MARXISMO ED ECOLOGIA: DOCUMENTO CONGRESSUALE LCR

di Tiziano Bagarolo e altri

MARXISMO ED ECOLOGIA (1989)

Pubblico qui integralmente Marxismo ed ecologia, il libro del 1989 (per la cui elaborazione sono debitore anche ai contributi di Roberto Firenze, Fernando Visentin e Luigi Viglino), allora pubblicato per i tipi delle Nuove Edizioni Internazionali, Milano. Data la mole, lo scritto è suddiviso in numerosi post, comunque coerenti con le divisioni interne della materia. Il testo, salvo correzioni di errori materiali, è quello rielaborato per “l’edizione digitale” del 1996, che d’altra parte non è altro che l’edizione originale con le note inserite nel corpo del testo (e non come indicazioni bibliografiche in appendice, come era nell’edizione cartacea del 1989). Il testo è liberamente disponibile e riproducibile per fini di studio personale.  

Epigrafi:

“Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.”

Karl Marx, Il capitale.

“A ogni passo ci viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato.”

Friedrich Engels, La dialettica della natura.

PREFAZIONE

Questo libro propone al lettore il testo della commissione ambiente della Lcr, Marxismo rivoluzionario e questione ambientale. Un contributo per aprire il dibattito, che è servito da base per la discussione dei problemi ecologici nel congresso nazionale della Lega comunista rivoluzionaria (Bellaria, 8-12 febbraio 1989). Congresso che ha approvato a larghissima maggioranza – lo ricordiamo qui per inciso – la proposta di confluenza della sezione italiana della Quarta Internazionale in Democrazia proletaria. Completano il volume questa prefazione e una bibliografia ragionata che vuol essere uno strumento di lavoro utile per ulteriori approfondimenti. L’occasione della sua origine spiega alcune caratteristiche, esteriori e di contenuto, inusuali o criticabili in un libro di altra natura, ma che in questo hanno una giustificazione. Ad esempio qualche pesantezza di esposizione tipica del genere “documenti congressuali” (di cui questo testo è un esemplare sui generis), qualche ripetizione di troppo e una certa disomogeneità di stile tra le diverse parti; caratteri che riflettono il fatto che questo lavoro è nato dalla rielaborazione, necessariamente affrettata, di cinque contributi preparatori di quattro autori diversi. Per quel che riguarda i contenuti, la trattazione di qualche punto può apparire eccessivamente sommaria o può talvolta infastidire il rinvio ad altre elaborazioni della Lcr e della Quarta Internazionale date pacificamente per conosciute dal lettore. Pensiamo che rimedino parzialmente a questi inconvenienti le note e le segnalazioni bibliografiche delle appendici.

Un approccio marxista. Dopo i difetti, i pregi. Un primo merito di questo lavoro è quello di essere un tentativo organico di riflessione sistematica e complessiva sulla crisi ecologica da un punto di vista marxista. Si potranno condividere o meno, in tutto o in parte, l’approccio generale o i singoli punti d’arrivo. Non si potrà negare, ci pare, la serietà del proposito e una certa fecondità del tentativo, sia nel fare i conti con la tradizione marxista sia nel confrontarsi con le sfide che a questa tradizione pongono oggi i drammatici problemi dell’ambiente. Si tratta certamente di una riflessione che resta in buona misura ancora preliminare. Che stabilisce dei punti di partenza più che punti di arrivo definitivi. Che propone un metodo e un approccio politico, più che un quadro analitico, politico e programmatico compiuto. Alcune proposte più articolate, emerse nel dibattito congressuale, saranno tuttavia proposte qui, nel prosieguo di questa introduzione. Entro questi limiti, un secondo merito di questa riflessione è quello di riproporre l’attualità e la fecondità del punto di vista originario di Marx e di Engels sul rapporto uomo-natura e società-ambiente. Questo versante del pensiero marxengelsiano infatti – che abbiamo chiamato “il filo verde” del marxismo – è stato a lungo ignorato o sottovalutato da una consolidata tradizione di stampo storicistico o positivistico (1). Due sono pertanto, quasi naturalmente, gli interlocutori polemici di questa riflessione. Da un lato, un certo marxismo legato a vecchie chiavi di lettura economicistiche, tipiche della tradizione socialdemocratica prima e staliniana poi, il quale ha disconosciuto a lungo l’importanza obiettiva della questione ambientale e la radicalità potenziale della critica ecologica. Dall’altro un certo ambientalismo — oggi maggioritario anche nel nostro paese — che dà tranquillamente per liquidato e inutilizzabile tutto il marxismo, senza averci fatto seriamente i conti, spesso senza neppure conoscerlo minimamente, e che anche per questo si trova oggi a ripercorrere in forme nuove vecchie strade riformiste scambiandole per nuova concretezza. Ci potrebbe esser chiesto se, riproponendo un approccio marxista, non siamo mossi da attaccamento a vecchie ortodossie o ad astratte continuità. Rispondiamo che preoccupazioni del primo genere (ortodossia) non hanno mai avuto molto spazio nella parte migliore del movimento trotskista. Quanto a quelle di non interrompere la continuità, la memoria storica, della tradizione rivoluzionaria del movimento operaio internazionale, non dobbiamo certo pentircene oggi che la storia ci dà ragione. Riproponiamo il marxismo perché semplicemente, ci sembra ancora straordinariamente attuale, vivo, utile. Non siamo disposti a rinunciare alle nostre idee per seguire la moda del momento, per cercare una sorta di linea di minor resistenza nella congiuntura politica avversa. Avendo un’idea del marxismo come metodo e sistema scientifico di pensiero, perciò aperto alle verifiche e al confronto, non temiamo le contaminazioni della teoria e dei linguaggi (contaminazioni che più volte si sono rivelate feconde nella storia del marxismo vivente, a cominciare dalle sue stesse elaborazioni originarie). Siamo però consapevoli che molte asserite “crisi del marxismo” e tanti pretesi “superamenti” di cui ci informa la storia lontana e recente, altro non sono stati che abbandoni delle posizioni classiste, rinunce a progettare e a costruire una società alternativa all’esistente, liquidazioni aprioristiche che nulla avevano a che vedere con vere o presunte lacune del paradigma marxista. Restiamo dell’opinione che “l’utilizzo o meno del marxismo non è una questione culturale o accademica, ma fa parte della lotta di classe stessa; l’abbandono del marxismo è già una scelta molto precisa, l’abbandono di una concezione classista della società: è la prima battaglia persa dal movimento o da un partito dei lavoratori ed è la prima battaglia vinta dalle classi dominanti” (2). L’opera, pur indispensabile, di ripensamento e rinnovamento del marxismo, come noi la concepiamo, non ha nulla a che vedere con il liquidazionismo. Naturalmente non ci sfugge l’ambiguità di cui la storia ha caricato il termine “marxismo” e gli equivoci che ne circondano l’uso nel linguaggio corrente e sui mass media. E tanto meno sottovalutiamo il fatto che gli argomenti più forti a favore della tesi della “crisi del marxismo” hanno la corposità materiale, storica, della crisi del cosiddetto “socialismo reale” e del fallimento del movimento operaio tradizionale in Occidente. Al pari forse della catastrofe ecologica, la crisi del modello staliniano e quella della sinistra in Occidente obbligano i marxisti a fare i conti con le rispettive tradizioni, a confrontarle, a ripensare i termini complessivi dell’alternativa rivoluzionaria possibile. Ma proprio dalle impietose verifiche della storia emerge, a nostro modo di vedere, un dato significativo: la crisi presente non coinvolge affatto, semmai convalida, almeno nelle linee generali, le diagnosi e le proposte avanzate dal marxismo rivoluzionario nel corso della sua storia. Tre sono i momenti centrali di questo lavoro e del dibattito che da esso ha preso le mosse: l’individuazione degli strumenti concettuali con cui affrontare i problemi odierni, la definizione di una proposta di politica ambientale (riassumibile nella formula dell’ambientalismo anticapitalistico); la discussione di alcune proposte programmatiche di più immediata attualità. Dedichiamo il seguito di questa nostra nota introduttiva ad illustrare sinteticamente questi tre momenti.

Uomo natura società. Il lettore è ovviamente invitato a leggersi per esteso il testo proposto (su questo punto i primi tre capitoli in particolare). Qui segnaliamo per titoli i temi principali dell’elaborazione marx-engelsiana di maggior pertinenza riguardo ai temi ecologici. 1. Il marxismo non afferma il primato dell’economia o della tecnica come gli viene spesso imputato (3). Esso muove piuttosto dalla considerazione che l’uomo è parte della natura, è un ente naturale che vive mediante il “ricambio organico” con essa (4). Rispetto alla natura l’uomo è ad un tempo ente “passivo”, cioè soggetto alle sue leggi, ed ente “attivo”, in quanto in grado di operare su di essa, di modificarla col lavoro, di trasformarla secondo finalità che sono proprie dell’uomo stesso. 2. Il rapporto fra l’uomo e la natura è un rapporto storico mediato socialmente. L’uomo è, infatti, un animale sociale che vive, produce e si riproduce entro una società determinata. Tuttavia la storia non è il mero risultato della lotta delle classi, come spesso i marxisti hanno argomentato parafrasando frettolosamente il Manifesto del partito comunista. La storia del rapporto ecologico fra la specie e la natura e la storia sociale e politica dei conflitti dentro alla specie s’intrecciano strettamente in unità dialettica da comprendere come tale e non da semplificare appiattendo l’una sull’altra. 3. L’attenzione al nesso economia-ambiente è, in effetti, centrale nelle opere economiche di Marx. Non solo vi è la critica del feticismo delle categorie mercantili di cui resta prigioniera l’economia volgare, ma vi è proprio l’esame esplicito della sorte della natura (in quanto oggetto e mezzo di lavoro, e in quanto condizione vitale originaria dell’uomo) nelle nuove condizioni create dall’industrialismo capitalistico e dall’affermazione dei nuovi rapporti di produzione. Nel Capitale, in effetti, troviamo delle vere e proprie pagine di ecologia politica dello sviluppo capitalistico, in particolare per ciò che riguarda i processi di urbanizzazione, l’applicazione delle tecniche moderne in agricoltura, le conseguenze del mercato e dei rapporti borghesi di proprietà sullo sfruttamento delle risorse naturali, sulla fertilità della terra, sulla distruzione delle foreste, ecc. 4. In Marx ed Engels vi è costante una critica attualissima all’ideologia borghese del progresso, dello sviluppo economico fine a se stesso, dell’esaltazione positivistica della scienza e della tecnica. Il concetto di sviluppo delle forze produttive non ha una connotazione meramente quantitativa, ma semmai principalmente qualitativa: l’uomo è ad un tempo la principale forza produttiva e il fine dello sviluppo. Non il valore di scambio, ma i valori d’uso, il tempo disponibile per le attività creative, le facoltà degli individui e la ricchezza delle loro relazioni sociali liberate dallo sfruttamento e dall’alienazione: questa è la vera ricchezza, il fine del comunismo, in quanto superiore stadio della civiltà umana. 5. Nelle condizioni del capitalismo lo stesso sviluppo tecnico-scientifico si converte costantemente in uno sviluppo di forze distruttive che degradano le fonti stesse della ricchezza, l’uomo e la natura. Troviamo in Marx addirittura una chiara anticipazione del concetto di “sviluppo sostenibile” (5). E l’equità e la solidarietà tra i popoli e le generazioni, fondate materialisticamente sulla reciproca interdipendenza — che sono principi impliciti nell’idea di sviluppo sostenibile, negati tuttavia dall’accumulazione capitalistica — sono per Marx caratteri costitutivi del comunismo (6). 6. Il rapporto unità-lotta fra l’umanità e la natura che segna tutta la storia, assume una netta intonazione ecologica nell’ultimo Engels, quello della Dialettica della natura (probabilmente sotto l’influenza delle opere di Ernst Haeckel, pubblicate in quegli anni). L’interdipendenza di tutti i processi della biosfera e l’interferenza nei cicli naturali delle azioni umane, specie di quelle rivolte alla ricerca miope del profitto immediato e privato, sono colte da Engels con acuta preveggenza e con accenti di grande suggestione (7).

Marxismo e ambientalismo. Sarebbe ovviamente illusorio pensare che il recupero dell’originaria riflessione marx-engelsiana basti a metterci in condizione di fare adeguatamente i conti con lo spessore dei problemi attuali. Nessuno può prescindere dai risultati scientifici dell’ultimo secolo. Nessuno può trascurare la critica ecologica e i nuovi approcci proposti nell’ultimo quarto di secolo dai movimenti ambientalisti. In ultima analisi, è dai fatti stessi che non si può prescindere. E questi ultimi indicano senza possibilità di dubbio che i processi di degrado dell’ecosfera hanno compiuto negli ultimi decenni un salto di qualità e sono oggi tali da costituire una concreta minaccia di estinzione della civiltà umana sul pianeta nell’arco di poche generazioni. Dobbiamo tutti questa acuta consapevolezza al pensiero ecologico degli ultimi decenni. Anche il marxismo, nel suo sforzo di rinnovamento a fronte dei dati nuovi, non può non fare i conti con esso. In questo libro, i debiti verso il pensiero ambientalista sono riconosciuti apertamente, così come apertamente sono dichiarati i dissensi. Parlando in generale, giudichiamo che l’ecologia scientifica ci dia oggi gli strumenti per una critica potenzialmente radicale degli assetti sociali esistenti (a Ovest come a Est, a Nord come a Sud), in quanto ne mette in luce l’insostenibilità da un punto di vista nuovo, ma complementare e non contraddittorio, rispetto al marxismo (e questo è vero al di là del fatto che questa potenzialità si sia espressa finora soltanto parzialmente nei movimenti ecologisti e verdi che abbiamo conosciuto). Pertanto, l’incontro tra marxismo e ambientalismo radicale ci appare utile e in un certo senso, naturale, obbligato. Esso è indispensabile per integrare nel pensiero e nella pratica dell’alternativa rivoluzionaria la dimensione della crisi ecologica e la sensibilità dei nuovi bisogni emergenti (8). Alcuni dei temi nuovi, sollevati dalla crisi ecologica, che la cultura marxista deve saper rielaborare e integrare oggi nel proprio patrimonio, ci sembrano i seguenti. 1. In primo luogo quello della portata epocale della crisi attuale. Si tratta di una fase della storia umana complessivamente nuova, inedita, sicuramente non presagita dai classici del marxismo, i quali erano profondamente ottimisti sulle sorti future dell’umanità (9). E non tanto perché negassero l’esistenza di limiti naturali al progresso materiale (10), piuttosto perché essi non avevano immaginato una così prolungata sopravvivenza del capitalismo o la profonda degenerazione dei primi tentativi di costruire una nuova società. L’umanità è oggi veramente ad un bivio storico in cui è in gioco l’alternativa tra una nuova civiltà o una nuova barbarie. Una riorganizzazione generale dei modi di produrre, consumare, vivere in società, gestire le relazioni tra i popoli, è oggi una necessità per la stessa sopravvivenza. E, d’altra parte, segnare da subito dei punti in questa lotta per la sopravvivenza è una condizione per tenere aperta la porta ad una superiore forma di civiltà. L’esito di questo dilemma non è già determinato. Esso può essere soltanto il risultato della lotta dentro alla comunità umana, alla specie; cioè di un processo lungo e complesso, soprattutto consapevolmente voluto e governato. In altre parole c’è un fattore tempo con cui fare i conti, ma esso dipende anche dall’efficacia della nostra azione soggettiva. 2. Questo passaggio epocale, tuttavia, non va letto sotto il punto di vista, riduttivo ma anche poco utile politicamente, della catastrofe futura, incombente. Il dato da comprendere per agire efficacemente, è che la catastrofe è già qui, immanente, nella vita quotidiana di molta parte dell’umanità, nei meccanismi sociali e culturali che determinano i disastri di oggi e le minacce sul domani, l’opulenza e lo spreco dei pochi e lo sfruttamento e l’oppressione delle maggioranze. Secondo il fulminante aforisma di Walter Benjamin, “la catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato”. 3. La consapevolezza dei limiti insuperabili contro cui urta l’attuale modello planetario di sviluppo-sottosviluppo, in un pianeta fisicamente e biologicamente limitato, mette risolutamente al centro della nostra attenzione i problemi di quantità e qualità dello sviluppo, della strategia per la transizione a modi di produrre e di vivere socialmente ed ecologicamente sostenibili a lungo termine. Ciò significa, ad esempio, mettere in primo piano le questioni della riconversione ecologica dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti; di strategie energetiche fondate sull’efficienza, l’uso appropriato delle risorse, lo sviluppo delle fonti rinnovabili; dell’insostenibilità del modo di vita contemporaneo, delle città sommerse dalle auto e dai veleni. Significa impegnarsi a fondo per la difesa della possibilità di un ecosviluppo per il Sud del mondo; la qual cosa, lungi dall’esserne un superamento, rappresenta una nuova dimensione dell’internazionalismo e della lotta contro l’imperialismo (11). Significa anche pretendere dalla battaglia pacifista, non l’avvio di una nuova “distensione” o la mera acquisizione di una “cultura della pace”, ma concrete misure di disarmo, necessariamente unilaterali, a partire dal “nemico” di casa propria. 4. Ovviamente tutto ciò non riguarda solo le economie capitalistiche, perché non solo il mercato e il profitto, o lo scambio ineguale e la spoliazione imperialistica, devastano le condizioni naturali della vita sul pianeta. La pianificazione dispotica, o il “mercato socialista”, nel quadro di sistemi politici dominati dalla burocrazia e dall’assenza di una vera democrazia socialista, hanno prodotto e possono ancora produrre guasti ambientali anche peggiori. È questa un’altra faccia della tremenda eredità lasciata dallo stalinismo all’Urss e agli altri paesi del cosiddetto “socialismo reale”, eredità che non ha ancora cessato di oscurare l’idea del socialismo come società alternativa, malgrado i fermenti di quest’ultimo decennio. 5. Il marxismo rivoluzionario deve saper far proprie le istanze ecologiche e integrarle nel suo patrimonio di elaborazione e di lotta contro il capitalismo e l’imperialismo, contro lo stalinismo e la burocrazia: nessun altro ha migliori carte in regola per proporre una nuova idea di “eco-comunismo”, ossia del progetto di un nuovo stadio della civiltà umana che incarni le aspirazioni e le lotte dell’umanità contemporanea, per una società mondiale multiforme, democratica, egualitaria, senza sfruttamento e oppressioni, capace di conciliare gli uomini e le donne tra loro e con la natura.

Per un ambientalismo anticapitalistico. Paradossalmente è il suo stesso successo che espone oggi l’ambientalismo a sollecitazioni in direzioni opposte. Nel momento in cui la sensibilità ecologica conquista larghi settori della società (e dell’elettorato), anche il capitale si scopre una vocazione ecologica (“responsabilmente” coniugata col profitto e possibilmente finanziata dal contribuente), il ministro dell’ambiente chiede all’arcipelago verde di diventare “maturo” e di stipulare un “patto ambientalista” con l’industria e le istituzioni (12), e dalla gente sale impetuosa una domanda di iniziativa e di cambiamento. Ci pare per ciò non solo legittimo, ma anche politicamente opportuno avanzare anche noi delle idee su quella che potrebbe/dovrebbe essere una efficace strategia ambientalista, con la presunzione di proporla alla verifica del dibattito e della pratica. I presupposti da cui partiamo sono in sintesi questi. A negativo: 1. Pensiamo che nel quadro della società classista non si possa produrre una “coscienza della specie”, un’etica ecologica di validità universale, condivisibile dall’operaio e dal capitalista, dal fabbricante di cannoni e dal contadino del Terzo mondo, capace di determinare nuovi comportamenti comuni e nuovi modi di vita sostenibili. Quali che siano le prospettive a lungo termine, quelle immediate sono troppo diverse e antagonistiche per essere conciliabili. 2. Pensiamo che il riformismo ecologico — borghese o verde o di sinistra — non possa andare oltre un’opera di rattoppi e di palliativi temporanei e parziali; pensiamo che esso non possa andare alla radice dei problemi. Senza mettere mano ai rapporti sociali e politici che costituiscono il motore della devastazione ambientale, il resto diventa una fatica di Sisifo, una rincorsa senza fine tra sempre nuove emergenze e rattoppi che giungono regolarmente troppo tardi. Queste sono le ragioni di fondo per cui crediamo che una politica di riformismo verde, per quanto intellettualmente dignitosa e magari fertile di proposte scientifiche e tecniche preziose, non possa avere respiro strategico. A positivo, tre elementi riassumono i caratteri di una politica di ambientalismo anticapitalistico (ma potremmo dire ugualmente bene di “ambientalismo radicale”, intendendo il termine nel suo significato letterale): 1. In termini generali, un approccio che riconosce le fratture sociali e politiche che attraversano la questione ambientale, sia come determinanti strutturali della devastazione dell’ambiente, sia come interessi e opzioni politiche che orientano l’adozione, o la non adozione, delle soluzioni possibili. Si parli del disastro dell’Adriatico, delle navi dei veleni, di traffico automobilistico, di distruzione dell’Amazzonia o di politiche energetiche, il problema di chi decide, chi paga, chi ci guadagna (o ci ha guadagnato) è sempre più ineludibile. Ovviamente il riconoscimento di questo dato non può esaurirsi nella mera critica dell’esistente; deve tradursi in progetti e strategie di trasformazione dei meccanismi economici, dei rapporti sociali, delle relazioni politiche che sottostanno alle scelte tecnologiche e ai modelli di consumo strutturalmente incompatibili con gli equilibri ambientali. 2. Una scelta coerente degli interlocutori sociali con cui costruire la politica dell’ambiente. Non chiediamo all’ambientalismo di rinunciare alla sua “trasversalità” e di “schierarsi ideologicamente”. L’autonomia e l’autodeterminazione dei movimenti di massa valgono pienamente anche per l’ambientalismo. Tuttavia noi pensiamo che nessun progetto ecologico può dirsi davvero democratico se non punta a rendere soggetti protagonisti i “produttori” (nel senso marxiano del termine); che nessuna politica di trasformazione radicale può fare a meno del potenziale di organizzazione e di forza del movimento operaio; che fra ambiente di lavoro e ambiente di vita c’è maggiore continuità pratica che in qualsiasi discorso teorico sull’inquinamento industriale. 3. Una strategia politica che non si fa condizionare dalle compatibilità (economiche, politiche, istituzionali) dell’ordine vigente, ma che parte dai bisogni e si fonda sulla mobilitazione dal basso e sul protagonismo dei soggetti interessati alla trasformazione. Non è difficile immaginare le obiezioni che si tira addosso una proposta di questo tipo (così come ogni progetto di alternativa rivoluzionaria, peraltro). Prima di ogni altra l’accusa di perseguire una strada massimalista e minoritaria, e pertanto sterile; di essere una fuga utopistica dal terreno dell’impegno concreto per le riforme possibili qui ed ora. Argomento vecchio, ma pieno dell’apparente realismo del buon senso comune che lo rende sempre particolarmente attraente. La sua forza, in realtà è solo quella dei numeri parlamentari e delle fortune elettorali di chi lo propone, non proprio quella della verifica storica. La vicenda italiana degli ultimi vent’anni è particolarmente emblematica a questo proposito. In base ad essa sarebbe facile obiettare che è proprio il riformismo senza riforme che costituisce la confutazione di se stesso, non l’essere minoranza rivoluzionaria per una fase storica prolungata. Non è forse vero che la sinistra tradizionale e le organizzazioni sindacali maggioritarie hanno sprecato l’occasione favorevole degli anni settanta, i grandi movimenti di massa, le profonde trasformazioni culturali, una spinta elettorale senza precedenti, la crisi di egemonia dell’avversario, l’accesso all’area governativa, ecc., senza riuscire ad imporre alcun cambiamento significativo nei modi di essere della società e della politica italiana? Che anzi, hanno usato la propria forza e le proprie posizioni nelle istituzioni per contrastare le spinte più radicali che venivano dai movimenti di massa, per contenerle dentro un ambito talmente ristretto da escludere, perfino, il ricambio al governo del partito-regime democristiano? I risultati di questa politica, come sappiamo, sono stati pagati negli anni ottanta. Avendo fatto sopportare alla propria base sociale i prezzi del riassorbimento della crisi, il Pci ne ha logorato la forza e ne ha perso il sostegno. Così oggi conosce di nuovo l’emarginazione in un ruolo sterile di non governo di non opposizione, mentre Craxi cavalca il riflusso moderato nel tentativo di conquistare al Psi la centralità del sistema politico. Se riforme e conquiste in questi vent’anni ci sono state, esse non si devono certo all’iniziativa degli apparati. Sono state, piuttosto, quasi sempre il sottoprodotto di lotte radicali, apparentemente poco realistiche ai loro inizi, ma nelle quali sono riusciti a saldarsi le iniziative e le proposte di minoranze capaci di guardare avanti e il protagonismo di grandi masse. Così, paradossalmente (ma poi non tanto), la più efficace politica di riforme è stata quella politica che, dal riformismo benintenzionato, viene solitamente definita “massimalistica” e “minoritaria”; a riprova che le riforme sono proprio, in generale, i risultati parziali di lotte potenzialmente rivoluzionarie. Ma in verità, rivolta al marxismo rivoluzionario, questa accusa di massimalismo è del tutto infondata. Il metodo del programma di transizione, a cui esso si ispira, è quello di partire sempre dai problemi concreti e dai livelli di coscienza dati dalle larghe masse. Esso non disdegna di impegnarsi per le riforme e di formulare obiettivi parziali. Ma misura iniziative e proposte in base alla loro capacità di spostare in avanti i rapporti di forza, di attivare il protagonismo di massa, di far crescere la consapevolezza collettiva, di costruire gli strumenti dell’autoorganizzazione e della democrazia proletaria, embrioni di un possibile contropotere a fronte degli apparati del dominio borghese.

