FIAT

articoli di Giorgio Cremaschi, Franco Turigliatto, Thomas Müntzer
In realtà è la Fiat che diventa una succursale della Chrysler

Carlotta Scozzari per Dagospia

A vedere le cose così è Giorgio Cremaschi, ex presidente della Fiom (Federazione impiegati operai metallurgici) e ora esponente della minoranza congressuale della Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”.All’apparenza può sembrare che, con l’accordo appena raggiunto col socio di minoranza Veba, Fiat stia comprando la Chrysler, di cui entro gennaio rileverà il 100 per cento. Ma in realtà non è così; è l’esatto opposto. E quindi è la società del Lingotto che viene acquisita da quella statunitense, con tutte le ripercussioni, negative, che ne derivano per il mercato italiano ed europeo, anche in termini di occupazione.

Come mai, Cremaschi, sostiene che sia in realtà Fiat a essere rilevata da Chrysler?

Essenzialmente per due motivi. Il primo è che tra i due gruppi c’è una sproporzione produttiva a vantaggio di quello americano. E il secondo è che la Fiat ormai da anni ha rinunciato a investire in Italia. Basti pensare al progetto Fabbrica Italia, lanciato in pompa magna dall’amministratore delegato Sergio Marchionne nel 2010, che prevedeva 20 miliardi di investimenti, di cui è stato effettuato meno di un ventesimo.

Insomma, l’Italia conterà sempre meno nel gruppo…

E’ così e per rendersene conto basta osservare quel che è successo con Fiat industrial, che ha trasferito all’estero (in Olanda, ndr) la propria sede legale.

Accadrà anche con la Fiat, e dunque con il cuore del business dell’auto?

L’operazione di spacchettamento del gruppo avviata da Marchionne, che va ricordato che paga le tasse in Svizzera (dove è residente, ndr), ha come risultato lo spostamento del baricentro a svantaggio del’Italia. E’ successo con la divisione industriale e adesso, con l’operazione Chrysler, si sta discutendo del trasferimento della sede legale della Fiat dall’Italia agli Stati Uniti. Ai francesi di Renault non sarebbe mai venuto in mente, dopo l’acquisizione di Dacia, di spostare la sede in Romania.

Ma da noi, si sa, si ragiona in maniera diversa…

Ma in questo modo, con il centro finanziario e produttivo trasferito oltre oceano, l’Italia per la Fiat rischia di diventare quel che la Opel è per la General Motors: un’area del gruppo di serie B. Il nostro paese diventerà l’unico in Europa, a parte l’Inghilterra che comunque segue dinamiche proprie, senza una propria fabbrica di automobili.

Quindi, l’operazione che porta Fiat al 100% di Chrysler, oltre che il possibile trasferimento della sede legale, potrebbe implicare lo spostamento del baricentro produttivo del gruppo negli Stati Uniti?

Tenderei a escludere che la Fiat non abbia fornito al governo e ai sindacati americani garanzie circa il fatto che la parte del gruppo che conta in termini di produzione sarà negli Stati Uniti.

Che cosa comporterà questa possibilità in termini di occupazione nel nostro paese?

Prevedo inevitabili ripercussioni negative sulla forza lavoro in Italia. A Mirafiori (dove lavorano oltre 5mila dipendenti, ndr), ad esempio, ci sono troppi tecnici e impiegati. Non mi stupirei se entro un anno Marchionne annunciasse degli esuberi adducendo come motivazione lo spostamento della ricerca oltre oceano. Del resto, da noi la Fiat da tempo non studia più nuovi modelli. Per questo l’operazione Chrysler può essere considerata una dismissione sia dall’Italia, sia dall’Europa.

In che senso?

Per essere competitivi in Italia e in Europa bisogna mettere a punto modelli ad altissima tecnologia e ad altissimo risparmio energetico, perché così sarà l’auto del futuro nel vecchio continente. Ma su questo autobus la Fiat non è salita. Più che sulla qualità, ha preferito investire risorse in una operazione politico-finanziaria come quella su Chrysler.

Quindi prevede che se Fiat investirà in ricerca e sviluppo lo farà negli Stati Uniti, dove c’è un mercato dell’auto indubbiamente diverso dal nostro?

