TRA FUMO, CATTIVERIA E STUPIDITA’

Intervista a Joseph Halevi 

RP. Da quando tu hai lasciato l’Italia, nel 1975, non l’hai comunque abbandonata e trascorri lunghi periodi nel nostro Paese. In questi anni l’Italia ha subito molti cambiamenti, tu come li hai vissuti, cosa ne pensi?

JH. A questa domanda devo rispondere in una maniera un po’ sfumata, perché una cosa è la percezione dei cambiamenti, altra cosa è la realtà. 

Nel 1983 mi trovavo a Roma per un insegnamento a contratto organizzato da Paolo Sylos Labini e una giornalista forse della Repubblica lo intervistò. Dato che condividevamo la stanza, per me una grande pacchia, mi invitò a restare durante quell’intervista. La giornalista disse che l’Italia era un Paese molto attivo, politicamente sensibile e Paolo Sylos Labini rispose: è un’illusione ottica, aggiungendo che in Italia c’era molto PNF, che non significa partito nazionale fascista, ma “per necessità familiari”, disse: la politica è molto PNF. Penso che avesse molta ragione, pur avendo io un’impressione diversa dell’Italia.

Io avevo una visione dell’Italia, come di un Paese che fosse sull’orlo di grandi cambiamenti anche se era un disastro. Qui alcuni non saranno d’accordo con me, ma non sopportavo più la conflittualità costante e l’aleatorietà. Avrei preferito un Paese “più tedesco”, con organizzazioni operaie e sindacali più strutturate.

Per esempio, se i magistrati scendevano in sciopero, che era chiaramente corporativo, contemporaneamente ti dicevano che volevano le riforme. Lo stesso avveniva con i piloti dell’Alitalia – che Sylos Labini chiamava ciurma. Quindi la percezione che io avevo allora era molto diversa, ossia di un Paese sulla via di un notevole progresso politico. Ma su questo mi sbagliavo. 

Riguardo al “ritorno”, devo dire che io ho fatto vari ritorni. Uno di questi fu per sei mesi nel 1983, quando era da poco a Roma era finita la giunta Petroselli, seguita da quella di Ugo Vetere e già si vedeva lo sfaldamento. Come si vedeva la mancata modernizzazione, su cui io potevo paragonare le mie esperienze in America e in Australia. Ero molto colpito dall’inagibilità delle biblioteche italiane. Non mi dava fastidio l’arcaicità, ma l’inagibilità.

Poi tra il 1990 ed il 2004 ci sono stati dei ritorni annuali assai intensi per lavorare come collaboratore al manifesto ove mi piaceva enormemente contribuire alla fabbricazione quotidiana del giornale. In quel contesto ho potuto diventare amico di persone validissime come Valentino Parlato e Angela Pascucci, purtroppo ambedue scomparsi di recente.

L’ultimo mio “ritorno” è iniziato nel 2005-2006, in cui la trasformazione dell’Italia appare come il passaggio dal giorno alla notte pesta che offusca il ricordo di Sant’Anna di Stazzema. Questo ben prima di arrivare ad oggi. 

RP. Facciamo un salto temporale all’oggi. È ormai opinione comune che l’Italia è entrata in recessione economica “tecnica”. A questo proposito ti chiedo due cose: cosa significa concretamente quest’aggettivo “tecnico”. La seconda parte della domanda è legata all’affermazione del capo del Governo, Giuseppe Conte, di qualche giorno fa, che malgrado tutto il 2019 sarà un anno bellissimo, malgrado si aspettasse i dati negativi, che però imputa alla situazione internazionale. Come spieghi questa contraddizione?

JH.  La “recessione tecnica” è una definizione che viene da organismi tipo l’OCSE, ossia dagli Stati Uniti, che hanno stabilito dei criteri di valutazione formale. In concreto, la recessione tecnica è quando il cosiddetto PIL è in calo per due trimestri di seguito. Comunque questa cosa lascia il tempo che trova. In alcuni Paesi scattavano dei meccanismi automatici che si chiamavano di stabilizzazione. Però quello che dice Conte è fumo negli occhi, per vari motivi.

Primo: le statistiche del trimestre prossimo sono in parte determinate da quelle di quelli precedenti, è quello che si chiama il tendenziale.

