MICHAEL LOWY E L’ECOSOCIALISMO

Pubblichiamo tre articoli di Michael Lowy relativi alla corrente di pensiero e al progetto ecosocialista. Su questo argomento abbiamo già pubblicato una recensione del libro di Lowy “Ecosocialismo, l’alternativa radicale alla catastrofe ecologica” edito nel 2011. In rproject potete trovare, sempre relativi ad una lettura marxista delle problematiche ambientali, alcuni articoli di Tiziano Bagarolo “Appunti per un seminario” e “Marxismo ed ecologia”.

CHE COS’E’ L’ECOSOCIALISMO
IL PROGETTO ECOSOCIALISTA
IL MANIFESTO ECOSOCIALISTA

CHE COS’E’ L’ECOSOCIALISMO

Il socialismo e l’ecologia –almeno alcune sue correnti– hanno obiettivi comuni, che implicano una rimessa in discussione dell’autonomia dell’economia, del regno della quantificazione, della produzione come fine in sé, della dittatura del denaro, della riduzione dell’universo sociale al calcolo dei margini di redditività e ai bisogni di accumulazione del capitale.

Crescita esponenziale dell’inquinamento dell’aria nelle grandi città, dell’acqua potabile e dell’ambiente in generale; riscaldamento del pianeta, inizio di scioglimento dei ghiacci polari, moltiplicazione delle catastrofi “naturali”; inizio di distruzione dello strato di ozono; distruzione a velocità crescente delle foreste tropicali e rapida riduzione della biodiversità con l’estinzione di migliaia di specie; esaurimento dei suoli, desertificazione; accumulazione di rifiuti, in particolare nucleari, impossibili da smaltire; moltiplicazione degli incidenti nucleari e minaccia di una nuova Cernobil; inquinamento degli alimenti, manipolazioni genetiche, “mucca pazza”, carne agli ormoni. Tutti i segnali di allarme segnano rosso: è evidente che la folle corsa al profitto, la logica produttivistica e mercantile della civiltà capitalista/industriale ci porta a un disastro ecologico dalle proporzioni incalcolabili. Non è cedere al “catastrofismo” constatare che la dinamica di “crescita” infinita indotta dall’espansione capitalista minaccia di distruzione le fondamenta naturali della vita umana sul pianeta. (1)

Come reagire di fronte a questo pericolo? Il socialismo e l’ecologia –almeno alcune sue correnti– hanno obiettivi comuni, che implicano una rimessa in discussione dell’autonomia dell’economia, del regno della quantificazione, della produzione come fine in sé, della dittatura del denaro, della riduzione dell’universo sociale al calcolo dei margini di redditività e ai bisogni di accumulazione del capitale. Entrambi si rifanno a valori qualitativi: il valore d’uso, la soddisfazione dei bisogni, l’uguaglianza sociale per gli uni, la salvaguardia della natura, l’equilibrio ecologico per gli altri. Entrambi concepiscono l’economia “incastrata” nell’ambiente: sociale per gli uni, naturale per gli altri.

Detto questo, divergenze di fondo hanno finora separato i “rossi” dai “verdi”, i marxisti dagli ecologisti. Gli ecologisti accusano Marx e Engels di produttivismo. È un’accusa giustificata? No e sì.

No nella misura in cui nessuno quanto Marx  ha denunciato la logica capitalista della produzione per la produzione, l’accumulazione del capitale, delle ricchezze e delle merci come scopo fine a sé stesso. L’idea stessa di socialismo –al contrario delle sue miserabili contraffazioni burocratiche– è la produzione di valori d’uso, di beni necessari alla soddisfazione delle necessità umane. L’obiettivo supremo del progresso tecnico per Marx non è la crescita infinita di beni (“l’avere”), ma la riduzione della giornata lavorativa e la crescita del tempo libero (“l’essere”).

Sì, nella misura in cui si trovano spesso in Marx o in Engels (e ancor più nel marxismo posteriore) una tendenza a fare dello “sviluppo delle forze produttive” il principale vettore del progresso, e una posizione poco critica verso la civiltà industriale, in particolare nel suo rapporto distruttivo con l’ambiente.       In effetti, negli scritti di Marx e Engels si trova di che alimentare le due interpretazioni. La questione ecologica è, a mio avviso, la grande sfida per un rinnovamento del pensiero marxista alle soglie del 21° secolo. La questione esige dai marxisti una revisione critica profonda della loro concezione tradizionale delle “forze produttive”, e una rottura radicale con l’ideologia del progresso lineare e con il paradigma tecnologico ed economico della civiltà industriale moderna.

Uno dei primi marxisti del 20° secolo a porsi questo tipo di questioni è stato Walter Benjamin. Fin dal 1928, nel suo libro: Sens Unique, denunciava l’idea di dominio della natura come “un insegnamento imperialista” e proponeva una nuova concezione della tecnica come “padronanza del rapporto tra la natura e l’umanità”. Alcuni anni dopo, nelle Thèses sur le concept d’histoire, si proponeva di arricchire il materialismo storico con le idee di Fourier, il visionario utopista che aveva sognato “di un lavoro che lungi dallo sfruttare la natura, è capace di fare sorgere da essa le creazioni che dormono nel suo seno”. (2)

Ancora oggi il marxismo è ben lungi dall’avere colmato il suo ritardo su questo terreno. Ma alcune riflessioni cominciano ad affrontare questo compito. Una pista feconda è stata aperta dall’ecologista e “marxista-polanyista” americano James O’Connor: occorre aggiungere alla prima contraddizione del capitalismo esaminata da Marx, tra forze produttive e rapporti di produzione, una seconda contraddizione, tra le forze produttive e le condizioni di produzione: i lavoratori, lo spazio urbano, la natura. Con la sua dinamica espansionistica, il capitale mette in pericolo o distrugge le proprie condizioni, a partire dall’ambiente naturale – una possibilità che Marx non aveva preso a sufficienza in considerazione. (3)

Un altro approccio interessante è suggerito in un testo recente di un “ecomarxista” italiano: “La formula secondo cui si produce una trasformazione delle forze potenzialmente produttive in forze effettivamente distruttive, soprattutto in rapporto all’ambiente, ci sembra più appropriata e più significativa che lo schema ben noto della contraddizione tra forze produttive (dinamiche) e rapporti di produzione (che le incatenano). D’altronde questa formula permette di dare un fondamento critico e non apologetico allo sviluppo economico, tecnologico, scientifico, e dunque di elaborare un concetto di progresso ‘differenziato’ (E. Bloch)”. (4)

Marxista o no, il movimento operaio tradizionale in Europa –sindacati, partiti socialdemocratici e comunisti– resta ancora profondamente segnato dall’ideologia del “progresso” e dal produttivismo, arrivando persino, in certi casi, a difendere , senza porsi troppi problemi, l’energia nucleare o l’industria automobilistica. È vero che un inizio di sensibilizzazione ecologista comincia a svilupparsi, in particolare nei sindacati e partiti di sinistra nei Paesi nordici, in Spagna, in Germania, ecc.

