BREVE STORIA DELLA SANITA’ IN ITALIA

Sono serviti 30 anni perché la norma Costituzionale fosse tramutata in legge e divenisse dunque efficace a tutti gli effetti: ciò è avvenuto infatti soltanto nel 1978 attraverso l’emanazione della L. 833/78 che istituiva il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ispirato ad un modello universalistico.
Prima del 1978 il sistema sanitario italiano era basato su una forma di protezione assicurativo-previdenziale in cui il diritto alla tutela della salute era strettamente collegato alla condizione lavorativa e quindi non era considerato un diritto di cittadinanza nel senso pieno del termine.
Le cosiddette Casse Mutue, gli enti assicurativi che garantivano l’accesso alle cure, affondavano le radici nelle società operaie dell’800. In una fase storica caratterizzata, da una generale assenza di protezioni sociali, chi poteva permetterselo pagava per avere un’assistenza adeguata, per i più poveri non restava altro che affidarsi alle Opere Pie e alla beneficenza borghese. I lavoratori salariati iniziarono così ad associarsi e a mettere in comune risorse per assicurarsi dai rischi dell’esistenza (disoccupazione, malattia, infortunio, vecchiaia, ecc.) generando un esteso e capillare tessuto di società mutualistiche: un vero e proprio welfare dal basso.
Nella prima metà del ‘900, le Società di Mutuo Soccorso pur perdendo la loro centralità all’interno del movimento operaio, cedendo il passo alle emergenti organizzazioni di massa sindacali e politiche, riuscirono comunque a sopravvivere. Fu il fascismo a dare un deciso colpo di grazia al mutualismo operaio, riportando le associazioni sotto il rigido controllo dello stato e del regime. L’idea era non solo quella di irreggimentare le mutue esistenti, ma di farle confluire all’interno di alcuni macro-enti. L’ultimo tentativo di portare a termine questo compito avvenne nel 1943, proprio poco prima del crollo della dittatura, quando si cercò di accorpare il fitto reticolo di casse, istituti ed enti di assicurazione sanitaria nell’Ente Mutualità Fascista – Istituto per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori. Da prodotto del fervore delle classi subalterne, gli enti mutualistici divennero così la spina dorsale di un nascente welfare burocratico e corporativo-assicurativo che, anziché promuovere l’estensione dei diritti sociali, cristallizzava le disuguaglianze fornendo a ciascuno una protezione commisurata ai contributi versati e alla posizione ricoperta nel mercato del lavoro.
La sanità così impostata prevedeva dunque, non solo una copertura parziale della popolazione (lavoratori e familiari a carico), ma anche forti sperequazioni tra i beneficiari in quanto le quote contributive versate alle assicurazione variavano in base al tipo di lavoro svolto ed in questo modo si aveva accesso a diversi livelli qualitativi di assistenza.
Uno dei paradossi che si veniva a creare era, per esempio, che i soggetti più vulnerabili e maggiormente esposti a malattie e rischi sociali, come disoccupati e lavoratori a basso reddito (ed i loro familiari), avevano possibilità ridotte di accedere a cure ed assistenza adeguate.
La L.180 del 13 maggio 1978 (cosiddetta Legge Basaglia), riguardante Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori, contribuì poi a porre le basi del nuovo sistema sanitario in quanto cambiava complessivamente l’atteggiamento verso il tema della salute mentale e definiva l’importanza assoluta dell’azione a livello preventivo piuttosto che curativo.
Il 23 dicembre 1978 venne approvata la L. 833/78 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale basato sulla visione solidaristica nell’erogazione delle prestazioni in cui la copertura sanitaria veniva estesa a tutti e non più limitata a talune categorie (lavoratori, pensionati, loro familiari e soggetti particolarmente bisognosi privi di tutela assicurativa obbligatoria).
In questa nuova impostazione il finanziamento del sistema era basato sulla fiscalità generale.
