COSTITUZIONE E PROPRIETA’ COLLETTIVA

Pubblichiamo parte di una relazione tenuta da Paolo Maddalena, vicepresidente onorario della Corte costituzionale e coautore della Legge Galasso. Relazione al Convegno di studi sul tema “Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio, Firenze, 20 novembre 2013; Relazione al Convegno di studi sul tema “Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, Fermo, 6 dicembre 2013. In corso di pubblicazione sulla rivista cartacea Diritto e Società. Tratto da www.eddyburg.it 

(…)

8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva sulla proprietà privata. 

Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica” della prima sulla seconda.

Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.

Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.

Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.

Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.

In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[26].

Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata”[27].

Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili” e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.

Alla fine di questo discorso emerge un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di “limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.

9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”. 

Sul piano pratico, c’è una importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del territorio a singoli cittadini.

Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda e lo si è fatto discendere dal semplice convincimento che la proprietà si estenda “usque ad coelum et usque ad inferos”. Questo poteva valere per il “dominium ex iure Quiritium”, non certo per il moderno concetto di “proprietà privata”, che, da sempre ha dovuto fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di superficie è distinto dal diritto di proprietà e, d’altronde, le leggi urbanistiche consentono l’edificazione solo a seguito di una “concessione”, malamente ridenominata, anche a seguito di una discutibile sentenza della Corte costituzionale sulla cosiddetta legge Bucalossi, “permesso di costruire”. Tutto questo perché la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e costituisce la sede propria di questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutta la società.

10. – Il concetto di “territorio”. 

Abbiamo sinora parlato più volte di “territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di procedere oltre, ad una sua definizione.

Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”, meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28], in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.

Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza” comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo una entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il “territorio”, come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere, non solo alla presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come è noto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono “parti costitutive” della medesima “Comunità politica”.

D’altro canto, occorre tener presente che oggi esistono tutte le premesse per considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita.

Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla “cultura”[29], non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30], e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle Nazioni nella vita di tutti i giorni.

E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.

Il “territorio”, in altri termini, appare come uno “spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.

Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione” non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. La globalizzazione implica la “transitabilità” dei confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque, “difendere i territori”, poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono “spazi di libertà” per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso materiale e spirituale della società.
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.

E veniamo a quella che abbiamo denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo economico” della nostra società.

Ed al riguardo è importante precisare che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.

In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.

Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[31], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[32], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[33], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.

Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.

In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.

Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese.

Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.

Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.

Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.

Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.

Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.

Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.

Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di riscrivere contabilmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.

C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P. A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.

La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.

Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.

In tema di “partecipazione”, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti gli altri.

Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (delle quali non disponiamo ancora delle relative sentenze), nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. Se così fosse, l’azione popolare, sarebbe diventata oggi una sicura realtà[34].

12. – Conclusione.

Salvare il territorio e salvare il lavoro di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro “territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.

Uno, dunque, è l’imperativo categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili. Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella “creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.

Dunque, una volta assicurate in mano nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45 Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia.

In tal modo potremo vincere anche la pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio nazionale.

(…)
[26] M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, rist. 1981, p. 47.
[27] Sul collegamento tra “proprietà collettiva “ e “sovranità”, vedi il mio scritto “I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana”, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, p.2613 ss., rinvenibile su www.federalismi. It. Tema ripreso, con dovizia di particolari, S. Settis, in Azione popolare, Torino, 2012, p.79.
[28] Corte costituzionale, sentenze n. 105, del 2008; n. 1, del 2010; n. 112, del 2011.
[29] N. Capone, Cultura e libertà nel dibattito all’Assemblea costituente, in Libertà di ricerca e organizzazione della cultura. Crisi dell’Università e funzione storica delle Accademie, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli, 2013.
[30] V. Cerulli Irelli parla di “spazi di libertà”, in voce “Uso pubblico”, cit. p. 967.
[31] Quanto alla tutela del paesaggio, sono fondamentali i volumi di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010 e Azione popolare, Torino, 2012; nonché il completissimo articolo di G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it, 2005.
[32] Da ultimo, G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Torino, 2013.
[33] Quanto alla tutela delle risorse della terra, vedi: G. Di Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Roma, 2012; C. Iannello, Il diritto all’acqua, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2012..
[34] Fondamentale, al riguardo il citato volume di S. Settis, Azione popolare.

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