In questo approccio, che fa i conti in ogni momento con le condizioni date senza subirle passivamente, non c’è massimalismo e minoritarismo. C’è l’unico realismo pagante, quello che rifiuta le compatibilità stabilite dai gruppi dominanti interessati a conservare le cose come stanno. Indicando questo metodo all’ambientalismo, proponiamo forse una logica astratta, fuori dalle cose e dal movimento reale? Proponiamo certamente qualcosa che va controcorrente rispetto all’opportunismo istituzionalista che sembra prevalere oggi anche in certa sinistra verde o alternativa. Ma abbiamo anche molte verifiche che la nostra proposta va incontro al movimento reale, soprattutto là dove esso esprime una larga spinta di massa e non si esaurisce in una dialettica di ceti politici e di aree d’opinione. Lo vediamo nella nascita di un ecologismo del tutto nuovo, proletario, contadino e indigeno, nel Brasile del Partido dos Trabalhadores; nell’impetuoso movimento anti-Nato dello Stato spagnolo (l’unico che abbia marcato risultati concreti); nell’ambientalismo della sinistra indipendente dell’Urss, che coniuga la lotta antiburocratica con una sana diffidenza verso il mercato e il capitale straniero (13).

Due assi per un programma di ambientalismo radicale. Le pagine dedicate al programma potranno risultare deludenti, rispetto allo sforzo analitico compiuto sugli altri punti. Concediamo che l’elaborazione programmatica sia ancora inadeguata. Né può essere diversamente, se con questo termine s’intende la predisposizione di proposte organiche, complessive, coerenti su singoli temi specifici (energia, trasporti, chimica, riconversione, rifiuti, ecc.). È questo un terreno sul quale occorrono, da un lato, la mobilitazione di competenze scientifiche specifiche che non erano a nostra disposizione; dall’altro, un confronto ravvicinato con l’esperienza pratica dei movimenti e dei bisogni che si organizzano. Crediamo però che si debba misurare su un altro terreno la validità delle nostre indicazioni. Più che sulle proposte tecniche, è sui discrimini di classe che intersecano i problemi ambientali e sulle condizioni politiche della loro risoluzione, che deve intervenire la nostra iniziativa programmatica. Chi decide? Chi paga? Chi controlla? Ecco le domande con cui fare i conti. In questa logica, il dibattito congressuale della Lcr ha proposto due assi di fondo che entrano in pieno, in molti modi, nel cuore di un programma ecologico. Il primo riguarda la riconversione ecologica dell’apparato produttivo e si può sintetizzare nella formula: chi ha inquinato deve rimborsare alla società tanto i costi ambientali quanto quelli sociali. Il secondo avanza l’esigenza di una effettiva glasnost ambientale, intesa come diritto all’informazione e come diritto di controllo sull’ambiente da parte dei lavoratori e dei cittadini (14). I problemi legati alla riconversione (o alla chiusura) delle industrie inquinanti, si sono riproposti di frequente nel nostro paese in anni recenti (Acna di Cengio, Farmoplant di Massa, Enichem di Manfredonia, Isochimica di Avellino, i cantieri delle Fs di Santa Maria la Bruna, ecc.) e si riproporranno in futuro. Ogni volta è emersa una costante, il problema dell’occupazione, e più in generale si è posto l’interrogativo: chi deve pagare la riconversione? Oggi, dopo scontri e mediazioni che a volte vedono deprecabili contrapposizioni tra gli ambientalisti, decisi per la chiusura, e i lavoratori, presi in ostaggio dalla proprietà, le cose sfociano in soluzioni di compromesso: finanziamenti pubblici alla riconversione e sospensione dal lavoro degli operai per i quali inizia il purgatorio della cassa integrazione, spesso anticamera del licenziamento. In altri termini, l’irresponsabilità imprenditoriale ricade sulla collettività e sui lavoratori. E ciò è tanto più facile in quanto una normativa inadeguata lascia ampia facoltà di inquinamento “legale” il cui risultato sono le diverse “bombe ambientali” disperse per la penisola il cui disinnesco crea almeno altrettanti problemi che la continuazione della loro attività. Contro questa logica perversa, la proposta complessiva che facciamo si articola in questi punti: • Occorre stabilire il principio che chi inquina sopporta tutti i costi che derivano dalle conseguenze della sua attività, cioè i danni ambientali, i costi del ripristino, gli eventuali oneri sociali diretti e indiretti. Siamo convinti che basterebbe conferire validità giuridica ed efficacia pratica a questo principio (purché valga senza riserve il criterio della responsabilità oggettiva), per ottenere consistenti risultati “preventivi”. • Nei casi di sospensione della produzione o di chiusura di un reparto o di una fabbrica per motivi ambientali, rivendichiamo il divieto dei licenziamenti collettivi. Quando la riconversione non sia possibile, e si renda inevitabile la chiusura degli impianti e la mobilità degli addetti, questi provvedimenti sono accettabili a condizione della contestuale ricollocazione produttiva dei lavoratori senza interruzione del rapporto di lavoro. • Qualora la chiusura porti alla fine dell’azienda, occorre rivendicare l’esproprio a fini di risarcimento di tutti i beni aziendali a copertura dei costi che la collettività si assume per avviare un’altra attività o per ricollocare i lavoratori. • L’esproprio e la pubblicizzazione dell’azienda vanno rivendicati anche in tutti quei casi in cui la proprietà si sottrae all’obbligo della riconversione e/o al divieto di licenziare. Una funzione complementare a quanto proposto sopra, svolge la rivendicazione della glasnost ambientale come strumento per attivare l’autotutela sociale in materia di difesa della salute e dell’ambiente. Essa dovrebbe articolarsi in questo modo: • Diritto per le organizzazioni aziendali e territoriali dei lavoratori e dei consumatori e per le associazioni ecologiste liberamente promosse dai cittadini, di esercitare il controllo su tutte le attività produttive e di altro genere, condotte dai privati o dagli enti pubblici, che possono costituire pregiudizio per la salute e/o per l’ambiente naturale e storicoartistico (15). • Diritto d’accesso a tutte le informazioni disponibili, pubbliche e private, con il solo onere del costo di riproduzione. • Facoltà per gli organismi di tipo sindacale o ambientalista (16) di attivare l’intervento d’urgenza delle autorità pubbliche preposte alla tutela della salute pubblica e dell’ambiente (17). Sono proposte, come si vede, molto concrete, che rivolgiamo all’attenzione della sinistra e del movimento ambientalista. Fin dai prossimi mesi avremo modo di tornarci sopra in occasione della campagna per il referendum promosso da Democrazia proletaria (18) che va nello stesso senso delle nostre preoccupazioni, e che perciò sosterremo con ogni mezzo a nostra disposizione. Rileviamo per ora con rincrescimento che gran parte dell’arcipelago ambientalista (la federazione delle liste verdi in particolare) ha deciso di chiamarsi fuori da questa battaglia giusta nella sostanza e opportuna politicamente. Tutto ciò conferma i giudizi critici che abbiamo espresso in questo testo sull’attuale quadro dirigente dell’ambientalismo italiano. Siamo però fiduciosi che il corso delle cose e, soprattutto, una ripresa della lotta operaia in generale e in particolare sul terreno cruciale della salute e dell’ambiente (di cui la mobilitazione dei lavoratori del reparto verniciatura dell’Alfa-Lancia di Arese è forse un segnale), possano creare un nuovo quadro in cui porre su basi diverse e più favorevoli il confronto-incontro tra marxismo rivoluzionario e ambientalismo radicale nel nostro paese. (21 marzo 1989)

Note

(1) Non pretendiamo, naturalmente, di aver dato qui l’interpretazione “autentica” di Marx e di Engels. Siamo consapevoli di aver sfiorato un certo numero di “controversie marxiste“ che dividono da decenni i marxologi. Lasciamo a loro questo terreno, o meglio agli studiosi seri che vogliono restituirci questo aspetto poco indagato del pensiero dei classici. Per parte nostra, abbiamo inteso operare per il recupero di alcuni strumenti concettuali importanti. E siamo sicuri di non aver fatto un’operazione arbitraria. L’esistenza di questo filone nell’opera di Marx viene messa in rilievo anche in un’opera recente: Debeir – Deléage – Hemery, Storia dell’energia. Dal fuoco al nucleare: “La problematica iniziale di Marx […] poneva veramente le premesse di una riflessione sugli scambi tra l’uomo e la natura, al centro dei quali sta l’energia”; ma la strada “aperta dal concetto di una totalità società-natura, quella di una riflessione feconda sull’interconnessione tra rapporti sociali di produzione e biosfera, sull’interazione fra determinanti naturali e determinanti sociali […] è rimasta inesplorata” (p. 17), in parte anche per responsabilità dello stesso Marx, dicono gli autori. Raccomandiamo vivamente la lettura di quest’opera che non ha corrispondenti nella recente letteratura ecologista sull’energia. Purtroppo noi abbiamo potuto consultarla solo a stesura ultimata del nostro testo, che avrebbe potuto trame degli indubbi arricchimenti di metodo e di contenuto. (2) Citiamo dalle Tesi politiche della Lcr approvate dal congresso di Bellaria. (3) Questo primato dell’economia è una semplificazione contestabile dell’idea che la sovrastruttura dipende in ultima analisi dalla struttura economica della società. Un’idea, peraltro, che si applica essenzialmente alla società borghese contemporanea. (4) È questa base materiale che condiziona la vita sociale ed entrambe condizionano quella spirituale. (5) Esso è stato formulato di recente per indicare un modo di soddisfare i bisogni materiali della società attuale senza compromettere la possibilità di soddisfare i bisogni delle generazioni future. Si veda in proposito il rapporto Brundtland, segnalato in bibliografia. (6) Nel comunismo, per Marx, l’umanità dovrà “regolare razionalmente il proprio ricambio organico con la natura” garantendo così “le condizioni inalienabili di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano”. In altri termini un nuovo equilibrio tra uomo e uomo è tutt’uno con nuovi rapporti fra uomo e natura e viceversa (si veda più avanti nel terzo capitolo). (7) Si vedano i brani dalla Dialettica della natura riportati nel primo capitolo. (8) Quest’incontro implicherà probabilmente (ma non inevitabilmente) la convergenza unitaria, non solo elettorale, delle attuali forze politiche rosse e verdi e, verosimilmente, il superamento della loro forma attuale. Ma questa prospettiva non è certo già matura, né può esser fatta maturare attraverso le forzature elettoralistiche. (9) Almeno fino agli accenti drammatici con cui Trotskij apre nel 1938 il Programma di transizione. Essi tuttavia non fanno riferimento alla possibilità della catastrofe ecologica, anche se paventano una catastrofe della civiltà umana. (10) È opinione diffusa ma falsa che Marx negasse l’esistenza di limiti naturali alla produttività della terra, ammessi invece da Malthus (oggi parleremmo di produttività degli ecosistemi). L’opinione di Marx era invece più complessa come si può vedere in un passo del terzo libro del Capitale (p. 875 dell’edizione citata in bibliografia), in cui si afferma che i miglioramenti tecnici del lavoro agricolo possono probabilmente compensare soltanto temporaneamente la tendenza al deterioramento delle condizioni naturali della produttività del suolo così che, sul più lungo termine, la produttività dell’agricoltura incontra un limite assoluto. È un quadro che appare verosimile alla luce dell’esperienza attuale. (11) Esemplifichiamo: dalla constatazione del legame fra peso economico del debito estero e devastazione ambientale (deforestazione ecc.) nei paesi del Terzo mondo, noi non deduciamo l’opportunità, come proposto da alcuni settori ecologisti, dello scambio “debito contro natura” (debt for nature swaps), che contiene innegabili minacce di imperialismo “ecologico”, inaccettabile per i poveri del Sud del pianeta. Rivendichiamo invece, con loro, la cancellazione del debito (d’altra parte già ampiamente ripagato) e il rifiuto dei diktat del Fmi o della Banca mondiale; e parallelamente chiediamo progetti di ecosviluppo gestiti da coloro che ne devono beneficiare: i lavoratori e i contadini poveri, con l’assistenza non colonialista delle organizzazioni ecologiste locali e internazionali. È la strada indicata anche dal Pt del Brasile, il partito di Lula e Chico Mendes, assassinalo il 22 dicembre 1988 dai sicari dei latifondisti che quotidianamente distruggono l’Amazzonia in collaborazione con l’agrobusiness internazionale . (12) Il dibattito tra Ruffolo e alcuni esponenti dell’ambientalismo italiano su “MicroMega”, numeri 4/88 e 1/89. (13) Come riferisce Boris Kagarlitzkij su “Rinascita” (11-2-1989), il Fronte popolare di Mosca vuole promuovere un “libro nero” che elenchi tutte le industrie straniere che operano e inquinano in Urss. (14) La rivendicazione dalla “glasnost ecologica” viene oggi avanzata dai verdi in Urss (si veda il citato intervento di Kagarlitzkij su “Rinascita”). La richiesta della “abolizione del segreto nella vita pubblica e l’accesso di tutti i cittadini ai documenti delle amministrazioni” è stata a suo tempo inserita nel programma di Solidarnosc per l’ambiente. (15) Si può prendere ad esempio l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori che conferisce alle rappresentanze sindacali il diritto di controllo in materia di prevenzione e di antinfortunistica sui luoghi di lavoro. (16) Ovviamente liberamente promossi dai cittadini con l’unico vincolo della pubblicità dei loro statuti e della loro attività. (17) A questo proposito si potrebbe studiare di proporre una procedura legale sul tipo di quella contemplata dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori che prevede la possibilità per le rappresentanze sindacali di attivare l’intervento d’urgenza del pretore per la repressione dell’attività antisindacale; in questo caso essa dovrebbe essere rivolta invece a bloccare, sospendere e reprimere (se è il caso) per tempo quelle azioni e quelle attività che potrebbero costituire una minaccia per la salute e per l’ambiente. (18) Uno dei referendum di Dp si riferisce art. 18 della legge 349 dell’8.7.1986, istitutiva del ministero dell’ambiente, e si propone di affermare il principio della responsabilità oggettiva per i danni ambientali.

Riconoscimenti

Di un lavoro collettivo, fatto a più mani e col contributo di molte teste, è giusto segnalare i coautori, almeno i nomi di coloro che più sistematicamente vi hanno profuso tempo, attenzione, impegno intellettuale e materiale. La menzione è tanto più doverosa in questo caso in quanto il testo finale si è ampiamente servito (spesso attenendovisi fedelmente) dei testi preparatori prodotti da alcuni compagni della commissione ambiente in vista del dibattito nella commissione stessa e nel comitato centrale dell’8-9 ottobre 1988. In particolare corre l’obbligo di segnalare i nomi di Fernando Visentin, Roberto Firenze e Luigi Viglino. Al primo si deve un contributo importante per la ricostruzione del pensiero di Marx ed Engels sul rapporto uomo-natura e sul progresso, nonché la segnalazione dell’attualità della riflessione di Benjamin sulla storia. Inoltre, Visentin divide con Roberto Firenze e con lo scrivente il lavoro preparatorio per la parte seconda, “La politica dell’ambiente”, segnatamente al capitolo sul movimento operaio italiano. A Luigi Viglino si deve il lavoro di sintesi sulle questioni programmatiche, a cui si è attenuta (quasi sempre fedelmente) la versione definitiva della terza parte del testo. Infine, oltre al resto, al sottoscritto è toccato l’onere della redazione finale del tutto. Ovviamente un debito riconosciamo verso tutti quei compagni dei quali non facciamo qui il nome ma che, in diversi momenti e in diverse istanze, hanno discusso con noi le idee e le proposte che qui abbiamo esposto. Sia consentita, infine, una nota personale al curatore. Per la parte di mia competenza, vorrei dedicare questo scritto a Elisabetta; senza la collaborazione della sua pazienza e della sua comprensione, difficilmente questo scritto avrebbe mai visto la luce. A lei un grazie sincero. (T.B.)

INTRODUZIONE

Un aspetto centrale della crisi della nostra epoca. La crisi ambientale è un aspetto centrale della crisi della nostra epoca; questa consapevolezza si va progressivamente diffondendo e sempre più determina anche le scelte e i comportamenti politici di settori rilevanti della società, soprattutto delle nuove generazioni; sempre più spesso, in effetti, problemi ecologici esplodono drammaticamente all’attenzione generale e si intersecano con altri aspetti più tradizionali dello scontro di classe tanto sul terreno economico-sociale quanto sul terreno politico. Nonostante l’importanza della questione ambientale che, almeno in tempi più recenti, nessuno si sogna più di negare, pure non si può fare a meno di rilevare con preoccupazione che il movimento operaio nel suo complesso è tuttora impreparato — sul piano ideale e ancor più sul piano politico e programmatico — a confrontarsi con questa contraddizione emergente, e ciò ha già comportato conseguenze pesanti sia sulla capacità d’attrazione verso le masse giovanili e in generale verso coloro che si radicalizzano a partire dalla presa di coscienza dei guasti ambientali, sia sulla sorte di alcune battaglie centrali difensive come quella dell’occupazione. Anche il marxismo rivoluzionario, lo dobbiamo ammettere non ha ancora fatto i conti con la necessaria radicalità con questo dato nuovo. Tanto l’elaborazione quanto la proposta politica è stata finora prevalentemente settoriale, più approfondita sui singoli problemi che sono giunti in questi anni al centro dello scontro politico; ma è mancata finora una esplicita riflessione collettiva con un respiro complessivo. Anche nell’Internazionale i contributi più rilevanti sono venuti da singoli quadri e da singole sezioni (anche se molte, su diversi aspetti, hanno sviluppato da un quindicennio un impegno pratico di grande interesse), ma ritarda ancora una riflessione generale che coinvolga tutto il nostro movimento nella sede appropriata, cioè in sede di congresso mondiale. La Lcr ha voluto cogliere l’occasione del quarto congresso nazionale per avviare una riflessione sistematica, pur senza la velleità di dire una parola definitiva. Viceversa, si tratta di una riflessione ancora in gran parte “preliminare”, volta a sgombrare il campo da false questioni e false risposte che in questo campo si sono accumulate negli ultimi due decenni — per la combinazione della debolezza e del ritardo del marxismo rivoluzionario, delle deformazioni introdotte nel marxismo dalla tradizione socialdemocratica e soprattutto staliniana e delle semplificazioni ideologiche di certo ecologismo — e a stabilire alcuni punti fermi per ulteriori approfondimenti, soprattutto sul terreno politico e programmatico. Solo in parte questo documento può cominciare a dare orientamenti politici e programmatici definiti e puntuali. Anche in questo ambito è inevitabile restare alle indicazioni generali e di metodo, dovendo rimandare a un più ravvicinato riscontro con la pratica l’ulteriore definizione di proposte e indicazioni puntuali. Naturalmente il nostro punto di partenza è il giudizio di rilevanza generale che occorre dare della questione ambientale, in qualche modo paragonabile all’importanza che ebbe (e che mantiene) l’emergere della questione femminile negli anni settanta; e cioè di una di quelle sfide che il divenire storico porta di epoca in epoca all’attenzione dei rivoluzionari, le quali richiedono non tanto di buttare a mare i “vecchi arnesi” teorici quanto di inventariare il ricco bagaglio del marxismo e di arricchirlo con l’analisi puntuale dei nuovi aspetti della realtà. Per ciò che riguarda in specifico la questione ambientale, il marxismo rivoluzionario non condivide l’idea diffusa che si tratti della “nuova centralità” del nostro tempo che sostituisce la “superata” centralità della contraddizione lavoro-capitale; semmai si tratta di recuperare pienamente il punto di vista del materialismo storico per il quale la storia è la dialettica complessa dei rapporti a un tempo tra uomo e uomo e tra uomo e natura.

