NON CI SCUSIAMO PIU’ PER ESSERE ANTISIONISTI

Intervista di François Lazare

La parola a Eyal Sivan, “israeliano dissidente” e cineasta

F. L. Oggi c’è una maggioranza di israeliani che dichiarano la propria opposizione a Netanyahu, le manifestazioni di massa sono continue, tutte le settimane e in tutto lo Stato di Israele, gli israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi, ma non il cessate il fuoco, come definiresti questa situazione?

E.S. Penso che per comprendere lo stato d’animo della società israeliana dopo il 7 ottobre, occorra necessariamente tornare al 6 ottobre, il periodo precedente. Quella era una situazione nella quale l’israeliano medio viveva in buone condizioni, con l’impressione, la spensieratezza dettata da una situazione di pace in cui la questione palestinese non esisteva, perché gestita. È quanto si è potuto constatare nelle manifestazioni contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu. Si trattava di manifestazioni per la democrazia, nelle quali le questioni dell’occupazione, dei territori occupati, del blocco di Gaza, la repressione quotidiana erano assenti.

Nella concezione della democrazia degli ebrei israeliani, questo voleva dire che finché viviamo in una democrazia, cioè con i nostri privilegi, finché noi siamo in pace, va tutto bene e di conseguenza, l’altro, il vicino, il palestinese non fa parte dei nostri problemi.

All’indomani del 7 ottobre, sono stati profondamente scioccati dall’azione di Hamas e dal malfunzionamento totale, assoluto dall’apparato statale e di quello di sicurezza, ma soprattutto ha prevalso il sentimento che dal nulla sono venuti a spezzare la nostra tranquillità.

A partire da questo, c’è stato, anche nell’esercito, un sentimento di vendetta non solo per quell’attacco in sé, ma perché era stata intaccata questa normalità. Penso sia questo che bisogna tenere presente per capire.

Le manifestazioni che sono durate otto mesi nel 2023 erano incentrate su questo aspetto: proteggere la loro democrazia suprematista, ma nulla di più.

Dopo il 7 ottobre, lo stato d’animo vacilla tra due estremi: una rabbia fortissima contro il governo, che definiscono dell’abbandono, che ha abbandonato la gente del sud, come anche del nord alla frontiera libanese, gli ostaggi e la convinzione che questa guerra innominabile sia giusta.

Quelle a cui oggi assistiamo sono delle manifestazioni molto contraddittorie, perché esprimono rabbia, perfino odio, contro Netanyahu, verso la sua persona, il suo governo, che viene chiamato quello della sconfitta, della capitolazione. C’è un fondato sospetto sulla volontà di Netanyahu di voler liberare gli ostaggi, ma allo stesso tempo, non sono manifestazioni contro la guerra, i massacri, la campagna genocidaria. Qui sta il paradosso.

F. L. Ci sono nelle manifestazioni degli israeliani che difendono i palestinesi e denunciano il genocidio in corso…

E.S. Il piccolo blocco contro l’occupazione che partecipa alle manifestazioni fin da prima del 7 ottobre, è composto da militanti pacifisti, gruppi di estrema sinistra, del Partito Comunista, ossia un migliaio di oppositori, che hanno ripreso le loro manifestazioni e partecipano anche alle altre. Si può ben dire che hanno lanciato l’allarme prima del 7 ottobre e tuttavia il loro numero non è aumentato. C’è una forma di accecamento, di negazione della realtà nella società israeliana che pensa di poter dar fuoco a Netanyahu, liberare gli ostaggi, ma non parla della catastrofe che si abbatte su Gaza e di cui ogni cittadino israeliano è direttamente responsabile.

F. L. Si sente dire che Israele, sta facendo la guerra più lunga della sua storia, ed è per la prima volta sul punto di perdere una guerra…

E.S. È come se i paranoici cercassero di giustificarsi con la realtà. Lo stato d’animo israeliano permanente, ossia tutti ci odiano. Cosa che ben inteso non è vera. C’è il sostegno degli Stati Uniti, come di alcuni Paesi arabi, anche di Paesi del Sud, ad esempio l’India. Certo, la situazione attuale dà loro ragione.