La nuova sanità prese dunque forma in anni di dure ed estese lotte sociali e fu accompagnata da diverse riforme in ambiti affini (legge 194 sull’Aborto del 22 maggio 1978, la legge Basaglia) che contribuirono a definire le tappe del percorso. Ma a soli tre mesi dalla sua emanazione, tuttavia, vennero introdotti i “ticket” sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, una vera e propria “tassa sulla malattia” che, prevedendo una forma di compartecipazione diretta dei cittadini alla spesa sanitaria, incrinava il principio della gratuità dell’accesso al sistema.
Inoltre il sistema dei partiti e importanti lobby economiche erano già in agguato, pronti a mettere le mani sul nuovo SSN.
E fu così che nel 1992, durante il governo Amato, venne partorito il D.L. 502/92, il cui padre (“Sua Sanità”, Francesco De Lorenzo) sarebbe stato di lì a poco coinvolto, insieme ad un altro membro del suo dicastero, proprio nell’inchiesta di Mani Pulite.
Questo provvedimento, poi leggermente modificato dal D.L. 517/93 varato dal governo Ciampi, iniziava a sfaldare l’omogeneità delle prestazioni sul territorio nazionale inserendo un cuneo nell’universalità del servizio: pur identificando dei “livelli uniformi di assistenza” su base nazionale, venivano devoluti grandi poteri alle Regioni che diventano economicamente e, in parte, politicamente responsabili dei propri sistemi sanitari; inoltre le USL diventavano ASL, vere e proprie aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale e gestite da potenti “manager della salute” principalmente secondo criteri di efficienza economica e “produttività”.
Parallelamente a questa vera e propria riorganizzazione in senso aziendalistico della sanità pubblica, si spalancavano le porte alle strutture sanitarie private, di fatto equiparate a quelle pubbliche attraverso ilmeccanismo dell’accreditamento che le rendeva a tutti gli effetti un pilastro del SSN e non più semplicemente accessorie e supplementari.
Veniva delineata, esattamente come accadeva con il sistema delle mutue, una tendenziale separazione tra i soggetti committenti e paganti da un lato (le ASL) e le strutture erogatrici delle prestazioni sanitarie dall’altro (le Aziende Ospedaliere). In questo modo le ASL hanno potuto iniziare a rimborsare parimenti prestazioni sanitarie “acquistate” dagli utenti presso Aziende Ospedaliere pubbliche o da soggetti privati accreditati, alimentando così la concorrenza e la competizione tra i due poli.
Piuttosto che sradicare clientelismo e corruzione democratizzando ulteriormente il sistema si preferì allontanare dal controllo dei cittadini la gestione del SSN, spostando poteri verso l’alto, verso il mercato e i super-manager, anziché verso il basso: tutto ciò giustificato con la retorica che vuole il privato come intrinsecamente più efficace ed efficiente del pubblico.
In realtà si è dato vita ad una nuova e perversa commistione tra sistema politico ed interessi privati (emblematico il caso dei Direttori Generali delle nuove ASL con poteri e status di manager aziendali, ma nominati dalle Regioni e ad esse rispondenti).
E nel 1999 arrivò la cosiddetta “riforma Bindi” che pur nel tentativo di correggere alcune criticità dei precedenti provvedimenti, definendo in modo più preciso per esempio i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire a tutti i cittadini, confermava l’impostazione fondamentalmente privatistica dell’ordinamento sanitario.
Dopo circa sei mesi, venne approvata la Legge 13 maggio 1999 n. 133 che determinava la soppressione nell’arco di tre anni del Fondo sanitario nazionale, lasciando alle Regioni il compito di finanziare direttamente il proprio Servizio Sanitario.
Nel 2001 mutò invece il quadro costituzionale: la riforma del titolo V della Costituzione ridefinì i rapporti tra Stato e Regioni in senso federalistico e, attribuendo nuovi poteri e autonomia a queste ultime, approfondì ulteriormente la frammentazione e la disomogeneità dei servizi erogati nei diversi territori. La sanità è stato il primo e più importante ambito di sperimentazione del federalismo i cui risultati deleteri sono tutt’oggi evidenti agli occhi di tutti.
Questo più o meno il quadro complessivo in cui si inseriscono le politiche sanitarie di oggi. Da qui dobbiamo ripartire se vogliamo opporci alla privatizzazione del sistema sanitario e procedere invece verso una sua riappropriazione sociale.