URGE MOBILITAZIONE!

Il brutto imbroglio della Legge di stabilità
2 ottobre 2015

di Franco Turigliatto

Grande movimento nel governo per presentare, come stabilisce la normativa sulla contabilità pubblica, entro il 15 ottobre la legge di stabilità per il 2016, un provvedimento fondamentale per definire le politiche economiche del paese.
La legge in preparazione ricade all’interno del cosiddetto coordinamento delle politiche degli stati membri della UE, cioè è sottoposta ad una serie di vincoli e ad una accresciuta  sorveglianza degli organismi europei (in primis  la Commissione) che, come le recenti vicende greche hanno mostrato, altro non sono che i sacerdoti ed gli officianti delle politiche liberiste dell’austerità per conto delle classi dominanti del continente.
Il governo, a fronte di una timidissima ripresa dei consumi, grida alla vittoria e nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza prevede uno scenario di crescita del PIL per il 2015 dello 0,9% e per il 2016 dell’1,6%. Sono cifre modestissime, ma dopo i numeri negativi degli ultimi anni, Renzi e soci lanciano messaggi rassicuranti sulla fine della crisi. Per altro l’agenzia Moody’s individua tassi di crescita ancora più modesti (lo 0,7 per il 2015 e l’1% per il 2016) da cui risulterebbe quindi un deficit del 2,5% superiore al 2,2% previsto dal governo italiano.

Flessibilità vo’ cercando
Per poter avere qualche margine di manovra in più il governo, che aveva già ottenuto dalla Commissione Europea di rinviare al 2017 il pareggio di bilancio, chiede ora di poter fissare questo obbiettivo al 2018 e di usufruire di una ulteriore flessibilità  sul rapporto deficit/Pil che dovrebbe crescere dal 2,2% al 2,8%.
Le norme di Maastricht prevedono un limite massimo di deficit al 3%; quelle più recenti del Fiscal Compat impongono una sua contrazione anno dopo anno, ma introducono possibili deroghe correlate a tre elementi: le dinamiche del ciclo economico, cioè l’andamento della crisi, l’introduzione di “riforme strutturali “e gli investimenti. Il governo italiano ha già ottenuto un ammorbidimento del percorso grazie ai primi due elementi; oggi chiede un’ulteriore flessibilità rispetto al terzo e all’emergenza immigrazione che però, almeno fino ad oggi, non è presente nelle regole europee.
Il maggiore indebitamento permetterebbe al governo di disporre complessivamente di circa 17 miliardi in più per definire la manovra economica, risultato per nulla scontato in quanto dipendente  dal negoziato  con la Commissione europea e dal suo accordo.
La trattativa con le Istituzioni europee conferma che le norme europee non sono le tavole assolute della legge di Dio e del Mercato, come vogliono far credere, ma scelte politiche ed economiche funzionali agli interessi del grande capitale e modificabili in base ai rapporti di forza tra le diverse borghesie nazionali.

Ridurre le tasse?
Tre ordini di misure economiche sono oggi in discussione; vengono presentate come  provvedimenti a carattere popolare, rivolte all’interesse dei cittadini, ma ad una attenta lettura risultano ancora una volta funzionali soprattutto agli interessi delle imprese e dei padroni e comportano ulteriori tagli alla spesa sociale già decurtata a dismisura dai governi che si sono succeduti negli anni.
La prima misura, sbandierata propagandisticamente in tutte le occasioni da Renzi è la riduzione delle tasse; Reagan e Thatcher avevano cominciato le loro fortune con questo slogan che da sempre è l’obiettivo delle classi possidenti e che condensa in sé tutta l’ideologia liberista e l’avversione per la giustizia sociale. Di fronte a salari e stipendi sempre più ridotti si fa balenare il miraggio di qualche riduzione fiscale per i lavoratori, quando ad avvantaggiarsi di tale misura saranno soprattutto i ricchi, mentre la massa dei cittadini subirà il contraccolpo della riduzione dei servizi per le minori entrate delle amministrazioni pubbliche.
Questo fenomeno è evidente in tutti i paesi di Europa dove la pressione fiscale media era  scesa già due anni fa dal 44%  a poco meno del 38%; le classi lavoratrici hanno continuato a pagare come prima, mentre i ricchi sono diventati ancora più ricchi.
Per quanto riguarda i redditi da impresa, sempre i dati di due anni fa ci dicono che le imposte sono diminuite mediamente in Europa dal 31, 9% al 23, 2%. In Italia le tasse sulle società sono scese di oltre 9 punti, intorno al 31%. L’elenco delle misure che si sono succedute è lungo, tra cui in particolare la riduzione dell’IRAP.
Per quanto riguarda i redditi personali (l’IRPEF) in Italia la grande riforma fiscale del 1975 aveva definito un sistema estremamente progressivo e redistributivo della ricchezza stabilendo ben 32 livelli di aliquote corrispondenti a 32 scaglioni di reddito. L’aliquota più bassa era del 10%, quella più alta del 72%!! Ma ben presto, con il cambio dei rapporti di forza tra la classe operaia e la borghesia questa scala è stata poi più volte modificata. Nell’89 gli scaglioni erano oramai solo 9 e l’aliquota massima era scesa al 50%. Oggi gli scaglioni sono 5: l’aliquota inferiore è salita al 23 %, quella superiore è scesa al 43%. Facile individuare chi ha tratto vantaggio da queste modifiche fiscali, con una radicale diminuzione delle entrate dello Stato a cui il governo ha sopperito utilizzando la leva del credito (con alti tassi di interesse) garantito da quelle stesse forze economiche che hanno tratto vantaggio dalla riduzione delle imposte. Per loro si tratta di un triplice vantaggio: più redditività del capitale, più profitti e un’accresciuta rendita finanziaria. Una parte dell’imposizione fiscale è stata poi trasferita dallo stato agli Enti locali, con un aggravio della pressione fiscale su salari, pensioni, redditi medio bassi, e con una riduzione progressiva dei servizi.
Una nuova organica riforma fiscale servirebbe. Ma essa dovrebbe essere basata su una forte riduzione fiscale per le classi lavoratrici e su una nuova più forte progressività per le classi abbienti, combinata anche con una imposta patrimoniale. Non sono le intenzioni del governo.

