COME POSSIAMO RESISTERE?

di Michèle Sibony

L’intervento di Michèle Sibony (1), tra le fondatrici dell’Union Juive Française Pour la Paix (UJFP), che pubblichiamo di seguito, è stato svolto il 30 marzo scorso a Parigi durante un’assemblea che riuniva gli ebrei antisionisti francesi.

Le parole di Michèle colgono la sostanza di tutti i ragionamenti possibili di chi si oppone al genocidio in corso a Gaza dal 7 ottobre 2023, sfuggendo giustamente alla trappola, in cui cadono molti, dell’ “ebrea buona”. Il suo è un punto di vista universalistico, che non fa distinzioni, a cui da molto tempo in Europa abbiamo perso l’abitudine: perché in fin dei conti i mille distinguo, le false ingenuità, i tanti giri di walzer prima di dire: basta, non vogliamo essere complici del massacro colonialista, altro non sono un modo maldestro e disonesto di mascherare l’adesione più o meno cosciente, ma sempre volontaria al nostro essere Bianchi, superiori, intoccabili.

Oggi, all’indomani delle elezioni europee che confermano un ulteriore slittamento dell’opinione pubblica verso la destra e l’estrema destra, il monito di Michèle è quanto di più urgente. Lei parla della Francia, Paese in cui vive, ma da noi, in Italia, la situazione è analoga, se non peggiore perché chi dovrebbe avere la schiena ben dritta invece è curvo.

Cinzia Nachira

L’unica domanda che qui conta, ieri come oggi: come possiamo resistere?

Inizierò dal genocidio commesso da Israele e con la citazione di un poeta israeliano, di origine polacca-ucraina, (…) una sua opera si intitola “spiegazione” ed è del 1958:

“le storie degli ebrei europei e quella degli arabi di Palestina, sono entrambe diventate la centralità dell’ebraismo. La Shoah degli ebrei europei e quella degli arabi-palestinesi, sono una sola Shoah per il popolo ebraico. Entrambe vi guardano dritte negli occhi” …

Questo genocidio in corso commesso da Israele, ci rende responsabili, al di là delle responsabilità di ogni essere umano di fare il possibile per impedirlo, poi ci sono quelle delle potenze occidentali, in particolare Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti.

Israele pretende di agire in nome di tutti gli ebrei del mondo contro il pogrom più grave dopo la Shoah, sostengono, quindi ci inglobano in questa azione e ci coinvolgono direttamente. Molti tra noi sentono rabbia e sconcerto di fronte a ciò che sta avvenendo, per altro “in nome loro”. In tutto il mondo molti di noi protestano con tutte le loro forze. È come godere vedendo un brutto film, faccio mia la formula usata da Ella Shoat quando, riferendosi agli ebrei orientali – i mizrahim – intitolò il suo libro “le vittime ebree del sionismo”. Tuttavia, nel nostro caso l’espressione non mi sembra appropriata, mentre sicuramente può esserlo per i 1200 israeliani uccisi il 7 ottobre: vittime ebree del sionismo. La Francia ci tiene in ostaggio sostenendo l’idea del sionismo dello Stato ebraico di tutto gli ebrei. Perché per un verso ci associa pubblicamente ad un crimine presentato come legittima difesa contro l’antisemitismo arabo e, per altro verso, si serve di noi nella sua battaglia islamofobica. È per noi, a causa nostra, che controlla gli arabi (in Francia). C’è una identificazione morbosa e perversa con Israele. Ancora una volta la Francia risolve la contraddizione interna tra i grandi principi universali e le sue pratiche coloniali e quelle di oggi con l’impantanamento nel colonialismo. Tutto a nostre spese perché non si tratta di una impasse passiva, ma di un rifiuto attivo di riconoscere i crimini coloniali. È inevitabile pensare che la pervicace negazione del contesto coloniale in cui nasce i 7 ottobre è essa stessa una reazione coloniale.

Questo periodo buio fa riemergere anche i fantasmi europei contro gli ebrei come contro gli arabi. Fantasmi carichi dell’antisemitismo strutturale occidentale contro gli ebrei, del genocidio e di come sbarazzarsene, questo spiega l’immediata e totale adesione alla tesi della propaganda israeliana che si sia trattato, il 7 ottobre, di un attacco antisemita (pogrom, Shoah, ecc.). Verso gli arabi, lì e qui, riemergono i fantasmi orientalisti coloniali e post-coloniali: l’identificazione con il colono europeo e occidentale, l’arabo pericoloso – l’identificazione di Hamas con Daesh.

L’Occidente che sostiene Israele, è quello delle potenze coloniali e imperialistiche che hanno sempre seguito questa logica.