Ritengo che se ci sarà innovazione, sarà solo in Usa e per quel mercato.

E in Italia cosa resterà?

Solo briciole. Credo che rimarranno da noi le produzioni di Maserati e Ferrari, modelli peraltro rivolti a un mercato di nicchia. E in ogni caso non mi stupirei se alla prima difficoltà del gruppo Chrysler-Fiat i due marchi venissero usati per fare cassa. A quel punto, l’uscita dall’Italia sarebbe definitiva.

FIAT

 

LA FAMIGLIA AGNELLI TRAVERSA L’ATLANTICO, I LAVORATORI RESTANO IN ITALIA

di Franco Turigliatto

La Fiat conquista il 100% delle azioni della Chrysler e i giornali italiani esultano: finalmente una buona notizia da mettere in prima pagina e relegare nelle pagine secondarie i lunghi elenchi dei disastri economici produttivi e quelli occupazionali e sociali del nostro paese.

Si esaltano anche i dirigenti istituzionali della Regione Piemonte e di Torino di fronte ai successi della famiglia Agnelli e di Marchionne, la proprietà a cui sono da sempre ligi anche quando, uno di loro, era il massimo dirigente del PCI torinese. Fedele alla classe lavoratrice di certo nessuno di loro lo è, tanto è vero che hanno invitato gli operai a chinare la testa e a piegarsi ai ricatti della Fiat.

Si esaltano anche certi dirigenti sindacali come Bonanni della CISL, che, rivendicando il suo servilismo verso il padrone, come ogni mosca cocchiera che si rispetti afferma: “Se oggi la Fiat è un vero gruppo globale è anche merito nostro”. Nel frattempo decine di migliaia di lavoratrici della Fiat e dell’indotto auto sono da due o tre anni incassa integrazione nella provincia di Torino.

Non a caso molto più contenute sono le reazioni di dirigenti della Fiom; scrive il responsabile auto : “ Prima di festeggiare è necessario capire i termini dell’accordo”, e aggiunge il segretario regionale del Piemonte:”Ora la Fiat deve calare le carte sugli investimenti in Italia: bisogna aprire subito un confronto sul destino di Mirafiori ma anche degli altri stabilimenti italiani”.

La direzione Fiat è dunque riuscita a fare un altro passo avanti nell’ambizioso progetto maturato dopo esser stata chiamata, nel 2009, dal governo americano a prendere in mano la Chrysler sull’orlo del fallimento: conquistarne prima il controllo, poi il 100% delle azioni per fondere le due case e tornare in borsa, creando e consolidando in questo modo l’ottavo o forse il settimo gruppo mondiale dell’auto.

Un po’ di storia

Nel giugno del 2009 la Chrysler venne salvata grazie all’intervento della Fiat, che acquisì il 20% delle azioni, del governo statunitense (9,8%) di quello canadese (2,5%) ma soprattutto per l’intervento di VEBA (67,7%), cioè il Voluntary Employee Beneficiary Association, il fondo unico dell’United Auto Worker (Uaw), il sindacato dell’auto americano, che si occupa dell’assistenza sanitaria e pensionistica con 65.000 iscritti. VEBA, già fondo unico delle tre grandi case americane dell’auto, dopo la grande crisi del 2009, si è scisso in tre parti.

A salvare la Chrysler sono stati quindi in primo luogo le lavoratrici e i lavoratori con il loro fondo pensione, accettando migliaia di licenziamenti, la riduzione dei salari e condizioni di sfruttamento molto più dure, compreso il divieto di scioperare fino al 2015.

La Fiat ha cominciato la scalata della Chrysler dal 2001. Tre gradini, ciascuno del 5%, erano collegati, secondo gli accordi intercorsi, al raggiungimento di determinati traguardi tecnologici e produttivi (adozioni di motori a basso consumo, obbiettivi di mercato o di fatturato) realizzati, i primi due, rispettivamente nel gennaio e nell’aprile del 2011 e il terzo nel gennaio del 2012; un 16% delle azioni, con un esborso della Fiat di 1,268 miliardi, veniva poi acquistato nel maggio del 2011. Nel primo trimestre del 2011 la Chrysler tornava a produrre un utile dopo cinque anni e facilitava la restituzione del prestito (luglio 2011) al governo USA e a quello del Canada (complessivamente 7,6 miliardi di dollari, operazione possibile anche grazie a un forte prestito delle banche). In questo modo nell’aprile del 2013 la Fiat disponeva del 58,5% della casa americana, avendo di fronte un unico altro azionista: il Fondo Veba che possedeva il 41,5%.