IMU e TASI
Renzi proclama l’abolizione dell’IMU e della Tasi, due balzelli che gravano assai pesantemente sulle famiglie, adducendo il fatto (vero) che l’Italia è un paese in cui  ben l’80% di queste è proprietaria della casa.
Non c’è dubbio che la Tasi è un’imposta molto regressiva che colpisce profondamente le fasce inferiori della popolazione; la sua abolizione è auspicabile dunque.
Più complesso il discorso sull’abolizione tout court dell’IMU (cosa che aveva già fatto Berlusconi con effetti collaterali assai negativi), che comporta una pesante ricaduta sulle entrate dei Comuni che sarebbero spinti al rialzo ulteriore dei balzelli locali e dell’addizionale IRPEF.
Una imposizione fiscale sulla casa può essere mantenuta, ma ha una sua logica positiva solo se viene concepita come una patrimoniale (perché questa è) collegandola alle ricchezze e al reddito complessivo dei soggetti in modo da renderla progressiva, parametrata alla condizione delle famiglie e facilitando le classi popolari.

Previdenza: la flessibilità in uscita
Una discussione non meno complicata è in corso sul tema caldo delle pensioni e sugli effetti prodotti dalla controriforma Fornero del 2011.
Anche coloro che sono stati accaniti sostenitori di quella controriforma oggi pensano che sia necessario introdurre modifiche che permettano una certa flessibilità in uscita. Che cosa significa per costoro? Non certo reintrodurre le vecchie regole dell’età pensionabile, ma semplicemente permettere una uscita anticipata (rispetto alle regole Fornero) con la decurtazione del valore della pensione stessa (alcune ipotesi prevedono un livello da fame). Si discute dunque di quale debba essere l’entità della decurtazione e di come reperire le risorse per coprire l’uscita “anticipata” dal lavoro.
Non disgiunto da queste problematiche il dramma, mai risolto completamente, delle migliaia e migliaia di esodati che quella controriforma ha prodotto.
Le preoccupazioni di Renzi non sono certo per le lavoratrici e per i lavoratori che si sono visti sconvolgere la loro vita con la controriforma del 2011 ed ancor meno per i giovani che, grazie a essa, non hanno più la minima idea su quale sia il secolo in cui potranno andare in pensione (forse).
Le preoccupazioni del governo sono tutte rivolte alle aziende, ai padroni, che hanno tutto l’interesse e la necessità, visti gli attuali livelli di sfruttamento e di carichi di lavoro imposti, di liberarsi di una manodopera vecchia e sempre più stanca. I capitalisti hanno bisogno di nuova forza lavoro giovane da poter sfruttare e che può essere assunta con le comode (per loro) regole del Jobs Act.