Struttura del documento. Per essere utile, ogni riflessione deve sapersi porre le domande giuste. Nel nostro caso le domande a cui dobbiamo rispondere si pongono su tre piani:

a) Abbiamo bisogno, innanzi tutto, di riverificare l’utilità e la fecondità del marxismo nell’approccio alla questione ambientale; abbiamo bisogno di sottoporre al vaglio dell’attualità le sue categorie d’analisi; abbiamo bisogno di provare la piena validità storica della prospettiva del comunismo per la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e la realizzazione di una società senza oppressioni. Oggi, a poco più di dieci anni al duemila e a vent’anni dal sessantotto, occorre fare i conti a fondo con una serie di convinzioni largamente accettate anche nell’area della “sinistra” (usiamo questo termine per quel tanto che può servire a intenderci). In parte sotto la pressione delle ideologie trionfanti dell’avversario di classe, in parte come riflesso dei nuovi problemi ecologici e delle elaborazioni ecologiste, in parte per il disarmo teorico e politico lasciato dalla lunga storia delle involuzioni riformiste e staliniane, non è raro ascoltare argomenti di questo tipo: • il marxismo è una variante delle ideologie industrialiste; condivide le responsabilità della classe dominante per l’attuale degrado ambientale; esalta indiscriminatamente la tecnica, la crescita ininterrotta, il dominio e la manipolazione della natura; ergo: il marxismo è un residuo inservibile… • non è più questione di capitale e lavoro o di capitalismo e socialismo (concetti “ottocenteschi”): la contraddizione ambientale spiazza queste dicotomie; i paesi “socialisti” non si sono certo dimostrati migliori del capitalismo per quel che riguarda il trattamento dell’ambiente; il problema della nostra epoca è la “sopravvivenza della specie”, non gli interessi particolari di una classe sociale; d’altra parte i limiti della crescita rappresentano il tramonto di qualsiasi “sogno” del comunismo… • la classe operaia è complice cointeressata alla distruzione capitalistica dell’ambiente, e in ogni caso si contrappone alla chiusura delle fabbriche che inquinano; inoltre la lotta per un assetto sociale e uno sviluppo sostenibili taglia oggi trasversalmente gli schieramenti di classe e di ideologia politica, schieramenti peraltro in via di deperimento (“né di destra né di sinistra” ecc.). b) Abbiamo bisogno di fare i conti con i problemi politici posti dalla contraddizione ambientale, che ha indubbiamente comincialo a cambiare alcuni parametri consolidali di giudizio. Da un lato essa ha portato alla luce nuove potenzialità di lotta ma anche nuove domande di iniziativa politica. Esiste inoltre la necessità di rapportarci criticamente con le articolazioni organizzate del cosiddetto arcipelago ambientalista e di una battaglia politica con i verdi che pretendono di essere i rappresentanti doc e in esclusiva di spinte ed esigenze largamente emergenti, che a volte si intrecciano con bisogni che vanno al di là della semplice questione ambientale (come la critica delle forme tradizionali, separate e burocratiche, della politica). c) Abbiamo bisogno di aggiornare e arricchire la nostra proposta politico-programmatica in cui la questione ambientale deve trovare non “maggiore attenzione” ma piena integrazione. Ciò è meno semplice di quel che può apparire a prima vista perché non vuol dire aggiungere una nuova lista di obiettivi a quelli tradizionali o individuare un nuovo terreno di lavoro e di proposta, ma rivedere la logica d’approccio anche ai problemi tradizionali alla luce di una piena comprensione della loro dimensione ecologica. Solo subordinatamente si tratta anche di sviluppare precise proposte programmatiche sugli aspetti di maggiore urgenza e rilevanza politica (energia, industria chimica, trasporti, rifiuti, inquinamento dell’aria e dell’acqua…). Proprio per queste considerazioni la parte programmatica non è tanto sviluppata in questo documento ma è già tenuta presente nel documento di tesi politiche a cui è giusto rimandare. Da queste considerazioni deriva la particolare struttura di questo documento, articolato in un’ampia parte di riflessione teorico-politica generale, e due parti più ristrette che mettono a fuoco rispettivamente gli assi politici e quelli programmatici. A sua volta, la parte generale e articolata al suo interno in quattro punti: il primo ricostruisce l’approccio dei fondatori del marxismo alla questione del rapporto fra uomo e natura e la loro analisi delle conseguenze sull’ambiente dello sviluppo della società moderna (capitalistica); il secondo punto ricostruisce gli sviluppi scientifici posteriori che hanno rilevanza per la questione ambientale e svolge una rapida ricostruzione storica del rapporto fra uomo e natura col doppio obiettivo di provare le categorie d’analisi del marxismo e collocare storicamente gli attuali problemi ambientali; il terzo punto riesamina e rilancia la prospettiva del comunismo proprio alla luce delle minacce emergenti con la crisi ambientale e delle possibilità di liberazione create dallo sviluppo storico e sociale fino ad oggi; il quarto punto è una sorta di appendice che torna sul marxismo alla luce della contraddizione emersa nel primo punto: il grande patrimonio teorico originario non ha dato frutti pratici corrispondenti alle attese; esso è stato sommerso da altre concezioni direttamente influenzate dalle ideologie borghesi apologetiche del capitalismo; uno sviluppo che dà ragione del disarmo teorico del movimento operaio sul problema dell’ambiente ma che deve a sua volta trovare una spiegazione su basi materialistiche.

Il marxismo e i “marxismi”: alcune distinzioni preliminari. In effetti abbiamo bisogno di un chiarimento preliminare proprio a proposito della categoria di “marxismo”. Essa è da lungo tempo tutt’altro che univoca, ma oggi è usata con i significati più disparati dagli ideologi e dai pennivendoli dell’avversario di classe, al punto che da ogni parte si sente attribuire allegramente al “marxismo” ogni sorta di misfatti: dai crimini dello stalinismo al fallimento storico del partito comunista, dal terrorismo brigatista all’ideologia di potenza che informa il rapporto con la natura di certa parte della cultura contemporanea.

Occorre invece distinguere ciò che va distinto. Solo così è possibile contrastare efficacemente la campagna insinuante ed insistente che afferma la definitiva “crisi del marxismo”. Metodologicamente la prima distinzione che è d’obbligo fare è quella tra il marxismo in quanto metodo e dottrina scientifica e il marxismo in quanto movimento pratico storicamente determinato. Il primo, in quanto sistema di pensiero rintracciabile in testi ben individuati, in quanto paradigma teorico suscettibile di verifica empirica (entro i limiti che la verifica empirica può avere nelle scienze sociali) può legittimamente pretendere (almeno in prima istanza) di essere giudicato indipendentemente dagli esiti dei movimenti pratici che da esso hanno preso le mosse. Ovviamente il marxismo, per la sua stessa natura, non si accontenta di questa verifica. Tra coscienza ed essere sociale, tra teoria e pratica c’è costantemente una interrelazione dialettica e solo chiarendo materialisticamente (cioè marxisticamente) questa dialettica storica il marxismo comprova pienamente se stesso in quanto dottrina scientifica. Il secondo livello, quello del concreto movimento storico, invece, può e deve essere giudicato con altri metri di giudizio propri della storia e della politica. Ma a questo proposito il primo passo da fare è identificare le forme storiche concretamente assunte dal movimento pratico. Sono queste che devono essere giudicate, non una presunta idea generale del “marxismo”. Da questo punto di vista, il marxismo, in quanto movimento pratico storicamente determinato, ha preso forma (come teoria, come prassi e come radicamento sociale) in varianti storiche distinte (Seconda Internazionale, bolscevismo, stalinismo, varie correnti nazionali, nuova sinistra degli anni settanta, marxismo rivoluzionario, ecc.) su cui è possibile e doveroso un giudizio storico e politico distinto. Anzi, è proprio dal giudizio che diamo delle diverse correnti del movimento operaio organizzato, della loro natura e della loro storia, della loro azione e dei loro risultati, che ricaviamo la conferma che il marxismo resta un metodo fecondo per guidare la nostra azione. Le sconfitte e le degenerazioni, nella misura in cui non furono il frutto dell’immaturità delle condizioni oggettive, sono sempre dipese dalla mancanza del marxismo, non dal suo utilizzo; dall’allontanamento da esso o dall’imbalsamazione della sua lezione, e non da sue radicali insufficienze. I progressi e le vittorie, viceversa, si sono generalmente accompagnati a un utilizzo vivo, creativo dei suoi strumenti teorici. Per questo ci proponiamo in questo documento di ristabilire i concetti fondamentali del marxismo per quel che riguarda la questione ambientale e di utilizzarli creativamente per fare i conti con la crisi attuale. Non per amore di filologia e di erudizione ma perché essi si dimostrano oggi di straordinaria capacità esplicativa e di grande pregnanza pratica. In realtà, molte capitali acquisizione del marxismo in questo campo sono andate smarrite sotto un secolo di incrostazioni interpretative discutibili e di vere e proprie deformazioni; e fino ad oggi non sono state adeguatamente valorizzate neppure dal marxismo rivoluzionario (non per volontà ovviamente ma per una insufficiente attenzione connessa con limiti obiettivi).

Parte prima

MARXISMO ED ECOLOGIA

CAPITOLO 1.1

UOMO NATURA SOCIETÀ NEL MARXISMO (1^ parte)

L’ispirazione originaria del marxismo: l’unità dialettica uomo-natura

Nell’essenza del pensiero di Marx e di Engels c’è una formulazione del rapporto uomo-natura-società che rimane metodologicamente insuperata anche dopo un secolo e più di sviluppi delle scienze biologiche e antropo-sociali, la cui attualità deve essere pienamente rivendicata dal marxismo rivoluzionario tanto contro ogni forma di riduzionismo storicistico e/o idealistico — il quale vede il motore della storia in un rapporto uomo-uomo (cioè nella pura dialettica delle idee o in quella di una società disincarnata dalla natura) che non è più fondato materialisticamente e dialetticamente in modo inestricabile con la natura — quanto contro il riduzionismo di segno opposto che riconduce il rapporto uomo-natura a ineluttabili matrici biologiche che trascendono la mediazione storica delle forme sociali. Dalle prime formulazioni di Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 al Capitale, dall’Ideologia tedesca del 1845-46, scritta in comune da Marx ed Engels, alla Dialettica della natura, opera incompiuta del secondo, il marxismo elabora un approccio che può essere sintetizzato nella formula dell’unità dialettica dei processi naturali e dei processi sociali, storicamente determinata. Alla base di questo punto di vista c’è, prima di tutto, l’idea fondante dell’uomo come “ente naturale”, ovvero della profonda unità uomo-natura che la storia non sopprime. Questo concetto è enunciato con grande chiarezza nei Manoscritti del 1844, opera fondamentale nella formazione del pensiero di Marx, vero e proprio crogiolo delle concezioni che prenderanno forma compiuta nelle opere successive. In essi leggiamo: “L’uomo è immediatamente ente naturale. Come ente naturale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d’altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma delle sue forze essenziali” (1). In questa affermazione del “naturalismo” di Marx rinveniamo anche il suo tratto originale: l’uomo non è solo parte passiva della natura ma anche attiva. Il rapporto tra uomo e natura non è dato una volta per tutte, ma evolve, ha una storia: “la storia è la vera storia naturale dell’uomo” (2). Il lavoro è ciò che distingue l’uomo dalle altre specie animali; una prassi consapevole che non produce solo secondo il bisogno, ma anche “secondo le leggi della bellezza” (3). Nella produzione della sua vita l’uomo opera in rapporto con i suoi simili, socialmente. Ed è l’altro uomo (la società), che aliena il lavoro dell’uomo, non la natura: “La libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita […] Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, e mi sta di fronte come una potenza straniera, a chi esso appartiene allora? Se la mia propria attività non mi appartiene ma è un’estranea e coartata attività, a chi appartiene allora? […] Gli Dei non furono mai i soli padroni del lavoro. Tanto meno la natura. E quale contraddizione sarebbe anche che, viepiù l’uomo si sottomette la natura col suo lavoro, e viepiù i prodigi degli Dei sono resi superflui grazie ai prodigi dell’industria, l’uomo debba rinunciare per amore di tali potenze alla gioia della produzione e a godimento del prodotto. L’ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il lavoro, può essere soltanto l’uomo stesso […]. Ogni autoalienazione dell’uomo a se stesso e alla natura si palesa nel rapporto ch’egli stabilisce, di se e della natura, con un altro uomo, distinto da lui” (4).

Questo uomo è il capitalista e “la proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell’operaio alla natura e a se stesso”; nello stesso tempo “essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione” (5). La soppressione della proprietà privata diviene conseguentemente non solo la condizione della riconciliazione dell’uomo con l’uomo ma anche dell’uomo con la natura: “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sè, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione” (6). Marx sembra qui anticipare una sorta di “coscienza della specie” che ha un sapore molto contemporaneo. Non è l’unico tema “profetico”. In un altro punto egli esamina l’industria (cioè l’attività produttiva che trasforma gli elementi della natura in base ai bisogni umani) come la forma di estrinsecazione delle forze naturali dell’uomo e come la base di ogni scienza. Non solo delle scienze naturali ma anche della scienza dell’uomo. Poiché l’esperienza sensibile “deve essere la base di ogni scienza”, e ogni scienza muove da un’esperienza sensibile umana vi dovrà essere una sola scienza che le comprende tutte: “La storia stessa è una parte reale della storia naturale della umanizzazione della natura. La scienza naturale comprenderà un giorno la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo comprenderà la scienza naturale: non ci sarà che una sola scienza” (7). E’ un programma che si apparenta a quello che si va facendo strada, come esigenza, nelle scienze contemporanee, e che si fonda sul presupposto della fondamentale unità dell’uomo nei suoi diversi aspetti: biologico, storico sociale, culturale.

Uomo, natura e storia nel materialismo storico

Le intuizioni dei Manoscritti del 1844 trovano uno sviluppo sistematico in tutte le opere successive di Marx e di Engels. La dialettica natura-società è un punto centrale della concezione materialistica della storia (il materialismo storico) la cui prima formulazione organica si trova nell’Ideologia tedesca, opera scritta a quattro mani da Marx ed Engels nel 1845-46, considerata unanimemente la prima opera compiutamente “marxista” dei due. Nella produzione e riproduzione sociale della vita degli uomini va cercata la chiave delle vicende della storia umana, non certo nelle idee che essi si formano su di essa. Più precisamente è lo sviluppo delle forze produttive il vero motore dell’evoluzione umana, la cui logica interna trova spiegazione nella dialettica tra lo sviluppo delle forze produttive stesse e la forma delle relazioni sociali in cui esso si svolge. Con lo sviluppo delle forze produttive si attua anche uno sviluppo della divisione del lavoro, e con ciò, uno sviluppo delle relazioni tra gli uomini: “I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse di proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro, determina anche i rapporti fra gli uomini in relazione al materiale allo strumento e al prodotto del lavoro” (8). “La più rilevante di queste forme di divisione del lavoro si sviluppa con la separazione tra città e campagna e tra lavoro manuale e lavoro intellettuale; questo processo coincide con l’emergere delle differenze di classe, della proprietà individuale e dello Stato. L’ultima forma di proprietà privata è quella borghese che porta alle estreme conseguenze la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme di relazione: Sotto la proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione” (9). Tuttavia con lo sviluppo della grande industria e del mercato mondiale, le forme borghesi di proprietà creano le condizioni materiali del proprio superamento: “In connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi: una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista […]. La rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse” (10).

Il comunismo, definito come il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (11) in contrapposizione alle utopie ideali dei precedenti scrittori socialisti e comunisti, viene qui presentato come “l’appropriazione da parte dei proletari” di una “totalità di forze produttive”; ciò consentirà “lo sviluppo degli individui in individui completi” e la “trasformazione del lavoro in manifestazione personale” (12); la dipendenza degli uomini dalle proprie relazioni sociali come potenza esterna e incontrollata si muterà in un “controllo e dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee” (13). L’analisi qui rapidamente tratteggiata è molto nota; molti marxisti l’hanno interpretata come se la storia umana sia il prodotto unicamente della lotta delle classi e della prassi sociale degli uomini (“storicismo”), trascurando il fatto che questo è soltanto un aspetto della dialettica storica; “l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini”, come lo definisce L’ideologia tedesca, inestricabilmente connesso con l’altro: “l’elaborazione della natura da parte degli uomini” (14). In verità, per Marx ed Engels, la natura “materialistica” della loro concezione della storia non risiede soltanto nel fatto che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” (prefazione a Per la critica dell’economia politica (15) e, più in generale, che la “sovrastruttura” dipende in ultima analisi dalla “struttura economica della società”, ma anche nel fatto che la “produzione della vita materiale” (e di quella spirituale) degli uomini è un processo condizionato dalla loro corporeità e naturalità: “Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da essa subite nel corso della storia per l’azione degli uomini” (16). Con linguaggio contemporaneo potremmo dire: il primo presupposto della storia è l’organizzazione biologica dell’essere umano e la sua relazione ecologica con il proprio ambiente. Più avanti non manca un passo nel quale si afferma che la socialità umana emerge per evoluzione della socialità animale, un’idea che corrisponde alle più recenti ipotesi dell’etologia (lo studio del comportamento animale) e dell’antropologia, e che non sfocia necessariamente nel determinismo biologico, come pretende certa recente sociobiologia: “Questo inizio (della coscienza) è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio è pura coscienza di gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era nient’altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o “naturalmente” in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso ecc.” (17). Il primo rapporto sociale è quello “fra uomo e donna, fra genitori e figli: la famiglia”; questo anzi è inizialmente l’unico rapporto sociale: “La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro, quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra” (18). Lo sviluppo della società si presenta in seguito come una “seconda natura” che si sovrappone alla prima intrecciandosi con essa. Il conflitto, la contraddizione tra le due non sorge che nella misura in cui le forze sociali separano l’uomo dai presupposti del suo lavoro, cioè dello scambio con la natura. Finché gli individui sono legati ai loro mezzi di produzione (e ciò avviene di certo finché questi hanno prevalentemente la forma naturale della terra) essi sono tenuti uniti tra loro da un qualche legame come la famiglia, la tribù, il luogo dove vivono, e “lo scambio è essenzialmente scambio fra gli uomini e la natura”; quando invece si sviluppa la divisione tra gli individui e gli strumenti del loro lavoro (e ciò accade in massimo grado con il capitale) allora essi sono “indipendenti l’uno dall’altro” e sono “tenuti insieme dallo scambio” il quale è ora “principalmente scambio tra gli uomini” (19). Infatti ora è il denaro a mediare questo scambio. Con lo sviluppo della grande industria della concorrenza, infine, la divisione del lavoro perde “l’ultima parvenza del suo carattere naturale” e “tutti i rapporti naturali” sono risolti “in rapporti di denaro” (20).

La critica dell’economia politica: il ricambio organico fra l’uomo e la natura e le sue forme sociali

Il duplice livello di analisi individuato dal materialismo storico viene pienamente sviluppato da Marx nelle opere della maturità che costituiscono quella che egli chiama la critica dell’economia politica, cioè l’analisi sistematica, l’anatomia della forma sociale contemporanea — il modo di produzione capitalistico — e delle sue contraddizioni interne che conducono al suo superamento rivoluzionario. Non è questo il luogo per presentare l’insieme delle linee generali di questa analisi del capitalismo, in verità piuttosto conosciuta. Richiamiamo qui solo alcuni dei suoi elementi basilari — generalmente trascurati e ignorati (non solo dai critici di Marx ma anche da molti pretesi marxisti) — che riguardano le relazioni uomo-natura-società. È da tempo un luogo comune, non solo tra gli ecologisti ma anche tra molti militanti della sinistra, la tesi secondo la quale Marx sarebbe stato un propugnatore entusiasta dell’industrializzazione e della tecnica, avrebbe ignorato le conseguenze sull’ambiente dello sviluppo capitalistico, la sua teoria economica sarebbe inadeguata a fare i conti con l’emergente contraddizione tra economia ed ecologia e più in generale conterrebbe un punto di vista riduttivo riguardo le contraddizioni della nostra epoca, avendo concentrato l’intera attenzione attorno alla questione dello sfruttamento del lavoro e ignorato lo “sfruttamento” della natura. L’analisi che segue spera di dimostrare che questa tesi è del tutto infondata. L’intera attività produttiva degli uomini — il loro lavoro — si svolge, quali che siano i rapporti sociali, come appropriazione e trasformazione di elementi naturali con l’aiuto di mezzi e forze tratti dalla natura stessa, il cui scopo è la riproduzione della vita: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita” (21). L’attività economica, in quanto produttrice di valori d’uso, è dunque concepita come una forma modificata del ricambio organico (Stoffwechsel) tra l’uomo e la natura come dice Marx con termine significativamente mutuato dalle scienze naturali del suo tempo. Il concetto di ricambio organico è di straordinaria modernità; esso equivale all’idea del metabolismo della natura, fatto di cicli di materia e di flussi di energia, sostrato delle mutue relazioni fra le specie e fra esse e l’ambiente circostante, qual è proprio della moderna ecologia. Si veda la descrizione che ne dà Jacob Moleschott, naturalista tedesco contemporaneo di Marx e come lui influenzato dall’antropologia materialistica di Feuerbach, probabilmente l’ispiratore diretto di Marx stesso: “Ciò che l’uomo elimina, nutre la pianta. La pianta trasforma l’aria in elementi solidi e nutre l’animale. I carnivori si nutrono di erbivori, per divenire a loro volta preda della morte e diffondere nuova vita nel mondo delle piante. A questo scambio della materia si è dato il nome di ricambio organico (22). L’accusa di non aver colto le relazioni tra attività economica e cicli naturali, tra economia ed ecologia, rivolta continuamente a Marx (da Nicholas Georgescu-Roegen, ad esempio), messo nello stesso sacco con la quasi totalità degli economisti borghesi, è completamente ingiustificata. Da questo punto di vista, anzi, Marx è un precursore. Per ciò che riguarda la sua forma materiale, dunque, l’attività economica è un processo naturale, prolungamento e modificazione dei processi della natura stessa piegati dall’uomo ai suoi fini. I risultati della produzione sono frutto pertanto non solo dell’attività dell’uomo ma anche di quella della natura: “Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. […] Nella sua produzione l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificando le forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre” (23). Ma il processo lavorativo si distacca dalla mera appropriazione animale della natura fin dai primordi della specie umana, essendo l’uso degli strumenti — organi extracorporei dell’uomo — specifica caratteristica umana: “L’uso e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, contraddistinguono il processo lavorativo specificamente umano; per questo il Franklin definisce l’uomo a toolmaking animal, un animale che fabbrica strumenti” (24).

Con l’evolvere della vita sociale dell’uomo, il suo metabolismo con la natura diviene progressivamente un processo mediato socialmente: “Ogni produzione è una appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società” (25). In verità prende forma — secondo Marx — un vero e proprio ricambio organico sociale come sottoinsieme del ricambio globale con la natura. La forma storica del ricambio entro la società dipende strettamente dalla forma dei rapporti di produzione. Nelle comunità primitive di cacciatori-raccoglitori, fino alle comunità di villaggio che formano la base del modo di produzione asiatico, la distribuzione dei prodotti del lavoro comune (o del lavoro individuale ma sottoposto alla collettività) è mediata da norme comunitarie tradizionali. Forme di distribuzione diverse dallo scambio di merci permangono anche all’interno della piccola economia contadina e tra essa e l’artigianato indipendente, che “costituiscono in parte la base del modo di produzione feudale, in parte si presentano, dopo la dissoluzione di quest’ultimo, accanto all’impresa capitalistica”, che “costituiscono allo stesso tempo il fondamento economico della comunità classica nella sua epoca migliore, dopo che si fu disciolta la originaria proprietà comune orientale, e prima che la schiavitù si fosse impadronita seriamente della produzione” (26). La forma dello scambio di merci nasce inizialmente ai margini delle comunità che producono per l’autoconsumo, non al loro interno. Essa si accompagna allo sviluppo del commercio e dei ceti mercantili e, in generale, dell’economia monetaria, nella quale i valori d’uso assumono progressivamente la forma di valori di scambio, cioè di prodotti di lavoratori privati indipendenti che si scambiano tra loro per mezzo del denaro. Valore di scambio, denaro, sono ricchezza astratta (mere rappresentazioni sociali della ricchezza reale, ma pur dotate di potere reale su di essa), in contrapposizione alla concreta e materiale ricchezza rappresentata dai valori d’uso (cioè dagli oggetti utili). Questa ricchezza astratta produce la ricchezza astratta che si accresce, si moltiplica, si accumula senza altro scopo che la propria accumulazione: il capitale. Dapprima nelle forme del capitale monetario e mercantile, quindi nella forma rivoluzionaria del capitale industriale, che si appropria dei mezzi di produzione e si sottomette il lavoratore “libero”, cioè separato dalle sue condizioni di esistenza e di lavoro. E il processo che vede la dissoluzione del modo di produzione feudale, la generalizzazione dell’economia monetaria (risultato e catalizzatore di tale dissoluzione), la creazione del mercato internazionale e infine mondiale, la trasformazione in merci non solo dei prodotti ma anche dei mezzi di produzione, compresa la terra e le risorse naturali. Col trionfo del modo di produzione capitalistico la circolazione delle merci — e tutto è ormai merce o è in procinto di diventarlo — diventa il vero ricambio organico sociale che imprime il suo sigillo anche sul ricambio organico tra la specie e la natura. Quest’ultimo è ora continuamente sconvolto dalla rivoluzione permanente nelle condizioni tecniche del processo lavorativo (ridotto a semplice mezzo per il processo di valorizzazione del capitale), rivoluzione che si attua soprattutto nella grande industria con lo sviluppo delle macchine e l’assoggettamento delle forze del lavoro sociale (scienza e tecnica) e delle forze della natura. La natura stessa viene ora sistematicamente esplorata per scoprirne nuove potenzialità utili; viene integrata nei processi produttivi, viene modificata su larga scala secondo i bisogni del profitto: questa è la molla che spinge e orienta la produzione, non la soddisfazione dei bisogni umani individuali e sociali: “L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto […]. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo” (27). I bisogni umani non contano che nella misura in cui sono in grado di “realizzare” il valore di scambio dei valori d’uso corrispondenti, cioè nella misura in cui sono in grado di pagarli secondo i desideri del capitale che li produce. E questa logica rovesciata — per la quale i bisogni che decidono che cosa, quanto e come produrre sono i bisogni di un meccanismo sociale che sfugge al controllo dei suoi agenti e non i bisogni reali degli uomini — che conferisce al processo di produzione capitalistico il suo caratteristico movimento di produzione per la produzione, interrotto periodicamente dall’insorgere della crisi e del marasma in cui lo precipitano le sue contraddizioni: “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario: i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono muoversi unicamente la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali dal lavoro. Il mezzo — lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali — viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono” (28). Lo sviluppo capitalistico è dunque per Marx uno sviluppo contraddittorio: realizza grandi risultati e apre grandi possibilità ma lo fa più come potenzialità che come effettualità, e per molte ragioni. Perché è uno sviluppo anarchico, non regolato, non diretto. Perché i suoi frutti sono privilegio di una minoranza e i suoi costi sono la fatica e la privazione della maggioranza. Perché nel corso del processo il capitale tende a distruggere le fonti stesse della ricchezza: l’uomo e la natura.

