha l’alleanza di Maduro con Russia, Turchia e Cina, al di là degli interessi commerciali e strategici?

M. S. – Per quanto riguarda Guaidó, il 23 gennaio decine di città hanno preso parte ai cortei a sostegno del “presidente incaricato” e della transizione. Molti “né né” [non schierati] hanno partecipato a queste manifestazioni, non tanto contro il chavismo ma contro la permanenza al potere di Maduro. Hanno manifestato per la transizione, non necessariamente contro il chavismo. Identificano Maduro con il peggioramento dell’economia, che sia per la “guerra economica” o per le “sanzioni”. Guaidó non sembra avere un sostegno rilevante al vertice dell’opposizione. Molti sono in caccia di cariche, e questo rafforza Guaidó, che così sembra una figura “non segnata”, fresca, non quella di un politico tradizionale.

Del resto, la Turchia non ha capacità né militare né finanziaria per appoggiare il Venezuela e cerca di eludere le sanzioni del commercio dell’oro, che raffina e incanala verso entità finanziarie minori.

La Cina ha fatto grossi investimenti in Venezuela, ma sta piuttosto trattando con gli Stati Uniti ed altre nazioni perché li rispettino in qualche modo qui in Venezuela. Con le sue basi in Siria, la Russia si mostra più vicina ma, come la Cina, le sue posizioni sono più caute, analoghe a quelle del Messico.

J. A.Parte della sinistra continua a identificare Maduro con il socialismo.

M. S. – In una nota pubblicata in “Nueva Sociedad” spiego dettagliatamente questo problema ma, in sintesi, direi che credo che i governi di sinistra e il progressismo internazionale cerchino di collocarsi sul marciapiede opposto a Duque, Bolsonaro e Trump, che attaccano violentemente Maduro e il governo chavista. Quando cercano di opporsi non fanno la critica che la sinistra seria potrebbe fare. Perché tu puoi fare critiche diverse da quelle che fanno costoro, critiche che ti collochino al fianco di coloro che dovrebbero essere i destinatari della solidarietà e che non sono né Maduro né la sua cricca, ma la classe operaia venezuelana e quella straniera che vive qui. È la classe operaia quella che subisce le iniquità di un governo che fa politiche che la spingono alla miseria. Anziché solidarizzare con la classe operaia, solidarizzano con quelli che detengono le risorse del paese.

Il Venezuela è stato estremamente generoso con la sinistra latinoamericana e internazionale, offrendole viaggi, pubblicandone libri, facendole girare il paese, pagandone le spese di viaggio, istituendo il Premio Libertador al pensiero critico, con tra i 100.000 e 150.000 mila dollari a personaggi che scrivessero libri di sinistra in America Latina. Si sono sviluppati altri premi, prebende, convegni. Questi privilegi per questa sinistra microscopica – che non fa nulla nei rispettivi paesi ma che in Venezuela ha riunioni con presidenti, ministri e va in televisione – ha dato a questi personaggi una notorietà che non vogliono perdere. Hanno stretti contatti con l’ambasciata venezuelana, dove si svolgono eventi per i quali le ambasciate impegnano risorse e loro si sentono importanti.

E non vogliono neanche perdere credibilità rinnegando quel che dicevano prima. Stretti in questa contraddizione, sono bloccati nel dire quello che sta succedendo in Venezuela e che è un dato di fatto di cui chiunque si accorge: che non c’è denaro contante, che la malavita si muove liberamente senza alcun limite, che si ammazza la gente per un cellulare, che nelle carceri a dominare sono gli stessi reclusi, che avvengono esecuzioni, si tagliano teste o mani, e che il paese è completamente in preda all’anarchia ed è distrutto.

Approfittano anche delle bestialità di Trump, degli eventuali colpi di Stato e delle minacce dell’estrema destra, per difendere il governo, senza analizzare perché il governo sia arrivato a una situazione del genere. Perché tutti possiamo essere contro l’invasione militare, come lo sono anche io – sono contrario a qualsiasi spargimento di sangue e a qualsiasi tentativo sanguinario di appropriazione di qualunque governo del mondo – ma non posso applaudire un governo che ha prodotto un disastro economico, che amministra l’economia come un pugile diciannovenne drogato che, dopo aver guadagnato 200 milioni di dollari in gioventù, ora è caduto in rovina e vive della carità statale. Questa amministrazione è insostenibile, qui le cose sono state fatte male, tremendamente male, e il Venezuela ha esempi storici di tutto quel che non si deve fare, di tutto quello che non si deve tentare in materia economica, produttiva, industriale, agricola. La sinistra deve ripensarsi parecchio e riflettere su questa pessima abitudine di distaccarsi dalla verità e dalla lotta reale della classe operaia.