Il grande contributo dell’ecologia è stato –ed è ancora– di farci prendere coscienza dei pericoli che minacciano il pianeta in conseguenza dell’attuale modo di produzione e di consumo. La crescita esponenziale delle aggressioni all’ambiente, la minaccia crescente di una rottura dell’equilibrio ecologico, configurano uno scenario-catastrofe che mette in forse la stessa sopravvivenza della vita umana. Siamo di fronte a una crisi di civiltà che esige cambiamenti radicali.

Il problema è che le proposte avanzate dalle correnti dominanti dell’ecologia politica europea sono molto insufficienti o prive di sbocco. La loro principale debolezza sta nell’ignorare la connessione necessaria tra il produttivismo e il capitalismo, il che conduce alla illusione di un “capitalismo pulito”, o di riforme capaci di controllarne gli “eccessi” (come ad esempio le eco-tasse).  Oppure, prendendo a pretesto l’imitazione del produttivismo occidentale da parte delle economie burocratiche di comando, mettono sullo stesso piano capitalismo e “socialismo” come varianti dello stesso modello –un argomento, peraltro, che ha perso molto del suo interesse dopo il crollo del preteso “socialismo reale”.

Gli ecologisti sbagliano se pensano di poter fare a meno della critica marxiana del capitalismo: un’ecologia che non si renda conto del rapporto tra “produttivismo” e logica del profitto è votata allo scacco – o peggio, a essere recuperata da parte del sistema. Gli esempi non mancano… L’assenza di una posizione anticapitalista coerente ha condotto la maggior parte dei partiti verdi europei –Francia, Germania, Italia, Belgio– a diventare semplici compartecipi “eco-riformisti” della gestione neoliberista del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra.

Considerando i lavoratori irrimediabilmente votati al produttivismo, alcuni ecologisti “saltano” il movimento operaio e hanno scritto sulla loro bandiera: “né di destra né di sinistra”. Alcuni ex marxisti, convertiti all’ecologia, rivolgono un frettoloso “addio alla classe operaia” (André Gorz), mentre altri (Alain Lipietz) insistono che bisogna abbandonare il “rosso” –vale a dire il marxismo o il socialismo– per aderire al “verde”, nuovo paradigma che darebbe la risposta a tutti i problemi economici e sociali.

Infine, nelle correnti cosiddette “fondamentaliste” (o deep ecology), vediamo delinearsi, con il pretesto della lotta contro l’antropocentrismo, un rifiuto dell’umanismo che conduce a posizioni relativiste che mettono sullo stesso piano tutte le specie viventi. Bisogna veramente considerare che il bacillo di Koch o la zanzara anofele hanno lo stesso diritto alla vita di un bambino malato di tubercolosi o di malaria?

Che cosa è dunque l’ecosocialismo? Si tratta di una corrente di pensiero e di azione che fa proprie le acquisizioni fondamentali del marxismo –liberandolo delle scorie produttivistiche. Per gli ecosocialisti, tanto la logica del mercato e del profitto quanto quella dell’autoritarismo burocratico del defunto “socialismo reale”, sono incompatibili con le esigenze di salvaguardia dell’ambiente naturale. Criticano l’ideologia delle correnti dominanti del movimento operaio ma sanno che i lavoratori e le loro organizzazioni sono una forza essenziale per qualsiasi trasformazione radicale del sistema e per l’instaurazione di una nuova società, socialista ed ecologica.

L’ecosocialismo si è sviluppato soprattutto negli ultimi trent’anni, grazie al lavoro di pensatori del calibro di Manuel Sacristan, Raymond Williams, Rudolf Bahro (nei suoi primi scritti) e André Gorz (ibidem), così come dei preziosi contributi di James O’Connor, Barry Commoner, John Bellamy Foster, Joel Kovel (USA), Juan Martinez Alier, Francisco Fernandez Buey, Jorge Riechman (Spagna), Jean-Paul Déléage, Jean-Marie Harribey (France), Elmar Altvater, Frieder Otto Wolf (Germania) e molti altri che si esprimono in una rete di riviste come: Capitalism, Nature and Socialism; Ecologia Politica, ecc.

La corrente è tutt’altro che omogenea ma la maggior parte dei suoi rappresentanti condivide alcuni temi comuni. In rottura con l’ideologia produttivistica del progresso –nella sua forma capitalista e/o burocratica– e in opposizione all’espansione all’infinito di un modo di produzione e di consumo distruttore della natura, rappresenta un tentativo originale di articolare le idee fondamentali del socialismo marxista con le acquisizioni della critica ecologica.

James O’Connor definisce ecosocialismo le teorie e i movimenti che aspirano a subordinare il valore di scambio ai valori d’uso, organizzando la produzione in funzione dei bisogni sociali e delle esigenze di protezione dell’ambiente. Il loro obiettivo, un socialismo ecologico, sarebbe una società razionale dal punto di vista ecologico, fondata sul controllo democratico, l’uguaglianza sociale e la predominanza del valore d’uso.(5)  Aggiungerei che una tale società presuppone la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, una pianificazione democratica che permetta alla società di definire gli scopi della produzione e degli investimenti, e una nuova struttura tecnologica delle forze produttive.

Il ragionamento ecosocialista si fonda su due argomenti essenziali:

1. Il modo di produzione e di consumo attuale dei paesi capitalisti avanzati, fondato su una logica di accumulazione illimitata (del capitale, dei profitti, delle merci), di spreco delle risorse, di consumo ostentato e di distruzione accelerata dell’ambiente non può in alcun modo essere esteso all’insieme del pianeta pena una crisi ecologica di proporzioni enormi. Secondo calcoli recenti, se si generalizzasse all’insieme della popolazione mondiale il consumo medio di energia degli USA , le riserve conosciute di petrolio sarebbero esaurite in diciannove giorni. (6)  Questo sistema è dunque necessariamente fondato sul mantenimento e l’aggravamento della stridente diseguaglianza tra il Nord e il Sud.

2. In ogni caso, la continuazione del “progresso” capitalista e l’espansione della civiltà fondata sull’economia di mercato –anche sotto questa forma brutalmente inegualitaria– minaccia direttamente, a medio termine (qualsiasi previsione sarebbe azzardata), la sopravvivenza stessa della specie umana. La salvaguardia dell’ambiente naturale è dunque un imperativo umanista.

La razionalità limitata del mercato capitalista, con il suo calcolo immediato delle perdite  e dei profitti, è intrinsecamente contraddittoria con una razionalità ecologica, che tiene conto della temporalità lunga dei cicli naturali. Non si tratta di opporre i “cattivi” capitalisti ecocidi ai “buoni” capitalisti verdi: è il sistema stesso, fondato sulla spietata competizione, le esigenze di redditività, la corsa al profitto immediato, che è distruttivo degli equilibri naturali. Il preteso capitalismo verde è solo una manovra pubblicitaria, un’etichetta che punta a vendere una merce, o, nel migliore dei casi, una iniziativa locale equivalente a una goccia d’acqua sul suolo arido del deserto capitalista.