La critica dell’economia politica: la degradazione capitalistica dell’uomo

L’uomo, in quanto lavoratore, è privato di gran parte dei risultati della sua attività; i suoi bisogni sono compressi al livello dei suoi bisogni elementari se non proprio animali. Marx aveva già scritto nei Manoscritti del 1844: “Persino il bisogno di aria libera cessa, per l’operaio, di essere un bisogno; l’uomo torna ad abitar caverne ma che sono ora avvelenate dai mefitici miasmi della civiltà e ch’egli occupa ormai soltanto precariamente in quanto gli sono qualcosa di estraneo che gli viene meno da un giorno all’altro […] La luce, l’aria ecc. la più elementare pulizia animale cessa di essere per l’uomo; il sudiciume questa depravazione e corruzione dell’uomo, la fogna (alla lettera) della civiltà gli diventa l’elemento in cui vive. L’incuria totale, innaturale la natura corrotta, gli diventa suo elemento vitale […]. Non solo l’uomo non ha più bisogni umani, anche i bisogni animali cessano in lui” (29). Le possibilità di sviluppo individuale e collettivo del lavoratore sono tarpate, inibite dalla sua posizione di sottomissione sociale; la sua autonomia è trasformata in dipendenza dal capitale e dalla sua esistenza materiale, il sistema delle macchine. Il suo pluslavoro si converte nella base per lo sviluppo della ricchezza e del potere del suo antagonista, il capitalista. Ma anche quest’ultimo non è, in quanto agente del capitale, che un uomo unilaterale, “costretto” a questa funzione dalle leggi del sistema sociale che operano per lui come “necessità esterna”: “In quanto è capitale personificato […] i motivi che lo spingono non sono il valore d’uso o il godimento, bensì il valore di scambio e la moltiplicazione di quest’ultimo. Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione […] la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne” (30). Questa disumanità del capitale (del capitalista), determinata dalla mera considerazione del valore di scambio e dall’indifferenza verso il concreto valore d’uso, ha prodotto e continua a produrre il supersfruttamento del lavoro ogni volta che ciò sia possibile, fino alle peggiori degradazioni fisiche e psichiche dell’umanità del lavoratore. Marx esamina questa tendenza nel Capitale nel capitolo dedicato alla lotta dei lavoratori inglesi per la riduzione della giornata lavorativa; alla quale la borghesia si oppone in tutti i modi, nonostante le impressionanti testimonianze dei rapporti ufficiali (opera di funzionari governativi) che descrivono le infermità e le deformità a cui va soggetta la popolazione operaia inglese nelle condizioni delle fabbriche della prima metà dell’ottocento. “Il capitale, che ha così “buoni motivi” per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che lo circonda, nel suo effettivo movimento non viene influenzato dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di uno spopolamento infine incontenibile, né più né meno di quanto su di esso influisca la possibilità della caduta della terra sul sole. Ciascuno sa, in ogni imbroglio di speculazione sulle azioni, che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare ma ciascuno spera che il fulmine cada sulla testa del suo prossimo e non prima che egli abbia raccolto e portato al sicuro la pioggia d’oro. Après moi le déluge! è il motto di ogni capitalista e di ogni nazione capitalistica. Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società” (31).

La critica dell’economia politica: la degradazione capitalistica della natura

“Après moi le déluge!”: il motto che riassume il comportamento del capitale nei confronti della salute e della vita dei lavoratori, può benissimo essere esteso a sintetizzare il comportamento verso la natura. L’attenzione critica di Marx non prende ancora la forma di una analisi sistematica e globale degli effetti del capitalismo sull’ambiente naturale. Ci sono tuttavia nella sua opera innumerevoli passi, e anche pezzi di analisi di singoli aspetti nel loro nesso generale col nuovo modo di produzione, che dimostrano la sensibilità con cui Marx coglie i rischi terribili che si delineano all’orizzonte. Due sono i nuclei tematici che tornano più spesso: l’approfondimento nella società moderna dell’antagonismo cittàcampagna e gli effetti della trasformazione capitalistica dell’agricoltura.

La concentrazione di grandi masse nelle città, risultato dello sviluppo della grande industria, ha l’effetto di alterare profondamente il ricambio organico fra l’uomo e la natura (come sa bene oggi l’ecologia): “Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altra turba il ricambio organico fra uomo e terra ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale” (32). Marx non trascura nemmeno il problema dei rifiuti e del loro riciclo. Il problema è trattato espressamente nel terzo libro: “Con il modo di produzione capitalistico si allargano le possibilità di utilizzo dei residui della produzione e del consumo. Per residui della produzione intendiamo gli scarti dell’industria e dell’agricoltura, per residui del consumo sia quelli derivanti dal consumo fisiologico umano sia le forme che gli oggetti d’uso assumono dopo esser stati utilizzati […] I residui del consumo sono di grandissima importanza per l’agricoltura. Ma nella loro utilizzazione si verificano, in regime di economia capitalistica, sprechi colossali” (33). Particolarmente penetrante e di grande attualità è l’analisi dell’applicazione all’agricoltura delle moderne tecniche capitalistiche: “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida (cioè “esuberante” nell’agricoltura e quindi disponibile altrove, ndr) vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per esempio gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione (il concetto di combinazione potrebbe essere reso più modernamente con il termine di “integrazione”; ndr) del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio” (34). L’impoverimento del suolo sottoposto ad uno sfruttamento irrazionale con il ricorso ai mezzi chimici è cosa troppo nota all’ecologia moderna perché sia necessario sottolineare la portata anticipatrice di questa pagina “ecologista” del Capitale, Marx (come egli stesso ci dice in nota) ha ricavato i suoi dati dall’opera di Liebig, della quale dà questo giudizio: “La spiegazione del lato negativo dell’agricoltura moderna, dal punto di vista delle scienze naturali, è uno dei meriti immortali del Liebig”. Basterebbero in verità queste poche pagine per far piazza pulita di tanti luoghi comuni contro Marx che circolano tra gli ambientalisti. Purtroppo anche quelli di loro che si collocano nell’area della sinistra (come Laura Conti ed Enzo Tiezzi) danno a vedere di conoscere l’opera marxiana di seconda mano e/o di aver recepito acriticamente giudizi liquidatori di autori antimarxisti che, per parte loro, Marx o non lo conoscono o non lo hanno capito. Questi temi vengono ulteriormente approfonditi con l’esame della rendita, dove si tratta delle trasformazioni prodotte nelle attività agricole, minerarie e forestali dall’affermarsi dei rapporti di produzione capitalistici e dall’applicazione delle tecniche moderne. “Il sistema capitalistico“, osserva Marx, “ostacola un’agricoltura razionale” benché né favorisca lo sviluppo tecnico. “Ad essa è necessaria l’opera del piccolo proprietario che lavora in proprio” (ma che è destinato ad essere soppiantato dalla grande azienda o a subirne le condizioni), “ovvero il controllo dei produttori associati” (35). Anche la proprietà pubblica della terra non basta di per sè, a parere di Marx, per garantire un’agricoltura razionale, se la produzione resta regolata dal meccanismo esterno del mercato e dei prezzi, invece che dall’esigenza interna di garantire nel tempo le condizioni di fertilità dei suoli. L’argomento è sviluppato in un commento alle opinioni di alcuni agronomi del suo tempo: “Chimici agrari assolutamente conservatori, quali ad esempio Johnston, ammettono che un’agricoltura veramente razionale trova dappertutto delle barriere insormontabili nella proprietà privata. Lo stesso affermano alcuni scrittori, che sono difensori ex professo del monopolio della proprietà privata del globo terrestre; così ad esempio il signor Charles Comte […]; nell’antagonismo fra la proprietà e un’agronomia razionale (essi) vedono soltanto la necessità di coltivare la terra di un paese come un tutto. Ma la dipendenza dalle oscillazioni dei prezzi di mercato, nella quale si trova la coltura dei particolari prodotti della terra, e la continua trasformazione di questa coltura in armonia con queste oscillazioni di prezzo, tutto lo spirito della produzione capitalistica, che è orientato verso il guadagno rapido e immediato, sono in opposizione con l’agricoltura, che deve tener presenti tutte le permanenti condizioni di vita delle generazioni che si susseguono; un esempio lampante è dato dalle foreste che soltanto talvolta vengono sfruttate in una certa misura secondo l’interesse generale, quando non costituiscono proprietà ma sono sottoposte all’amministrazione dello Stato” (36). Restando nell’ambito della proprietà privata, il problema è esacerbato dagli interessi antitetici del proprietario fondiario e dell’affittuario capitalista. La difesa della fertilità del suolo nel lungo termine abbisogna di migliorie che si incorporano nel fondo (drenaggi, irrigazione, ammendamenti, ecc.). I costi di questi interventi sono sostenuti di norma dall’affittuario ma, alla scadenza del contratto d’affitto, i risultati tornano ad esclusivo beneficio del proprietario fondiario che si trova in condizione di pretendere una rendita accresciuta in proporzione all’aumentata produttività della terra. I proprietari fondiari “mettono così nelle loro tasche private il risultato dello sviluppo sociale senza avervi contribuito — fruges consumere nati (nati per consumare i frutti). Ciò costituisce al tempo stesso uno degli ostacoli maggiori per una agricoltura razionale, in quanto l’affittuario evita tutti i miglioramenti e le spese che non prevede di poter recuperare integralmente prima della scadenza dell’affitto” (37). Anche la conduzione diretta si trova di fronte all’ostacolo della rendita ma nella forma trasformata del prezzo da pagare per l’acquisto del fondo (prezzo che equivale alla rendita capitalizzata al saggio corrente dell’interesse). Ora, osserva Marx, “l’esborso di capitale monetario per l’acquisto del terreno non costituisce […] un investimento di capitale agricolo. Esso è pertanto una diminuzione del capitale di cui i piccoli contadini possono disporre nella loro sfera di produzione. Esso diminuisce pertanto la quantità dei loro mezzi di produzione e restringe quindi la base economica della riproduzione. Esso assoggetta il piccolo contadino all’usuraio, perché in questa sfera (l’agricoltura, ndr) il credito, nel senso effettivo della parola, in generale si presenta solo raramente” (38). È un quadro che fotografa a tutt’oggi i problemi di larghi settori contadini, soprattutto nei paesi semicoloniali proprietà quanto nel caso della grande azienda moderna, conclude Marx: “Il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra, a prescindere dal fatto che lo sfruttamento viene fatto dipendere non dal livello raggiunto dallo sviluppo sociale ma dalle condizioni casuali e disuguali dei singoli produttori. Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e di conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell’arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario. In ambedue per la dipendenza dal prezzo di mercato” (39). Sarebbe difficile fotografare meglio i problemi in cui si imbatte oggi l’agricoltura su scala planetaria: eppure questo passo è stato scritto oltre un secolo fa! Infine, riprendendo motivi che abbiamo già accennati, Marx aggiunge al quadro sugli effetti delle tecniche industriali in agricoltura e della separazione città-campagna un elemento più vero oggi di quanto non lo fosse allora: gli effetti del commercio internazionale. Esso crea una “incolmabile frattura” nel ricambio organico “prescritto dalle leggi generali della vita”, poiché lo sperpero degli elementi della forza produttiva della terra “viene esportato” ben al di là dei confini nazionali (40). Aver riscoperto la centralità dell’agricoltura e delle sue condizioni naturali, aver sollevato i problemi decisivi delle risorse naturali e della difesa del suolo dall’erosione, dal disboscamento, dalla desertificazione, sono meriti indubitabili dell’ambientalismo contemporaneo di cui bisogna dargli atto. Ma questa riscoperta è stata fino ad oggi carente sotto un altro aspetto, per superare il quale la riscoperta di Marx da parte dell’ecologia è tanto importante quanto la scoperta dell’ecologia da parte del marxismo. Questo limite dell’ambientalismo è la scarsa considerazione delle radici sociali dei problemi ecologici. Quando l’ambientalismo scoprirà l’importanza di questo aspetto, esso coglierà senza dubbio la consonanza tra le sue aspirazioni e la prospettiva marxista di una società senza proprietà privata: “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive” (41).

Note

(1) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 267. (2) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 269. (3) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 200. (4) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 201-201. (5) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 203. (6) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi, Torino 1970, p. 111. (7) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 233. (8) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 9-10. (9) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 51. (10) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 29. (11) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 25. (12) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 64-65. (13) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 28. (14) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 26. (15) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 5. (16) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 8. (17) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 21. (18) K. Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 20. (19) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 39-40. (20) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 50. (21) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 211. (22) Jacob Moleschott, Il ciclo della vita, 1857, citato da A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1969, p. 80. (23) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 75. (24) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 214. (25) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), La Nuova Italia, Firenze 1968, I, p. 10. (26) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 376. Per altri riferimenti ai temi di questo paragrafo nelle opere di Marx si possono vedere anche: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), II, p. 79 e succ., e Il capitale, I, pp. 74, 111, 400, e Il capitale, III, p. 220; e inoltre, naturalmente, l’intero capitolo XXIV del I libro del Capitale dedicato all’accumulazione originaria. (27) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 312. (28) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 303. Si vedano i passi in Capitale, I, p. 137, 144, 354, 661; II, p. 59; e in Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), II, pp. 10-11 e 402-403. (29) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 237. (30) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 648. (31) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 305. Sul tema della sottomissione del lavoratore alle macchine si vedano anche i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), II, pp. 389-397. (32) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, p. 501. (33) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 135 (34) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, I, pp. 552-553. (35) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, pp. 158-159. (36) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 716 (nota). (37) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 719. (38) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 925. (39) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 925. (40) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 926. (41) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, p. 887.

CAPITOLO 1.2

UOMO NATURA SOCIETÀ NEL MARXISMO (2^ parte)

La critica dell’ideologia del progresso

La penetrante analisi delle conseguenze negative del capitalismo in agricoltura e, più in generale, l’attenzione di Marx ed Engels per il versante uomo-natura della dialettica storica, non sono aspetti casuali e secondari: sono diretta conseguenza della loro visione del mondo, del loro metodo d’analisi, di un’attenzione sistematica e metodica, critica ma partecipe agli sviluppi scientifici del loro tempo. Non solo verso quelle discipline che hanno stretta attinenza con la società (come fu il caso dell’interesse per la nascente etnologia, e non solo per l’opera di Morgan) ma anche verso le scienze naturali e la matematica. Le opere di Marx sono zeppe di riferimenti alle scoperte della biologia, della chimica, dell’agronomia. Engels si dedica per decenni a seguire e commentare gli sviluppi delle scienze del suo tempo, riflettendo sulle implicazioni più profonde delle nuove scoperte. Risultato di questa riflessione sono l’Anti-Dühring e la Dialettica della natura, quest’ultima rimasta allo stato di abbozzo. L’epistolario ci offre innumerevoli esempi della loro viva attenzione verso gli aspetti più diversi che potevano gettare una luce sulle tendenze profonde della società moderna. Un solo esempio: un brano della lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868: “È molto interessante il libro di Fraas (1847) Klima und Pfanzenwelt in der Zeit, eine Geschichte beider (Clima e regno vegetale nel tempo, un contributo alla storia di entrambi), per la dimostrazione che in epoca storica clima e flora cambiano. Egli è darwinista prima di Darwin e fa sorgere le specie stesse in epoca storica. Ma allo stesso tempo è agronomo. Sostiene che con la coltivazione — e secondo il grado di questa — va perduta la “umidità” tanto cara ai contadini (per questa ragione le piante migrano dal sud al nord) e subentra infine la formazione di steppe. I primi effetti della coltivazione sono utili, ma infine devastanti a causa del disboscamento, ecc. Quest’uomo è eruditissimo come filologo (ha scritto libri greci) e lo è altrettanto come chimico, agronomo, ecc. La conclusione è che la coltivazione, procedendo naturalmente e non dominata consapevolmente (a tanto non arriva naturalmente come borghese) lascia dietro di sè dei deserti. Persia, Mesopotamia, ecc., Grecia. Di nuovo quindi una inconsapevole tendenza socialista! […] Bisogna esaminare accuratamente tutte le cose recenti e recentissime sull’agricoltura. La scuola fisica si oppone a quella chimica” (42).

Questa passione per le scienze, tuttavia, non alimenta affatto (e ne abbiamo una prova anche nel passo appena visto) un atteggiamento di tipo positivistico di esaltazione della tecnica e del “progresso”. L’interpretazione del marxismo come filosofia della tecnica, dell’Industria e del dominio sulla natura (ancora molto diffuso, non solo tra gli ambientalisti che la respingono ma anche tra qualche marxista che la difende) è completamente destituita di ogni fondamento. L’opera di Marx e di Engels è tutta attraversata dal leit motiv della critica all’ideologia, positivistica o storicistica, del “progresso”. La quale si alimenta, nella seconda metà del XIX secolo, di una lettura “borghese” dell’evoluzionismo darwiniano (che peraltro non trova giustificazione nell’opera di Darwin ma semmai in quella del suo contemporaneo Wallace), che non manca di contaminare profondamente anche la vulgata kautskiana del marxismo, prolungando così la sua influenza fino ai giorni nostri. Questa ideologia, fortemente eurocentrica e sottilmente razzista, tende a vedere nel capitalismo il migliore dei mondi possibili, nei bianchi i rappresentanti della razza “superiore”, nell’Europa la civiltà più avanzata e nella società borghese la vera società “naturale”. Marx, invece, fin dalla Sacra famiglia (1844) aveva attaccato con buoni argomenti il progressismo borghese (nella sua versione storicistica): “Nonostante le pretese del progresso si hanno continui regressi e movimenti circolari […] la categoria “del progresso” è una categoria completamente inconsistente e astratta […] Tutti gli scrittori socialisti e comunisti sono partiti dall’osservazione, da un lato, che anche le azioni splendide e più vantaggiose sembrano rimanere senza splendidi risultati e sembrano finire in banalità, dall’altro lato, che tutti i progressi dello spirito sono stati finora progressi contro la massa dell’umanità, la quale è stata cacciata in una situazione sempre più disumanata. Essi perciò hanno dichiarato “il progresso” una frase insufficiente, astratta (vedi Fourier) e hanno supposto l’esistenza di una tara fondamentale del mondo civile (vedi fra gli altri Owen); essi perciò hanno sottoposto i fondamenti reali della società moderna a una critica incisiva. A questa critica comunista è corrisposto subito, nella pratica, il movimento della grande massa in opposizione alla quale aveva avuto luogo lo sviluppo storico avvenuto finora” (43). Gli stessi argomenti tornano trent’anni dopo in Engels (a torto considerato responsabile della successiva vulgata evoluzionistica del marxismo), nell’Anti-Dühring del 1876-78: “Dove Fourier appare più grande è nella sua concezione della storia della società”, in cui svela il “circolo vizioso” delle contraddizioni della “civiltà” borghese, nella quale “la povertà sorge dalla stessa abbondanza”: “Fourier, come si vede, maneggia la dialettica con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli, di fronte alle chiacchiere sull’infinita perfettibilità umana, mette in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente ma anche il suo ramo discendente e applica questo modo di vedere anche al futuro di tutta l’umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione dell’umanità” (44). Di nuovo il vecchio Engels, nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), opera in cui egli riprende in una versione sistematica gli studi etnologici di Marx (ispirali soprattutto da Morgan), scrive: “La civiltà ha compiuto cose che l’antica società gentilizia non era per nulla in grado di compiere ma le ha compiute mettendo in moto, e sviluppando, a spese di tutte le altre loro disposizioni, le passioni e gli istinti più sordidi degli uomini […] Perché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della società si muove in una contraddizione permanente. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un regresso della situazione della classe oppressa, cioè della grande maggioranza. Ogni beneficio per gli uni è necessariamente un danno per gli altri, ogni emancipazione di una classe è una nuova oppressione per un’altra classe. Ci offre la prova più evidente di ciò l’introduzione delle macchine, i cui effetti sono oggi noti in tutto il mondo” (45). E conclude riportando senza altri commenti l’auspicio dello stesso Morgan, che la società futura sia “una resurrezione, in una forma più elevata della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes” (Morgan, Ancient Society). Tutto ciò non ha nulla a che fare, ovviamente, con il proposito delle tendenze utopistico-reazionarie di riportare lo stato dell’umanità ad uno stadio precedente, di far girare all’indietro la ruota della storia verso uno stadio anteriore del dominio di classe. Per Marx ed Engels si tratta di fuoriuscire dalla storia “di ogni società esistita fino a questo momento”, dalla storia delle lotte (e dell’oppressione) di classe, caso mai per riannodare l’evoluzione futura alla preistoria preclassista e comunitaria. Così Marx stabiliva il nesso tra critica reazionaria e critica socialista del progresso nella lettera ad Engels già citata sopra: “La prima reazione alla Rivoluzione francese e l’illuminismo ad essa connesso era naturale: vedere tutto medioevale, romantico […] La seconda reazione è — e corrisponde alla tendenza socialista […] gettare lo sguardo, al di là del medioevo, sul primo evo di ogni popolo. Allora (gli eruditi) sono sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti, di trovarvi persino egalitarians to a degree (degli egualitari a tal punto) che farebbero inorridire Proudhon” (46).

