PALESTINESI E SHOAH

Ce cosa c’entra Hitler con il conflitto in Medio Oriente? È vero che tra il mondo arabo e il terzo Reich fu luna di miele in virtù del nemico comune ebraico-sionista? Perché ancora oggi Israele e i suoi nemici si accusano a vicenda di essere “come i nazisti”?

All’indomani della storica dichiarazione di Abu Mazen, il primo leader palestinese a riconoscere la Shoah come “il più atroce dei crimini”, ho incontrato Gilbert Achcar, autore di “Gli Arabi e la Shoah, la Guerra Arabo-israeliana delle Narrazioni”.

Il sessantatreenne intellettuale libanese è nel suo ufficio della “School of Oriental and African Studies” di Londra, dove è approdato dopo aver insegnato a Parigi e Berlino, con le pareti tappezzate da foto della primavera araba.

Professore, la dichiarazione di Abu Mazen è rivoluzionaria per il mondo arabo?

Rivoluzionaria mi sembra eccessivo, nel mondo arabo esiste una frazione di popolazione istruita che non metterebbe in dubbio una virgola di ciò che ha detto Abu Mazen. Tuttavia è molto importante perché arriva da un leader palestinese, che fra l’altro in passato aveva negato o perlomeno sminuito l’Olocausto, e in particolar modo perché in essa viene utilizzato il superlativo. La Shoah viene definita il crimine “più” atroce che sia stato commesso nell’era moderna, il che implica un riconoscimento della sua maggiore efferatezza rispetto alla Nakba (la “Nakba” è la “tragedia” palestinese del 1948, quando in 700.000 furono ridotti a rifugiati in seguito alla guerra d’indipendenza israeliana, ndr). La “guerra delle narrazioni” è anche una competizione per chi è più vittima, per stabilire quale parte rappresenti Davide e quale Golia. Non è facile per un Rais palestinese ammettere che la Shoah appartiene, come tragedia storica, a un ordine di grandezza superiore rispetto alla Nakba.

Quale fu il rapporto fra mondo arabo e Germania nazista?

La narrativa che descrive gli anni Trenta e i primi anni Quaranta come anni di luna di miele tra Hitler e i principali movimenti politici nel mondo arabo compie l’errore di generalizzare quello che fu effettivamente un rapporto di collaborazione tra Amin al Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme tra il 1921 e il 1937, ndr) e il Fuhrer estendendolo a tutto il mondo arabo. Furono in molti a rapportarsi con la Germania nazista, ma bisogna distinguere fra i soggetti politici che lo fecero per opportunismo, cioè semplicemente seguendo il principio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, e quelli che invece ne condividevano in una qualche misura l’ideologia come Amin al-Husseini. Lui era proprio antisemita, e compì viaggi sia a Berlino che a Roma. Ebbe un rapporto profondo col nazismo, ne sposò l’ideologia e si impegnò a diffondere la propaganda antisemita in lingua araba. Lungi dal limitarsi a lottare contro l’immigrazione ebraica in Palestina, era a conoscenza della “soluzione finale” e si dava da fare per promuoverla. In alcune lettere a un ministro ungherese lo invitava a spedire gli ebrei in Polonia, dove sarebbero stati “sotto controllo”.

Anche le falangi libanesi, colpevoli del massacro di Sabra e Chatila nell’82, ebbero legami con Hitler.

E’ indubbio che Pierre Gemayel, il leader delle falangi, trovò la sua ispirazione per la fondazione del suo movimento durante i trentaseiesimi giochi olimpici di Berlino ai quali assistette nel 1936. Le falangi però non possono essere additate in alcun modo come partito nazista: il movimento era più vicino al “fascismo clericale” di modello Franchista. E’ dalla Spagna, infatti, che trae origine il nome, non dalla Germania. I falangisti erano certamente di estrema destra, ma né nazisti né antisemiti, e in seguito diventarono duramente anti-palestinesi. L’unico gruppo che era davvero un clone del movimento nazista nel mondo arabo è stato il partito social-nazionalista siriano, una vera copia carbone del partito del Fuhrer. In tutto, compreso il simbolo che è una chiara imitazione della svastica.

L’altra questione affrontata dal libro è quella della strumentalizzazione politica della Shoah.