A questo punto iniziava una lunga trattativa tra la Fiat e Veba per l’acquisto del pacchetto ancora in mano al sindacato. Il fondo era disposto a vendere la sua quota alla Fiat per 5 miliardi di dollari; l’offerta di Marchionne era inferiore ai due miliardi. Le azioni in possesso del sindacato erano divise in due parti, la prima, di poco superiore al 23% doveva essere ceduta ogni 6 mesi, sulla base del contratto iniziale, a blocchi del 3% alla Fiat; un altro 16% invece era disponibile e non collegato a questo accordo di vendite semestrali. Nel corso del braccio di ferro la Direzione Fiat ricorreva al tribunale del Delaware (l’organo giudiziario titolare) per avere con una sentenza la quantificazione del valore dell’azioni in base ai parametri stabiliti in sede contrattuale nel 2009; da parte sua Veba, avendo iniziato le pratiche, minacciava di portare in Borsa quel 16% libero dagli accordi, per verificare in quella sede il vero valore di mercato delle azioni. Le parti tuttavia erano spinte a ricercare un accordo perché avevano entrambe punti di debolezza e tanto più perché il giudice rinviava continuamente – guarda caso – il suo giudizio: Marchionne aveva urgenza di tornare in borsa per poter ottenere i necessari finanziamenti per le sue politiche globali, ma avrebbe voluto farlo dopo l’unificazione Fiat Chrysler per avere più forza e soprattutto di poterlo fare prima che la congiuntura molto favorevole per l’auto negli USA, conoscesse cedimenti; il sindacato aveva bisogno di recuperare risorse per poter soddisfare gli impegni pensionistici, e soprattutto quelli sanitari, del Fondo.

Per questa difficile trattativa il sindacato ha utilizzato i buoni uffici della Deutche Bank, mentre Marchionne quelli di una sua stretta conoscenza, un consigliere del Ministro del Tesoro americano, e membro della speciale Task Force messa in piedi da Obama per operare il salvataggio dell’auto nel 2009.

L’accordo finale

I risultati sono quelli che si sono potuto leggere sui giornali: complessivamente a Veba andranno 4,35 miliardi di dollari, non molto lontano dai 4,5 miliardi previsti dagli analisti, così articolati:

1,9 miliardi garantiti da una erogazione straordinaria di dividendi della Chrysler (al fondo sindacale andranno non solo i dividendi propri, ma anche quelli spettanti alla Fiat);
1,750 miliardi erogati dalla Fiat sulla base delle proprie disponibilità;
700 milioni erogati in 4 tranche di qui ai prossimi tre anni.
Quest’ultimo versamento è collegato a un accordo che vincola il sindacato a sostenere le varie operazione di integrazione delle due aziende e in particolare l’introduzione alla Chrysler del sistema del World Class Manufacturing. I dirigenti del sindacato si impegnano così a contribuire all’aumento dello sfruttamento dei lavoratori….., per altro in continuità con quanto hanno fatto fino al oggi.

I giornali hanno magnificato le capacità negoziali di Marchionne (ma quanti aiuti politici pubblici ha avuto nei vari passaggi); in particolare tutti hanno sottolineato che l’accordo permette alla Fiat di evitare una delicata e grande ricapitalizzazione (la cosa più temuta dalla famiglia Agnelli e che da sempre è restia a fare) e che una parte consistente degli oneri ricadrà sulla stessa Chrysler.

Tuttavia, come osserva giustamente il Sole 24 ore: “Poiché questi fondi usciranno comunque dal perimetro del nuovo gruppo, sarà la futura Fiat Chrysler a dover ricapitalizzare come lo stesso Marchionne aveva fatto balenare in una delle ultime conference call con gli analisti. Ciò avverrà, con ogni probabilità, in occasione della quotazione in borsa di Fiat-Chrysler dopo la fusione”.

