FRONTIERE CHE BRUCIANO

Rashid Khalidi: “Le frontiere del Medioriente bruciano”

Intervista realizzata da Joseph Confavreux

Al di là delle “frontiere artificiali” del Medioriente, volute dalle potenze coloniali, Daesh potrebbe riuscire dove il panarabismo ha fallito, ridisegnando le cartine del mondo arabo? Intervista con Rashid Khalidi, successore di Edward Said.

Cento anni dopo gli accordi segreti di Sykes-Picot, grazie ai quali le potenze coloniali hanno ridisegnato la carta geografica del Medio Oriente sulle rovine dell’Impero Ottomano, la questione delle frontiere raramente è stata tanto scottante nella regione.

L’organizzazione dello Stato Islamico proclama, nella sua propaganda, la distruzione della linea di demarcazione tra l’Iraq e la Siria, due Stati che potrebbero anche sparire nelle loro frontiere e la loro composizione attuale. I kurdi, già largamente autonomi in Iraq e in Siria, aspirano sempre più apertamente ad uno Stato-nazione, inaccettabile per la Turchia. Alcuni pensano che la lotta contro Daesh passerà inevitabilmente attraverso il riconoscimento di un’entità autonoma per i sunniti di Iraq. Qualche sognatore spera ancora in una confederazione dei popoli arabi, oggi divisi, anche se questa presupporrebbe una profonda democratizzazione di Stati afflitti dall’autoritarismo e dal clientelismo. Quanto alla prospettiva di uno Stato palestinese, raramente è parsa tanto lontana…

Lo studioso americano di origini palestinesi Rashid Khalidi osserva il Medioriente con il distacco dello storico e la lucida inquietudine di un uomo che vive tra diverse culture, in un momento in cui gli adepti di uno “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente guadagnano sempre più terreno.

Rashid Khalidi dirige il dipartimento di storia all’università di Columbia ed è titolare della cattedra creata da Edward Said di studi arabi moderni. È autore tra gli altri di L’Empire aveuglé. Les États-Unis et le Moyen-Orient (Actes Sud, 2004) et de L’Identité palestinienne (La Fabrique, 2003).

Lunedì 14 marzo era al MuCEM (Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo) di Marsiglia, per il ciclo di conferenze, Pensieri del mondo, quest’anno dedicato al “futuro delle frontiere”, di cui Mediapart è partner.

Domanda – Quali sono le conseguenze oggi del modo in cui le frontiere del Medio Oriente sono state ridisegnate durante la Prima guerra mondiale, nel momento in cui l’organizzazione dello Stato Islamico ha basato una parte della sua propaganda sulla sparizione di queste “frontiere artificiali”?

Risposta – Daesh ha trasformato gli accordi segreti firmati giusto un secolo fa dal britannico Mark Sykes e il francese François Picot, in una questione politica scottante e contemporanea, come si è potuto vedere in molti video in cui lo Stato islamico metteva in scena la distruzione di posti di frontiera tra Siria e Iraq, demarcazione risultata da quegli accordi.

Ma al di là dell’attualità, legata all’azione di Daesh e della questione delle frontiere, il fatto che i confini dei Paesi del Medio Oriente siano stati creati dalle decisioni prese da alcune potenze imperiali ossessiona il mondo arabo da un secolo. Tanto più che gli esempi dell’Iran e della Turchia, che sono riusciti a costruire dei potenti Stati-nazione resistendo alle volontà imperialistiche di dividere i loro territori – dato che la Gran Bretagna aveva promesso agli armeni e ai kurdi uno Stato autonomo durante la Prima guerra mondiale – agiscono sullo sfondo come ricordo costante della divisione e della debolezza degli arabi.

Per la maggioranza dei popoli arabi, la violenza dello smantellamento dell’Impero ottomano, realizzato in funzione degli interessi economici e delle rivalità tra le potenze imperiali, è stato considerato come il fallimento delle élites arabe liberali e il discredito del modello democratico. Questo fallimento delle idee liberali, associate all’ipocrisia delle potenze imperiali che sbandieravano il motto “libertà, eguaglianza, fraternità” come un simbolo, comportandosi invece al contrario nel mondo arabo, dopo la Seconda guerra mondiale ha favorito l’ascesa di regimi militari e autoritari nella maggior parte dei Paesi arabi, dopo una serie di colpi di Stato, in particolare con il partito Baath in Iraq e in Siria.