Ma secondo me la cosa più importante è che rimane una manovra del 2,04%, ossia del 2% di deficit. Ossia, un avanzo primario di circa l’1,7, questo significa togliere soldi alla gente, non darli. L’economia va in deficit per via del pagamento degli interessi, quindi per un fatto non produttivo e non perché aumenta la spesa: si comprano più calzini per l’equivalente del 2%. Al contrario, si compra meno perché bisogna togliere l’equivalente dell’avanzo primario, che poi è il pagamento degli interessi dei buoni del tesoro che ora sono in mano a istituzioni e non più alle famiglie, quindi quel 2% verrà incamerato dalle istituzioni bancarie. 

Quindi, non c’è un effetto moltiplicativo, ma pensano che con il reddito di cittadinanza che andrà a gente povera e spenderà tutto, spostando la composizione del reddito e della spesa pubblica, genereranno il boom economico. Ma secondo me è tutto sbagliato.

RP. Ma secondo te è fondato quello che dice il governo, ossia che il reddito di cittadinanza crea lavoro?

JH. Non è completamente sbagliato. Perché il ragionamento è: dai settecento euro a persone che li spendono tutti e quindi si crea lavoro per chi produce i beni e per chi li vende. In questo senso, si crea lavoro, ma il resto è lavoro coatto.

In realtà, il reddito di cittadinanza è una forma di sussidio alla disoccupazione. Cioè se ti chiedono in cambio di pulire le aiuole quello non è lavoro generato dall’economia, ma un’attività obbligatoria per ottenere quel reddito.

RP. La questione dei rifugiati e degli immigrati in generale viene affrontata in termini di “sicurezza” e ordine pubblico, con l’argomento che non c’è coordinamento a livello europeo e quindi ognuno per sé. Cosa ne pensi?

JH. Fino a poco tempo fa pensavo, in gran parte credo sia ancora vero, che l’atteggiamento dei vari Paesi europei riguardo all’immigrazione, nei confronti l’uno dell’altro, è una perfetta cartina di tornasole di ciò che è l’Europa. Molto di più di quanto lo sia Moscovici che alza il ditino verso l’Italia, mentre chiude un occhio nei confronti della Francia. È uno scaricabarile generale.

RP. In Europa si è diffuso il fenomeno preoccupante di settori anche importanti di sinistra che si sono spostati su posizioni xenofobe e addirittura apertamente razziste. In Italia una parte dell’estrema sinistra ha dato, e continua a dare, credito a questo governo che è dichiaratamente di estrema destra giustificandolo con le misure economiche e le critiche all’Unione Europea; pur sostenendo di non voler abbandonare l’Euro. Cosa ne pensi?

JH. Ovviamente ne penso malissimo. Penso derivi dall’infatuazione per il termine neoliberismo che non significa niente ed obnubila la mente. Per vent’anni hanno campato su questo termine, senza fare analisi sul Capitale, senza fare l’analisi dei rapporti di classe molteplici, non unici, che ci sono all’interno dello stesso Capitale. Quindi, avendo individuato nel neoliberismo il male assoluto, che per loro significa semplicemente il fatto che c’è meno intervento statale, che poi non è vero. Ma tutto questo è vissuto da loro come un complotto dei finanzieri ed ovviamente in questi termini si ritrovano a braccetto con l’estrema destra. Negli anni trenta i primi discorsi dell’estrema destra erano contro il capitale finanziario e poi ci metteva dentro gli ebrei, ecc. 

Ma questi gruppi di sinistra sono delle piccole nomenclature in disfacimento che devono aggrapparsi a qualcosa di reale per cercare un impatto immediato. Ma l’analisi è più complicata. La situazione di crisi ha spostato milioni di persone dei ceti operai a destra, cosa che in queste dimensioni non era avvenuta neanche negli anni ’30, quindi questi gruppi oggi sposano quelle teorie per la loro volontà di riprodursi.  Sono poveri di idee e non hanno voluto, forse neanche potevano, riflettere, perché sono organismi minuscoli  e quindi non possono prendersi l’incarico di un bilancio di quello che è stato il movimento comunista nel mondo e di come è andato a finire. In definitiva il movimento comunista è quello che abbiamo conosciuto, che è nato ed è morto, il resto sono belle speranze, se non anche speranze sbagliate e che non si sono tradotte in movimenti politici. Il nodo è tutto lì: nell’evoluzione e morte del movimento comunista.

RP. Secondo te, è legata a quest’ultimo elemento che hai sottolineato la polarizzazione del dibattito sul Venezuela?