L’incerto futuro dei lavoratori

Ed è proprio sui tempi e modalità della prossima fusione che sono cominciate a concentrarsi le ipotesi e le previsioni, ma soprattutto gli interrogativi su quello che sarà il piano triennale di sviluppo che Marchionne dovrebbe annunciare in aprile al di là dei titoli a molto positivi che si possono leggere sui giornali.

Il Sole -24 ore parla di “Operazione vincente per il sistema Italia” precisando che restano aperti due nodi, quello della sede, legale e fisica del futuro gruppo unificato, (precisando per altro che quella della Cnh Industrial è già andata fuori dal’Italia) e quello sulla “ strategia industriale in particolare su quanti saranno e dove si dirigeranno gli investimenti”. L’interrogativo è d’obbligo, ma anche le risposte possono essere facilmente ipotizzate: gli interessi dei proprietari della Fiat si sono spostasti oltreoceano e quello che nascerà sarà un gruppo multinazionale, ma con ben precisa base negli USA.

Per parte sua la Stampa, titolando “Un grande gruppo mondiale per garantirsi il futuro” (abbiamo l’impressione che si parli del futuro della famiglia che lo possiede e non dei lavoratori) scrive: “Nasce un colosso globale, si aprono prospettive di sviluppo su mercati sempre più diversificati e con una gamma di marchi e modelli in espansione. E proprio grazie a questa strategia si consolidano in Italia anche importanti ricadute dal punto di vista della produzione e del lavoro”. L’editorialista ha però poi difficoltà a precisare bene quali saranno le benefiche ricadute italiane, parla dell’impianto della Maserati a Grugliasco e di Melfi, ma tace totalmente su Mirafiori o Cassino o anche Pomigliano. Entrambi i giornali prospettano invece nuovi esplosivi, ma non ben precisati, scenari per l’Alfa Romeo in giro per il mondo.

I lavoratori in cassa, per non parlare dei disoccupati devono per ora accontentarsi dei bellissimi scenari del futuro. Anche perché i due giornalisti di dimenticano che, come ricorda La Repubblica del 23 settembre 2013, quando la Chrysler “restituì il prestito ottenuto dal Tesoro americano al momento del fallimento, contrattò una linea di credito con le banche Usa che prevede esplicitamente il divieto di utilizzare utili Chrysler per investirli fuori dall’America. Quelle linee di credito scadono tra il 2016 e il 2017 e fino a quella data il lucchetto della casa Chrysler è chiuso.”

Questo è il quadro.

Per altro tutte le difficoltà del sindacato, dopo le sconfitte subite, anche se mai ammesse (atto di verità che servirebbe invece a individuare un nuovo percorso) a trovare una nuova iniziativa per poter difendere i posti di lavoro e rivendicazioni e mobilitazioni efficaci, si riscontrano nelle parole del segretario Fiom di Torino quando auspica “ che il governo chieda subito più chiarezza sugli stabilimenti italiani senza aspettare la fine del primo trimestre» e riconosce che l’accordo fa parte di “un percorso segnato, era tutto previsto. Non ha neppure senso discutere di baricentro geografico che si sposta perché il baricentro è già negli Usa”.

Bisognerà provare tutti insieme a fare qualcosa di più che chiedere a un governo padronale al 100% di ottenere chiarezza da Marchionne sul futuro degli stabilimenti italiani o illudersi che sia il giovane segretario del PD a risolvere questi problemi della classe lavoratrice. Non è facile, ma bisognerà ricostruire la strada della mobilitazione.

La Fiat è globale, il sindacato no

di Thomas Müntzer
da www.communianet.org
04 gennaio 14

Ripercorrere il vecchio adagio di Gianni Agnelli secondo cui “quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia” può essere utile per giudicare correttamente l’acquisizione della Chysler. La grande stampa mainstream si è sbracciata in elogi e inchini al genio di Marchionne, inneggiando al successo nazionale e sottolineando le grandi virtù del “sistema Italia”. Quale sia, però, questo sistema non lo dice. In realtà, Marchionne ha fatto tutto da solo e il grosso dell’operazione è riuscita grazie all’appoggio, assoluto e convinto, di Barak Obama, prima, e del sindacato dei metalmeccanici, Uaw, poi.