Questa critica radicale trova qua e là — è vero — alcune limitazioni che tuttavia sono imputabili, più che ad un entusiastico “industrialismo”, ad un atteggiamento hegeliano che valorizza la superiore “astuzia della ragione” o all’influenza dell’eurocentrismo che Marx ed Engels assorbono (peraltro limitatamente) dalla cultura del loro tempo. Questo approccio discutibile si può cogliere negli scritti di Marx sull’India e sulla colonizzazione britannica, pubblicati sulla “New York Daily Tribune” nel 1853: “Può l’umanità adempiere il proprio destino senza che avvenga una rivoluzione fondamentale dei rapporti sociali dell’Asia? Se così non fosse, quali che siano i delitti commessi dall’Inghilterra, essa è stata lo strumento inconsapevole della storia nel suscitare quella rivoluzione” (47). “La società indiana non ha storia, o almeno non ha una storia conosciuta […] L’Inghilterra deve assolvere una doppia missione in India, una distruttrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia” (48). Questi concetti hanno certo facilitato, direttamente o indirettamente, il diffondersi di posizioni agnostiche o favorevoli verso il colonialismo imperialista e verso forme di razzismo in seno alla Seconda Internazionale e al movimento operaio, fornendo anche qualche pezza d’appoggio alle concezioni “tappistiche” della rivoluzione nei paesi arretrati, concezioni che inevitabilmente portano allo snaturamento o al rifiuto della rivoluzione stessa (è questo il tragitto delle socialdemocrazie, del menscevismo, della teoria staliniana della rivoluzione a tappe). Sono evidentemente elementi come questi — peraltro contraddittori col contesto generale — che vanno rimossi dal corpo del marxismo, in un processo coerente di revisione e continuità. Alla luce della critica dell’ideologia del “progresso” vanno lette le stesse pagine del Capitale e dei Grundrisse che parlano di una “funzione civilizzatrice” del capitale; se esse non vengono staccate dal loro contesto suonano tutto il contrario dell’esaltazione dell’industrializzazione a oltranza: “Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quella di estorcere il pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. Ciò porta a uno stadio in cui da un lato sono eliminate la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (compresi i vantaggi materiali e intellettuali) esercitati da una parte della società a spese dell’altra; dall’altro lato questo stadio crea i mezzi materiali e l’embrione di rapporti che rendono possibile combinare questo pluslavoro di una più elevata forma di società con una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale” (49). Lo sviluppo non è mai giustificato come fine a se stesso ma sempre e soltanto come premessa materiale e sociale della liberazione umana. E non è mai concepito nel mero aspetto quantitativo o materiale ma, in ogni caso, prima di tutto come sviluppo umano, delle facoltà, relazioni, ricchezza di manifestazioni dell’individuo. Questo sviluppo degli individui, d’altra parte, costituisce la vera base della ricchezza che dovrà prendere il posto della base attuale, l’appropriazione capitalistica del pluslavoro altrui: “Non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma […] la sua comprensione della natura e il dominio di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa […] Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il nonlavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo di produzione immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. (Subentra) il libero sviluppo delle individualità, e dunque […] la riduzione del lavoro necessario a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro” (50).

Un concetto ecologico di “dominio sulla natura”

Il concetto di “dominio sulla natura” che a volte ricorre in Marx ed Engels, è tutto il contrario di un atteggiamento di sfruttamento, manipolazione, degradazione. Quella marxista è naturalmente una posizione antropocentrica, che vede

come fatto positivo lo sviluppo dell’utilità della natura per l’uomo. Non si vede, d’altra parte, come potrebbe essere diversamente. Tutti ci preoccupiamo oggi dell’effetto serra o del buco dell’ozono perché mettono in pericolo la vita degli uomini, non certo perché una diversa composizione chimica dell’atmosfera o la scomparsa della specie umana dal pianeta abbiano un qualche significato per l’universo, per la “natura”. Essa proseguirebbe la sua evoluzione in ogni caso, anche senza la specie umana. Questo dominio sulla natura (ma per evitare equivoci sarebbe meglio d’ora innanzi usare l’espressione “controllo del nostro rapporto con la natura”) si fonda per il marxismo sulla comprensione dell’unità tra essa e l’uomo stesso. È questo il “filo verde”, per così dire, che unisce i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx all’Engels della Dialettica della natura, nella quale troviamo accenti di una sorprendente modernità, che anticipato il punto di vista della moderna ecologia: “Nella natura non esistono avvenimenti isolati. Ogni fatto agisce sull’altro e viceversa. Il più delle volte, è proprio la dimenticanza di questo movimento in tutte le direzioni, di questa azione mutua, che impedisce ai nostri scienziati di veder chiaro nei più semplici fenomeni […] L’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza” (51). “Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, immediati, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze […]” (52). “A ogni passo ci viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato” (53). Quest’ultimo passo rappresenta un’importante qualificazione dell’antropocentrismo marxista: nulla a che vedere con la visione dell’uomo quale “vertice” e “padrone” del “creato”, interpretazione del mito biblico propria dell’ideologia proprietaria borghese. Si tratta piuttosto dell’adesione piena al punto di vista materialista, introdotto dalla rivoluzione darwiniana e oggi pienamente valorizzato dall’ecologia, che fa dell’uomo una specie vivente tra le altre specie viventi, la cui vita è intimamente legata a tutte le altre forme vitali. Per la qual cosa, il rispetto per la natura e gli altri viventi è rispetto per l’uomo stesso e per le condizioni che ne preservano la vita, senza indulgenze verso qualsiasi romanticismo bucolico o verso il misticismo della “armonia prestabilita della natura”, che non hanno fondamento scientifico. Ma Engels, a differenza di molti ecologisti contemporanei, non si accontenta di questi rilievi; indaga la matrice sociale della degradazione ambientale: “In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono essere presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerativa. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato” (54). Essendo dunque la radice dei problemi ambientali nei rapporti sociali, non basterà affidarsi ai progressi della conoscenza scientifica per risolverli: “Per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale nel suo complesso” (55). L’elaborazione di Marx e di Engels è dunque attraversata costantemente dall’idea della natura contraddittoria del capitalismo il cui sviluppo è al tempo stesso sviluppo dei suoi aspetti contraddittori; lo sviluppo delle forze produttive non solo tende a convertirsi in spreco e paralisi di queste stesse forze ma esso diventa in modo crescente sviluppo di forze distruttive dell’uomo e della natura. Donde la necessità immediata della prassi rivoluzionaria consapevole per sventare la catastrofe sempre incombente, e non rinvio della rivoluzione in vista di catastrofi future (e men che meno attesa di una automatica, evolutiva, pacifica risoluzione delle contraddizioni stesse nei tempi infiniti di una qualche via riformista senza riforme).

Il metodo dialettico e il ruolo della prassi consapevole

La profondità d’analisi del marxismo — che trova conferma nell’intuizione sistematica di aspetti dello sviluppo capitalistico che erano, nel secolo scorso, di là da venire o appena in germe, e che non ha paragoni nell’opera di altri studiosi di quel tempo — testimonia infine della fecondità del suo metodo scientifico: il metodo dialettico. Esso consiste essenzialmente nell’esaminare la società non come dato immutabile e astorico o come insieme casuale di fatti senza reciproco rapporto (come è tipico di molta scienza sociale borghese), ma come una totalità organica in divenire, cioè come unità articolata di molteplici elementi interconnessi, ciascuno dei quali ha un’origine, un divenire, un trasformarsi, ma in relazione con tutto il resto e secondo leggi che spetta all’indagine scientifica portare alla luce. Questo è il significato delle engelsiane leggi della dialettica (ricavate da Hegel): “la conversione della quantità in qualità e viceversa”, “la compenetrazione degli opposti”, “la negazione della negazione”. Esse vanno intese come ciò che accade nello svolgimento dei processi storici, ma solo l’indagine empirica può decidere come e quando effettivamente questi mutamenti abbiano luogo. E questo rinvio all’indagine empirica (senza peraltro concedere nulla all’ingenua fiducia positivistica nel “fatto”, che, al di fuori della teoria che lo spiega, è privo di significato proprio) che costituisce la natura materialistica del metodo marxista, in contrapposizione con l’impiego idealistico della dialettica in Hegel, il quale ne aveva fatto una sorta di schema a priori per spiegare l’automovimento dell’Idea, da Hegel intesa come il vero motore del divenire del mondo. I singoli elementi che costituiscono la società (classi, forze produttive, rapporti sociali, cultura, forze politiche, ecc.) e che stanno in ogni momento in certe relazioni strutturali tra loro e con l’ambiente naturale, nel corso del divenire e sotto la spinta degli antagonismi e delle interazioni che si sviluppano tra di essi, cambiano di natura, di qualità, di importanza nell’economia complessiva del processo storico stesso (si pensi all’ascesa e al declino delle classi, delle forme politiche, delle forme culturali, dei singoli rami produttivi, ecc. nel corso della storia). Con ciò, cambia la struttura stessa dell’unità in divenire (la società in tutti i suoi aspetti). Caratteristica peculiare del metodo dialettico è quella di consentire la comprensione dei cambiamenti qualitativi che sfuggono invece ai metodi meramente quantitativi di indagine del reale. E questo un problema sempre più chiaramente avvertito anche dalle scienze contemporanee, venuto in primo piano proprio in relazione agli sviluppi dell’ecologia e della crisi ambientale. La comprensione dell’esistente e della sua logica di sviluppo include la comprensione della possibilità del mutamento e della natura di quest’ultimo. Si tratta, comunque, di una posizione che non ha nulla di deterministico: il futuro non è già interamente scritto nel presente e questo nel passato. Se così fosse, ciò rappresenterebbe la negazione di ogni storia umana, in quanto tutto sarebbe ricondotto a un meccanismo cieco che svolge il suo movimento predeterminato in origine una volta per tutte, e l’azione umana sarebbe né più né meno che una rotella inconsapevole di questo meccanismo. Invece la dialettica materialistica mette in luce che, in ogni momento storico dato, sussistono determinate condizioni oggettive che delimitano un certo numero di possibilità storiche di evoluzione. Entro questo spettro di possibilità, l’azione consapevole e inconsapevole degli uomini può determinare un esito oppure un altro. E ovviamente l’esito effettuale cambia le condizioni di tutta la storia successiva (ma il fatto che uno sbocco e non un altro si sia verificato, non significa minimamente che esso fosse l’unico esito possibile nelle condizioni date). Il punto cruciale è che gli uomini operano inevitabilmente entro certe circostanze storiche, e queste pongono ad essi dei limiti; ma, d’altra parte, l’azione degli uomini trasforma queste stesse circostanze e, soprattutto, essi possono proporsi consapevolmente di trasformarle (56). In questo modo la loro azione diventa determinante nel far sì che il processo storico imbocchi una strada invece che un’altra. L’azione consapevole nella e sulla storia viene definita da Marx (fin dalle Tesi su Feuerbach del 1845 (57)) il termine di prassi rivoluzionaria. La concreta analisi storica e politica può chiarire quelle che sono le possibilità, in ogni momento dato, della prassi rivoluzionaria. È questa concezione che contraddistingue il marxismo: esso non è solo una filosofia che cerca di comprendere il mondo, ma un metodo scientifico che si adopera praticamente per cambiarlo; e non sulla base di qualche ideale da realizzare, ma di trasformazioni la cui possibilità si inscrive nelle tendenze obiettive del divenire storico. Tutto ciò non dà la certezza positiva del successo inevitabile della lotta per una superiore forma di relazioni sociali. Ci dà oggi, invece, la certezza negativa che, senza l’azione consapevole per questo obiettivo, il capitalismo decreterà la condanna a morte della civiltà e sospingerà l’umanità verso una barbarie senza precedenti. L’alternativa tra socialismo e barbarie è, oggi più che mai, un vero bivio storico.

Note

(42) K. Marx – F. Engels, Carteggio, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XLIII, p. 59. (43) K. Marx – F. Engels, Sacra famiglia, in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, pp. 92-93. (44) F. Engels, Anti-Dühring, in K. Marx-F. Engels, Opere, XXV, pp. 249-250. (45) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, pp. 206-207 e 208. (46) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XVIII, pp. 57-58. (47) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XII, p. 135. (48) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XXV, p 223. (49) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, pp. 933-934. (50) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), La Nuova Italia, Firenze 1968, II, pp. 401-402. (51) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 446. (52) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 467. (53) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 468. (54) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 470. (55) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 469. (56) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 27 e 30. (57) K. Marx, Tesi su Feuerbach, tesi III e XI, in K. Marx-F. Engels, Opere, V, pp. 4-5.

CAPITOLO 2.1

UOMO-NATURA-SOCIETÀ: SVILUPPO STORICO E PROBLEMI DI OGGI (1^ parte)

Gli sviluppi scientifici posteriori a Marx e la conoscenza del metabolismo della natura.

Negli stessi anni in cui prendeva forma definitiva l’analisi del capitalismo nel Capitale, gli sviluppi delle scienze naturali ponevano le basi per una conoscenza della natura qualitativamente superiore a quella che era accessibile a Marx. Le conoscenze acquisite dopo di allora sono tali che ogni marxista serio, che voglia restare fedele al metodo scientifico di Marx, non può limitarsi a ripetere dogmaticamente le sue analisi, ma deve riesaminare la categoria del “ricambio organico fra uomo e natura” alla luce degli sviluppi scientifici contemporanei. Sono soprattutto la biologia, la termodinamica e l’ecologia che oggi hanno molte e importanti cose da dirci. Delle tre, indubbiamente è la biologia che Marx ed Engels poterono seguire almeno in parte nei suoi sviluppi e di cui poterono intuire le implicazioni. La pubblicazione dell’opera di Darwin sull’Origine delle specie (novembre 1859) fu immediatamente salutata con entusiasmo da Marx ed Engels, che videro nella teoria dell’evoluzione mediante selezione naturale una conferma della analisi materialistica della società e della concezione dell’uomo come parte alla natura. In effetti la teoria dell’evoluzione è oggi un principio basilare, un’ipotesi irrinunciabile della moderna biologia, a cui si deve la spiegazione

non solo dell’origine delle specie e della vita, ma anche di molte scoperte della biologia molecolare e della genetica. Ogni nuova scoperta della biologia, riconferma la profonda unità che sussiste tra l’uomo e la natura già colta da Marx nel 1844 (Manoscritti economico-filosofici) con la formula: l’uomo è una parte della natura e la natura è il suo “corpo inorganico” (1). In che modo quest’unità possa diventare contraddizione, conflitto (tanto a causa della natura quanto a causa dell’uomo) viene invece spiegato dall’ecologia che, all’epoca della pubblicazione del primo libro del Capitale (estate del 1867), aveva appena mosso i primi passi (1866) ad opera di Ernst Haeckel, insegnante di zoologia a Jena e appassionato divulgatore di Darwin in Germania, le cui opere di storia naturale erano ben note ad Engels. Essa si sviluppa però solo in questo secolo. Le sue basi scientifiche — innanzi tutto la formulazione della nozione capitale di ecosistema — vengono poste negli anni venti e trenta, anche se solo negli anni sessanta, in coincidenza con l’esplosione della questione ambientale, essa diventa una scienza popolare. Secondo l’efficace definizione di Eugene Odum, l’ecologia è “lo studio della struttura e delle funzioni della natura” (2), ovvero lo studio del suo metabolismo complessivo. Esso è un processo complesso nel quale interagiscono un numero pressoché infinito di elementi fisici e biologici tra loro connessi in processi minori. Eppure — come l’ecologia ha messo in luce — esistono meccanismi di autoregolazione ad ogni livello (i cosiddetti meccanismi omeostatici), che operano come controlli equilibratori smorzando le oscillazioni (feedback negativi) e riproducendo continuamente le condizioni che rendono possibile la vita nelle sue molteplici forme. Le omeostasi regolano e conservano i processi vitali, dal livello delle reazioni biochimiche che avvengono nella singola cellula fino al livello dell’intera biosfera, passando per tutti i livelli intermedi (gli organi individuali, gli ecosistemi, ecc.). Ogni equilibrio, tuttavia, non è mai assoluto e definitivo; esso si ricostituisce continuamente mediante e oltre i cicli e le variazioni che interessano le singole parti. Soprattutto, ciascun equilibrio evolve in continuazione, anche se con tempi differenziati: dai pochi giorni che intercorrono tra la nascita e la morte di molti microrganismi ai miliardi di anni in cui il processo generale dell’evoluzione ha radicalmente cambiato la faccia del nostro pianeta; dapprima originando la vita eterotrofa nel “brodo primordiale”, quindi la nascita degli autotrofi e dell’atmosfera ricca di ossigeno di cui oggi vivono quasi tutte le specie viventi, infine producendo la comparsa di una specie di primati caratterizzati dalla stazione eretta; specie che oggi, dopo ulteriore evoluzione, è giunta a proporsi l’impensabile, manomettere la stessa evoluzione di se stessa. Il metabolismo della biosfera, così come quello degli ecosistemi che la compongono, viene analizzato in termini di un flusso unidirezionale di energia e di cicli biogeochimici che interessano la materia. Mentre la materia, circolando dal mondo inorganico alle forme viventi e viceversa, si conserva (e ciascun atomo entra più e più volte negli stessi cicli passando da una combinazione chimica all’altra), la faccenda è qualitativamente diversa per l’energia. La comprensione di questa differenza è essenziale per comprendere l’intero fenomeno della vita nonché i problemi ecologici insorti drammaticamente negli ultimi decenni. La legge dell’entropia. Dal primo principio della termodinamica (la scienza fisica che si occupa dell’energia e delle sue trasformazioni) sappiamo che l’energia non si crea né si distrugge, ma si trasforma da una forma all’altra (legge di conservazione dell’energia). Tuttavia questo principio riguarda l’energia sotto l’aspetto quantitativo; per la vita in genere e per l’uomo in particolare, però, le diverse forme di energia non sono equivalenti: esse sono qualitativamente diverse. Il secondo principio della termodinamica afferma che la qualità dell’energia subisce, nel processo ininterrotto delle sue trasformazioni, una tendenza irreversibile a degradarsi, a dissiparsi; cioè a passare da stati in cui essa è energia utile, concentrata, disponibile per compiere un lavoro, ad uno stato in cui si disperde come calore, come energia indisponibile, inutilizzabile (legge dell’entropia). Enunciata nel 1865 dal fisico e matematico tedesco Rudolf Clausius, la legge dell’entropia è implicata in molti modi in ciò che avviene nell’universo. Una conseguenza fondamentale della costante degradazione dell’energia è questa: tutti i processi nei quali avvengono trasformazioni energetiche che dissipano calore sono irreversibili (essi cioè non possono “tornare indietro”, né essere ripetuti senza fornire dell’altra energia; ma se questo si può fare in un punto dell’universo non può essere fatto per l’universo preso come un tutto). Ciò spiega, tra l’altro, perché il mondo ha una storia e gli avvenimenti che in esso accadono procedono in un’unica direzione (questa direzione è la “morte termica” dell’universo, uno stato di dispersione dell’energia in cui le differenze di temperatura tra i vari punti dell’universo siano state annullate). Un secondo modo di intendere la legge dell’entropia è questo: un sistema “isolato” (che non scambia con l’esterno né materia né energia: l’universo, per l’appunto) evolve irreversibilmente da uno stato di relativo ordine ad uno stato di maggior disordine (la nozione di entropia è anche una misura del disordine di un sistema fisico chiuso). In effetti il secondo principio della termodinamica è enunciato a volte nella forma: “l’universo tende ad un massimo di entropia”, ovvero tende da configurazioni scarsamente probabili a configurazioni di massima probabilità. Ai concetti di ordine e improbabilità si connette anche la nozione di informazione: essa è una combinazione ordinata, cioè altamente improbabile rispetto ad una qualsiasi combinazione casuale, di elementi che rivestono un certo significato per un

“ricevente” (sono informazione in questo senso la segnaletica stradale, questo scritto, le molecole di Dna e quelle di Rna messaggero ecc.). L’importanza della legge dell’entropia per la vita è data dal fatto che non c’è vita senza energia, non c’è vita senza degradazione dell’energia, senza incremento dell’entropia. Ogni organismo vivente, infatti, dal più semplice al più complesso, è un sistema strutturato — organizzato — di molecole. Le reazioni chimiche implicate nella costruzione, nella conservazione, nell’organizzazione e nella duplicazione (riproduzione) di queste molecole richiede energia in qualche forma. In effetti la vita sconfigge (apparentemente) il principio dell’entropia, in quanto è in grado di creare l’ordine dal disordine, l’improbabile dal probabile, la bassa entropia dall’alta entropia (un essere vivente è sempre più ordinato e improbabile dell’ambiente inorganico dal quale è derivalo e nel quale e del quale vive). Ma ciò accade solo in via transitoria e soltanto in virtù del flusso di energia (di bassa entropia) che viene costantemente assorbito dall’ambiente circostante e restituito in forma degradata, sotto forma di calore (di alta entropia). Come gli sviluppi più recenti della termodinamica hanno spiegato, il “miracolo” della vita è possibile in quanto il vivente è un sistema “aperto” (che scambia cioè con l’ambiente sia materia sia energia). Sistemi termodinamici aperti, lontani da condizioni di equilibrio, possono dar luogo a processi di autoorganizzazione spontanea per effetto di semplici fluttuazioni casuali, cioè di perturbazioni dello stato del sistema; tuttavia la conservazione dello stato di organizzazione (o del nuovo livello di organizzazione, se la perturbazione ha indotto nel sistema una autoriorganizzazione) dipende da un flusso continuo di energia dall’ambiente esterno. Una delle proprietà più interessanti di questi sistemi (sistemi dissipativi) è la loro capacità di reagire alle perturbazioni esterne riorganizzandosi, cambiando cioè la loro configurazione strutturale (verso forme più semplici o più complesse). Ogni organismo vivente — e anche ogni ecosistema — può essere visto come un sistema dissipativo che assorbe energia per conservarsi vitale. Il metabolismo della natura. Il flusso di energia che alimenta la vita sulla terra è fondamentalmente quello che proviene dal sole, l’energia radiante solare fissata come energia chimica dalle piante verdi mediante il processo della fotosintesi. La biosfera è dunque un sistema aperto per ciò che riguarda l’energia (essa è invece un sistema chiuso per ciò che riguarda la materia, essendo l’apporto delle meteoriti trascurabile). I composti organici costruiti dagli organismi fotosintetici (autotrofi) forniscono la riserva energetica anche per quegli organismi che non sono in grado di fissare da soli l’energia solare (eterotrofi). L’energia chimica immagazzinata dalla fotosintesi si distribuisce a tutto il mondo vivente mediante i cicli di conversione bioenergetica rappresentati dalle catene alimentari (o catene trofiche). All’origine ci sono gli organismi autotrofi o produttori: essenzialmente le piante verdi (negli ecosistemi terrestri) e le alghe azzurre (negli ecosistemi acquatici), che sintetizzano i composti organici indispensabili alla propria crescita e riproduzione. I vegetali forniscono quindi il nutrimento (che da soli non possono costruirsi) agli eterotrofi consumatori: al primo gradino gli erbivori, ai diversi gradini successivi i carnivori. Il ciclo si chiude con gli eterotrofi decompositori, microrganismi e funghi, che demoliscono la materia organica morta rimettendo in circolo le sostanze necessarie a ricostruire i composti organici per la nuova vita. Le catene alimentari, quindi, da una parte fanno circolare i materiali che vanno a costituire la biomassa, dall’altra trasportano l’energia. “Ad ogni trasferimento di energia da un organismo all’altro, o da un livello trofico a un altro, una parte cospicua dell’energia è degradata in calore, come richiesto dal secondo principio della termodinamica” (3). Anche la biomassa, nel passaggio da un livello trofico a quello superiore (ad esempio dai vegetali agli erbivori, o da questi ai carnivori che si cibano di essi), si riduce grandemente: in media il rendimento si aggira sul 10%. Ciascun gruppo di organismi viventi (produttori, consumatori, decompositori) è quindi in uno stretto rapporto funzionale con tutti gli altri e tutti insieme lo sono con l’ambiente fisico: nessuno è indipendente, ciascuno evolve interagendo con l’ambiente (biotico e abiotico) che lo circonda. Le forme di vita che si trovano in un dato momento in un dato luogo (biocenosi), considerate nelle reciproche interazioni e in rapporto con l’ambiente fisico esterno dato (biotopo), costituiscono l’unità fondamentale studiata dall’ecologia, l’ecosistema. L’evoluzione del vivente (mutazione e adattamento tramite la selezione), non è un puro adeguamento passivo delle specie all’ambiente, ma una coevoluzione che crea continuamente un nuovo ordine e una nuova complessità, non solo al livello dell’individuo o della specie ma dell’intero ecosistema. Questo aspetto è parte di quella capacità di autoregolazione e di adattamento alle perturbazioni esterne a cui abbiamo già fatto cenno. Tuttavia la possibilità degli ecosistemi di riorganizzarsi spontaneamente — il loro “margine di tolleranza” — non è illimitato; sollecitato oltre un certo punto ogni ecosistema può crollare, mettere in moto processi che portano alla morte di alcune specie che lo costituiscono. Generalmente gli organismi che appartengono ai livelli più elevati delle catene alimentari sono anche quelli che sono più sensibili alle modificazioni improvvise degli ecosistemi. Ecco perché le variazioni incontrollate che le società umane continuano ad operare nella biosfera rischiano di compromettere le condizioni che garantiscono la nostra stessa vita sulla terra, la quale è direttamente dipendente dalla vitalità di molti ecosistemi diversi.