Contro il feticismo delle merci e l’autonomizzazione reificata dell’economia da parte del neoliberismo, per gli ecosocialisti si tratta di mettere in opera una “economia morale” nel senso che E.P.Thompson dava al termine, vale a dire una politica economica fondata su criteri non monetari ed extraeconomici: in altri termini il “reincastro” dell’economico nell’ecologico, nel sociale, nel politico. (7)

Le riforme parziali sono del tutto insufficienti: bisogna sostituire la microrazionalità del profitto con una macrorazionalità sociale ed ecologica, il che esige un vero e proprio cambiamento di civiltà.(8)  Questo è impossibile senza un profondo riorientamento tecnologico che porti alla sostituzione delle attuali fonti di energia con altre, non inquinanti e rinnovabili, come l’energia eolica e quella solare. (9) Il primo problema che si pone è quindi il controllo sui mezzi di produzione, e soprattutto sulle decisioni di investimento e mutazione tecnologica, che devono essere strappate alle banche e alle imprese capitaliste per diventare un bene comune della società. Il cambiamento radicale riguarda certo non solo la produzione ma anche il consumo. Tuttavia, il problema della civiltà borghese/industriale non è –come pretendono spesso gli ecologisti– “il consumo eccessivo” della popolazione, e la soluzione non è una “limitazione” generale dei consumi, in particolare nei paesi capitalisti avanzati. È il tipo di consumo attuale, fondato sull’ostentazione, lo spreco, l’alienazione mercificante, l’ossessione accumulatrice, che deve essere messo in discussione.

È necessaria una riorganizzazione d’insieme del modo di produzione e di consumo, fondata su criteri esterni al mercato capitalista: i bisogni reali (non necessariamente “solvibili”) della popolazione e la salvaguardia dell’ambiente. In altri termini una economia di transizione al socialismo, “ri-incastrata” (come direbbe Karl Polanyi) nell’ambiente sociale e naturale in quanto fondata sulla scelta democratica delle priorità e degli investimenti da parte della popolazione stessa – e non dalle “leggi del mercato” o da un politburo onnisciente. In altri termini, una pianificazione democratica locale, nazionale e, prima o poi, internazionale, che definisca:

1) quali prodotti dovranno essere sovvenzionati o anche distribuiti gratuitamente;

2) quali opzioni energetiche dovranno essere perseguite, anche se non sono, in un primo tempo, le più “redditizie”;

3) come riorganizzare il sistema dei trasporti in funzione di criteri sociali ed ecologici;

4) quali misure prendere per riparare, il più presto possibile, i giganteschi guasti ambientali lasciati “in eredità” dal capitalismo. E così via….

Questa transizione condurrebbe non solo a un nuovo modo di produzione e a una società egualitaria e democratica, ma anche ad un modo di vita alternativo, a una nuova civiltà, ecosocialista, al di là del regno del denaro, delle abitudini di consumo indotte artificialmente dalla pubblicità, e della produzione all’infinito di merci nocive per l’ambiente (l’auto individuale!).

Utopia? Nel senso etimologico (“in nessun luogo”), senza dubbio. Ma se non si crede, con Hegel, che “tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale”, come riflettere a una razionalità sostanziale senza fare appello all’utopia?  L’utopia è indispensabile al cambiamento sociale, a condizione che sia fondata sulle contraddizioni della realtà e su movimenti sociali reali. È il caso dell’ecosocialsmo che propone una strategia di alleanza tra i “rossi” e i “verdi” –non nel senso politicista stretto dei partiti socialdemocratici e dei partiti verdi, ma nel senso ampio, vale a dire tra il movimento operaio e il movimento ecologista– e di solidarietà con gli oppressi e sfruttati del Sud.

Questa alleanza implica che l’ecologia rinunci alle tentazioni del naturalismo antiumanista e abbandoni la sua pretesa di sostituire la critica dell’economia politica. Questa convergenza implica anche che il marxismo si sbarazzi del produttivismo, sostituendo lo schema meccanicistico dell’opposizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione che lo ostacolano, con l’idea, molto più feconda, di una trasformazione delle forze potenzialmente produttive in forze effettivamente distruttive. (10)   L’utopia rivoluzionaria di un socialismo verde o di un comunismo solare non significa che non si debba agire nell’immediato. Non avere illusioni sulla possibilità di “ecologizzare” il capitalismo non vuol dire che non si possa lottare per riforme immediate. Ad esempio, alcune forme di ecotasse possono essere utili, a condizione che siano sostenute da una logica sociale egualitaria (far pagare gli inquinatori e non i consumatori), e che ci si sbarazzi del mito di un calcolo economico del “prezzo di mercato” dei guasti ecologici: sono variabili non misurabili dal punto di vista monetario. Abbiamo un disperato bisogno di guadagnare tempo, di lottare immediatamente per la messa al bando dei CFC che distruggono lo strato di ozono, per una moratoria sugli OGM, per limitazioni severe delle emissioni dei gas serra, per privilegiare i trasporti pubblici rispetto all’auto individuale inquinante e antisociale. (11)

La trappola che ci minaccia su questo terreno è di vedere le nostre rivendicazioni formalmente accolte ma svuotate di contenuto. Un caso esemplare sono gli Accordi di Kyoto sul cambiamento climatico, che prevedevano una riduzione minima, del 5% rispetto al 1990 –troppo poco per risultati veramente efficaci– nell’emissione dei gas responsabili del riscaldamento del pianeta. Come si sa, gli USA, principale potenza responsabile dell’emissione dei gas, si sono ostinatamente rifiutati di firmare gli Accordi; quanto all’Europa, al Giappone e al Canadà, hanno firmato gli Accordi, ma aggiungendovi delle clausole –il celebre “mercato dei diritti di emissione”, o il riconoscimento dei cosiddetti “pozzi di carbonio”– che riducono enormemente la portata, già limitata, degli Accordi. Invece degli interessi a lungo termine dell’umanità sono prevalsi quelli, di corte vedute, delle multinazionali del petrolio e del complesso industriale dell’automobile. (12)

La lotta per riforme ecosociali può essere portatrice di una dinamica di cambiamento, di “transizione” tra le rivendicazioni minime e il programma massimo, a condizione che si rifiutino gli argomenti e le pressioni degli interessi dominanti, esercitate in nome delle “regole del mercato” e della “competitività” o della “modernizzazione”.