L’accordo riguarda il 41,4616% della casa americana detenuto da Veba Trust e acquistato dalla controllata Usa della Fiat, la Fiat North America Llc (Fna). A fronte della vendita della partecipazione il Veba Trust riceverà un corrispettivo complessivo pari a 3,65 miliardi di dollari Usa. Ma non saranno tutti soldi che fuoriescono dai forzieri degli Agnelli. Solo 1,75 miliardi, infatti, verranno versati “cash” mentre 1,9 miliardi, cioè più della metà, saranno il frutto “di un’erogazione straordinaria che Chrysler Group pagherà a tutti i soci”. L’azienda, cioè, verserà un dividendo straordinario la cui quota di pertinenza della Fiat verrà girata al Veba. Al quale, inoltre, sempre dalle casse Chrysler, verranno versati altri 700 milioni, scaglionati in quattro anni, che in parte saranno girati ai dipendenti in cambio di collaborazione aziendale e applicazione del nuovo sistema lavorativo World Class Manifacturing. L’abilità di Marchionne è dunque un’abile operazione finanziaria che consente alla società degli Agnelli di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

In questo caso, quello che va bene alla Fiat va bene ai suoi azionisti. L’impennata del titolo alla borsa di Milano e le aspettative che crea il gruppo da oltre 4 milioni di vetture prodotte nel mondo lo dimostrano. Mai come in questo caso a un’analisi concreta si è sovrapposta una lettura politica che fa perdere di vista i problemi concreti. Marchionne viene incensato perché il progetto più coerente e lucido di piegare le ultime conquiste operaie in Italia è venuto da lui e, fondamentalmente, è riuscito. Se è vero che la Fiom ha ottenuto il successo costituzionale con il ripristino dei suoi diritti sindacali in fabbrica è anche vero che il contratto Fiat non solo esiste da due anni ma, nel frattempo, è stato trasferito anche nel contratto dei metalmeccanici. I ritmi, la riduzione delle pause, il controllo dello sciopero e delle malattie sono divenuti punti acquisiti che difficilmente verranno rimessi in discussione. Se un effetto immediato il successo della Chrysler lo avrà sarà quello di livellare ancora di più le condizioni dei lavoratori. Anche perché una compressione analoga è già avvenuta negli Stati Uniti. Si legga il riassunto fatto dalla Cisl di quanto ottenuto da Marchionne dai metalmeccanici della Uaw. “Tra le concessioni per il contenimento dei costi, l’accordo (Chrysler-Uaw, ndr.) prevede alcuni interventi in materia di orari e trattamenti economici:

– computo delle maggiorazioni di straordinario solo dopo la quarantesima ora;
– rinuncia, negli anni 2010 e 2011, alla festività successiva al giorno di Pasqua;
– riduzione dei minuti di pausa al giorno da 46 a 40;
– sospensione del pagamento dei bonus legati alla performance e quelli natalizi previsti nel 2009 e 2010;
– uso più estensivo del part-time;
– limitazioni dei periodi di integrazione salariale (50 per cento) in caso di disoccupazione temporanea;
– uso di 2 settimane di ferie per periodi di chiusura decisi dall’azienda;
– riduzione del numero dei rappresentanti dei lavoratori eletti.

L’accordo, inoltre, prevede una razionalizzazione del sistema di classificazione e un coinvolgimento dei sindacati nell’implementazione del nuovo sistema di organizzazione del lavoro, che integrerà il FIAT’s World Class Manufacturing con il Chrysler Workplace Organization Model. La Chrysler, per confermare l’impegno reciproco ai sacrifici finalizzati al recupero dell’azienda, fornirà trimestralmente informazioni ai sindacati sul contributo dei dirigenti, manager, concessionari e fornitori; coinvolgerà in anticipo i sindacati su alcune decisioni concernenti i prodotti, i programmi produttivi e le relazioni con la catena dei fornitori, favorendo il dialogo sociale tra le parti. In questa prospettiva è stata firmata una clausola che impegna i sindacati a non avanzare rivendicazioni o proclamare scioperi fino al 2015”. A questo va aggiunto il dato più saliente: secondo quanto afferma uno studio della Heritage Foundation (think-tank conservatore, che ritiene che i contribuenti Usa ‘non dovrebbero essere tassati per garantire il benessere di pochi (ndr: operai)’, il costo orario dei salari (comprensivo di contributi pensionistici e di previdenza) si sarebbe ridotto da 75 dollari l’ora del 2006 ai 52 del 2011. Un taglio del 30%, molto più accentuato per i nuovi assunti.
Certo, la Chrysler, come la General Motors, era fallita nel 2008. Per salvarla ci sono voluti circa 10 miliardi di soldi pubblici oltre alle “concessioni” sindacali. Il genio di Marchionne ha beneficiato di un ampio plafond di statalismo tanto inviso ai liberisti di mezzo mondo.