L’uomo nella natura secondo l’ecologia

L’uomo non è fuori dei cicli naturali, anche se il suo modo di parteciparvi si è sempre più allontanato, nel corso della sua evoluzione storica, dal punto in cui lo aveva collocato l’evoluzione biologica al momento del distacco come specie dagli altri primati. E proprio questo il suo carattere “specifico” per ciò che concerne la sua collocazione ecologica: la capacità di non subire passivamente l’adattamento tramite il meccanismo cieco della selezione naturale delle mutazioni favorevoli, ma di promuoverlo attivamente e in certa misura consapevolmente mediante una facoltà del tutto unica: l’evoluzione culturale (dove il termine cultura indica tanto l’aspetto materiale quanto quello spirituale): La cultura è un sistema di deposito e di alterazione degli schemi del comportamento che risiede non nelle molecole del codice genetico ma nelle cellule del cervello. Questo cambiamento rese i membri della specie Homo i più grandi specialisti in adattabilità del mondo naturale” (4). Questa straordinaria facoltà umana ha le sue basi biofisiologiche nella stazione eretta, in quell’organo estremamente raffinato e flessibile che è la mano, nello straordinario sviluppo cerebrale, nella possibilità della parola: tutti fatti che appaiono in stretta relazione evolutiva tra loro e con la natura sociale degli ominidi e degli individui della specie Homo sapiens che dai primi discende. La stessa evoluzione socioculturale, peraltro, pare aver giocato un ruolo complementare a quello dell’evoluzione biologica nel determinare la stessa natura genetica della specie umana così come oggi la conosciamo; secondo Edgar Morin: “Dal momento in cui si sviluppa la cultura e si stabilisce la regola dell’esogamia e il tabù dell’incesto, le piccole comunità chiuse di ominidi, terreno favorevole allo stabilirsi e al propagarsi di differenziazioni genetiche, vale a dire al costituirsi di nuove specie, lasciano il posto a comunità aperte, che implicano il mescolamento genetico, tali cioè da impedire, ormai, la nascita di nuove specie: detto altrimenti, la cultura ferma l’evoluzione biologica dopo averla accelerata, perché è essa stessa evoluta, passando da un certo stadio organizzativo (comunità chiusa) a uno stadio più complesso (comunità aperta)” (5). Il tratto umano che sembra esser stato più gravido di conseguenze ecologiche, come ben aveva intuito Engels, è comunque la relativa povertà della dotazione di organi endosomatici (corporei) a cui gli individui e le popolazioni della specie umana hanno dovuto sopperire con lo sviluppo di una dotazione di organi esosomatici (extracorporei). Nella tendenza a crearsi strumenti extracorporei usando e modificando i materiali naturali si manifesta embrionalmente la peculiarità di questo animale molto versatile che cerca di modificare l’ambiente per adattarlo a sè stesso piuttosto che il contrario. In ciò, indubbiamente, c’è un elemento potenzialmente destabilizzante. La specie umana, in effetti, non sfugge alle leggi naturali ma ha appreso da lungo tempo i modi per dilatare quei limiti che invece regolano piuttosto rigidamente le popolazioni delle altre specie viventi. Come ogni altra specie di animali consumatori, il livello della popolazione umana dipende dalle sue fonti di energia alimentare (i livelli trofici sottostanti) e dalle popolazioni di consumatori e di decompositori che la usano come propria risorsa alimentare. Fin dai primordi della loro storia i gruppi umani hanno cercato di sbarazzarsi dei propri predatori, e per ciò che riguarda i grandi carnivori vi sono definitivamente riusciti a partire dal neolitico. L’uomo si è sostanzialmente liberato dei suoi parassiti molto più recentemente. Da poco più di un secolo ha cominciato ad emanciparsi dai suoi decompositori patogeni che hanno giocato in passato un ruolo centrale nella demografia umana. Quest’ultimo successo è alla base della regressione della mortalità infantile, ed è uno dei fattori principali dell’esplosione demografica dell’ultimo secolo. D’altra parte la rivoluzione agricola ha permesso all’uomo di intervenire sulle catene trofiche di cui si alimenta; egli cerca di facilitare in diversi modi la competizione delle piante e degli animali “domestici” con gli organismi (parassiti, piante infestanti, predatori, ecc.) che sono suscettibili di prendere il loro posto o di alimentarsene. Queste tecniche di selezione “artificiale” consentono di accrescere e migliorare la qualità dell’energia alimentare utilizzabile dall’uomo; anche questi ecosistemi “addomesticati”, tuttavia, continuano a dipendere fondamentalmente dalla quantità di energia solare che riescono a fissare in energia biochimica tramite la fotosintesi. Lo sviluppo degli organi esosomatici (mezzi di lavoro e di produzione ma anche mezzi di trasporto, mezzi bellici, mezzi di comunicazione, ecc.), se da un lato ha consentito di accrescere l’efficacia dell’intervento umano sulla natura e sull’uomo, dall’altro ha moltiplicato i prelievi di materiali e di energia pregiata dai cicli della biosfera e incrementato la dispersione di questi stessi materiali e dell’energia, creando i presupposti del problema dell’inquinamento. Le attività produttive non fanno che trasformare elementi naturali dissipando energia e scarti; esse si risolvono pertanto in un trasferimento di materie di vario tipo e di energia degradata (calore) da un posto all’altro della biosfera. In termini entropici, esse trasformano bassa entropia (energia pregiata e materia utilizzabile) in alta entropia (energia e materia inutilizzabili). Inoltre, tutto ciò che viene estratto da un posto (dal sottosuolo o dal fondo degli oceani, dall’atmosfera o dalla biomassa superficiale), e che entra in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, nei consumi umani deve sempre andare a finire poi da qualche altra parte. Questo può interferire con i cicli biogeochimici e bioenergetici naturali. Tra di essi non esiste, infatti, compartimentazione, per cui ciò che viene disperso in forma gassosa nell’atmosfera, depositato in forma solida sul suolo, seppellito nel sottosuolo o versato nelle acque di superficie, finisce per mille vie per ricadere sulla terra, per inquinare le falde sotterranee, per defluire nei mari e negli oceani; qui, esso in parte si accumula e in parte torna in circolazione. Oltre una certa soglia quantitativa, l’accumulazione di questi processi diventa un dato qualitativo: inquinamento. Piogge acide, eutrofizzazione delle acque superficiali, inquinamento delle falde idriche a opera dei diserbanti e dei prodotti chimici industriali, problema dello smaltimento dei rifiuti solidi: ecco alcune lezioni attuali che confermano questi principi elementari.

Società e ambiente nelle formazioni sociali precapitalistiche

Il punto precedente ha messo a fuoco la questione centrale: il rapporto uomo-natura è un rapporto storicamente determinato. A ben vedere, anche i rapporti delle altre specie con l’ambiente evolvono col tempo; e, da quando esiste l’uomo, la loro evoluzione è più o meno influenzata dalla sua azione e pertanto è anch’essa storicamente determinata. Ma c’è una differenza di grado e di qualità nel rapporto dell’uomo con l’ambiente rispetto alle altre specie: l’uomo modifica consapevolmente il suo ambiente e lo fa a ritmi che per esse sono inimmaginabili. La tesi del marxismo è che questo rapporto storico è socialmente condizionato: “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate dalla coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita […]. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società” (6). Il passaggio da un modo di produzione all’altro avviene perché, a un certo punto del loro sviluppo, le forze produttive entrano in contraddizione con le relazioni sociali, divenute un impedimento al loro sviluppo: “allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale” che sconvolge la base economica della società e con essa l’intera sovrastruttura. Il concetto di forze produttive corrisponde all’insieme dei mezzi materiali e spirituali, naturali e sociali di cui una società determinata può disporre in un momento dato, e dai quali dipende il suo ricambio organico con la natura. Sono forze produttive in primo luogo la popolazione produttiva stessa e il grado di affinamento delle sue abilità e della sua cultura; i mezzi produttivi accumulati dal lavoro passato; il livello della divisione e della “combinazione” sociale del lavoro; lo sono le risorse naturali disponibili; lo sono al massimo grado le conoscenze scientifiche e tecniche che condizionano la disponibilità stessa delle risorse e il loro impiego efficiente. L’idea di “sviluppo delle forze produttive”, quindi, ha anche il significato di conquista di un superiore grado di controllo sull’ambiente naturale da parte di una determinata società umana. Pertanto, il trapasso da un’epoca all’altra della “formazione economica” della società non si configura soltanto come superamento di una crisi sociale ma, probabilmente, di una crisi ad un tempo sociale ed ecologica (nel senso che vi è implicata la trasformazione del rapporto tra la società e l’ambiente, oltre che quella del rapporto tra uomo e uomo). Le osservazioni che seguono vogliono verificare questa ipotesi. Ricostruiscono in modo schematico e a titolo esemplificativo alcuni passaggi della storia sociale dell’umanità che in effetti si dimostrano dialetticamente intrecciati con la sua storia ecologica. Ciò ci consente di collocare meglio nella storia la crisi ambientale odierna e di vedere più chiaramente la natura complessa della crisi della nostra epoca. Risulterà evidente un fatto: nel rapporto uomo-natura, non sempre un successo immediato a favore dell’uomo si rivela come un successo a lungo termine; non sempre, in passato, una crisi ecologica si è risolta felicemente con un nuovo progresso umano nel controllo sul proprio ambiente: in alcune occasioni essa si è risolta in una catastrofe che ha interrotto o rallentato lo sviluppo di determinati gruppi umani. Ciò dovrebbe mettere in guardia tanto contro atteggiamenti semplicisticamente catastrofistici, quanto contro uno stupido ottimismo tecnologico secondo il quale la scienza e la tecnica risolveranno per tempo ogni problema. Ne esce ribadito il punto che, quasi sempre, la variabile cruciale — anche di una crisi ecologica — sono i rapporti sociali. Per tutto il paleolitico (era che rappresenta il 99% della presenza umana sulla terra) i gruppi umani si procuravano la sussistenza mediante la raccolta, la caccia e la pesca. La dipendenza dall’ambiente era pressoché totale; l’uomo derivava la sopravvivenza dalle risorse alimentari prelevate dai livelli trofici inferiori che non sapeva ancora controllare e per una lunga fase fu preda oltre che cacciatore. L’estrema precarietà e povertà collettiva rendevano possibili solo strutture sociali tendenzialmente egualitarie (assenza di classi). La divisione del lavoro dentro la comunità era estremamente primitiva e si fondava su differenze naturali quali il sesso, l’età, la forza fisica. Il controllo del fuoco fu la più grande rivoluzione tecnica ed ecologica di questo periodo. Il fuoco permise di difendersi più efficacemente dai predatori, di cuocere i cibi (allargando il campo delle sostanze commestibili) e di scaldarsi (rendendo possibile la penetrazione in regioni dal clima freddo). Col fuoco l’uomo acquistò una tecnica per convertire l’energia chimica delle materie combustibili in potere calorifico. Ciò lo mise in grado di ottenere, in tempi successivi, nuovi progressi come disboscare rapidamente aree molto estese da destinare alla coltivazione, cuocere l’argilla e i mattoni, fondere i metalli, ecc. Controllando il fuoco “l’uomo si staccò in maniera rivoluzionaria dal modo di vita degli altri animali” (7). Nel corso di questa lunghissima sequenza di secoli non mancarono momenti di notevole espansione demografica e di vera e propria fioritura culturale (ad esempio, le popolazioni magdaleniane in Francia e Spagna). Naturalmente quando le condizioni ambientali lo consentivano, come avvenne durante l’ultima era glaciale, quando le tundre e le steppe dell’Europa non invasa dai ghiacci erano popolate da mandrie di grossi erbivori (mammut, bisonti, renne, ecc.). La caccia, che richiedeva la cooperazione di gruppi umani piuttosto estesi, forniva allora abbondanti risorse alimentari e forse un’eccedenza, che era appropriata dai primi lavoratori “intellettuali” della storia, gli artisti-maghi che coprirono di splendidi dipinti rituali le caverne della Francia meridionale e della Spagna settentrionale. È stato calcolato che non occorrevano più di trenta ore settimanali di caccia e raccolta, oppure tre o quattro ore giornaliere a testa, per procurare un nutrimento abbondante e vario a queste comunità primitive; ciò consentì la loro intensa vita sociale e uno straordinario sviluppo culturale. Alla fine dell’ultima era glaciale — diecimila anni fa — ebbe luogo la cosiddetta rivoluzione neolitica che presenta i tratti ad un tempo di una rivoluzione economica, di una rivoluzione sociale e di una rivoluzione ecologica. Accadde che in Medio Oriente, accanto alle tribù di cacciatori, fecero la loro comparsa tribù che praticavano la pastorizia e la coltivazione della terra. Al di là delle differenze regionali (agricoltura nomade col metodo di sgombrare un’area di foresta col fuoco nelle zone tropicali e temperate; agricoltura irrigua nelle savane semi aride) le nuove tecniche segnarono il primo passo nel controllo dei cicli bioenergetici da cui dipende la sussistenza umana. Si crearono le condizioni per l’accumulazione di riserve alimentari; la comparsa di un’eccedenza permanente, e non più episodica, sul prodotto necessario consentì la differenziazione in seno alle comunità primitive, l’approfondimento della divisione del lavoro, l’emergere di una classe che si appropriava del sovrapprodotto sociale, la differenziazione tra città e campagna. Il passaggio dall’economia paleolitica alla più progredita economia neolitica sembra essere stato un processo fortemente condizionato dalla “crisi climatica che mise fine all’epoca pleistocenica” (Gordon Childe). Le popolazioni che diedero vita a questa trasformazione non furono quelle che avevano raggiunto il massimo sviluppo nella fase precedente, ma popolazioni che avevano saputo adattarsi ad ambienti più difficili ma più vari: “Lo sciogliersi dei ghiacci settentrionali non soltanto mutò le steppe e le tundre d’Europa in foreste temperate ma diede anche inizio alla trasformazione delle praterie meridionali del Mediterraneo e dell’Asia anteriore in deserti interrotti da oasi. I rivoluzionari non furono i selvaggi progrediti dell’età della pietra antica — i magdaleniani si erano troppo specializzati a sfruttare l’ambiente pleistocenico — ma gruppi più umili che avevano creato più a Sud culture meno specializzate e meno brillanti. Fra di loro, mentre gli uomini cacciavano, le donne — dobbiamo supporre — avevano raccolto, con altri commestibili, i semi di erbe selvatiche, capostipiti del nostro grano e del nostro orzo. Il passo decisivo fu quello di seminare apposta tali semi in terreno adatto e lavorare questa terra con la sarchiatura e altri accorgimenti. Una società che agiva così d’ora innanzi avrebbe prodotto attivamente cibo, aumentandone la disponibilità” (8). Una spiegazione complementare sottolinea il ruolo della pressione demografica nel promuovere il successo delle nuove tecniche. Dopo aver spinto le popolazioni paleolitiche a colonizzare ogni angolo del globo migrando anche nelle Americhe e in Australia, l’ulteriore incremento demografico creò le condizioni per una rivoluzione tecnica nel modo di procacciarsi la sussistenza: “Su tutto il globo, a Est come a Ovest, le popolazioni cominciarono a passare dalla dipendenza da mandrie di animali di grandi dimensioni (molti dei quali in netto declino) all’utilizzazione di animali e piante di dimensioni più piccole. I raccoglitori divennero più importanti e i cacciatori meno, e l’umanità generò necessariamente i suoi più grandi botanici e zoologi pratici di ogni tempo. Là dove le condizioni erano particolarmente favorevoli — per esempio, dove il grano cresceva rigoglioso e compatto ed era di un tipo con spighe che non si disperdevano e andavano perse quando le si mieteva con falcetti di silice — […] i raccoglitori divennero contadini” (9). I molteplici mutamenti ecologici che segnarono la fine del paleolitico e l’affermazione dei nuovi metodi di vita ebbero enormi conseguenze che si possono misurare anche nella diversa evoluzione storica delle società che si svilupparono nel Vecchio Mondo (Eurasia e Africa) e di quelle del Nuovo Mondo (le Americhe) o dell’Australia, dove la rivoluzione neolitica avvenne con ritardo o non ci fu per nulla. Secondo alcuni studiosi il ritardo e i limiti con cui la rivoluzione neolitica ebbe luogo nelle Americhe si deve al fatto che non fu possibile l’addomesticamento degli erbivori per la scomparsa delle specie che più vi erano adatte in seguito all’eccesso di caccia da parte dell’uomo paleolitico. Questa catastrofe ecologica fu invece scongiurata nel Vecchio Mondo dall’adozione di tecniche di caccia “controllata” che sfociarono successivamente nell’allevamento vero e proprio. Il ritardo di sviluppo tecnologico accumulato dalle civiltà precolombiane delle Americhe e dalle tribù aborigene dell’Australia, ne segnò la sorte allorché furono raggiunte dagli invasori europei nel XVI e XVII secolo della nostra era. Il grande successo ecologico della rivoluzione agricola ebbe anch’esso, comunque, il suo rovescio. Da un lato consentì di aumentare la disponibilità di cibo per una popolazione crescente di uomini e di animali; dall’altro creò le condizioni favorevoli per lo sviluppo degli organismi che sono i parassiti di quelle specie (piante ed animali domestici, l’uomo stesso) che ora si moltiplicavano e si concentravano nelle colture estensive, nelle greggi, nei villaggi e nelle città. Le piante infestanti dei raccolti, i parassiti dell’uomo e delle sue case, i microrganismi patogeni e le epidemie (peste, vaiolo, ecc.) che essi portavano con sè (e che non avevano potuto attecchire profondamente nelle piccole e sparse comunità paleolitiche): anche questi furono prodotti della civiltà al pari della metallurgia, della scrittura, delle caste sacerdotali, della proprietà privata e dello Stato. Le diverse società di classe che emersero in seguito alla rivoluzione neolitica e che precedettero il sorgere del capitalismo si differenziarono l’una dall’altra soprattutto per il modo in cui i rapporti sociali connettevano i lavoratori alle loro condizioni di lavoro (10) (che erano condizioni ancora essenzialmente naturali). Anche in relazione a questo aspetto, le società di classe precapitalistiche ebbero un impatto sull’ambiente naturale molto diverso l’una dall’altra. Nel modo di produzione asiatico (11) il lavoro era connesso alle sue condizioni obiettive mediante la comunità di villaggio che deteneva il possesso collettivo della terra; la proprietà, invece, era generalmente attribuita alla divinità o al sovrano-dio, cioè al potere statale centrale; esso si appropriava sotto forma di tributi (originariamente in natura) del sovrapprodotto dei villaggi rurali. Lo Stato tuttavia non era unicamente lo strumento della classe dominante per estrarre il pluslavoro dai contadini; la sua esistenza era legata anche alle grandi opere pubbliche di regolazione delle acque per fini agricoli (così negli imperi fluviali dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e della Cina). In tali condizioni il lavoro artigiano era ancora strettamente integrato col lavoro agricolo ed entrambi erano finalizzati al valore d’uso e ai bisogni della comunità di villaggio. Le città erano prevalentemente centri amministrativi o centri commerciali con l’estero. Il problema dell’acqua dominava le preoccupazioni di queste società; date le condizioni climatiche, la terra non produceva adeguatamente se non irrigata artificialmente. Ma secondo la moderna ecologia queste tecniche, nel corso dei millenni, provocarono l’inaridimento del suolo perché l’irrigazione tende a determinare un eccesso di sali nei terreni. Nel modo di produzione antico (12) l’unità tra il lavoratore e le condizioni obiettive del lavoro si realizzò mediante la sottomissione del primo come schiavo al proprietario delle seconde (il mezzo di lavoro più importante rimaneva la terra ma esistevano anche strumenti di lavoro autonomi nella manifattura e nel commercio). I proprietari fondiari costituivano dunque la classe dominante. Lo sviluppo delle città antiche (Atene, Roma, ecc.) si fondava originariamente sul sovrapprodotto del lavoro schiavistico nelle campagne. Per quanto la produzione restasse in prevalenza una produzione per il valore d’uso, andò affermandosi l’economia monetaria e il valore di scambio. Questi elementi, che assunsero importanza crescente nelle fasi di decadenza della civiltà antica, ebbero senz’altro un effetto deleterio sull’ambiente naturale. Il lavoro dello schiavo, infatti, è meno rispettoso del lavoro del libero o del servo verso il mezzo di lavoro. Fu forse la produzione per il valore di scambio e per il commercio d’esportazione che produsse i guasti maggiori. I rifornimenti di una metropoli come Roma, ad esempio, o dei suoi eserciti, condusse a forme di depauperamento di intere regioni a causa di tecniche di cerealicoltura, pastorizia, disboscamento, ecc. che si rivelarono ecologicamente insostenibili. L’impero romano d’altra parte contribuì a diffondere in più ampie regioni europee coltivazioni e tecniche agricole e produttive più avanzate. Ma la base schiavistica della produzione antica scoraggiò ogni applicazione delle macchine — quantunque fossero già disponibili le conoscenze scientifiche e tecniche necessarie al loro sviluppo — perché la manodopera degli schiavi rappresentava una “fonte d’energia” meccanica a basso costo facilmente reclutabile e più conveniente. Nel modo di produzione feudale (che si affermò in Europa nel Medioevo e, fuori d’Europa, solo in Giappone dal XV secolo alle riforme dell’era Meiji, nella seconda metà del XIX secolo) il contadino, ridotto in condizione servile e obbligato a sostenere col suo sovrapprodotto la classe nobiliare feudale, venne vincolato strettamente alla terra (più tardi le corporazioni cittadine unirono il lavoratore ai suoi mezzi di lavoro subordinando i garzoni al maestro artigiano). L’interesse diretto del servo per la terra che lavorava e il regresso dell’economia monetaria ebbero inizialmente effetti positivi sul rapporto tra società e ambiente. Verso la fine del primo millennio, nell’Europa medioevale ebbe inizio una vera e propria rivoluzione agricola che formò la base dello sviluppo urbano. Furono realizzate importanti opere di bonifica e di irrigazione e si introdussero nuove tecniche più produttive sia nei metodi di coltivazione (la rotazione triennale e la diversificazione delle colture, la concimazione sistematica) sia negli strumenti di lavoro (l’aratro pesante a versoio, gli strumenti di lavoro in ferro, i nuovi sistemi di attacco degli animali, il carro a quattro ruote, il mulino ad acqua e a vento). “Fu cosi che i contadini medioevali fabbricarono il suolo agrario europeo: con un’incessante lavoro di sistemazioni idrauliche e di ammendamenti” (13). L’incremento economico e demografico che ne seguì produsse da un lato la ripresa delle città, dell’artigianato, dei traffici e diede un nuovo potente impulso all’economia monetaria e ai suoi effetti disgreganti sull’economia naturale; dall’altro, comportò la distruzione progressiva e sistematica della copertura forestale dell’Europa nordorientale. Ma il dinamismo dell’economia medievale non era illimitato e conobbe una crisi profonda nel XIV secolo allorché il dissodamento di nuove terre (spesso meno fertili e rapidamente depauperate) toccò i limiti naturali e l’esaurimento dei terreni di più antica coltura causò in varie regioni un declino della produttività agricola. Aumentò così il rischio di carestie (e delle epidemie che regolarmente ad esse si accompagnavano). La Peste nera del Trecento fu anche il risultato di un’incipiente crisi ecologica; ad essa, e alle altre catastrofi che la precedettero e la seguirono, l’Europa pagò il tributo della perdita di un quarto, forse di un terzo della sua popolazione nel corso del secolo (14). Il ciclo ascendente non riprese che a metà del XV secolo e già nel secolo successivo si ricrearono quelle condizioni di pressione demografica che, entro i limiti dei rapporti feudali, si erano rivelate catastrofiche. Ma la reazione “maltusiana” del XVII secolo non fu uguale ovunque, perché la situazione era adesso cambiata, e, particolarmente in Inghilterra, andava cambiando sempre più profondamente. Le scoperte geografiche avevano aperto la strada dell’emigrazione nel Nuovo Mondo; i tesori che da questo affluivano avevano dato un nuovo slancio ai commerci e agli scambi; l’economia monetaria (e una lenta ma costante inflazione che dava il colpo di grazia alle rendite signorili) completava la disgregazione dei rapporti feudali nelle campagne e accompagnava l’ascesa di una borghesia fatta di commercianti, speculatori, finanzieri, il cui successo fu in diretto rapporto con l’evoluzione dei rapporti politici nei vari contesti nazionali. Il XVII secolo vide la crisi profonda dei paesi politicamente più arretrati (la Germania sconvolta dalla guerra dei trent’anni, la Spagna oppressa dal fiscalismo statale, il Portogallo), la stagnazione demografica ed economica della Francia dell’Ancien Régime, la prosperità dell’oligarchia mercantile d’Olanda, i progressi demografici e agricoli dell’Inghilterra nella quale si andavano riunendo le condizioni per il trionfo, nel secolo successivo, della rivoluzione industriale: in primo luogo la separazione dei lavoratori dai loro mezzi di sussistenza e di lavoro e la trasformazione in merce di questi ultimi, processo che ricevette una spinta fondamentale dal movimento delle recinzioni (enclosures) delle terre comuni, trasformate in aziende capitalistiche.

