LA FINE DELL’EMERSIONE DEL SUD?

La fine dell’emersione del Sud?

di Michel Husson

Il primo decennio del secolo ha segnato un vero e proprio capovolgimento dell’economia mondiale, con la forte ascesa dei paesi cosiddetti “emergenti”. Il problema è sapere se si tratti di un movimento duraturo, o se invece stia raggiungendo i suoi limiti. Tra il 2000 e il 2013, pressoché l’insieme dell’aumento della produzione industriale (tranne l’energia) è stato l’opera dei cosiddetti paesi “emergenti”, dove essa è più che raddoppiata (+112%), mentre ristagnava nei paesi avanzati (+1,5%). Metà della produzione industriale mondiale sta avvenendo nei paesi emergenti .  Al tempo stesso, la mondializzazione comportava il formarsi di una classe operaia mondiale, che si sviluppa essenzialmente nei paesi emergenti. (1 )

Il principale vettore di tale capovolgimento è la creazione da parte delle società multinazionali di «catene di valore mondiale». Il termine sta ad indicare la suddivisione dei vari segmenti dell’attività produttiva tra paesi diversi, dallo stadio della concezione a quello della produzione e della consegna al consumatore finale. Metà del commercio internazionale rientra in queste «catene di valore».(2)  Ciò vuol dire che si è passati dall’internazionalizzazione alla mondializzazione del capitale, con un’organizzazione della produzione a cavallo su vari paesi. L’immagine dell’economia mondiale, quindi, non può più rimanere quella di un faccia a faccia asimmetrico tra paesi imperialisti e paesi dipendenti, ma è quella dell’integrazione di segmenti delle economie nazionali sotto l’egida delle multinazionali, che intessono una vera e propria tela che struttura l’economia mondiale. Un recente saggio (3) ha definito l’esatta cartografia dell’interconnessione tra multinazionali, che mostra come la maggior parte (80%) del valore creato dalle 43.000 imprese considerate sia controllato da 737 “entità”: banche, compagnie di assicurazioni o grandi gruppi industriali. Esaminando più da vicino la complicata rete degli intrecci di partecipazione e autocontrollo, ci si accorge che 147 multinazionali possiedono il 40% del valore economico e finanziario di tutte le multinazionali del mondo intero. Questa strutturazione economica mondiale instaura complessi legami tra Stati e capitali, che si possono articolare in quattro punti:

● L’estensione delle società multinazionali riduce l’autonomia degli Stati. La concorrenza sociale e fiscale per rendere “attrattivi” i territori nazionali o regionali comporta, ad esempio, la riduzione in generale della tassazione delle imprese per non parlare delle molteplici forme di evasione o di “ottimizzazione” fiscale. (4)

● L’extraterritorialità delle società multinazionali non è totale e ogni Stato cerca di prendere nella concorrenza internazionale misure in favore dei propri «campioni nazionali».

● La governance mondiale si può considerare come il “curatore” delle borghesie, il cui obiettivo è stabilire regole del gioco conformi alle rivendicazioni delle multinazionali.

● Questa governance non è priva di contraddizioni (siamo ben lungi dall’ “ultraimperialismo” di Kautski). Si intrecciano alleanze mobili, in cui gli Stati, come “potenze”, cercano costantemente di ridisegnare la cartografia commerciale del mondo, senza che attualmente si possa ragionare in termini di imperialismo dominante.

La svolta della crisi

Dall’inizio del secolo,, la crescita dei cosiddetti paesi emergenti supera sistematicamente quella dei paesi avanzati. Questo ha consentito di contenere l’ampiezza della recessione nel 2009. Sembra però che questa stessa abbia annullato il dinamismo dei paesi emergenti, nonché la crescita del commercio mondiale. Durante gli ultimi due decenni precedenti la crisi (1987­-2007), il ritmo di incremento del volume del commercio mondiale è stato praticamente del doppio di quello del PIL mondiale (7% e 3,8%, rispettivamente). Si ritrova più o meno la stessa proporzione, ma ormai in calo, nel decennio 1997-­2007. Se però si considerano il periodo recente e le previsioni del FMI all’orizzonte del 2019, si osserva come lo scarto si riduca ulteriormente: 4,9% per il commercio mondiale, di contro al 3,8 per il PIL mondiale. Si tratta ancora di previsioni del FMI che, come d’abitudine, annunciano il prossimo ritorno al business as usual. Tuttavia, come hanno detto scherzosamente due economisti, «i decisori non dovrebbero postulare che la ripresa totale arriverà entro quattro anni (e che poi lo farà regolarmente)».( 5 )