Dove prendere i soldi
Dove prendere i soldi per fare tutte queste operazioni, per una legge finanziaria che secondo le dichiarazioni di Renzi dovrebbe avere un valore di 27 miliardi di euro?  Il ministro dell’economia Padoan per ora è reticente.
Il documento di economia e finanze prevedeva di recuperare 10 miliardi tagliando ulteriormente la spesa pubblica con la spending review. La recente nota di aggiornamento non quantifica più le riduzioni possibili; molti commentatori indicano cifre più basse intorno ai 6-7 miliardi, per non parlare dei tecnici delle commissioni parlamentari che appaiono quanto mai scettici sui calcoli e le previsioni del governo.
Restano in ogni caso due fatti incontrovertibili e vergognosi: i tagli annunciati sono in ogni caso inaccettabili, andranno a colpire bisogni e diritti fondamentali dei cittadini, in particolare delle classi popolari; il taglio già effettuato di circa 2 miliardi e mezzo alla sanità e quelli ulteriori che si annunciano si configurano come veri e propri omicidi. Di che cosa si tratta, se non di questo, quando la ministra Lorenzin rende praticamente impossibili moltissimi esami, sanzionando i medici che avessero il coraggio di prescriverli. Il risultato è certo: gli esami si faranno a pagamento e saranno praticabili solo da chi ha i soldi, mentre una parte cospicua della popolazione verrà sempre più esclusa dal diritto all’assistenza sanitaria.

Le clausole di salvaguardia e le agevolazioni fiscali
Ma la storia non finisce qui perché sulla manovra economica gravano anche provvedimenti economici di anni passati che contengono clausole di salvaguardia; esse dispongono che, nel caso in cui certi obiettivi di  maggiori entrate o di riduzione delle spese non fossero raggiunti, scattino in automatico dal prossimo anno misure sostitutive.
Queste consistono in un aumento dell’IVA e nell’abolizione o riduzione delle agevolazioni fiscali per un valore complessivo, sembra, di circa 20 miliardi di euro.
Ora è noto come l’IVA sia una delle tasse più ingiuste, perché grava indifferentemente su tutti i cittadini a prescindere dal reddito costituendo un fardello pesantissimo per i consumi delle classi popolari. Non meno importante è la questione delle agevolazioni fiscali che riguardano il welfare, il lavoro, la sanità e i trasporti e permettono una parziale riduzione fiscale per i meno abbienti. Abolire altre imposte e contemporaneamente tagliare le agevolazioni fiscali non sarebbe altro che una operazione truffaldina.

La polemica di Renzi con la Commissione Europea
In questo dibattito si inserisce la polemica di Renzi con la UE che critica la riduzione delle tasse sulla casa, giudicata poco efficace dal punto di vista degli investimenti e del rilancio economico e che propone invece un’ulteriore riduzione delle tasse sul lavoro (supponiamo per le imprese) e un ulteriore aumento dell’IVA. E’ una “bella discussione” all’interno di una banda di manigoldi su come taglieggiare ulteriormente il popolo, dopo che già da due decenni vampirizzano con le loro politiche la società.
In tutta questa vicenda due cose sono fuori discussione per governo e imprenditori:
1. i soldi necessari per qualsiasi misura non vanno presi là dove ci sono, dai ricchi, dai profitti, dalle rendite finanziarie, ma ancora una volta dalle modeste risorse delle classi lavoratrici; né tanto meno vanno contestati ed attaccati i meccanismi del debito.
2. ancor meno ci deve essere un ruolo dello stato per rilanciare l’attività pubblica per creare posti di lavoro stabili e sicuri.
Nella filosofia di Renzi e del liberismo il problema di fondo è garantire gli interessi dei padroni. Questi poi investiranno e creeranno posti di lavoro. Niente di più falso come i fatti dimostrano.

Il mestiere dei sindacati
Ma se i padroni e i loro governi fanno il loro mestiere, che mestiere fanno i sindacati?
Ad oggi le direzioni sindacali di CISL e UIL hanno avallato passo dopo passo tutte le misure di austerità assumendo un ruolo di asservimento e di complicità totale con i padroni. La direzione della CGIL ha criticato molte volte queste misure, ma nulla ha fatto per contrastarle seriamente e fino in fondo.
A quando il coinvolgimento dei lavoratori, le assemblee nei luoghi di lavoro per discutere dei contenuti di una legge che avrà ricadute pesantissime sulla loro condizione di vita?
A quando una piattaforma rivendicativa che esprima i loro bisogni e diritti da sostenere con la mobilitazione e la lotta e tornare protagonisti, non restando spettatori dell’azione Renzi e della Confindustria?
E’ un difficile compito quello che investe le componenti sindacali classiste, i sindacati di base e l’area di opposizione interna alla confederazione maggiore, a cui spetta più che mai il tentativo di rianimare l’iniziativa e la mobilitazione della classe lavoratrice.

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