Alcune rivendicazioni immediate sono già, o possono diventare rapidamente, luogo di convergenza tra movimenti sociali e movimenti ecologisti, sindacati e difensori dell’ambiente, “rossi” e “verdi”:

·        la promozione di trasporti pubblici –treni, metro, autobus, tram– a basso prezzo o gratuiti come alternativa al soffocamento e all’inquinamento delle città e delle campagne da parte delle auto individuali e del sistema dei trasporti su strada;

·        la lotta contro il sistema del debito e degli “aggiustamenti” ultraliberisti imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale ai paesi del Sud, con conseguenze sociali ed ecologiche drammatiche: disoccupazione di massa, distruzione delle protezioni sociali e delle colture alimentari, distruzione delle risorse naturali per l’esportazione;

·        difesa della sanità pubblica, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua (falde freatiche) o degli alimenti causato dall’avidità delle grandi imprese capitaliste;

·         riduzione del tempo di lavoro come risposta alla disoccupazione e come visione della società che privilegia il tempo libero rispetto all’accumulazione dei beni. (13)

Però, nella lotta per una nuova civiltà, che sia insieme più umana e più rispettosa della natura, bisogna associare l’insieme dei movimenti sociali emancipatori. Come dice molto bene Jorge Riechmann:

“Questo progetto non può rinunciare a nessuno dei colori dell’arcobaleno: né il rosso del movimento operaio anticapitalista ed egualitario, né il viola delle lotte per la liberazione della donna, né il bianco dei movimenti non violenti per la pace, né l’anti-autoritarismo  nero dei libertari e anarchici, e ancor meno il verde della lotta per una umanità giusta e libera su un pianeta abitabile”. (14)

L’ecologia sociale è diventata una forza sociale e politica presente sul terreno nella maggior parte dei paesi europei e anche, in una certa misura, negli USA. Ma niente sarebbe più sbagliato che considerare che le questioni ecologiche riguardano solo i paesi del Nord – un lusso di società ricche. Movimenti sociali a dimensione ecologica si sviluppano in misura crescente nei paesi del capitalismo periferico, il Sud.

Questi movimenti reagiscono ad un crescente aggravamento dei problemi ecologici dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, in conseguenza di una politica deliberata dei paesi imperialisti di “esportazione dell’inquinamento”. D’altra parte questa politica ha una “legittimazione” economica imbattibile –dal punto di vista dell’economia capitalista di mercato– formulata di recente da un eminente esperto della Banca Mondiale, Mr Lawrence Summers: i poveri costano meno! Per usare i suoi termini: “la misura del costo dell’inquinamento nocivo per la salute dipende dai rendimenti persi a causa della morbilità e mortalità accresciute. Da questo punto di vista, una quantità data di inquinamento nocivo per la salute dovrebbe essere prodotta nei paesi con i costi più bassi, vale a dire i paesi con i salari più bassi”. (15) Una formulazione cinica che rivela la logica del capitale molto meglio di tutti i discorsi soporiferi sullo “sviluppo” enunciati dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Nei paesi del Sud si vedono apparire movimenti che Martinez Alier chiama “l’ecologia dei poveri” o anche “neo-narodnicismo ecologico” [dai “narodniki” o populisti russi del primo novecento, Ndt], cioè mobilitazioni popolari in difesa dell’agricoltura contadina, e dell’accesso comunale alle risorse naturali minacciate di distruzione dall’espansione aggressiva del mercato (o dello Stato), e lotte contro il degrado dell’ambiente provocato dallo scambio ineguale, l’industrializzazione dipendente, le manipolazioni genetiche e lo sviluppo del capitalismo (l’”agrobusiness”) nelle campagne. Spesso questi movimenti non si definiscono ecologisti, ma la loro lotta ha nondimeno una dimensione ecologica determinante. (16) Va da sé che questi movimenti non si oppongono ai miglioramenti apportati dal progresso tecnologico: al contrario, la domanda di elettricità, acqua corrente, canalizzazione delle fognature, e moltiplicazione dei dispensari medici figura in buona posizione nelle loro piattaforme rivendicative. Quello che rifiutano è l’inquinamento e la distruzione del loro ambiente naturale in nome delle “leggi del mercato” e degli imperativi della “espansione” capitalista.

Un testo recente del dirigente contadino peruviano Hugo Blanco descrive in modo esemplare il significato della “ecologia dei poveri”: “A prima vista, i difensori dell’ambiente o i conservazionisti appaiono come dei tipi gentili, un po’ folli, il cui scopo principale nella vita è impedire la scomparsa delle balene blu o dei panda. La gente comune ha cose più importanti di cui occuparsi, ad esempio come procurarsi il pane quotidiano. (…) Tuttavia in Perù c’è un gran numero di persone che sono difensori dell’ambiente. Certo se gli si dice ”siete degli ecologisti”, risponderanno probabilmente “ecologista tua sorella” … E tuttavia, gli abitanti della città di Ilo e dei villaggi circostanti, in lotta contro l’inquinamento provocato dalla Southern Peru Copper Corporation, non sono forse difensori dell’ambiente? (…) E la popolazione dell’Amazzonia, pronta a morire per difendere le proprie foreste contro la depredazione, non è forse totalmente ecologista? Al pari della popolazione di Lima quando protesta contro l’inquinamento dell’acqua”. (17)

Tra le innumerevoli manifestazioni della “ecologia dei poveri” un movimento appare particolarmente esemplare per la sua portata ad un tempo sociale ed ecologica, locale e planetaria, “rossa” e “verde”: la lotta di Chico Mendes e della Coalizione dei Popoli della Foresta in difesa dell’Amazzonia brasiliana contro l’opera distruttrice dei grandi proprietari terrieri e delle multinazionali dell’agrobusiness.

Ricordiamo brevemente i principali momenti di questo scontro. Militante sindacale legato alla Centrale Unica dei Lavoratori, e partecipe del nuovo movimento socialista rappresentato  dal Partito dei Lavoratori brasiliano, Chico Mendes organizza, all’inizio degli anni ’80, occupazioni di terre da parte dei contadini che vivono sulla raccolta del caucciù (seringueiros) contro i latifondisti che mandano i bulldozer ad abbattere la foresta per sostituirla con pascoli. In un secondo momento riesce a mettere insieme contadini, lavoratori agricoli, seringueiros, sindacalisti, e tribù indigene –con il sostegno delle comunità di base della Chiesa– nell’Alleanza dei Popoli della Foresta, che fa fallire molti tentativi di deforestazione. L’eco internazionale di queste azioni gli vale l’attribuzione del Premio Ecologico Globale nel 1987, ma poco dopo, nel dicembre 1988, i latifondisti gli fanno pagare carissima la sua lotta, facendolo assassinare da sicari a pagamento.

Questo movimento, grazie alla sua articolazione tra socialismo ed ecologia, lotte contadine ed indigene, sopravvivenza delle popolazioni locali e salvaguardia di un obiettivo globale (la protezione dell’ultima grande foresta tropicale), può diventare un paradigma delle future mobilitazioni popolari nel “Sud”.

Oggi, all’inizio del 21° secolo, l’ecologia sociale è diventata una delle più importanti componenti del vasto movimento che si sta sviluppando tanto nel Nord quanto nel Sud del pianeta contro la globalizzazione capitalista neoliberista. La presenza massiccia degli ecologisti è stata una delle caratteristiche salienti della grande manifestazione di Seattle contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1999. E in occasione del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre nel 2001, uno degli atti simbolici forti dell’evento è stata l’operazione, condotta insieme da militanti del Movimento dei Contadini Senza Terra brasiliano (MST) e della Confederazione Contadina francese di José Bové, di sradicare una piantagione di mais transgenico della multinazionale Monsanto. La lotta contro la moltiplicazione incontrollata degli OGM mobilita, in Brasile, in Francia e in altri paesi, non solo il movimento ecologico, ma anche il movimento contadino e una parte della sinistra, con la simpatia dell’opinione pubblica, inquieta per le conseguenze imprevedibili delle manipolazioni transgeniche sulla salute pubblica e l’ambiente naturale. Lotta contro la mercificazione del mondo e difesa dell’ambiente, resistenza alla dittatura delle multinazionali e lotta per l’ecologia sono intimamente legate nella riflessione e  nella pratica del movimento mondiale contro la mondializzazione capitalista/liberista.
Traduzione dal francese di Gigi Viglino.