Vi è comunque il segnale di un rallentamento dell’intensificazione degli scambi. Si tratta però di un contraccolpo momentaneo o di una vera e propria inflessione? È la domanda che si sono posti tre economisti del FMI e della BM. La loro constatazione è questa: la reattività del commercio al PIL (6 ) «è aumentata con forza durante gli anni Novanta, per poi ridiscendere negli anni Duemila al livello degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta. Negli anni Novanta, un aumento dell’1% del reddito mondiale si accompagnava all’aumento del 2,2% del commercio mondiale. Ma la tendenza del commercio ad aumentare due volte più in fretta del PIL si è interrotta verso l’inizio del secolo. Negli anni 2000, l’aumento dell’1% del reddito mondiale è andato insieme all’aumento del commercio mondiale soltanto dell’1,3% ». «Vi è dunque un aumento statisticamente significativo del rapporto tra commercio e reddito durante gli anni Novanta rispetto ai periodi precedente e successivo a quel decennio. La spiegazione di questo cambiamento è chiara: «il rapporto tra il commercio e il reddito a livello mondiale dipende essenzialmente dai cambiamenti subiti dalle catene di approvvigionamento [le “catene di valore”] mondiali nelle due maggiori economie, e cioè gli Stati Uniti e la Cina, più che dal protezionismo o dalla modifica della composizione del commercio e del reddito».

Riorientamento dell’economia cinese

Uno dei principali motivi dell’inflessione sta nel riorientamento dell’economia cinese. È quanto ci consente di analizzare un documento prezioso del Cepii (Centro studi di prospettive e notizie internazionali). Lo studio ricorre a una duplice suddivisione: (7 )

● tra il commercio di processing (attività di assemblaggio destinate esclusivamente all’esportazione) e il commercio “ordinario”, vale a dire le esportazioni basate essenzialmente sugli input locali e le importazioni soprattutto destinate alla domanda interna.

● tra le imprese cinesi e le imprese a capitali stranieri impiantate in Cina. Il dato essenziale fornito da questo studio è che il commercio di processing arretra. Questo vuol dire che “la fabbrica del mondo” funziona al “rallentatore”, per riprendere i termini dei due autori. Se l’incidenza della Cina negli scambi mondiali continua ad aumentare, ciò dipende per l’essenziale dalle esportazioni “ordinarie”: «Il nuovo motore degli scambi con l’estero del paese consiste ormai nella sua domanda interna (importazioni ordinarie) e nella sua offerta al di fuori dal processo di assemblaggio». Al tempo stesso, e ne è la spiegazione, è scesa l’incidenza delle imprese straniere nelle esportazioni cinesi, passando dal 59% nel 2006 al 48% nel 2014

Ex BRIC

A parte la Cina, gli altri paesi emergenti si scontrano con una serie di difficoltà classiche dei paesi dominati, anche se queste si presentano in proporzioni diverse a seconda dei diversi paesi: passivo con l’estero strutturale; forte sensibilità ai movimenti di capitali; dipendenza dal corso delle materie prime; elevata inflazione. L’attuale tendenza è quella alla perdita dei vantaggi «comparativi», nonché alla «deindustrializzazione precoce» (8), o alla «ri­primarizzazione». ( 9) Non va infine, dimenticato che l’approssimativa divisione tra paesi “avanzati” ed “emergenti” dimentica altre categorie, ad esempio, quella dei paesi che si basano sulla rendita, e che una parte notevole delle popolazione mondiale vive in paesi, o in regioni, che restano ai margini della dinamica della mondializzazione capitalistica. Le linee di demarcazione attraversano le formazioni sociali e contribuiscono a destrutturare una serie di società, come dimostra l’elevatissimo livello di disuguaglianze dei redditi. Un buon indicatore della reale ampiezza del processo di “emersione” è quello che confronta il livello della produttività dell’industria di un paese o di una regione con quello degli Stati Uniti. È un modo di misurare la realtà effettiva del riavvicinamento.

(…)  lavori degli economisti dell’Università di Groningen, dimostra(no) come soltanto l’Asia abbia realmente avviato il processo, che sembra tuttavia rimesso in discussione dopo l’esplosione della crisi. Nel caso dell’Africa e dell’America latina, si constata invece un processo di divaricazione a partire dagli anno 1980.

Dove va l’economia mondiale?