Domanda – Il modo in cui Daesh attacca le frontiere “artificiali” e “imperialistiche”  del Medio Oriente è simile alla denuncia di queste stesse frontiere da parte dei nasseriani egiziani, o dei baathisti in Iraq e in Siria, dopo la Seconda guerra mondiale?

Risposta – La retorica non è identica, anche se il motivo dell’umiliazione è fondamentale in entrambi i casi. Anche quando Daesh usa argomenti anti-imperialisti contro le attuali frontiere, questi non derivano dal nazionalismo come è stato sviluppato dai nasseriani o dai baathisti. Nonostante la nascita, tra il 1958 e il 1961, di una Repubblica Araba Unita (RAU, n.d.t.) risultato dell’unità tra la Siria e l’Egitto, i nazionalisti arabi non sono riusciti ad abolire le frontiere. Soprattutto perché se la regola del “dividere per regnare meglio” è stata ben applicata dalle potenze straniere, numerose divisioni del mondo arabo preesistevano, da lungo tempo, agli accordi Sykes-Picot.

Daesh può facilmente prendersi gioco dei nazionalisti che non sono riusciti ad unificare il mondo arabo e affermare di volere, e di potere, cancellare le frontiere partendo da una base religiosa. Ma a dispetto di questo obiettivo dichiarato, agisce con un  inedito pragmatismo che non avevano né al Qaida, né i Talebani. In quanto storico, ho il compito di vedere il risultato di un’alchimia stranissima tra le idee baatiste e le idee islamiche, o comunque che usano l’Islam.

Le persone che dirigono l’organizzazione dello Stato Islamico sono vecchi quadri provenienti dall’Iraq di Saddam Hussein, che l’idiozia delle decisioni americane dopo l’intervento del 2003, ha fatto finire tra le braccia degli estremisti. Queste persone sanno perfettamente gestire uno Stato, con ferocia e brutalità, ma anche con efficacia. Sono preoccupati dalle frontiere, pur essendo allo stesso tempo brandiscano le retoriche religiose, addirittura apocalittiche.

Questa convergenza tra l’ideologia jihadista e il baathismo, un movimento all’origine laico, è precedente alla comparsa dell’organizzazione dello Stato Islamico. Il regime baathista iracheno, indebolito dai movimenti di opposizione, sunniti o sciiti, ha scelto verso la fine e in risposta a questi di islamizzarsi. Aveva simbolicamente cambiato la sua bandiera per potervi inserire dei riferimenti religiosi, nonostante la sua storia laica. I traumi successivi alla guerra contro l’Iran, della guerra del Golfo e poi dell’occupazione americana del 2003, hanno facilitato delle evoluzioni profonde della società e permesso questo tipo di involuzioni.

Da storico, constato che, anche se Daesh pretende di tornare all’Islam di molti secoli fa, i suoi membri fanno tutto ciò che dicono di rifiutare, ossia “innovazioni”, delle “eresie”, che in arabo si indicano con il termine bid’ah. Niente, nel loro presunto “Stato islamico”, assomiglia a ciò che è esistito in altri Stati islamici nella storia. La maniera in cui decapitano le persone in nome del Corano dimostra non solo quanto non conoscano quel testo sacro, ma anche che sono figli di un certo islamismo e di un certo baathismo, ma anche, se non soprattutto, che sono figli del XXI secolo, capaci di conciliare la modernità tecnologica delle reti sociali ad una propaganda della violenza, dell’orrore e della brutalità già conosciuta sotto il nazismo.

Negli Stati Uniti, esistono da tempo persone affascinate dalle immagini e da obiettivi ultra violenti. Ma ve ne sono molte anche in Medio Oriente, reclutate tra popolazioni brutalizzate da anni di guerre e che sono molto sensibili a questa propaganda che noi rinfocoliamo quando i nostri eserciti bombardano le popolazioni civili.