[[1]] Vedi a questo riguardo l’eccellente opera di Joel Kovel, The Enemy of Nature. The end of capitalism or the end of the world?, New York, Zed Books, 2002.   [[2]] W. Benjamin, Sens Unique, Paris, Lettres Nouvelles – Maurice Nadeau,1978, p.243,  eThèses sur la philosophie de l’histoire, in : L’homme , le langage et la culture, Paris, Denoël, 1971, p. 190 (trad. it: Sul concetto di storia, Einaudi, To, 1997).  Si può anche citare il socialista austriaco Julius Dickmann, autore di uno studio pionieristico pubblicato nel 1933 nella Critica Sociale: secondo lui il socialismo non sarebbe il risultato di uno “sviluppo  impetuoso delle forze produttive”, ma piuttosto una necessità imposta dal “restringimento della riserva di risorse naturali” dilapidate dal capitale. Lo sviluppo “sconsiderato” delle forze produttive da parte del capitalismo mina le stesse condizioni di esistenza del genere umano. (“Il vero limite della produzione capitalista”, La critica sociale, n° 9 settembre 1933). [[3]]  James O’Connor, “La seconde contradiction du capitalisme : causes et conséquences“ Actuel Marx n° 12. “ L’écologie, ce matérialisme historique“, Paris, 1992, pp. 30, 36. (Trad. it. , “La seconda contraddizione“, in “Ecologia Politica CNS“, n° 6, dicembre 1992 (II, 3). [[4]]  Tiziano Bagarolo, “Encore sur marxisme et écologie”, Quatrième Internationale, n° 44, Mai-Juillet 1992, p.25.   [[5]]  James O’Connor, Natural Causes. Essays on Ecological Marxism, New York, The Guilford Press, 1998, pp. 278, 331.   [[6]]  M. Mies, “Liberación del consumo o politicización de la vida cotidiana”, Mientras Tanto, n° 48 Barcelona, 1992, p.73 [[7]] Vedi Daniel Bensaïd, Marx l’intempestif, pp. 385-386, 396 (trad. It: Marx, l’intempestivo, Edizioni Alegre, Roma, 2007) e Jorge Riechman, Problemas con los frenos de emergencia?, Madrid, Editorial Revolución, 1991, p.15. [[8]]  Vedi in proposito il notevole saggio di Jorge Riechman, “El socialismo puede llegar solo en bicicleta”, Papeles de la Fondación de Investigaciones Marxistas, Madrid, n° 6, 1996.[[9]]  Alcuni marxisti già sognano un “comunismo solare”: vedi David Schwartzman, “Solar Communism”, Science and Society. Special issue “Marxism and Ecology”, vol. 60; n° 3 Fall 1996.   [[10]]  D. Bensaïd, Marx l’intempestif, pp. 391, 396. [[11]]  Jorge Riechmann, “Necesitamos una reforma fiscal guiada por criterios igualidarios y ecologicos”, in De la economia a la ecologia, Madrid, Editorial Trotta, 1995, pp. 82-85.[[12]]  Vedi l’analisi illuminante di John Bellamy Foster, “Ecology against Capitalism”, Monthly Review, vol. 53, n° 5, October 2001, pp. 12-14.   [[13]]  Vedi Pierre Rousset, “Convergence de combats. L’écologique et le social”, Rouge, 16 mai 1996, pp. 8-9.  [[14]]  Riechmann, “El socialismo puede llegar solo en bicicleta”, p. 57. [[15]]  Vedi “Let them eat pollution”, The Economist, 8 febbraio 1992.   [[16]]  J. Martinez Alier, “Political Ecology, Distributional Conflicts and Economic Incommensurability” New Left Review, n° 211, May-June 1995, pp. 83-84.   [[17]]  Articolo sul quotidiano La Republica, Lima, 6 aprile 1991 (citato da Martinez Alier, Ibid. p.74).

IL PROGETTO ECOSOCIALISTA

Il progetto ecosocialista implica l’instaurazione di una pianificazione democratica dell’economia, che metta in conto la preservazione dell’ambiente e, in particolare impedisca uno sconvolgimento catastrofico del clima. Grazie a questa pianificazione si potrà operare una rivoluzione del sistema energetico, che porti alla sostituzione delle risorse attuali (soprattutto l’energia fossile), responsabili del cambiamento climatico e dell’avvelenamento dell’ambiente, con risorse energetiche rinnovabili: l’acqua, il vento e il sole.

La condizione necessaria per questa pianificazione democratica ed ecologica è il controllo pubblico sui mezzi di produzione: le decisioni di ordine pubblico sugli investimenti e i cambiamenti tecnologici devono essere tolti alle banche e alle imprese capitaliste se si vuole che servano il bene comune della società e la preservazione dell’ambiente. L’insieme della società sarà libero di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare –in base a criteri sociali ed ecologici– e il livello delle risorse che devono essere investite nelle energie alternative, nell’istruzione, nella salute o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderanno più alle leggi della domanda e dell’offerta ma saranno determinati il più possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici. Questa pianificazione avrà tra i suoi obiettivi la garanzia del pieno impiego, grazie alla riduzione della giornata lavorativa. Questa condizione è indispensabile non solo per rispondere alle esigenze di giustizia sociale, ma anche per assicurarsi il sostegno della classe operaia, senza il quale il processo di trasformazione ecologica strutturale delle forze produttive non può essere effettuato.

Lungi dall’essere «dispotica» in sé, la pianificazione democratica è l’esercizio della libertà di decisione dell’insieme della società. Un esercizio necessario per liberarsi delle «leggi economiche» e delle «gabbie di ferro» alienanti e reificate all’interno delle strutture capitaliste e burocratiche. La pianificazione democratica, associata alla riduzione del tempo di lavoro, sarebbe un progresso considerevole dell’umanità verso quello che Marx chiama «il regno della libertà»: l’aumento del tempo libero è infatti una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla gestione dell’economia e della società.

Il genere di sistema di pianificazione democratica prospettato dagli ecosocialisti riguarda le principali scelte economiche –in particolare quelle che hanno a che fare con i pericoli del riscaldamento globale– e non certo l’amministrazione dei ristoranti locali, delle drogherie, delle panetterie, dei piccoli negozi e delle imprese artigianali o dei servizi. Altrettanto importante è sottolineare che la pianificazione non è in contraddizione all’autogestione dei lavoratori nelle loro unità di produzione. Mentre, ad esempio, la decisione di trasformare una fabbrica di automobili in unità di produzione di motori per eoliche toccherebbe all’insieme della società, l’organizzazione e il funzionamento interni della fabbrica sarebbero gestiti democraticamente dagli stessi lavoratori.