Si fanno molti esercizi di proiezioni a lungo termine sulla traiettoria dell’economia mondiale. I risultati vanno evidentemente presi con le molle, pur se spesso forniscono anche utili informazioni sul modo in cui si pongono il problema le classi dominanti. Vanno tutti nello stesso senso e pronosticano il rallentamento della crescita in tutti i segmenti dell’economia mondiale.  (…)  Alle tendenze che abbiamo raccolto ne andrebbe aggiunta un’altra più di fondo: il rallentamento stabile della produttività del lavoro nei “vecchi” paesi capitalistici. Ora, gli incrementi di produttività costituiscono un elemento­chiave nella dinamica del capitale. Non stupisce quindi che si sia aperto un dibattito sulla «stagnazione secolare», su cui occorrerà ritornare. Una delle possibili risposte all’esaurirsi degli incrementi di produttività si trova, o si trovava, nella dinamica dei cosiddetti paesi emergenti. Tuttavia, il panorama che abbiamo appena abbozzato mostra come questa via sembri restringersi. Nel caso della Cina, il fatto di ritornare a incentrarsi sul mercato interno e l’aumento dei salari tendono a ridurre la possibilità per le imprese multinazionali di captare valore a proprio profitto. Si tratta naturalmente di una tendenza, ma il movimento è più rapido di quel che si potesse immaginare dieci anni fa, soprattutto in materia di avanzamento dei salari. Nel caso degli ex­ BRIC, il processo di «deindustrializzazione precoce» si accompagna al calo potenziale di incrementi di produttività. E la tendenza alla «ri­primarizzazione» contribuisce alla restaurazione di classici rapporti imperialisti di dipendenza e di saccheggio delle risorse. Sono numerosi, dunque, i sintomi di quello che potremmo definire un “ritrarsi” dell’economia mondiale (più che una “de­mondializzazione). È in questo stesso contesto che va interpretato il progetto di Trattato transatlantico tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, il cui principale obiettivo è proprio quello di re­intensificare il commercio mondiale. (10 )

Recessione nel 2017?

La congiuntura sembra favorevole al rilancio dei vecchi paesi capitalistici: basso costo dell’energia e delle materie prime, calo dell’euro, politiche monetarie accomodanti, ecc. Bisogna però distinguere congiuntura e tendenze che pesano. Del resto, nel suo ultimo comunicato, l’OCSE è stata cauta (11): «la prospettiva a breve termine resta quella di una ripresa, moderata e non rapida, della crescita del PIL mondiale». E richiama le «nubi all’orizzonte», ponendo in rilievo «la natura eccezionale dell’attuale congiuntura», contraddistinta da livelli «bassi in modo anomalo» dell’inflazione e dei tassi d’interesse. Altri si spingono oltre, mostrando come questi fattori eccezionali (le vendite favorevoli dell’OCSE) potrebbero tornare indietro, simultaneamente, con il rialzo del prezzo dell’energia e gli effetti devastanti del Quantitative Easing negli Stati Uniti. (12) Con argomenti convergenti, Jean­Paul Betbèze evoca «la recessione americana nel 2017»(13) , e Patrick Artus la probabilità che il 2017 sia «un anno catastrofico per l’eurozona». (14) In ogni caso, una cosa è certa: l’economia mondiale non è uscita dalla «sua regolazione caotica».

NOTE

1 Michel Husson, «La formation d’une classe ouvrière mondiale», note hussonet n. 64, 18 dicembre 2013.

2 Organizzazione Mondiale del Commercio, Rapport sur le commerce mondial 2014.

3 Stefania Vitali, James B. Glattfelder, Stefano Battiston, «The Network of Global Corporate Control», PLoS ONE 6(10), 2011; traduzione francese in: site de Paul Jorion.

4 Gabriel Zucman, «Taxing across Borders: Tracking Personal Wealth and Corporate Profits», in Journal of Economic Perspectives, vol. 28, n. 4, 2014.

5 Andrew Fieldhouse, Josh Bivens, «Policymakers shouldn’t assume that a full recovery is four years away (and always will be)», Economic Policy Institute, 21 febbraio 2013.

6 Cristina Constantinescu, Aaditya Mattoo, Michele Ruta, «Commerce au ralenti , Finances & Développement, dicembre 2014; degli stessi autori: «The Global Trade Slowdown: Cyclical or Structural?», IMF Working paper, gennaio 2015.

7 Françoise Lemoine, Deniz Ünal, «Mutations du commerce extérieur chinois», in La lettre du Cepii, n. 352, marzo 2015.

8 Dani Rodrik, «Premature Deindustrialization», Dani Rodrik, NBER, febbraio 2015

9 Pierre Salama, Les économies émergentes latino­américaines, Armand Colin, Parigi, 2012. Fonte: de Vries, Timmer, de Vries 10

10 Michel Husson, «Pourquoi il faut bloquer le TAFTA», in A l’encontre, 26 novembre 2014.

11 OCSE, «Tailwinds driving a modest acceleration… but storm clouds on the horizon?», Interim Economic Assessment, 18 marzoo 2015.

12Jacques Sapir, «Schistes, schistes, rage!», 1 gennaio 2015.

13 Jean­Paul Betbèze, «La récession américaine de 2017 », in Les Echos, 25 febbraio 2005.

14 Patrick Artus, «2017: une année catastrophique pour la zone euro», in Flash Natixis n. 236, 17 marzo 2015

 

L’articolo completo di grafici è reperibile in:  (https://sinistraanticapitalista.files.wordpress.com/2015/04/husson-per-social-forum-tunisi.pdf)

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