Vorrei che fosse chiaro che questo processo non ha niente a che fare con il socialismo, né con la rivoluzione. Qui non è fallito il socialismo, non è fallita la rivoluzione, e nemmeno un progetto di emancipazione. Chávez ha cominciato a parlare di socialismo qualcosa come sette anni dopo essere arrivato al governo. Che abbia parlato di socialismo non significa dire che si sia fatta una rivoluzione o sia avvenuto un cambiamento realmente di sinistra. All’apice del chavismo, nel 2007-2008, quasi il 70% del Pil era ancora privato e gli espropri hanno significato grandi affari per imprese come la Banca Santander, venduta alla Banca del Venezuela a 1.500 milioni di dollari dopo essere stata acquistata a 300 milioni di dollari.

Non si tratta di una sconfitta del socialismo, né di una rivoluzione, ma di un governo militarista che ha sviluppato un becero populismo lumpen (sottoproletario), che non ha niente a che vedere con lo sviluppo delle forze produttive, del potenziale industriale, della soggettività produttiva operaia. Né ha niente a che vedere con Marx un governo che fraziona il capitale e lo assegna a “cacicchi”, fondando la Banca del Popolo, dell’Esercito, quella Operaia. E non ha neanche a che vedere con progetti di concreta emancipazione. Il governo sta privatizzando nello stile dell’ex presidente Boris El’cin: sta vendendo grandi patrimoni statali a mafie, a imprese fittizie, in modo oscuro e presumibilmente corrotto, a prezzi miserabili. Questo è totalmente indifendibile.

Sono completamente convinto del socialismo come progetto, ma anche il socialismo va revisionato. I postulati di Marx vigono ancora in modo impressionante, ma non sono la fine del mondo e bisogna fare passi avanti su questo. Vanno riconsiderate le pendenze che abbiamo noi socialisti: ad esempio l’alternanza politica, che il potere non è per sempre; porre fine all’ossessione di sopprimere gli avversari; che vada statalizzato tutto perché la proprietà statale è migliore di quella privata, una cosa che è risultata errata ovunque, così come va rivisto come sviluppare le forze produttive senza devastare l’ambiente.

Bisogna capire e studiare che cosa è avvenuto in Venezuela, tutto quello che si è fatto, i progetti. Rivedere le analisi degli esperti che sono passati di qui, ad esempio Marta Harnecker, James Petras, Joseph Stiglitz. Tutto quello che si è discusso di fare e non si è potuto fare. Ne vanno visti in maniera oggettiva i motivi, le cause, e bisogna studiare a fondo quel che accade qua, perché si tratta di un caso straordinario per imparare tutte le cose che non vanno fatte e quelle che si devono fare e non si sono fatte, perché altri paesi latinoamericani ed altri possano ricavare il meglio da questa esperienza.

La sconfitta economica e il discorso ufficiale. “La gente si sente beffata nelle sue condizioni di crisi”

J. A.Il tracollo dell’apparato produttivo ha favorito il distacco anche da parte delle basi che appoggiavano il governo, nel pieno di una massiccia migrazione. Maduro ha la possibilità di contrattare misure per recuperarle?

M. S. – La dimensione della crisi venezuelana non ha comune confronto in America. Io la paragono a quella vissuta dalla Polonia durante l’occupazione nazista (1939-1945), quando perse il 40% del Pil, sotto i bombardamenti e il genocidio. Il Venezuela ne ha perso il 50%. Il Pil pro capite è sceso del 60% negli ultimi anni. Né il Guatemala né El Salvador, con le guerre civili, erano scese a questo estremo veramente spaventoso. C’è stata una distruzione inenarrabile di capitali e forze produttive, non c’è produzione, la produttività è precipitata, anche l’importazione è calata molto e ci sono migliaia di imprese che hanno chiuso, il 70% di esse. Quelle che restano attive lavorano al 10-15% delle loro capacità produttiva. L’estrazione petrolifera e scesa tra il 60 e il 65%. PDVSA, che era una delle principali industrie petrolifere della regione, non riesce a pagare gli stipendi e dipende dai prestiti provenienti da denaro inorganico, capitale fittizio. Per dirla con Marx, la popolazione operaia venezuelana in esubero imbellettata di petrolio è esplosa, perché questo belletto non c’è più.