Si è dibattuto a lungo sul carattere «centralizzato» o «decentralizzato» della pianificazione, ma l’elemento più importante resta il controllo democratico del piano a tutti i livelli, locale, regionale, nazionale, continentale e, speriamo, planetario, poiché temi dell’ecologia come il riscaldamento climatico sono mondiali e non possono essere trattati che a questo livello. Questa proposta si potrebbe chiamare «pianificazione democratica globale». Essa non ha niente a che vedere con quella che viene generalmente designata come «pianificazione centrale», in quanto le decisioni economiche e sociali non sono prese da un qualsivoglia «centro» ma determinate democraticamente dalle popolazioni interessate.

La pianificazione ecosocialista deve essere fondata su un dibattito democratico e pluralista a ciascun livello di decisione. Organizzati sotto forma di partiti, di piattaforme, o di qualsiasi altro movimento politico, i delegati degli organismi di pianificazione sono eletti, e le diverse proposte sono presentate a tutti quelli che ne sono oggetto. In altri termini, la democrazia rappresentativa deve essere arricchita –e migliorata– dalla democrazia diretta, che permette alle persone di scegliere direttamente –a livello locale, nazionale, e in ultima istanza internazionale– tra diverse proposte. Allora, l’insieme della popolazione si interrogherebbe sulla gratuità del trasporto pubblico, su una imposta speciale, pagata dai proprietari di automobili per sovvenzionare il trasporto pubblico, sul sovvenzionamento dell’energia solare, sulla riduzione del tempo di lavoro a 30, 25 ore settimanali o meno, anche se questo comporta una certa riduzione della produzione. Il carattere democratico della pianificazione non la rende incompatibile con la partecipazione degli esperti il cui ruolo non è di decidere ma di presentare i loro argomenti –spesso diversi o anche opposti– nel corso del processo democratico di presa delle decisioni.

Si pone una domanda: che garanzia abbiamo che le persone faranno le scelte giuste,quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da pagare è di cambiare una parte delle loro abitudini di consumo? Una tale «garanzia» non esiste, [esiste] soltanto la ragionevole prospettiva che la razionalità delle decisioni democratiche trionferà una volta abolito il feticismo dei beni di consumo. È sicuro che il popolo farà degli errori, facendo scelte sbagliate, ma gli esperti non fanno anch’essi scelte sbagliate? È impossibile concepire la costruzione di una nuova società senza che la maggioranza del popolo abbia raggiunto una grande presa di coscienza socialista ed ecologica grazie alle sue lotte, alla sua autoeducazione e alla sua esperienza sociale.

Alcuni ecologisti valutano che la sola alternativa al produttivismo sia di arrestare la crescita nel suo insieme, o di sostituirla con una crescita negativa, chiamata in Francia «décroissance» [decrescita]. Per fare ciò occorrerebbe ridurre drasticamente il livello eccessivo di consumo della popolazione e rinunciare, tra l’altro, alle case individuali, al riscaldamento centrale e alle lavatrici, per ridurre di metà il consumo di energia.

I «décroissants» [decrescenti?] hanno il merito di avere avanzato una critica radicale del produttivismo e del consumismo. Ma il concetto di «decrescita» deriva da una concezione puramente quantitativa della «crescita» e dello sviluppo delle forze produttive. Occorrerebbe piuttosto riflettere su una trasformazione qualitativa dello sviluppo. Questo significa due impostazioni diverse ma complementari:

(1) Non solo la riduzione ma la soppressione di interi settori economici, per mettere fine al mostruoso spreco di risorse provocato dal capitalismo: un sistema fondato sulla produzione su grande scala di prodotti inutili e/o dannosi. Un buon esempio è l’industria degli armamenti, così come tutti quei «prodotti» fabbricati nel sistema capitalista (con la loro obsolescenza programmata) che non hanno alcun’altra utilità oltre a creare profitti per le grandi imprese. La questione non è il «consumo eccessivo» in astratto, ma piuttosto il tipo di consumo dominante le cui caratteristiche principali sono: la proprietà ostentativa, lo spreco di massa, l’accumulazione ossessiva di beni e l’acquisizione compulsiva di pseudo novità imposte dalla «moda». Una nuova società orienterebbe la produzione verso la soddisfazione dei bisogni autentici, a cominciare da quelli che si potrebbero qualificare come «biblici» –l’acqua, il cibo, i vestiti e la casa– ma includendo i servizi essenziali: la salute, l’istruzione, la cultura e il trasporto. Si potrebbe dunque parlare di «decrescitaselettiva».

(2) Dall’altra parte, occorrerebbe assicurare la «crescita selettiva» di certe branche produttive o servizi trascurati dal capitalismo: l’energia solare, l’agricoltura biologica (familiare o cooperativa), i trasporti pubblici, ecc.

È evidente che i paesi o i bisogni essenziali sono lungi dall’essere soddisfatti, vale a dire che i paesi dell’emisfero sud dovranno «svilupparsi» –costruire ferrovie, ospedali, fognature e altre infrastrutture– molto di più che i paesi industrializzati, ma questo dovrebbe essere compatibile con un sistema di produzione basato sulle energie rinnovabili e dunque non nocive per l’ambiente. Questi paesi avranno bisogno di produrre grandi quantità di cibo per le loro popolazioni già colpite dalla fame. Ma, come sostengono da anni i movimenti contadini organizzati su scala internazionale dalla rete Via Campesina, si tratta di un obiettivo molto più facile da raggiungere per mezzo dell’agricoltura biologica contadina, organizzata in unità familiari, cooperative o fattorie collettive, che non con i metodi distruttivi e antisociali dell’agroindustria il cui principio è l’utilizzo intensivo dei pesticidi, di sostanze chimiche e degli OGM. L’odioso sistema attuale del debito e dello sfruttamento imperialista delle risorse del Sud da parte dei paesi capitalisti industrializzati lascerebbe il posto a uno slancio di sostegno tecnico ed economico del Nord verso il Sud.

Non ci sarebbe alcun bisogno –come sembrano credere certi ecologisti puritani ed ascetici– di ridurre in termini assoluti il livello di vita delle popolazioni europee o nordamericane. Occorre semplicemente che queste popolazioni si sbarazzino dei prodotti inutili, quelli che non soddisfano alcun bisogno reale, e il cui consumo ossessivo è sostenuto dal sistema capitalista. Riducendo il loro consumo, esse ridefinirebbero la nozione di livello di vita per far posto a un modo di vita che sarebbe in realtà molto più ricco.