È una catastrofe perché questo rafforza la visione di vittime che attraversa la società ebraico-israeliana. Questi si rafforzano nella convinzione che sono odiati, odiano e allo stesso tempo dicono “ce ne freghiamo”. Negli anni sessanta, c’era una canzone che diceva: “il mondo intero è contro di noi, e noi, noi ce ne fottiamo”.

La dinamica interna israeliana e sionista, si sintetizza in questo atteggiamento: continuiamo finché non verremo fermati. È un movimento coloniale che si percepisce come un movimento di emancipazione.

Inaspettatamente, il Consiglio di sicurezza (dell’ONU, N. d. T.) vota il cessate il fuoco, ce ne freghiamo, anche perché continuano a inviare le armi, quindi ce ne freghiamo…

Finché non ci sarà un atto sufficientemente forte per fermarli, continueranno. Ma se la situazione diventasse pesante e penosa per i cittadini israeliani, si otterrebbero dei risultati, questo è il senso delle sanzioni, per esempio del boicottaggio. Quando l’israeliano medio vedrà che diventa complicato viaggiare all’estero, quando si sentirà escluso dai convegni internazionali, che non potrà partecipare alla coppa d’Europa dello sport X…Non sono le parole che toccano gli israeliani, ma gli atti.

(…)

F. L. C’è un altro aspetto che influenza la società israeliana: l’evoluzione dell’opinione pubblica americana, tra cui il 55% degli elettori del Partito democratico dichiarano che bisogna condannare le azioni di Israele a Gaza. Oltre agli elettori americani, c’è il peso delle comunità ebraiche americane, di cui una parte significativa rifiuta di essere assimilata allo Stato israeliano e lo afferma forte e chiaro. La situazione interna ad Israele sarà condizionata anche dall’esterno…

E.S. Penso che stiamo assistendo alla fine del partito democratico per come lo abbiamo conosciuto. I giovani democratici e i giovani ebrei americani sono cambiati. I giovani ebrei americani non seguono più i loro genitori nel sostegno incondizionato ad Israele o nella visione di questo come fosse una compagnia d’assicurazione. Essi vedono Israele come il centro delle contraddizioni: non si può essere democratici, liberali, sostenitori dei diritti umani e appoggiare uno Stato simile. Questo è un punto di rottura terribile per gli israeliani.

Per questo senza dubbio gli israeliani sostengono meno i democratici americani, che erano una base per i centristi israeliani come alcuni repubblicani, ripiegando sugli evangelisti americani e gli estremisti di destra europei, americani, ma anche in alcuni Paesi del Sud come l’India, l’Argentina, che sono diventati i loro migliori sostenitori.

All’interno di quella che viene chiamata la diaspora ebraica c’è una divisione, che riporta al dibattito che c’era prima della nascita dello Stato di Israele tra sionisti e antisionisti. Sottolineo, prima della creazione dello Stato perché è possibile che ci ritroveremo di fronte ad una ricostituzione. Penso che la questione dei due Stati sia chiusa, in realtà da molto tempo si pone sempre più la questione della riformulazione della questione israeliana, più che quella palestinese, all’interno della prima possiamo prevedere che la voce ebraica antisionista spingerà verso la comprensione generale che l’idea di uno Stato ebraico è impossibile, sia per gli ebrei israeliani che per gli ebrei che vivono fuori da Israele.

F. L. Per molti ebrei che si esprimono a questo riguardo, si tratta anche di una dittatura intellettuale insopportabile. Essere assimilati a uno Stato che si rifiuta, ma che pretende di agire in nostro nome…

E.S. Per questo motivo definisco questa forma nazional-ebraica come “giudaista”. Queste persone che non vogliono essere chiamate sioniste, direi che rifiutano di essere definite “giudaiste”, ossia non vogliono che il loro ebraismo venga ridotto al nazionalismo e alla strumentalizzazione politica che conosciamo. Da questo deriva l’importanza della conferenza ebraica internazionale.

Questo evento, è un po’ come l’uscita dal tunnel. Non siamo più sulla difensiva, non ci scusiamo più per essere antisionisti, non sopportiamo le accuse che ci rivolgono di avere “l’odio di sé”. Si tratta della prima pietra miliare per rendere pubblica la voce ebraica antinazionalista. Le conferenze precedenti, sono state fatte insieme ad organizzazioni della sinistra francese, a dei movimenti anticoloniali, ora siamo passati dalla difensiva all’offensiva.

Tratto da: www.infos-ouvrieres.fr

   

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