Note

(1) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, pp. 198-99. (2) E. Odum, Ecologia, p. 11. (3) E. Odum, Ecologia, p. 58. (4) A. Crosby, Imperialismo ecologico, p. 14. (5) E Morin, L’Unité de l’Homme, citato da Jean Paul Deléage, La nature: un paradigme introuvable [43], in “Critique Communiste”, n. 7. maggio-giugno 1976. Deléage continua le osservazioni di Morin: “L’uomo dunque è il prodotto di una lunga evoluzione ecologica e, allo stesso tempo, per le sue capacità mentali (memoria, linguaggio…) egli si mostra capace di “prolungare” un lento processo di ominazione, anch’esso segnato da una costante interazione di fenomeni biologici e culturali”. Su questi temi il notevolissimo libro di E. Morin, Il paradigma perduto, Che cos’è la natura umana? Bompiani, Milano 1974? (6) K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, pp. 5-6. (7) V. G. Childe, L’uomo crea se stesso, p. 93. (8) V. G. Childe, Il progresso nel mondo antico, p. 53. (9) A Crosby, Imperialismo ecologico, p. 20. (10) Sull’elemento che distingue le diverse forme sociali si veda questo passo del Capitale, II, p. 41: “Quali che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi di produzione restano sempre i suoi fattori. Ma gli uni e gli altri sono tali in potenza nel loro stato di reciproca separazione. Perché in generale si possa produrre essi si devono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata quest’unione distingue le varie epoche economiche della struttura della società”. Sulle società precapitalistiche in Marx ed Engels si possono vedere: Marx, Forme che precedono la produzione capitalistica (nei Grundrisse), Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato; Marx-Engels, India Cina Russia. (11) Sul modo di produzione asiatico si può vedere Gianni Sofri, Il modo di produzione asiatico; Ernest Mandel, La formazione del pensiero economico di Marx; Perry Anderson, Lo stato assoluto, in particolare l’appendice Il “modo di produzione asiatico”; Lawrence Krader, Evoluzione, rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico, in Storia del marxismo, Einaudi, vol. I. (12) Sul modo di produzione antico si può vedere un punto di vista marxista in Perry Anderson, Dall’antichità al feudalesimo; anche Witold Kula, Teoria economica del sistema feudale, Einaudi, Torino 1070. (13) Laura Conti, Questo pianeta, p. 102. (14) Sulla crisi ecologica del XIV secolo si veda il capitolo “La crisi generale” in Perry Anderson, Dall’antichità al feudalesimo. Quest’opera è fondamentale anche per un’analisi marxista del modo di produzione feudale.

CAPITOLO 2

UOMO-NATURA-SOCIETÀ: SVILUPPO STORICO E PROBLEMI DI OGGI (2^ parte)

Un salto di qualità senza precedenti: l’emergere del capitalismo.

Cronologicamente la storia del capitalismo è brevissima, non solo sulla scala dei tempi geologici o biologici, ma anche su quella dell’evoluzione umana: tre, quattro secoli di maturazione in seno alla società feudale, due secoli dalla sua piena affermazione in Inghilterra con la rivoluzione industriale della fine del XVIII secolo. Tuttavia, dal punto di vista del rapporto fra l’uomo e la natura, questa storia segna un salto qualitativo senza precedenti, uno sconvolgimento generale e planetario (15). Fino alla rivoluzione industriale, anche se non erano certo mancate catastrofi ecologiche indotte dall’azione umana e profonde trasformazioni dell’ambiente naturale originario, l’impatto dell’uomo sulla natura era rimasto nella sua essenza sempre lo stesso; l’ecosistema modificato in cui viveva la specie umana si fondava prevalentemente sullo sfruttamento degli spazi rurali e su attività produttive che trasformavano materiali d’origine vegetale, quindi biodegradabili, con l’ausilio di fonti d’energia pressappoco come si presentavano in natura: l’energia biochimica dell’uomo e degli animali domestici forniva l’energia meccanica, al più con l’ausilio dell’energia dell’acqua corrente o del vento; la biomassa forniva l’alimentazione e l’energia chimica per produrre calore. Nessuna delle società precapitalistiche aveva ancora introdotto modificazioni irreversibili così rilevanti nei cicli della materia e nel flusso di energia della biosfera come ha cominciato a fare la società borghese moderna col suo sviluppo. Le condizioni di vita dell’umanità e gli stessi ecosistemi antropizzati (frutto di una coevoluzione uomo-natura millenaria) vengono rapidamente sconvolti da processi dall’impatto senza precedenti: • l’applicazione delle moderne tecnologie agricole “dure” ai più svariati ambienti, e su una scala senza precedenti, riduce drasticamente la varietà genetica, semplifica ed impoverisce la biocenosi di moltissimi ecosistemi; • i cicli di scambio della materia cominciano a conoscere una interferenza crescente e su scala senza precedenti da parte delle attività produttive umane; i cicli biogeochimici e bioenergetici vengono sconvolti dalla formazione del mercato mondiale e dalla circolazione planetaria, come merci, dei prodotti agricoli e industriali dalle colonie verso le metropoli imperialiste e viceversa, e all’interno delle metropoli; • una produzione crescente di sostanze del tutto nuove (prodotti chimici di sintesi, sottoprodotti di scarto dei processi industriali, scorie radioattive) le quali, non avendo corrispondenti in natura, risultano non biodegradabili, non mineralizzabili dai decompositori, aggrava l’alterazione dei cicli biogeochimici. Queste sostanze entrano anche nei cicli metabolici degli esseri viventi, dove possono avere effetti tossici molto gravi, perché le attuali forme di vita non hanno sviluppato meccanismi adatti a difendersi da questi elementi estranei; • il flusso di energia che investe l’ambiente diventa rapidamente crescente e cambia natura: non si tratta più soltanto di trasformazioni energetiche dell’unico flusso che alimenta naturalmente la biosfera, cioè l’energia solare, ma di un’aggiunta crescente derivata dallo sfruttamento sempre più massiccio delle riserve fossili di idrocarburi (carbone, petrolio, gas naturale) e dalla messa a punto di nuove fonti (oggi il nucleare di fissione, domani farse il nucleare di fusione); • i processi di urbanizzazione (che già avevano avuto i maggiori effetti ecologici fin dalla rivoluzione neolitica) assumono una dinamica incontrollata; dapprima nei paesi che si industrializzano, quindi in tutti gli altri, anche in rapporto con l’esplosione demografica; l’antagonismo città-campagna si aggrava dapprima nelle metropoli industriali, poi si riproduce su scala mondiale tra paesi avanzati e paesi coloniali, quindi si riproduce all’interno di questi ultimi. Il motore di questi cambiamenti è l’accumulazione del capitale, la cui caratteristica essenziale è quella di aver subordinato l’aspetto meramente produttivo (volto cioè alla soddisfazione diretta o indiretta dei bisogni umani) all’aspetto della autovalorizzazione del valore: ogni bisogno, ogni prodotto, ogni fattore naturale e umano viene annullato nelle sue caratteristiche qualitative e uniformato all’unico criterio astratto di essere diventato (o di essere suscettibile di diventare) valore di scambio, cioè di entrare, in quanto merce, come momento subordinato entro il processo di valorizzazione del capitale. E questo motivo che spiega da un lato l’enorme dinamismo di questo modo di produzione, dall’altro la sua completa insensibilità per ciò che non sia riducibile a entità monetaria. La misura della valorizzazione di ciascun capitale è il saggio del profitto, le cui determinanti sono la produttività del lavoro e il saggio di sfruttamento della forza-lavoro. Ovvero, usando l’efficace espressione di Marx, la valorizzazione del capitale dipende dallo sfruttamento “della terra e dell’operaio” (cioè della natura e dell’uomo), le due “fonti originarie della ricchezza”. Se lo sfruttamento della forza-lavoro può essere approssimativamente commisurato al saggio di plusvalore (che è uguale alla proporzione tra il pluslavoro estorto all’operaio e il lavoro necessario alla sua riproduzione in quanto operaio), lo sfruttamento della natura non è misurabile da un analogo indice sintetico (un tale indice potrebbe essere forse — ma solo in casi particolari — la proporzione in cui il prelievo umano supera la capacità di autorigenerazione dell’ecosistema o della biosfera). Ma il meccanismo attraverso il quale il capitale si appropria per i suoi fini della natura è analizzato chiaramente da Marx (16). L’appropriazione degli elementi naturali può avvenire in due modi: possono essere comprati come merci se essi sono già stati trasformati in proprietà di qualcun altro (in questo caso nel prezzo di acquisto entra la rendita intascata dal proprietario); oppure, preferibilmente, il capitale se li appropria direttamente e gratuitamente (è il caso in generale dei cosiddetti “beni liberi” come l’aria e l’acqua che, dopo l’utilizzo, sono spesso restituiti all’ambiente inquinati). La possibilità di far proprio gratuitamente un agente naturale della produzione (ad esempio una fonte di energia che non è liberamente disponibile per i suoi concorrenti) accresce il plusprodotto del singolo capitalista e quindi gli frutta un plusprofitto (17). La contesa per le risorse naturali disponibili è una delle molle fondamentali dell’imperialismo e della logica di rapina che caratterizza l’espansione capitalistica negli ambienti naturali e sociali ove esistono ricchezze naturali non ancora monopolizzate o dove sia facile scalzare i proprietari esistenti. Il saccheggio dell’Amazzonia è oggi la dimostrazione clamorosa di questa logica dissennata, che non esita nemmeno di fronte all’omicidio, anzi all’etnocidio e all’ecocidio (nel secolo scorso questa è stata la sorte del popolo pellerossa del Nord America). Lo sfruttamento della natura avviene dunque all’insegna del principio “privatizzazione degli utili, socializzazione dei costi”. Non solo: lo stesso calcolo dei benefici è limitato ai profitti immediati, dal momento che il singolo capitalista ha sempre la possibilità di evitare i danni futuri che derivano dalle sue azioni spostando tempestivamente il capitale in un altro campo di investimento (secondo il principio: “Dopo di me il diluvio!”).

Un modo di vita rovesciato: la schiavitù delle merci.

Allorché il capitale si impossessa del processo produttivo e gli imprime la sua dinamica convulsa di rivoluzione ininterrotta della sua base tecnica e sociale, subito esso comincia a sconvolgere anche il modo di vita nel suo complesso, cioè anche le sfere della distribuzione, del consumo, della riproduzione, della cultura, dei comportamenti quotidiani, ecc. Tuttavia, ancora per lungo tempo dopo il trionfo della rivoluzione industriale nella sfera della produzione materiale, esso ha bisogno di conservare una larghissima base di produzione di valori d’uso al di fuori del mercato, soprattutto nell’ambito della famiglia e ad opera di una forza-lavoro (prevalentemente femminile) non retribuita. Sono rimaste a lungo estranee al dominio diretto del mercato soprattutto molte funzioni che sono connesse con la riproduzione e con l’assistenza degli individui che non sono ancora (bambini, adolescenti) o non sono più (anziani, disabili, malati, disoccupati) “produttivi” per il capitale. Ma lo sviluppo capitalistico procede inesorabilmente a trasformare in valori di scambio i valori d’uso che sopravvivono nelle diverse sfere della vita sociale: “Nella sua fase monopolistica il modo di produzione capitalistico assume il controllo della totalità dei bisogni individuali, familiari e sociali, e inoltre, subordinandoli al mercato, li riplasma in modo da asservirli alle esigenze del capitale […]. Il primo passo verso la creazione del mercato universale è l’assunzione della forma di merce da parte di tutta la produzione di beni; il secondo è la conquista di un crescente ventaglio di servizi e la loro conversione in merci; il terzo è costituito da un “ciclo del prodotto” che inventa nuovi prodotti e nuovi servizi, alcuni dei quali finiscono col diventare indispensabili per il fatto che le moderne condizioni di vita, mutando, distruggono ogni alternativa. Così, chi vive nella società capitalistica è inviluppato in una rete fatta di beni e servizi mercificati, da cui non c’è quasi possibilità di fuga, salvo astenersi parzialmente o del tutto dalla vita sociale quale è oggi” (18). La creazione di questo mercato universale, se da un lato rappresenta un’estensione senza precedenti delle relazioni sociali, dall’altro “spoglia questa vita sociale di ogni vestigia comunitaria e lascia al suo posto il legame del denaro” (19). Sono le grandi concentrazioni urbane che sorgono repentinamente attorno alle fabbriche che sperimentano per prime queste trasformazioni. Esse hanno assunto una forma particolarmente tragica ai primordi della rivoluzione industriale, nei quartieri operai dove si stipavano i “nuovi schiavi” del capitale alla completa mercé della speculazione immobiliare, della truffa del piccolo commercio e dell’incerta congiuntura economica. Bassi salari, precarietà d’impiego e mancanza di un’efficace autodifesa sindacale condannavano i lavoratori a subire le condizioni di vita più degradate: sporcizia, inquinamento, sovraffollamento, mancanza di luce, di acqua potabile, di aria pura. Sono condizioni che oggi si riproducono esasperate nelle metropoli del terzo mondo. Il relativo miglioramento delle condizioni di vita conosciuto dai lavoratori dei paesi industriali negli ultimi decenni non ha eliminato del tutto le vecchie forme di degrado, mentre altre se ne sono aggiunte. Anche lo sviluppo dei trasporti automobilistici, nel corso di questo secolo, ha accentuato i processi di urbanizzazione e ha creato una situazione di congestione insostenibile e irrimediabile entro l’attuale modo di vita. L’auto ha aggravato inoltre i problemi dell’inquinamento atmosferico e acustico delle città; ha creato imponenti e incontrollabili fenomeni di pendolarismo; ha moltiplicato i consumi di energia pregiata e non rinnovabile, ha comportato un degrado colossale di suolo agrario e di patrimonio paesaggistico a causa della creazione di reti stradali e autostradali ipertrofiche; ha sviluppato le condizioni dell’industria capitalistica del turismo di massa. In effetti, la trasformazione progressiva di ogni valore d’uso in valore di scambio ha trasformato anche i modi d’impiego del “tempo libero” (sottoprodotto della riduzione dell’orario settimanale di lavoro); la stessa fruizione della natura è diventata un fiorente affare per il capitale in cui rimane ben poco di naturale. In compenso esso “affigge il cartellino col prezzo su ciò che una volta era gratis” (20). Uno dei cambiamenti più eclatanti di questo dopoguerra — additato spesso come ragione d’orgoglio o, all’opposto, di condanna del modo di vita contemporaneo — è quello che va sotto il nome di “consumismo”, ovvero l’artificiosa moltiplicazione dei beni materiali di ogni genere, molti dei quali sono ormai entrati a far parte del tenore di vita di tutti i settori sociali, compresa la classe operaia. Si tratta di un fenomeno molto eterogeneo che non può essere riassunto in un giudizio semplicistico, di liquidazione o di esaltazione. Accanto ai risultati delle lotte operaie, infatti, in esso hanno preso forma alcune esigenze del modo di produzione capitalistico quale esso è uscito trasformato dalla grande crisi degli anni trenta e dal boom postbellico. Ed è quella del capitale, indubbiamente, l’impronta prevalente. Da un lato, c’è l’aspetto che già abbiamo segnalato sopra: la trasformazione universale dei valori d’uso in merci che non lascia alternative. Dall’altro, c’è l’importanza crescente che ha assunto, nel ciclo della valorizzazione, il problema della realizzazione. Si tratta di un problema permanente in un’organizzazione antagonistica e anarchica della produzione, qual è quella capitalistica: non basta che il pluslavoro sia estorto nel processo lavorativo; occorre che esso si trasformi effettivamente in plusvalore mediante la vendita delle merci. Ma questa vendita non è mai assicurata a priori; di qui lo sviluppo di un settore ipertrofico che si occupa esclusivamente di far acquistare le merci ingegnandosi a suscitare un bisogno artificiale con l’uso di tecniche sempre più raffinate: ricerche di mercato, campagne pubblicitarie, lancio di mode particolari, rivestimento del prodotto, ecc. Nel contempo deve essere programmata l’obsolescenza precoce del prodotto stesso, affinché il ciclo possa ripetersi di nuovo, sempre più allargato, sempre più in fretta… Che poi vengano promossi bisogni del tutto immaginari, o magari antisociali, o addirittura dannosi per l’individuo, mentre nel contempo restano insoddisfatti bisogni primari essenziali come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, la tutela dell’ambiente, ecc., ciò non fa differenza per la produzione capitalistica, alfa e omega di questo vortice dello spreco. Tutto ciò riguarda in primo luogo il lato dell’offerta del problema della realizzazione, che vede ciascun capitalista contendere agli altri il reddito disponibile dei consumatori. Ma anche le politiche di sostegno statale alla domanda effettiva non sono in genere ispirate da criteri sociali più meritevoli: spesa militare, clientelismo, priorità alle infrastrutture che tornano a vantaggio dell’accumulazione privata, ecc. L’alienazione dei bisogni che si realizza nelle condizioni della concorrenza capitalistica fu intuita da Marx che ne diede una straordinaria anticipazione in una pagina dei Manoscritti economico-filosofici del ’44: “Ogni uomo spera di creare all’altro un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo in una nuova dipendenza e indurlo a un nuovo modo di godimento e però di rovina economica. Ognuno cerca di creare sopra l’altro un’estranea forza sostanziale, per trovare in ciò soddisfazione del suo egoistico bisogno. Con la massa degli oggetti cresce, quindi, il regno degli enti estranei cui l’uomo è sottomesso, e ogni nuovo prodotto è una nuova potenza di reciproco inganno e reciproco spogliamento. L’uomo diventa sempre più povero come uomo, egli abbisogna sempre più di denaro per impossessarsi di un ente ostile (…) Sotto l’aspetto soggettivo ci si presenta come segue. Da un lato, l’espansione dei prodotti e dei bisogni diventa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani. raffinati, innaturali e immaginari” (21).

Dal punto di vista ecologico il consumismo è irrazionalità pura: spreco di risorse limitate e accumulazione di rifiuti ingombranti e inquinanti; dove un altro atteggiamento, ispirato a maggiore razionalità e non necessariamente a spirito di sacrificio, potrebbe consentire di soddisfare meglio i veri bisogni con minor spesa di ricchezza esauribile e minor degrado dell’ambiente. Ma gli sprechi dell’attuale modo di vita sono né più né meno che una necessità interna dell’attuale modo di produzione. Non va dimenticato il fatto che “la produzione produce il consumo” (22) e i rapporti sociali producono le ideologie e i modelli culturali ad essi funzionali. Per cui, le pur giuste critiche alle forme di consumo e di vita contemporanee e i discorsi sull’“essere” e sull’“avere” sono mere divagazioni ideologiche se non affrontano il nodo gordiano di chi decide che cosa produrre, quanto, come e per chi. La moltiplicazione dei bisogni “immaginari”, inoltre, si realizza perché il consumo ostensivo è una conseguenza inevitabile dell’ideologia antiegualitaria che, a sua volta, è una necessità essenziale di una società di classe. I molti ambientalisti che accusano la classe operaia di “complicità” con il capitale per gli sprechi del consumismo dovrebbero riflettere attentamente su un dato: in tutte le società occidentali i consumi del 25% delle famiglie più ricche uguagliano, più o meno, i consumi degli altri tre quarti. Se poi il raffronto viene fatto tra il 10% più ricco e il 10% più povero la differenza si moltiplica per decine di volte…

Colonialismo e imperialismo: ovvero la distruzione planetaria dell’uomo e della natura

La misura delle tendenze distruttive del capitalismo non è comprensibile restando nel quadro nazionale, e neppure nel quadro dei paesi più sviluppati. Occorre considerare complessivamente lo sviluppo del processo capitalistico su scala mondiale, in quanto il modo capitalistico di produzione crea effettivamente — per la prima volta nella storia — un unico sistema mondiale di relazioni economiche in cui vengono integrati progressivamente tutti i paesi e tutti i popoli, e nel quale si attua uno sviluppo ineguale e combinato delle singole parti in relazione col tutto. La colonizzazione europea dei continenti extraeuropei — il processo che accompagnò e stimolò l’ascesa del capitalismo in Europa — comportò prezzi umani e ambientali inimmaginabili e mai visti prima: la distruzione delle civiltà amerindie, ad esempio, col genocidio di molte decine di milioni di uomini in pochi decenni; l’abominevole “traffico triangolare” tra Europa, Africa e Americhe, fondato sulla razzia di milioni di uomini in Africa, la rapina delle ricchezze del Nuovo Mondo e l’accumulazione di capitali in Europa; lo sconvolgimento delle economie dei popoli asiatici, su cui si innestò come corpo estraneo che le sottomise a sè l’economia coloniale, modellata sui bisogni della nascente società borghese europea e sull’avidità di speculatori senza scrupoli. Anche in termini ecologici il colonialismo fu una catastrofe. Un esempio per tutti: la monocoltura della canna da zucchero nel Nordest del Brasile ad opera dei portoghesi lasciò il deserto in una regione che i primi colonizzatori avevano descritto, per le condizioni climatiche e ambientali favorevoli, come la nuova terra promessa. Ciò non accadde per ignoranza, poiché la natura “autofaga” della cultura intensiva della canna da zucchero era ben nota ai piantatori; accadde semplicemente perché così conveniva ai proprietari fondiari per i quali il commercio di zucchero era allora “il più promettente del mondo” (23). L’unificazione effettiva del mercato mondiale compì un salto di qualità dopo la rivoluzione industriale, soprattutto con la rivoluzione dei mezzi di trasporto della metà del XIX secolo (ferrovie, navi a vapore). Scriveva Marx in quegli anni che, con lo sviluppo della grande industria, “Si crea una nuova divisione internazionale del lavoro in corrispondenza alle sedi principali del sistema delle macchine, ed essa trasforma una parte del globo terrestre in campo di produzione prevalentemente agricolo per l’altra parte, quale campo di produzione prevalentemente industriale” (24). Così ha sintetizzato efficacemente questi sviluppi la penna brillante dell’economista Joan Robinson: “Non fu solo un grado più alto di produttività che permise l’incremento della ricchezza capitalistica. Le risorse di tutto il mondo vennero saccheggiate: i domini d’oltremare che le nazioni europee avevano conquistato, disputandoseli fin dal secolo XVI, ricevettero ora grande impulso a fornire le materie prime per l’industria. La conoscenza tecnologica, le possibilità finanziarie e gli sbocchi di mercato permisero a coloni che avevano scopi di lucro di estrarre da ogni continente prodotti animali, minerali, vegetali. La manodopera necessaria venne trovata in vari modi. Nelle zone temperate, popolate essenzialmente di coloni provenienti dalla Gran Bretagna, e in parte anche in America latina, vennero organizzati capitalisti locali e lavoratori locali (fomiti dall’immigrazione continua), dapprima sulla base di investimenti da parte della finanza inglese e in seguito di accumulazione propria. Grano, carne, legno, cotone e lana venivano scambiati in parte con i profitti e gli interessi da pagare a chi aveva finanziato il trasporto e a chi aveva fornito gli altri investimenti necessari per ottenerli e in parte con importazioni di manufatti. I minerali dovevano essere cercati là dove la struttura geologica li aveva posti ma la coltivazione dei prodotti agricoli, come il tè e la gomma, poteva essere diffusa dall’una all’altra delle regioni tropicali. In