Come distinguere i bisogni autentici dai bisogni artificiali, falsi o simulati? L’industria della pubblicità, –che esercita la sua influenza sui bisogni tramite la manipolazione mentale– è penetrata in tutte le sfere della vita umana delle società capitaliste moderne. Tutto è modellato secondo le sue regole, non solo il cibo e l’abbigliamento, ma anche ambiti così diversi come lo sport, la cultura, la religione e la politica. La pubblicità ha invaso le nostre strade, le nostre cassette da lettere, i nostri schermi televisivi, i nostri giornali e i nostri paesaggi in modo insidioso, permanente ed aggressivo. Questo settore contribuisce direttamente alle abitudini di consumo ostentativo e compulsivo.  Per di più comporta uno spreco fenomenale di petrolio, di elettricità, di tempo di lavoro, di carta e di sostanze chimiche tra altre materie prime – il tutto pagato dai consumatori. Si tratta di una branca di «produzione» non solo inutile dal punto di vista umano, ma anche in contraddizione con i bisogni sociali reali. La pubblicità è una dimensione indispensabile in una economia di mercato capitalista, ma non avrebbe posto in una società in transizione verso il socialismo. Sarebbe sostituita da informazioni sui prodotti e servizi fornite da associazioni di consumatori. Il criterio per distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale sarebbe la sua permanenza dopo la soppressione della pubblicità. È chiaro che le vecchie abitudini di consumo persisteranno per un certo tempo, dato che nessuno ha il diritto di dire alle persone di che cosa hanno bisogno. Il cambiamento dei modelli di consumo è un processo storico e una sfida educativa.

Certi prodotti, come l’auto individuale, sollevano problemi più complessi. Le auto individuali sono una calamità pubblica. Su scala planetaria uccidono o mutilano centinaia di migliaia di persone ogni anno. Inquinano l’aria delle grandi città –con conseguenze nefaste sulla salute dei bambini e delle persone anziane– e contribuiscono in misura considerevole al cambiamento climatico. D’altra parte l’auto soddisfa bisogni reali nelle condizioni attuali del capitalismo. In un processo di transizione verso l’ecosocialismo, il trasporto pubblico sarebbe largamente diffuso e gratuito –in superficie come sotterraneo– mentre ci sarebbero percorsi protetti per i ciclisti e i pedoni. Di conseguenza l’auto individuale avrebbe una funzione molto meno importante che nella società borghese, dove è diventata un prodotto feticcio, promosso da una pubblicità insistente e aggressiva. In questa transizione verso una nuova società, sarebbe molto più facile ridurre drasticamente il trasporto su strada delle merci –responsabile di tragici incidenti e del livello troppo elevato di inquinamento– per sostirtuirlo con il trasporto ferroviario o il ferroutage [trasporto dei TIR su treno = autostrada ferroviaria /viaggiante]: solo la logica assurda della «competitività» capitalista spiega lo sviluppo del trasporto su camion / gomma.

A queste proposte, i pessimisti risponderanno: sì, ma gli individui sono motivati da aspirazioni e desideri infiniti, che devono essere controllati, analizzati, rimossi ed anche repressi se necessario. La democrazia potrebbe allora subire alcune restrizioni. Ora, l’ecosocialismo si basa su una ipotesi ragionevole, già sostenuta da Marx: la predominanza dell’«essere» sull’«avere», in una società senza classi sociali né alienazione capitalista, vale a dire il prevalere del tempo libero sul desiderio di possedere innumerevoli oggetti: la realizzazione personale tramite vere attività, culturali, sportive, ludiche, scientifiche, erotiche, artistiche e politiche. Il feticismo della merce incita all’acquisto compulsivo attraverso l’ideologia e la pubblicità proprie del sistema capitalista. Niente prova che questo faccia parte della «eterna natura umana».

Ciò non significa, soprattutto nel periodo di transizione, che i conflitti saranno inesistenti: tra i bisogni di protezione dell’ambiente e i bisogni sociali, tra gli obblighi in materia di ecologia e la necessità di sviluppare le infrastrutture di base, in particolare nei paesi poveri, tra abitudini popolari di consumo e la scarsità di risorse. Una società senza classi sociali non è una società senza contraddizioni né conflitti. Questi ultimi sono inevitabili: sarà la funzione della pianificazione democratica, in una prospettiva ecosocialista liberata dai vincoli del capitale e del profitto, di risolverli grazie a discussioni aperte e pluraliste che portino la società stessa a prendere le decisioni. Una tale democrazia, comune e partecipata, è il solo mezzo, non di evitare gli errori, ma di correggerli da parte della stessa collettività sociale.


MANIFESTO ECOSOCIALISTA
DI MICHAEL LOWY E JOEL KOVEL

L’attuale sistema capitalistico non è in grado di regolare, né tanto meno superare, le crisi che ha scatenato. Non è in grado di risolvere la crisi ecologica, perché questo richiederebbe di porre dei limiti all’accumulazione, un’opzione inaccettabile per un sistema promosso a partire dalla massima “crescere o morire!” In termini ecologici è profondamente insostenibile e deve essere cambiato in modo sostanziale – o meglio ancora, rimpiazzato – se vogliamo che ci sia un futuro degno di essere vissuto.

Il secolo XXI è iniziato in toni catastrofici, con un livello senza precedenti di degrado ambientale e di “ordine” mondiale caotico, assediato dal terrore e dai focolai della guerra a bassa intensità (disintegrante) che si estendono come una cancrena lungo vaste aree del pianeta – Africa Centrale, Medio Oriente e nord-est dell’America Meridionale – e si riverberano in tutte le nazioni.

La crisi ecologica e la crisi sociale sono profondamente correlate e vanno viste come manifestazioni distinte delle stesse forze strutturali. In termini generali, la prima è il risultato della industrializzazione galoppante che supera la capacità della Terra di ammortizzare e contenere la destabilizzazione ecologica. La seconda deriva da quella forma di imperialismo, conosciuta come globalizzazione, con i suoi effetti disaggreganti sulle società.

Inoltre, queste forze soggiacenti sono, nella loro essenza, aspetti differenti di uno stesso impulso che deve essere identificato come il fattore dinamico centrale che tende alla totalità, cioè all’espansione mondiale del sistema capitalistico.

Rifiutiamo tutti gli eufemismi o la riduzione propagandistica della brutalità di questo regime: tutto l’intento di colorare di verde i suoi costi ecologici, tutta la mistificazione dei costi umani nel nome della democrazia e dei diritti umani. Insistiamo, al contrario, sulla necessità di guardare al capitale dalla prospettiva di ciò che ha realmente provocato.

Per quel che concerne la natura e il suo equilibrio ecologico, questo regime, con il suo imperativo di costante espansione della redditività, espone gli ecosistemi ad agenti contaminanti e destabilizzanti; danneggia gli habitat che si sono evoluti nel corso di milioni di anni permettendo la nascita di organismi; consuma le risorse e riduce la vitalità sensuale della natura al freddo scambio che richiede l’accumulazione del capitale.

Dal punto di vista dell’umanità, con le sue richieste di autodeterminazione, di comunità e di un’esistenza piena di senso, il capitale riduce la maggior parte della popolazione mondiale ad un mero serbatoio di forza-lavoro, mentre scarta la popolazione restante come fastidio inutile. Ha invaso ed eroso l’integrità delle comunità attraverso la sua cultura di massa del consumismo e della spoliticizzazione. Ha esteso le disparità nella distribuzione della ricchezza e del potere fino a livelli senza precedenti nella storia dell’umanità. Ha lavorato in stretto contatto con una rete di stati servili e corrotti, le cui élites locali esercitano la repressione e ne liberano l’infamia.