Lo scopo della “nazificazione degli arabi”, cioè l’esaltazione dei rapporti che ebbero con Hitler, è quello di giustificare la Nakba. Se i Palestinesi hanno avuto un ruolo di complici nella Shoah, allora non è più vero che con la Nakba hanno pagato colpe che erano solo degli Europei. Un esempio di questa tendenza è lo storico israeliano Benny Morris. Dopo aver portato a termine preziose ricerche storiche che hanno provato inoppugnabilmente i fatti della Nakba, all’inizio del terzo millennio Benny Morris è scivolato su posizioni di estrema destra e, seppur non rinnegando le sue precedenti ricerche sulla pulizia etnica, dai primi anni duemila ha cominciato a sostenere che l’espulsione di massa fosse giustificata perché i palestinesi erano come i nazisti e perché l’alternativa per gli israeliani era un secondo genocidio. Accusare l’avversario di essere “come i nazisti” è pratica comune nella retorica politica israeliana: più Israele si trova a dover fare i conti con il crescente deterioramento della sua immagine nell’opinione pubblica occidentale, più ricorre alla Shoah come anacronistico mezzo di difesa.

Anche la dichiarazione di Abu Mazen arriva in una fase in cui l’accordo con Hamas rende la sua posizione difficile.

Netanyahu in questo ha ragione, il fatto che le parole di Abu Mazen arrivino in questo momento ne diminuisce il valore perché sembra una mossa politica. Però lui è campione nell’utilizzare l’Olocausto per difendersi dalle critiche che gli vengono avanzate, ed è ben lungi dall’incarnare le lezioni che vanno tratte dall’esperienza della Shoah. Netanyahu presiede un processo di espropriazione coloniale, occupazione, discriminazione etnica. Pretendere di parlare nel nome delle vittime dell’Olocausto mentre si compie questo tipo di crimini equivale ad insultarle. La Shoah è nata proprio dalla caratterizzazione su base etnico-razziale di uno stato che si definiva “ariano”, e il suo governo insiste per definire Israele come “stato ebraico”, escludendo buona parte dei suoi stessi cittadini. La memoria dell’Olocausto non è appannaggio o proprietà di un singolo popolo, e gli insegnamenti universali che bisogna trarne invocano democrazia, umanesimo, vera uguaglianza. Se comprendi l’essenza dell’Olocausto, con le sue lezioni contro discriminazione e oppressione, allora capisci che chi deve invocarle sono le vittime, cioè i palestinesi.

Perché allora il negazionismo va per la maggiore nel mondo arabo?

C’è un impressionante livello d’ignoranza riguardo l’Olocausto perché i governi impediscono ogni tipo di insegnamento della Shoah nelle scuole. Questa scelta è figlia dell’idea infondata che se tu riconosci che l’Olocausto è avvenuto, allora riconosci la legittimità dell’esistenza dello stato d’Israele. Esiste inoltre una forma di “negazionismo di reazione” nel mondo arabo. Persone piene di risentimento per Israele e per quello che Israele fa ai palestinesi sfogano la loro rabbia negando l’Olocausto come se questo in qualche modo possa danneggiare il nemico. E’ un atteggiamento che io chiamo “l’antisionismo degli scemi”.

In apertura del libro lei cita il Vangelo di Matteo: “perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”.

Penso che sia un precetto fondamentale, prima di criticare gli altri devi essere consapevole delle tue colpe. Chi accusa gli arabi per i loro rapporti con la Germania nazista, e ancora oggi li paragona ad essa, dovrebbe prima farsi un esame di coscienza. Non va dimenticato che mentre Israele ha avuto un ruolo diretto nella Nakba, insieme agli inglesi, e si ostina a negarla, i palestinesi come popolo non hanno avuto alcun ruolo nella Shoah. La dichiarazione di Abu Mazen è positiva nonostante le riserve legate alle circostanze politiche: riconoscendo le reciproche tragedie è possibile avviare un dialogo. Solo dopo aver fatto i conti con la trave del proprio occhio si può discutere della pagliuzza nell’occhio del vicino.

L’intrervista di Davide Lerner è stata pubblicato sull’Espresso n.19 del 16 maggio 2014, pag. 90 e 91

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