Bisogna essere stati bombardati, come mi è successo a Beirut nel 1982, per comprendere ciò che questo provoca nell’animo e nel corpo. Dal 1975 e la guerra del Libano, c’è stato l’Iraq e ora la Siria. Sicuramente, esistono dei problemi endogeni alle società arabe, ma le diverse ingerenze e occupazioni non hanno fatto che aggravarli. Al Qaida è un prodotto della guerra in Afghanistan e Daesh quello della guerra in Iraq.

Domanda – Da storico, come giudica il fatto che il Medio Oriente del XXI secolo potrebbe svolgere il ruolo dei Balcani all’inizio del XX ed essere la scintilla di un conflitto mondiale generalizzato, soprattutto se l’Iraq e la Siria affonderanno ancora di più?

Risposta – È una possibilità. Un nuovo presidente alla Casa Bianca, gli iraniani, i turchi, gli iraniani o lo Stato Islamico hanno i mezzi per scatenare un  conflitto incontrollabile. Ma se la scintilla della Prima guerra mondiale è stata accesa nei Balcani le grandi potenze, in seguito, hanno avuto la responsabilità di fare la guerra. Oggi, le grandi potenze hanno la responsabilità di vendere le armi e di non far nulla contro l’Arabia Saudita, la cui ideologia wahhabita si è estesa grazie al denaro derivante dal petrolio e costituisce il cuore del problema.

L’odio intollerabile contro gli sciiti e tutte le altre minoranze, è diventato una forma di ortodossia sunnita esplosiva. In particolare perché gli sciiti, in Iran o altrove, non sono sprovvisti di potenza. Inoltre, l’Arabia Saudita, una teocrazia petrolifera, non ha la legittimazione popolare che ha la Repubblica islamica dell’Iran, anche se molti iraniani lottano prima di tutto per la libertà e la democrazia. La guerra per procura che l’Arabia Saudita e gli iraniani combattono in Yemen, in Libano o in Siria, può cambiare di scala e di grado, se le potenze occidentali lasceranno che l’ideologia wahhabita si accresca ancora, perché l’Arabia Saudita è un cliente al quale non si osa dire nulla.

Domanda – Pensa che le frontiere del Medio Oriente decise durante la Prima guerra mondiale potranno sparire o trasformarsi?

Risposta – Il sono uno storico e non un indovino, ma non sono sicuro che queste frontiere saranno cancellate. Queste frontiere esistono da un secolo, da queste linee, all’origine artificiali, hanno preso consistenza. L’Iraq e la Siria sono diventati Stati-nazione, anche se è prevedibile il loro sprofondamento e il loro smantellamento.

Inoltre, frontiere simili stabilite dalle potenze imperiali ne esistono dappertutto nel mondo, in Asia, in Africa e non solo nel mondo arabo. Constato che a parte che in Sudan, nei Balcani e nell’ex Unione Sovietica, queste frontiere disegnate dopo la Prima guerra mondiale non sono state modificate. Sicuramente, potranno esserci dei cambiamenti sulle frontiere del Medio Oriente, in particolare a causa delle rivendicazioni dei kurdi, a causa delle pressioni da parte di alcune minoranze, a causa delle guerre civili in Iraq e in Siria. Ma in quanto storico, penso che sia difficile modificare frontiere che esistono da cento anni.

Domanda – È chiaro che i kurdi dell’Iraq potranno realizzare uno Stato iracheno centralizzato e che i kurdi siriani hanno ottenuto un’autonomia di fatto. Il futuro del Medio Oriente non passa attraverso delle entità territoriali più autonome e ridotte, forse capaci di mettere un freno alla spirale di violenza comunitaria o religiosa a cui assistiamo, in particolare in Iraq e in Siria?

Risposta – In effetti mi sembra impossibile integrare i kurdi dell’Iraq in uno Stato unitario. La stessa cosa è per i kurdi della Siria. Allo stesso modo oggi mi sembra impossibile poter dare per scontata la fine della entità irachena o siriana. La crescente autonomia di alcuni territori è senza dubbio inevitabile, ma questa è possibile senza prevedere la cancellazione dei Paesi esistenti. Un anno fa, si pensava che il regime di Damasco fosse condannato ad una disfatta storica; oggi, quando la guerra dura da cinque anni, non è più così. La storia deve lasciare  il posto a dei cambiamenti congiunturali.