JH. Sì, questi gruppetti hanno preso solo le parti più tossiche del movimento comunista ufficiale, ossia di quei movimenti comunisti che sono andati al potere: Unione Sovietica, Cina e anche Cuba – anche se il regime cubano è stato il meno peggio, non ha avuto grandi risultati, ma almeno non ha massacrato la sua popolazione. In Italia questo avviene in una maniera cattiva perché sono dei politicanti, invece in America avviene in maniera stupida perché non hanno strumenti politici per quanto minimi. Dietro la Monthly Review, che prende posizione per Assad – anche se in modo meno accentuato –, c’è la tradizione di opporsi ai vari interventi dei governi americani. Quindi, si schierano anche contro i numerosi interventi in America Latina e a favore delle lotte che ci sono state in Nicaragua, Salvador, Guatemala, ecc… 

RP. Però la situazione attuale è ben diversa da quella degli anni ’60, ’70 o ’80 e oggi dovrebbe essere legittimo sottolineare gli errori dei movimenti o dei partiti che hanno preso il potere dopo quelle lotte senza essere additati come “imperialisti” o favorevoli ad un eventuale intervento statunitense in Venezuela…

JH. Certo, ma siccome gli Stati Uniti non sono diventati migliori, la reazione immediata è inerziale. Poi quello che succede è che in America non riescono ad aggrapparsi alla Cina. Perché questa rappresenta un grosso problema per la sinistra americana perché i capitalisti statunitensi quando possono se ne vanno in Cina, per cui chi è di sinistra in quel Paese ha in testa la situazione occupazionale e i lavoratori, il precariato, ecc. Per cui si aggrappano a Putin e questo dimostra, sul lungo periodo, l’incapacità di fare analisi autonome…come oggi fanno solo alcuni (per esempio Gilbert Achcar o a suo tempo faceva Maxime Rodinson). Questa incapacità di analisi è emersa chiaramente anche per riviste che hanno una grande tradizione come la Monthly Review  che ha avuto come direttori Paul Sweezy e Paul Baran e dove scrisse anche Albert Einstein. Vista questa situazione io dei marxisti ufficiali non mi fido.

RP. Questa assenza di capacità di analisi che tu giustamente sottolinei dà quasi l’impressione di un vuoto incolmabile…

JH. Sì, secondo me è incolmabile perché questo tipo di mondo è ridotto a delle sette, piccole cerchie che si parlano addosso tra loro.

Se per esempio prendiamo la questione israelo-palestinese, gran parte di quelli che ora stanno sviluppando il discorso di uno Stato unico, sono contro Assad, tipo Ilan Pappe e altri, mentre gli organismi ufficiali sia del Partito Comunista d’Israele come anche l’OLP a livello internazionale si ritrovano  con tutti quelli che sono invece a favore di Assad. Questo è ciò che accade e coinvolge persone  ineccepibili come per esempio Noam Chomsky.

Io ho cercato di fare un passo avanti, anche per tentare di capire me stesso e la mia storia e per riflettere. Probabilmente ho sbagliato, ma ciò non toglie che questo tipo di riflessione manchi. E per poter riflettere in quel modo bisogna essere in tanti o almeno in numero sufficientemente ampio da far risaltare le diverse sfaccettature. Mentre niente, non ce n’è. 

Se prendiamo per esempio uno come Aldo Tortorella, che va bene che oggi ha novantatré anni, ma anni fa quando era ben più giovane lui qualche riflessione critica sul passato poteva farla visto che veniva dall’ufficio politico del PCI, invece di farsi una rivista di cui è il dirigente e unico militante cui scrive come se desse “la linea alle masse”…Nessuno ha riflettuto. Quelli che sono venuti dopo, con il PDS, hanno di fatto abiurato, riuscendo solo a salvare con successo la propria carriera politica come nomenclatura. 

Anche in Francia è accaduta la stessa cosa…sono andati in pensione nelle case di campagna…e buona notte ai suonatori! Nessuna riflessione complessiva. E pensare che alcuni mesi fa è finita l’opera di Edward H. Carr. l’istituto di Birmingham che ha preso in carico l’eredità  dei suoi studi, che ha anche avuto un direttore italiano, Mario Nuti, ne ha proseguito il lavoro in vari ambiti. L’ultimo volume che chiude l’opera è stato pubblicato alla fine dell’estate scorsa. Queste persone hanno continuato in maniera indefessa, mentre tutto si sfaldava. Penso che siano necessari gruppi di lavoro di questo tipo, mentre non esiste.

Intervista a cura di Cinzia Nachira

febbraio 2019

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