Indipendentemente dagli enormi sussidi – come il regalo della benzina, del gas, dell’elettricità, dell’acqua – il reddito dei lavoratori non basta alla gente per pagare più del 10% di quello che serve per mangiare. C’è denutrizione, ma per il governo la disoccupazione non c’è, non si pubblicano statistiche dal 2015. Meno ancora ci sono dati sul Pil, né sull’inflazione. Si dice che nel settore formale c’è il 6% di disoccupazione, probabilmente perché nessuno vuole lavorare in questo settore. Molti lavorano in proprio o hanno lasciato il paese; sui 3-4 milioni, con tutta facilità il 12-13% della popolazione, pari al 20-25% della popolazione economicamente attiva (circa 16 milioni). Non c’è disoccupazione perché il salario è bassissimo.

La situazione è da paura, perché c’è gente che apre le buste dei rifiuti gettate nei cassonetti delle immondizie e le rivende. Usa scarti come i fondi di caffè e pane in cattivo stato per mangiare. Non ci sono servizi sanitari di nessun genere; non ci sono farmaci da uno o due dollari, non li si può comprare; gli ospedali sono praticamente chiusi. La gente muore per ferite superficiali che non si possono curare per mancanza di antibiotici. Molta della gente che è scesa in strada a protestare sta protestando per fame.

J. A.Questa situazione non sembra mitigata dalle misure prese dal governo contro l’inflazione, ad esempio l’adozione del “petro” o del “soberano”.

M. S. –Nella sua prima relazione del 2013-2014 Maduro annunciò che sarebbe finita l’inflazione, finita la guerra economica, ma continua a ripetere esattamente le stesse cose, sempre con le stesse misure: controllo dei prezzi, sgravi fiscali per la produzione. Ma tutti gli anni, dal 2013, l’economia peggiora. Il 14 gennaio 2019 ha ripetuto le stesse cose: che avrebbe ridotto ulteriormente gli oneri fiscali che gravano sull’economia, che avrebbe elargito più buoni, più borse per generi alimentari per i più poveri, ma non ha accennato ad alcuna misura per cercare di risolvere la crisi, e di sicuro non ha neanche ammesso la crisi. Maduro ha detto che il suo era un governo vincente, che aveva fatto miracoli, aveva ridotto la povertà, fatto tante buone cose per la popolazione più povera, congratulandosi con se stesso per essere stato un gestore severissimo; tutte cose che hanno davvero infastidito la popolazione, soprattutto perché le ha condite con una sfilza di battute, muovendosi come uno showman. Questo atteggiamento da pagliaccio può andare più o meno bene quando il petrolio sta a 170 dollari al barile e ne riesci ad estrarne 3,5 milioni al giorno ma, se ne estrai 900.000 o 1 milione e il prezzo è a 50 dollari, quelle battute sono inopportune. La gente si sente presa in giro, in una situazione di crisi. Il governo non propone nemmeno niente di nuovo, anche cose che poi non concretizzerebbe, anche solo bugie, perché ormai non ha più nulla da inventare.

La sola cosa che potrebbe avere effetto sarebbe una grande apertura dell’economia. Lo si sarebbe potuto fare nel 2014, seguendo alcuni classici modelli economici, evitando gran parte di quel che è accaduto. Il problema è che adesso la conflittualità politica ed altri fattori impediscono che un’apertura possa avere realmente un effetto forte sull’economia.