L’appoggio incondizionato ad Israele e l’impunità unica che gli viene concessa, il mantenimento di uno stato d’eccezione nella comunità delle nazioni, in contraddizione tra l’altro con la speranza di diventare una nazione tra le nazioni, l’avallo del colonialismo invece di incoraggiare le alternative possibili, ecc. tutto questo ha dato sostanza al famigerato legame giudaico-cristiano. La tolleranza del colonialismo come sistema di gestione del mondo e la legittimizzazione assoluta dei genocidi quando non colpiscono i Bianchi, uniche vittime riconosciute. Il paradosso ultimo di questo sostegno è che si nutre di un antisemitismo crescente che proviene precisamente dai governi e dai gruppi più filo sionisti.

Negli Stati Uniti cresce l’antisemitismo mentre il sostegno a Israele è incoraggiato dall’estrema destra, che include quella cristiano-evangelica. Novantacinque milioni di cristiano evangelici più i diversi milioni che appoggiano Donald Trump, sono sionisti e antisemiti.

Come ricorda Jean-Pierre Filiu in articolo apparso su Le Monde, Netanyahu e il Likud scommette da oltre quindici anni sulla estrema destra europea: con Orban in Ungheria, nei Paesi baltici, la Germania, la Polonia, l’Olanda. Molto recentemente Milai in Argentina, ricevuto con tutti gli onori a Tel Aviv, che ha annunciato il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e ha nominato procuratore generale del tesoro Rodolfo Barra, noto antisemita e nazista in gioventù.

Tutti questi governi e gruppi affermano contemporaneamente il loro sostegno a Israele e un antisemitismo virulento.

In Francia il Rassemblement National: Louis Aliot (sindaco di Perpignan), è stato ricevuto nel 2011 in Israele e nelle colonie, Aymeric Chauprade, già consigliere internazionale di Marine Le Pen, ha detto che gli europei occidentali sono sulla stessa barca degli israeliani. La riabilitazione del RN da parte del governo e dei suoi alleati si basa sull’appoggio al sionismo e all’islamofobia. Si è visto chiaramente alla manifestazione del 12 novembre che apparentemente era contro l’antisemitismo, ma in realtà era di sostegno a Israele e ha incluso senza problemi il RN.

Il discorso israeliano è massicciamente adottato dai nostri governi occidentali che pretendono di difenderci dall’antisemitismo contro la barbarie araba. È la teoria dello scontro di civiltà che viene riciclata per giustificare il genocidio; includere il discorso palestinese nell’agone pubblico europeo è visto come un attacco diretto a Israele. In questo senso i dirigenti europei sono complici della teoria israeliana dello sradicamento: o loro o noi, dicendo che bisogna scegliere.

Ciò che c’è in gioco per i dirigenti europei che sostengono questo genocidio commesso dagli ebrei israeliani è anche uno scaricamento di responsabilità e di colpe rispetto all’atto in sé che svela e rinnova la presenza del passato nel presente. Ossia, la struttura genocidaria dell’Occidente non è mutata e la lista è lunga. Cambiano solo i posti, cosa che molti sfruttano.

L’Europa e l’Occidente in generale hanno una capacità di empatia selettiva all’apice della quale sono le vittime ebree europee, ma molto meno, per esempio, i Rom; i migranti, tra i quali gli Stati stabiliscono i buoni e i cattivi secondo una geopolitica che obbedisce ai loro interessi. Bisogna capire che per questo motivo in Europa vengono prese in considerazione solo i propri morti, si cancellano sistematicamente i massacri coloniali che sono spesso avvenuti contemporaneamente.

Cherlotte Vierman, durante un seminario al forum Einstein in Germania, a proposito del suo libro “Capire il dolore degli altri” sulla memoria e la solidarietà, ha ricordato che in Germania non c’è alcun monumento che commemori il milione di morti della sua colonizzazione. Ancora: al momento della rivolta del Ghetto di Varsavia, evento molto celebrato e rispettato in Germania, duecentomila essere umani venivano affamati e massacrati in Tanzania…oggi nessuno li commemora. Ricorda anche che nel 1947, al momento della pubblicazione della prima edizione del Diario di Anne Frank, l’esercito olandese annientava in Indonesia l’intera popolazione maschile in molti villaggi e città per impedire la ribellione e fino ad oggi le vedove indonesiane non sono riuscite ad ottenere né il riconoscimento né riparazioni dalle autorità olandesi. Un’ amica belga, figlia di deportati, mi ha detto di essere rimasta sconcertata avendo molto tardivamente scopeto che il Belgio in Congo aveva assassinato cento milioni di esseri umani tra il 1885 e il 1905. Tutto questo ha messo in discussione tutto ciò su cui era cresciuta in Europa: l’unicità della Shoah e anche i parametri che lei usava mettendo il genocidio ebraico al vertice della piramide dei morti. Vierman considera anche il fatto che la memoria dell’Olocausto non ha portato un più alto senso dell’uguaglianza, al contrario troppo spesso ha contribuito a fare una gerarchia delle vittime, che lei definisce come l’economia politica dell’empatia. Precisa che la questione non è quella di ridurre la memoria dell’Olocausto per far posto a quella coloniale, ma di sostanza etica e politica: delle conclusioni che noi traiamo dai crimini di massa e dai genocidi e dallo squilibrio globale del riconoscimento. Una delle lezioni più importanti dell’Olocausto, conclude, è che non esistono vite umane poco importanti, aggiungendo infine, che ciò che avviene oggi ai migranti che annegano in mare è il miglior esempio di una nuova cultura memoriale ben costruita.