Che succedere ora? La fusione Chrysler-Fiat appare scontata. Analoga procedura è stata utilizzata nel caso di Fiat Industrial, scorporata da Fiat Auto e poi incorporata nell’olandese Cnh che ha sede in Gran Bretagna e ottiene la maggior parte del suo fatturato tra Usa e Europa. La questione su dove verrà piazzato il centro direzionale, se a Torino o a Detroit, a questo punto è del tutto marginale. Per ragioni di immagine e di propaganda gli Agnelli potrebbero essere spinti a salvaguardare il Lingotto ma la questione sostanziale sarà quali scelte verranno fatte.

Dei 4,2 milioni di vetture di cui può valersi il nuovo gruppo solo 600 mila sono state prodotte in Italia nel 2013, contando anche i veicoli commerciali. Il grosso viene venduto in Sudamerica e negli Stati Uniti. La realtà è già esplicita. Per quanto riguarda l’Italia, su circa 30 mila addetti del settore auto, un terzo è quasi sempre in cassa integrazione e solo tre stabilimenti, Melfi, Pomigliano e Grugliasco, hanno una missione ben definita. Mirafiori è ancora avvolto nelle nebbie mentre Cassino aspetta di conoscere la propria sorte. Diverso il caso della Sevel dove si produce il Ducato, il furgone commerciale in partnership con la Psa-Citroen.

La centralità statunitense, invece, è data da più fattori. Un mercato che si è ripreso prima di tutti gli altri, grazie alle iniezioni di denaro pubblico da parte di Obama, e un asse tra governo e sindacato, finalizzato a salvare l’industria automobilista, che ha contrattato modelli, stabilimenti, posti di lavoro. Tutto questo manca in Italia mentre nel resto d’Europa, in particolare all’Est, i copiosi aiuti pubblici (come in Serbia) hanno indotto la Fiat a spostare le produzioni.

Tutto questo dovrebbe indurre a riflettere molto più seriamente di quanto sia mai stato fatto, sulla totale inadeguatezza dei sindacati a gestire aziende iper-globalizzate che riescono a gestire la produzione sull’intero arco del globo. Si pensi all’impossibilità e alla totale incomunicabilità che esiste, ad esempio, tra il sindacato Usa, quello italiano o quello dell’Europa dell’est. Il loro coordinamento, ormai decisivo, sembra un’impresa immane dati gli attuali punti di partenza. Se c’è una lezione che la vicenda Marchionne consegna ai lavoratori e lavoratrici è che il piano dell’iniziativa politica e sindacale è oggi del tutto disallineato rispetto alle reali necessità del conflitto.

Il successo, in ogni caso, potrebbe essere solo momentaneo. Come ha notato un giornale insospettabile, come il Wall Street Journal, Marchionne ha utilizzato un “trucco” acquistando il 100% di Chrysler prelevando fondi dalla Chrysler stessa. In questo modo ha aumentato l’indebitamento togliendo risorse agli investimenti. Come afferma la banca Citigroup, “continuiamo ad avere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito” visto che la Fiat resta una delle case automobilistiche più indebitate al mondo: 28 miliardi di euro su cui si pagano ogni anno quasi 2 miliardi di interessi.

In ogni caso, quello che è avvenuto conferma che d’ora in avanti il centro di gravità delle decisioni si sposta definitivamente. L’Italia è davvero una provincia e come tale verrà gestita.

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