GIULIO E IL MARCHIO DEI SERVIZI SEGRETI

di Ugo Tramballi

Giulio Regeni e il marchio dei servizi segreti egiziani

Un anno fa, il 25 gennaio, Giulio Regeni scompariva davanti alla stazione della metropolitana di Dokky, un quartiere nel centro del Cairo. Sarebbe stato trovato nove giorni più tardi sul ciglio dell’autostrada del deserto che va ad Alessandria. Denudato, torturato e ucciso. Il governo italiano aveva ripetutamente chiesto di conoscere la verità, il governo egiziano non ha offerto che bugie e depistaggi.
C’è qualcosa di malato nel sistema egiziano se in occasione del primo anniversario – quasi fosse una ricorrenza da celebrare in qualche modo – una tv locale ha deciso di mostrare il video che Mohammed Abdullah, il capo di un sindacato di venditori ambulanti, aveva fatto di nascosto. In realtà sono stati trasmessi quattro dei 45 minuti ripresi e quel video gli inquirenti italiani lo avevano già agli atti. Mai però lo aveva visto il pubblico egiziano.
Ciò che si vede e soprattutto si sente, dovrebbe essere la prova regina per gli investigatori egiziani che in un anno di cosi dette indagini avevano accusato Giulio di tutto. La prova cioè che il ricercatore italiano non era una spia al servizio di Sua Maestà la regina (al Cairo Giulio lavorava per l’università di Cambridge). Abdullah aveva chiaramente tentato di tendere un’imboscata al giovane italiano. La microtelecamera potevano avergliela data solo le autorità: nessun altro possiede strumenti di questo genere e chi li avesse, sarebbe subito arrestato. Nel filmato il capo del sindacato cerca ripetutamente e inutilmente di convincere Giulio a farsi dare del denaro.
Il video sarebbe la prova schiacciante dell’innocenza del ricercatore italiano se la polizia del Cairo facesse il suo mestiere in modo trasparente. Ma non c’è nulla oggi in Egitto che non sia opaco e ambiguo. Nei 45 minuti di conversazione in arabo Abdullah che faceva il doppio gioco per “dovere nazionale”, mette al fuoco tutta la carne possibile: costringe Giulio a parlare di denaro, di finanziamento alla sua organizzazione sindacale, di denaro per organizzare manifestazioni per il 25 gennaio, la ricorrenza della rivoluzione di piazza Tahrir. Giulio risponde, spiega di non potere, di essere un ricercatore, chiarisce che l’organizzazione che lo ha mandato al Cairo – l’università – finanzia programmi e lo fa solo in maniera trasparente.
Ma denaro, sindacato, organizzazione straniera, 25 gennaio, manifestazioni, nell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi sono parole vietate, pericolose per un popolo spinto dal suo regime a diffidare degli stranieri, a vedere minacce ovunque. Non unico in Medio Oriente né in altre parti del mondo, ormai, il governo egiziano ha trasformato la minaccia terroristica – che esiste, è evidente – in un’opportunità per perseguitare tutti gli oppositori, per tenere sotto controllo un paese di quasi 100 milioni di abitanti. In questo clima il frastagliato mondo della sicurezza, il mukhabarat, in un caso come quello di Giulio non cerca di stabilire la realtà dei fatti ma vuole il nemico, insegue e trova comunque la prova della minaccia alla nazione per continuare a vendere la sua narrativa e controllare ogni cosa.
Giulio Regeni è finito nello stesso tritacarne che ha fatto sparire, morire o imprigionare migliaia di giovani egiziani. C’è tuttavia una domanda che non ha spiegazione: se erano sicuri che Giulio fosse una spia inglese, perché non lo hanno espulso come in passato facevano con gli agenti di paesi non ostili come la Gran Bretagna o l’Italia? “Perché una volta governava un uomo, Mubarak, e Omar Suleiman era il suo indiscusso capo del Mukhabarat”, spiega un ex funzionario dei nostri servizi. “L’Egitto di oggi è nel caos e hanno tutti paura”.
Vedendo il filmato di Giulio, anche solo quello di quattro minuti, molti di noi hanno sentito la sua voce per la prima volta. Ed è stato come scoprire qualcosa di più, di teneramente reale come un figlio. Fino ad ora ne avevamo solo un’immagine fissa e muta, con il volto sorridente e i capelli dritti. Dietro l’icona che avevamo creato in questo anno di inutili speranze riguardo alla verità, c’era tanto di più: un figlio come i nostri, con la stessa voce da giovane uomo, la barba che ora portano tutti, la curiosità e quella passione che le persone più adulte perdono in fretta.

Il Sole 24 Ore, 25/1/2017

Potrebbe piacerti anche Altri di autore