Domanda – A quali condizioni un progetto, invece, di una confederazione araba allargata sarebbe possibile?

Risposta – Quest’idea mi sembra impossibile finché i popoli arabi avranno dei governi che non rappresentano le loro aspirazioni. Anche se esiste qualche eccezione, con delle forme di rappresentatività in Libano, in Marocco o in Tunisia, la maggioranza dei regimi dei Paesi arabi sono delle dittature che calpestano la volontà dei popoli e gestiscono le risorse pubbliche per i loro fini personali, famigliari o dinastici. Un’unità maggiore del mondo arabo non può realizzarsi senza democratizzazione.

Ma occorre ricordare che questa situazione beneficia altri, fuori dal mondo arabo. Quelle famiglie regnanti che vivono sulle spalle delle loro società comprano a Parigi, a Londra o a New York banche, palazzi, istituzioni, cattedre universitarie, armi… In che condizioni si troverebbero grandi compagnie come Airbus o Boeing senza l’intervento massiccio delle compagnie del Golfo? In quale stato sarebbero le industrie delle armi americane o europee senza i conflitti in Medio Oriente?

Domanda – Tenuto conto di ciò che accade oggi in Medio Oriente, come guarda alla situazione in Palestina?

Risposta – In modo tristissimo e come un ulteriore simbolo della divisione degli arabi. L’attuale potenza di Israele fa parte del problema, ma la sua essenza sta nel fatto che il movimento nazionale palestinese si trova in un periodo di arretramento. I palestinesi e gli arabi sono in una condizione di debolezza fin dalla Prima guerra mondiale, mentre Israele, spalleggiato dagli Stati Uniti, non è stato mai così potente militarmente e politicamente fino ad annettere quasi completamente la Cisgiordania.

Tuttavia, il progetto del Grande Israele, sempre più razzista ed espansionistico, come lo vediamo sotto i nostri occhi, non è quello del 1967. Questo progetto è sempre più difficile da sostenere, sia in Europa che negli Stati Uniti. Questa svolta spiega il nervosismo verso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni). Nel Paese dove vivo e insegno, osservo che Israele continua a perdere sostenitori, tra i giovani, nelle università, nei sindacati o nelle chiese… Tutto questo non esisteva fino a venti anni fa e lo spostamento a destra intrapreso da Israele rafforza il suo isolamento.

Domanda – Perché la causa palestinese ha fatto passi indietro nel mondo arabo? È possibile immaginare che la Palestina sia integrata in un progetto di mondo arabo ri-diviso su altre basi e in altre frontiere?

Risposta – Le incessanti guerre spiegano l’arretramento della causa palestinese. Dal 1975 con il Libano, poi dopo con l’Iraq e la Siria, la guerra non è mai finita in Medio Oriente. Come potete pretendere, con tutte queste guerre civili, che la gente pensi alla Palestina? Inoltre, se i popoli arabi hanno sostenuto i palestinesi, i regimi arabi non li hanno mai davvero appoggiati e, fin dalla dichiarazione Balfour del 1917, hanno sempre fatto gli interessi delle volontà delle grandi potenze che volevano uno Stato ebraico in Palestina.

Quanto all’idea di integrare la Palestina in una nuova entità araba, mi sembra lontana. Come integrare i palestinesi nel caos siriano o nel sistema confessionale che regge il Libano? La storia, tuttavia, dimostra che tutto è possibile e che le trasformazioni possono essere rapide. Durante la Prima guerra mondiale le potenze imperiali occupavano soprattutto le coste del Medio Oriente, in Libano o in Palestina, e l’Assemblea di Damasco rappresentava un vasto territorio arabo relativamente unificato che copriva una superficie che era ben superiore alla Siria attuale. Ma gli accordi firmati da Mark Sykes e François Georges-Picot, legati all’espansione della ferrovia per lo sfruttamento delle risorse della regione, hanno sconvolto tutti gli equilibri. A dispetto del loro carattere straordinariamente duraturo, non sono stati incisi nel marmo per l’eternità.

Pubblicata dal sito Alencontre il 23 marzo 2016

Traduzione di Cinzia Nachira

 

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