Inoltre ha messo in moto una rete di organizzazioni transnazionali sotto la supervisione generale delle potenze occidentali e della superpotenza degli Stati Uniti, per minare l’autorità della periferia e legarla all’indebitamento, mentre mantiene un enorme apparato militare per garantire l’accordo con il centro capitalista.

L’attuale sistema capitalistico non è in grado di regolare, né tanto meno superare, le crisi che ha scatenato. Non è in grado di risolvere la crisi ecologica, perché questo richiederebbe di porre dei limiti all’accumulazione, un’opzione inaccettabile per un sistema promosso a partire dalla massima “crescere o morire!”

E non è in grado di risolvere la crisi generata dal terrore o da altre forme di ribellione violenta perché, per farlo, dovrebbe abbandonare la logica imperiale, cosa che imporrebbe limiti inaccettabili alla crescita e a tutto il modo di vivere sostenuto dall’esercizio del potere imperiale. La sua unica opzione è ricorrere alla forza bruta, incrementando così l’alienazione e piantando i semi del terrorismo…e dell’ulteriore contro-terrorismo, sviluppandosi fino ad una variante nuova e perversa di fascismo.

Insomma, il sistema capitalistico mondiale si trova in una bancarotta storica. Si è trasformato in un impero incapace di adattarsi, il cui gigantismo finisce per lasciare allo scoperto la sua debolezza interna. In termini ecologici è profondamente insostenibile e deve essere cambiato in maniera sostanziale – meglio ancora, rimpiazzato – se vogliamo che ci sia un futuro degno di essere vissuto.

In questo modo, ci troviamo di nuovo davanti all’alternativa prospettata una volta da Rosa Luxemburg: socialismo o barbarie!

In questa occasione, il volto della barbarie riflette il marchio del secolo che inizia e assume le sembianze della eco-catastrofe, del terrore e del contro-terrore e della sua degenerazione fascista.

Tuttavia, perché il socialismo, perché rivivere questa parola in apparenza destinata all’immondezzaio della storia, a causa dei fallimenti delle sue interpretazioni nel XX secolo?

Solo per una ragione: per quanto sia colpita e lontana dalla realizzazione effettiva, la nozione di socialismo continua ad esprimere la superamento del capitale.

Se il capitalismo deve essere superato, compito che in questo momento ritorna urgente per la sopravvivenza della civiltà stessa, il risultato sarà per forza di cose socialista, perché tale è la conclusione che indica l’avanzamento verso una società post-capitalistica. Se affermiamo che il capitale è radicalmente insostenibile e si frammenta nelle barbarie appena descritte, allora affermiamo anche che è necessario costruire un socialismo capace di superare le crisi che il capitale ha provocato nel tempo.

E anche se i socialismi del passato non sono riusciti a farlo, se scegliamo di non sottometterci ad un destino barbaro, allora abbiamo l’obbligo di lottare per un altro socialismo che sia capace di vincere.

Allo stesso modo in cui la barbarie è cambiata in modo da rispecchiare il secolo trascorso dal momento che Luxemburg ha espresso la sua speranzosa alternativa, il nome e la realtà del socialismo devono essere quelli che richiede il nostro tempo.

Per questi motivi chiamiamo ecosocialismo una nostra interpretazione del socialismo e abbiamo deciso di dedicarci alla sua realizzazione.

Vediamo l’ecosocialismo non come la negazione, ma come la realizzazione dei socialismi del primo periodo del XX secolo, nel contesto della crisi ecologica. Come quei socialismi, il nuovo si costruisce a partire dalla percezione del capitale come lavoro oggettivato e si fonda sul libero sviluppo di tutti i lavoratori o, per dirlo in altre parole, sulla fine della separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione.

Comprendiamo che questo obiettivo non ha potuto essere realizzato dai socialismi del primo periodo per ragioni che, sebbene risultino troppo complesse per essere trattate qui, possono riassumersi nei diversi effetti del sottosviluppo in un contesto dominato dall’ostilità dei poteri capitalistici. Questa congiuntura ha avuto numerosi effetti negativi sui socialismi realmente esistenti, in particolar modo per quel che riguarda la negazione della democrazia interna mediante l’emulazione del produttivismo capitalista, e ha finito per condurre al collasso di queste società e alla rovina dei loro ambienti naturali.

L’ecosocialismo mantiene gli obiettivi di emancipazione del socialismo del primo periodo e rifiuta tanto gli scopi riformisti – attenuati – della socialdemocrazia quanto le strutture produttive delle varianti burocratiche del socialismo.

Invece insiste nel ridefinire tanto il modo quanto l’obiettivo della produzione socialista in un ambito di riferimento ecologico. Lo fa in maniera specifica per quanto riguarda i limiti della crescita, essenziali per la sostenibilità della società, limiti che, tuttavia, non sono adottati nel senso di imporre scarsità, bassa qualità della vita e repressione.

L’obiettivo, al contrario, consiste in una trasformazione delle necessità e in un cambiamento profondo verso la dimensione qualitativa, prendendo le distanze da quella quantitativa. Dal punto di vista della produzione delle merci, questo si traduce in una valorizzazione dei valori d’uso piuttosto che dei valori di scambio – un progetto di vasto significato, basato sull’attività economica immediata.
La generalizzazione della produzione ecologica sotto condizioni socialiste può fornire la base per superare la crisi attuale.

Una società di lavoratori liberamente associati non si ferma alla sua democratizzazione. Al contrario, deve insistere sulla liberazione di tutti gli esseri umani come sostegno e come obiettivo. In questo modo supera l’impulso imperialista tanto nell’obiettivo quanto nel soggettivo. Nel raggiungere questa meta, lotta per superare ogni forma di dominazione incluse, in modo particolare, quelle basate sul genere e sulla razza. Supera le condizioni che danno origine alle distorsioni fondamentaliste e alle loro manifestazioni terroristiche.

Nessuno può leggere queste idee senza pensare, in primo luogo, a quanti problemi pratici e teorici possono sorgere da esse e, subito e in maniera scoraggiante, a quanto lontane esse siano rispetto all’assetto attuale del mondo sia per quel che riguarda le istituzioni sia per le forme in cui è presente nella coscienza.

Il nostro progetto non consiste né nel delineare ogni passo di questo percorso né nel cedere davanti all’avversario a causa del carattere opprimente del potere che ostenta, ma piuttosto consiste nello sviluppare la logica di una trasformazione sufficiente e necessaria dell’ordine attuale e nell’iniziare a sviluppare le tappe intermedie in direzione di questo obiettivo.

Facciamo questo con il proposito di pensare con maggior profondità a queste possibilità e, a tempo debito, cominciare il lavoro del progetto insieme a coloro che condividono queste stesse preoccupazioni.

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