Qui, per noi ebrei, la questione che si pone è quella dell’uso della nostra memoria. Ci sono diversi modi fare memoria del genocidio ebraico: quello di Israele e dell’Occidente, ne hanno fatto un evento unico al di sopra di tutti gli altri, che sono relativizzati o cancellati, a beneficio della giustificazione del sionismo e di tutte le sue azioni. Poi c’è la memoria di coloro, spesso tra noi qui che dicono: mai più per nessuno! Coloro per i quali l’universalità della memoria è il solo interesse.

Il nostro film, ha detto Glazer, ricevendo l’Oscar, per La Zona d’interesse, mostra a cosa conduce la disumanizzazione più terribile e come questa ha forgiato il nostro passato e il nostro presente.

L’esempio del Sudafrica e dell’Irlanda al momento delle loro scelte oggi, ne fanno dei modelli su cui riflettere e di resistenza. Sono due Paesi che sanno come usare le lezioni della loro storia, mettendo la loro memoria al servizio di cause simili e universali.

Il giudaismo è una storia di trasmissione del sapere e della legge, di interpretazione infinita e plurale del testo e la sua discussione è un comandamento. La sua etica è quella della compassione e della responsabilità di ognuno di noi verso l’altro. Il sionismo cancella tutto questo e lo sostituisce con il discorso di un maestro indiscutibile, perché unificante contro il nemico. Il sionismo che all’inizio non era religioso ha usato la religione per i suoi atti: il Messia sono io, diceva Ben Gurion. Ha trasformato la cultura e la religione in un nazionalismo aggressivo e con lo scopo di sradicare il diverso. Non ha nulla più a che vedere con il giudaismo. Ciò che ha fatto è un ritorno alla violenza, un ritorno al paganesimo delle origini precedenti al monoteismo. Rende selvaggio il colono come il colonizzato. Il ritorno al sacrificio umano; ma ricordiamoci del sacrificio di Isacco, sostituito con un agnello. Cioè: giudaismo e il monoteismo hanno sostituito il sacrificio umano con quello animale. Oggi siamo tornati al primo per blandire degli dèi oscuri. Il sacrificio di centinaia di migliaia di palestinesi, come anche dei suoi (gli israeliani). Per la prima volta si sacrificano degli ostaggi e viene violato un importante comandamento del giudaismo: il salvataggio dei prigionieri.

I religiosi al potere sono dei nazionalisti e fondamentalisti e il loro rabbini spingono verso il crimine.

Il sionismo ha scelto la separazione degli ebrei dal resto del mondo mentre per gli ebrei dell’esilio, noi, si tratta di lavorare per migliorare il mondo.

Come ha detto uno storico: nel giudaismo tradizionale l’esilio non è la condizione dei soli ebrei, ma quella di tutto il mondo. Si rapporta a un’assenza fondamentale: definisce l’imperfezione del mondo e contiene la speranza nel suo cambiamento. Questo è in netta contrapposizione a tutti i tentativi di imporre la storia dei vincitori.

Glazer, ha definito così il suo lavoro: Tutte le nostre scelte sono fatte per riflettere e confrontarsi con il presente. Non per dire: ‘Guardate cosa hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘Guardate cosa facciamo adesso’.” Dobbiamo considerare ciò che è avvenuto nella Striscia di Gaza. La vita banale e normale che si svolge in modo tranquillo nei villaggi e nei kibbuzim fino al momento dell’attacco costituisce veramente una zona di interesse. Che non sia possibile per la maggioranza degli israeliani mettere in discussione questo tenore di vita si spiega con la forza del consenso sociale e la cancellazione volontaria di tutti i parametri che permettono di pensare. Il discorso del maestro anticipa anche le domande che avrebbero potuto porsi sulla guerra e soprattutto su un futuro vivibile. Esso impone di tacere tutte le contraddizioni interne sia individuali che collettive. D’altronde la censura è massiccia e il divieto di trasmettere alla rete Al Jazeera lo dimostra.

Glazer ha concluso così il suo discorso: “Siamo qui ora come uomini che rifiutano che la loro ebraicità e l’Olocausto vengano sequestrati sfruttati da un’occupazione che ha portato alla guerra così tante persone innocenti. Che siano le vittime del 7 ottobre in Israele o quelle degli attacchi incessanti in corso a Gaza: sono tutte vittime della disumanizzazione”, in conclusione ha posto la sola domanda che conta ieri come oggi e che qui si pone a tutti noi: “Come possiamo resistere?”.

(1)  Trascrizione e traduzione dall’originale audio (https://www.youtube.com/watchv=kYrqNTZ28YM&t=983s), di Cinzia Nachira

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