Perché non lo hanno fatto nel 2014? Perché quest’apertura avrebbe comportato l’interruzione dei grossi traffici dei militari e dei vertici dello Stato, che rubano soldi pubblici, in particolare la rendita petrolifera, grazie a un dollaro preferenziale artificiosamente basso, molto più basso di quello parallelo, che ha permesso di accumulare patrimoni tra i maggiori del pianeta. Non mi pare che il governo abbia a disposizione mezzi sufficienti, dal momento che la crisi richiede un prestito rilevante. Nel 2014 non era necessario, forse neanche nel 2015, ma nel 2019, essendo ormai in deficit, serve un prestito rilevante per far fronte alla crisi umanitaria che si sta vivendo.

J. A.Non pare ci siano le condizioni per ottenere questo prestito.

M. S. – Ormai il governo non ha accesso al credito perché è troppo delegittimato a livello internazionale ed è troppo sfasciata l’economia.

Rappresentanti e rappresentati

J. A. ­ Il vertice in elicottero e il popolo a piedi, dà l’impressione che il governo abbia perso il contatto con la propria base.

M. S. – Sì, il governo si è progressivamente incapsulato e ha creato una sorta di associazione tra gestori di appalti, borghesia committente, militari biscazzieri e politici che sostanzialmente vivono fondamentalmente di intermediazioni e di imprese acquisite grazie più o meno alla corruzione. Hanno creato una cerchia abbastanza larga, ma ristretta rispetto alla popolazione, integrata dalle loro schiere di segretarie, assistenti, giardinieri, che possiedono appartamenti, auto, dollari, soldi provenienti dalla corruzione diffusa. Gli intermediari di appalti godono di un po’ di “mance”, e loro credono che sia questa la popolazione venezuelana, e sfilano insieme nei cortei. Ma tutti coloro che sono esclusi da quelle prebende, che non ricevono televisori, appartamenti, auto, vivono nella miseria estrema. Loro però questa gente non la vedono, non riescono e riconoscerla, perché loro si muovono in elicottero, in camionette blindate, aerei, e non hanno contatti con questo ampio settore di popolazione. C’è un distacco tremendo, di cui si vede il riflesso nel fatto che, ad esempio, il Partito Socialista Unificato del Venezuela (PSUV), che secondo il governo ha 7 milioni di militanti, non ha organizzato nemmeno una mensa di strada, tanto meno ha detto “andiamo a batterci contro la guerra economica di Trump” portando cibo alla gente che ne aveva bisogno. Non hanno fatto niente di simile, e c’è l’ordine di dire che non c’è crisi, che non esiste alcun problema economico, ma solo sanzioni finanziarie. Una cosa che nessuno capisce, perché a uno che vive in un quartiere popolare, a un cittadino comune non vai a dirgli: “Guarda, Trump ci impedisce di vendere buoni del debito”, questo non lo capisce nessuno. I dirigenti del vertice chavista vivono nel loro mondo e la popolazione vive nella denutrizione cronica.

www.brecha.com.uy

Traduzione di Titti Pierini

Tratto da: www.antoniomoscato.altervista.org

[1] La crisi istituzionale che scuote il Venezuela, con un presidente in carica, Nicolás Maduro, e un altro come ”incaricato”, Juan Guaidó, appoggiato da Washington, da paesi della regione e dall’Unione Europea, denuncia le condizioni di penuria in cui vive gran parte della popolazione vessata dalla povertà, con un apparato produttivo in rovina e un sfrenata inflazione. L’economista marxista Manuel Sutherland, direttore del Centro di Ricerca e Formazione Operaia, indaga da anni il processo che ha condotto a questa situazione, pubblicando numerosi studi dettagliati sull’economia venezuelana. Uscito dall’Università Centrale del Venezuela con laurea in Ingegneria industriale e Pianificazione dello sviluppo, nel febbraio del 2016 riferiva: «dopo essere stato bersaglio dei puerili attacchi diffamatori che hanno sabotato la nostra organizzazione e aver subito quelli postali e delle nostre reti social, ho ricevuto la notizia della cessazione arbitraria del mio incarico di docente di Economia all’Università Bolivariana del Venezuela, come reprimenda per i miei scritti critici e per il mio rifiuto di sostenere misure assurde». Oggi Sutherland divide le sue attività professionali con la militanza politica. Si è intrattenuto con Brecha sulla situazione attuale venezuelana, ma anche sui processi che si sono andati sviluppando nel paese sul piano economico, in parallelo però anche con il più evidente conflitto politico.

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