Africa si trovò la manodopera imponendo tasse che costringevano gli uomini a lasciare le terre tribali e a lavorare per un salario. La controparte delle esportazioni di minerali era quasi esclusivamente sotto forma di profitti. Negli Stati uniti del Sud, nei Caraibi e in Brasile la manodopera era stata fornita dall’importazione di schiavi, la cui emancipazione non cambiò molto le cose. La tratta degli schiavi continuò in Australia, sotto il nome di “Blackbirding”, con incursioni nelle isole del Pacifico; ma il numero di coloro che venivano così catturati non era sufficiente. In India, in Indonesia, in Indocina e nelle enclaves coloniali sulle coste della Cina si trovavano schiere di indigeni disposti a farsi assumere per un salario di sussistenza, mentre là dove i contadini erano in condizioni tali, almeno secondo i criteri locali, da essere in grado di rifiutare simili trattamenti, come a Ceylon e in Malesia, venivano importati indiani e cinesi legati da contratti che li tenevano in uno stato intermedio tra la schiavitù e il lavoro salariato. Per mantenere “la legge e l’ordine” e garantire le condizioni per la formazione e l’estrazione di ricchezza, le nazioni capital-imperialiste dovettero installare in molti paesi un’amministrazione, il che richiese ripetute guerre di conquista. Ma, poiché la tecnologia industriale conferiva una superiorità incontestabile, la guerra non costò loro molto” (25). Supersfruttamento dei lavoratori salariati ed espropriazione selvaggia dei popoli colonizzati sono state dunque le due fonti principali del plusvalore per tutta l’epoca dell’accumulazione originaria e in quella dell’affermazione mondiale del modo di produzione capitalistico (fase imperialista). Ma anche oggi il commercio mondiale — “forma civilizzata della rapina neocoloniale” (26) — contribuisce a massicci trasferimenti di ricchezza. Lo “scambio ineguale” che si stabilisce tra economie a differenti livelli di produttività del lavoro, è solo un aspetto di questi trasferimenti. L’esportazione dei sovrapprofitti è un altro. Negli ultimi decenni ha assunto un peso crescente l’estorsione di interessi esorbitanti sui colossali prestiti esteri (debito estero). Altri meccanismi sono messi in luce da un’analisi più propriamente ecologica. Essendo ancora essenzialmente dipendenti dalla divisione del lavoro dettata dalle metropoli imperialiste (malgrado lo sviluppo industriale degli anni più recenti, anch’esso dettato prevalentemente dalla logica di riduzione dei costi delle multinazionali), le economie dei paesi del Terzo mondo continuano ad essere produttrici di materie prime agricole o minerarie per i paesi industriali, con le note conseguenze: monoproduzione (il rame nel caso del Cile, lo stagno nel caso della Bolivia, il petrolio nel caso di certi paesi arabi, ecc.) e monocoltura (zucchero a Cuba, cotone in Egitto, ecc.). Ora, la specializzazione estensiva di un determinato territorio ha effetti estremamente negativi dal punto di vista ecologico. La complessità degli ecosistemi naturali è la condizione essenziale della loro stabilità. La monocoltura (soprattutto se praticata con le moderne tecniche di selezione genetica) costituisce una semplificazione degli ecosistemi che comporta la perdita di molte specie, la fragilità dell’assetto così realizzato, un rischio di depauperamento del suolo, una minaccia permanente di catastrofe alla prima avversità climatica (siccità), biologica (infestazioni) o sociale (guerra, crisi economica, caduta dei prezzi). L’estensione delle terre destinate alle produzioni commerciali per l’esportazione aggrava questi aspetti. Inoltre essa riduce l’estensione delle terre disponibili per la produzione delle derrate alimentari destinate al mercato interno e spinge i piccoli produttori a disboscamenti incontrollati e a dissodare terre marginali con tecniche inadatte, così da provocarne l’impoverimento accelerato e l’erosione del suolo su vasta scala. In questo modo viene aperta la strada alla desertificazione. Essa non è tanto la conseguenza di una riduzione delle precipitazioni quanto una concausa delle siccità che colpiscono sempre più frequentemente, ad esempio, le regioni africane del Sahel. Le carestie e la fame, quindi, lungi dall’essere il risultato di inevitabili “calamità naturali” sono il prodotto di ben identificati meccanismi socioeconomici. Un’altra forma di sfruttamento, che non compare nelle statistiche economiche perché non ha controvalori monetari ma che riduce ugualmente la possibilità di sfamare le popolazioni dei paesi dipendenti, è connessa al livello trofico d’uso della materia vivente per l’alimentazione umana. Il rendimento bioenergetico di una catena alimentare (la sua produzione di cibo) si riduce rapidamente nel passaggio da un livello trofico a quello superiore. Passando ad esempio dai vegetali agli erbivori che se ne cibano, la biomassa si riduce all’incirca del 90% (ovvero il rendimento è soltanto del 10% circa). L’uomo può prelevare i suoi alimenti a livelli trofici diversi: generalmente lo fa al livello dei vegetali autotrofi e a quello immediatamente superiore degli erbivori che dei vegetali sono anch’essi consumatori. Ovviamente la produzione di proteine animali mediante l’allevamento degli erbivori rappresenta una perdita di circa il 90% delle potenziali proteine vegetali che sarebbe possibile utilizzare per l’alimentazione umana sotto forma di cereali e legumi. È questo uno spreco che molti paesi del Terzo mondo con problemi di scarsità di terre coltivabili in rapporto alla popolazione non potrebbero permettersi. Eppure ciò succede ogniqualvolta il più forte potere d’acquisto dei paesi ricchi induce a trasformare produzioni alimentari per il mercato interno in produzioni per l’esportazione, cioè per alimentare il bestiame che fornisce le proteine animali alla tavola dei paesi ricchi. In questi ultimi decenni, con l’industrializzazione dipendente, lo sfruttamento dell’ambiente dei paesi del Terzo mondo ha assunto ancora nuove forme: l’esportazione dell’industria inquinante e pericolosa (Bhopal) che vi trova minori vincoli legali e minori controlli sociali e l’esportazione dei rifiuti tossici dell’industria dei paesi “avanzati” (come hanno messo in luce recenti vicende italiane). L’impiego poi di pesticidi in agricoltura — spesso di quegli stessi prodotti che per la loro tossicità sono interdetti nei paesi più avanzati — senza le necessarie istruzioni e senza cautele prudenziali, provoca una strage tra gli agricoltori e gravi conseguenze nell’ambiente:

Ogni anno nel mondo si riscontrano da 400.000 a 2 milioni di casi di avvelenamento da pesticidi, per la maggior parte fra gli agricoltori nei paesi in via di sviluppo. Si ritiene che 10.000-40.000 di questi casi abbiano ogni anno esito letale per le vittime (27). Alla luce di questi dati appare lampante che lo “sviluppo” — come viene inteso dall’ideologia dominante — è in realtà una condanna, non una salvezza per i paesi del Terzo mondo. Non c’è nulla di progressivo nel voler mandare avanti questa dinamica. L’ideologia borghese imperialista dello sviluppo deve essere denunciata per quello che è: la difesa del la pretesa del capitale di rapinare e distruggere l’uomo e la natura su scala planetaria.

I disastri ecologici del dominio burocratico nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”

Anche sul terreno ambientale lo stalinismo — vera e propria tragedia storica del movimento operaio del XX secolo — ha lasciato la sua pesantissima eredità. Il fallimento registrato in questo campo dall’industrializzazione dell’Urss e degli altri paesi del cosiddetto (ma impropriamente) “socialismo reale”, coinvolge oggi, nella condanna di molta parte del movimento ecologista, l’idea stessa del socialismo come credibile alternativa al capitalismo, e il marxismo, che di questa alternativa si fa propugnatore, benché un onesto e serio bilancio storico non possa ormai non dimostrare che la realtà e l’ideologia di questi paesi non hanno nulla a che vedere con il marxismo e con ciò che esso definisce come socialismo. Non è questa la sede per approfondire l’analisi storica dello stalinismo, delle sue conseguenze per l’Urss e per l’intero movimento operaio internazionale, della natura sociale e politica delle società che hanno ricevuto la sua impronta e dei movimenti che oggi si sviluppano al loro interno. Qui ci interessa esaminare i meccanismi sociopolitici specifici che sono all’origine della degradazione ambientale nelle società che hanno abolito i rapporti sociali capitalistici. Se è vero che la radice profonda della tendenza capitalistica alla distruzione dell’ambiente risiede nell’economia mercantile, cioè nella riduzione di ogni forma di ricchezza reale (valore d’uso) in ricchezza monetaria (valore di scambio) che ha l’effetto di cancellare tutte le differenze qualitative (cruciali e negli equilibri ecologici e in relazione ai bisogni umani), è altrettanto vero che l’economia mercantile non è un fenomeno limitato al modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo è la prima (e ultima) forma storica che rende generale la produzione di merci e anzi fa del saggio del profitto (la misura in cui la ricchezza astratta, valore di scambio, si valorizza) il criterio supremo di efficienza economica. Tuttavia l’economia mercantile da un lato precede l’emergere della moderna società borghese (le sue origini, infatti, risalgono al primo millennio avanti Cristo); dall’altro sopravvive in forme più o meno estese ma in ogni caso non trascurabili, nell’economia di transizione che caratterizza tutti i paesi che hanno soppresso i rapporti di produzione capitalistici e che vengono correntemente definiti, del tutto impropriamente, “socialisti”. Si tratta in effetti di realtà sociali più complesse e contraddittorie di quanto una semplice formula possa compendiare; dal punto di vista economico vedono tutti la compresenza di elementi antitetici, la legge del valore che si manifesta nella sopravvivenza del mercato e quella del piano che opera nelle scelte centralizzate; dal punto di vista politico e sociale si caratterizzano sia per l’abolizione della proprietà privata borghese dei mezzi di produzione (per la qual cosa non è più possibile definirli capitalistici), sia per il predominio di uno strato sociale privilegiato, variamente articolato ma che in ultima analisi si riconduce alla burocrazia del partito e dello Stato, che conserva tuttora il monopolio pressoché esclusivo del potere politico (e in via derivata di quello economico) da cui sono escluse invece le masse lavoratrici. Ora, nella misura in cui le attività produttive sono modellate dalla logica dell’economia mercantile, cioè dalla produzione per un controvalore monetario da realizzare sul mercato, la contraddizione tra attività economica e ambiente può costantemente ripresentarsi. Questa ipotesi vale in modo particolare per il cosiddetto “socialismo di mercato” (in realtà una contraddizione di termini, secondo il marxismo), caratterizzato da forme di proprietà dei produttori associati e da un’ampia decentralizzazione delle decisioni economiche a livello delle singole unità produttive indipendenti, coordinate indirettamente dal sistema dei prezzi del mercato. Storicamente parlando, questo “modello” di socialismo di mercato non è mai esistito (l’unico esempio concreto che gli si avvicina è l’economia jugoslava tra il 1965 e il 1971). Ma il suo interesse deriva dal fatto che in questa direzione sembrano orientate le riforme economiche avviate negli ultimi anni da Deng Siao Ping in Cina e da Gorbaciov in Urss (le quali, peraltro, lasciano spazi anche all’accumulazione capitalistica vera e propria). La possibilità di guasti ecologici connessi al ristabilimento generalizzato, o quasi, dei meccanismi del mercato (anche se “socialista”) è tutt’altro che teorica. La stampa cinese ha già segnalato con preoccupazione il caso del contadino che ora produce per il mercato, il quale, appena ne abbia la possibilità, procede magari al taglio di un bosco secolare per venderlo come legna e/o per allargare l’arativo, senza considerazione per il valore ecologico che in questo modo va letteralmente in fumo… La contraddizione tra attività produttiva e ambiente può ripresentarsi, tuttavia, anche se l’economia mercantile viene ridotta drasticamente, sia se il meccanismo di calcolo economico su cui si fonda la pianificazione centralizzata privilegia gli aspetti finanziari (ad esempio perché fa largo uso di “prezzi ombra”, che imitano in certa misura i prezzi di mercato, e del “profitto” come indicatore di efficienza a livello delle singole unità economiche, sia se l’amministrazione economica si affida agli indicatori di quantità fissati in termini materiali e fa uso di obiettivi di piano la cui realizzazione è fatta dipendere da una struttura burocratica, gerarchica e piramidale, che concentra nelle sue mani l’effettivo potere decisionale. Nel primo caso, le decisioni economiche tenderanno a trascurare sistematicamente i costi “esterni” alla singola unità produttiva, e in primo luogo i costi ambientali (spesso non qualificabili in equivalente monetario, soprattutto se non sono coincidenti con il luogo e il tempo della produzione). Nel secondo caso, invece è la logica intrinseca dell’apparato burocratico separato che diventa un ostacolo alla presa in conto dei costi sociali e ambientali. In genere nelle attività produttive la fonte del degrado ambientale è localizzata (mentre nel caso del consumo è in genere diffusa); anche gli effetti del degrado sono originariamente locali (scarico di inquinanti in un corso d’acqua che ne provoca la morte biologica, scarico di sostanze nell’aria che provoca smog e inquinamento nelle zone circostanti, rumore, ecc.; quando gli effetti del degrado raggiungono dimensioni globali al punto da attirare l’attenzione dei vertici della pianificazione, i guasti già prodotti sono quasi irrimediabili se non addirittura irreversibili. Ora, quand’anche esista la comprensione astratta dei problemi di impatto ambientale di determinate scelte tecnologiche e di determinate attività produttive (e magari anche una legislazione ambientale da rispettare) gli alti gradi della burocrazia che detengono i maggiori poteri decisionali, non hanno alcun incentivo a tener conto delle conseguenze ambientali delle proprie scelte fino a quando queste conseguenze non siano tali da provocare globalmente un aumento dei costi e una diminuzione dei rendimenti dell’economia. All’opposto, i livelli inferiori della piramide burocratica, sono incentivati a raggiungere gli obiettivi del piano “ad ogni costo”, cioè trascurando sistematicamente tutto ciò che può rappresentare un costo a cui non corrisponde immediatamente un incremento della produzione: perciò si fanno economie sulle tecnologie per prevenire l’inquinamento, si trascura allegramente la salute dei lavoratori e dell’ambiente circostante, si ignorano le conseguenze a lungo termine, ecc. Storicamente, proprio questi meccanismi — caratteristici della pianificazione centralizzata gestita dalla burocrazia al di fuori di ogni controllo sociale, compreso quello di una legislazione adeguata — hanno caratterizzato lo sviluppo delle economie dei paesi dell’Europa orientale e del l’Urss. La crisi ambientale che essi hanno determinato è stata portata clamorosamente alla luce dall’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella primavera del 1986, tipico frutto della combinazione di presunzione e di irresponsabilità burocratica (per cui non solo si progettano reattori giganteschi lesinando sui sistemi di sicurezza, ma poi si consente addirittura l’esecuzione di esperimenti al di là delle stesse norme di sicurezza!). Essa ha dimensioni talmente gravi da aver già determinato un declino della speranza media di vita calcolata nelle statistiche ufficiali. I livelli di inquinamento atmosferico e idrico che si registrano in molte zone industriali dell’Urss, della Cecoslovacchia, della Polonia sono tali che la vita media in queste regioni risulta anche di dieci anni più bassa della media nazionale. Tra le catastrofi irreversibili più gravi non si può non ricordare l’inquinamento del lago Baikal, la maggior riserva d’acqua dolce dell’intera Asia. In verità, la possibilità di sottrarsi a ogni controllo popolare ha condotto le burocrazie a trascurare, nella definizione delle priorità economiche (sviluppo dell’industria pesante e dell’apparato militare, priorità ai consumi esclusivi della burocrazia), sia i bisogni delle masse lavoratrici, sia i vincoli insuperabili delle compatibilità ambientali. L’adesione acritica ai modelli capitalistici di industrializzazione, si è trasformata in una vera e propria imitazione-emulazione delle sue tecnologie, e ciò ha riprodotto in forme esasperate (perché aggravate dal gigantismo e dalla concentrazione nel tempo) l’impatto negativo di scelte tecnologiche fortemente inquinanti. Addirittura, i vertici del Cremlino dell’epoca di Breznev erano arrivati a concepire colossali manomissioni dello stesso ambiente fisico climatico, gravide di rischi sconosciuti, quali la deviazione verso il Mar Caspio dei grandi fiumi siberiani; impresa impossibile per ogni economia organizzata su basi private ma non per l’economia che può sfruttare la concentrazione di potenza realizzata dalla pianificazione statale. Che l’industrializzazione “socialista” dovesse ripercorrere le strade battute in precedenza dall’industrializzazione capitalistica, con tutti i suoi costi sociali e ambientali, per giunta aggravati, non era affatto inevitabile, così come non era affatto inevitabile che il sistema sovietico emerso dalla rivoluzione d’Ottobre subisse la tragica involuzione dello stalinismo. Certamente congiurarono a favore di Stalin potenti forze obiettive, quali le terribili condizioni interne ed esterne ereditate dall’Urss alla fine della guerra civile. Resta il fatto che i pericoli che riservava il futuro erano stati intravisti sia da Lenin sia da Trotskij e che un’altra politica sarebbe stata possibile (e questa possibilità restò aperta forse per tutti gli anni venti, fino al definitivo trionfo della dittatura staliniana). L’Opposizione di sinistra (l’unica opposizione che si presentò come alternativa globale allo stalinismo) indicò allora chiaramente che l’industrializzazione e la costruzione di una economia pianificata razionale non potevano rinunciare a trar partito dal mercato come controverifica del piano, ma soprattutto richiedevano lo sviluppo della democrazia socialista come strumento di controllo reale delle masse e della società civile sugli apparati del potere politico e della pianificazione. Malgrado l’affermata volontà di far luce su tante “pagine bianche” della storia di quegli anni, queste posizioni restano generalmente ignorate perché scomode, tanto per i nuovi riformatori del Cremlino quanto per chi ha tutto l’interesse ad alimentare l’idea dello stalinismo come diretta conseguenza del leninismo e del marxismo. La chiaroveggenza delle posizioni dell’Opposizione di sinistra, e la portata alternativa delle sue posizioni, può essere colta confrontando l’attuale dibattito in Urss con questo scritto di Trotskij del 1932:

“Se esistesse un cervello universale, descritto dalla fantasia intellettuale di un Laplace, un cervello che registrasse al tempo stesso tutti i processi della natura e della società, misurando la dinamica del loro movimento, prevedendo i risultati della loro azione, un simile cervello potrebbe evidentemente costruire a priori un piano economico definitivo, senza errori, cominciando col calcolare gli ettari di foraggio e finendo con i bottoni del panciotto. In verità, la burocrazia si immagina spesso di avere proprio lei un simile cervello: per questo si libera così facilmente dal controllo del mercato e della democrazia sovietica. In realtà la burocrazia si sbaglia profondamente nella valutazione delle sue risorse intellettuali. Nelle sue facoltà creatrici, è costretta ad appoggiarsi sulle proporzioni (si potrebbe dire anche, a giusto titolo, sulle sproporzioni) ereditate dalla Russia capitalista; per quanto riguarda il presente, sulla struttura delle nazioni capitaliste contemporanee e infine sull’esperienza dei successi e degli errori dell’economia sovietica stessa. Ma neppure una giusta combinazione di tutti questi elementi può consentire di creare l’armatura incompiuta del piano. Gli innumerevoli protagonisti dell’economia statizzata, privati, collettivi e individuali, esprimono le loro esigenze e i loro rapporti di forza non solo tramite l’esposizione statistica delle commissioni del piano, ma anche per mezzo dell’inevitabile influenza della domanda e dell’offerta. Il piano si verificherà e in grande misura si realizzerà tramite il mercato. La regolarizzazione del mercato stesso deve basarsi sulle tendenze che vi si fanno luce […]. I processi di costruzione economica per il momento non si sviluppano ancora in una società senza classi. I problemi della distribuzione del reddito nazionale costituiscono la cerniera centrale del piano […]. I problemi sociali ed economici più importanti: la smycka tra città e campagna, cioè il bilancio di quello che l’industria riceve dall’economia agraria e di quello che a quest’ultima fornisce; il rapporto tra l’accumulazione e il consumo, tra il fondo di costruzione del capitale di base e il fondo dei salari; la regolarizzazione delle diverse categorie di lavoratori (operai qualificati e non qualificati, lavoratori occasionali, specialisti, burocrazia dirigente); infine la distribuzione del reddito nazionale stesso quale avviene nelle campagne tra i diversi strati di contadini — tutti questi problemi per la loro stessa esistenza non possono ammettere le decisioni a priori da parte di una burocrazia che si ponga al riparo dall’intervento dei milioni di interessati. La lotta per gli interessi vitali, considerati come fattori fondamentali della pianificazione, ci introduce nella sfera politica, che è la sfera dell’economia concentrata. Le armi dei gruppi sociali della società sovietica sono (debbono essere): i soviet, le unioni sindacali, le cooperative e, innanzitutto, il partito dirigente. Solo il coordinamento di tre elementi: pianificazione statale, mercato e democrazia sovietica, può assicurare un giusto indirizzo dell’economia nell’epoca di transizione e assicurare non l’accantonamento degli squilibri in qualche anno (questa è utopia) — ma la loro attenuazione e con ciò stesso la semplificazione delle basi della dittatura del proletariato sino al momento in cui nuove vittorie della rivoluzione allargheranno il campo della pianificazione socialista e porteranno alla ricostruzione del suo sistema” (28). Alcuni anni più tardi, nella Rivoluzione tradita (1936), Trotskij ribadiva così questi stessi concetti: “La pianificazione amministrativa ha rivelato a sufficienza la sua forza e, nello stesso tempo, i limiti della sua forza. Un piano economico concepito a priori […] non è un dogma immutabile, ma un’ipotesi di lavoro da verificare e trasformare nel corso dell’esecuzione […]. Due leve debbono servire a regolare ed adattare il piano: una leva politica, creata dalla partecipazione reale alla direzione da parte delle masse interessate, il che non può essere concepito senza democrazia sovietica; e una leva finanziaria, risultante dalla verifica effettiva tramite un equivalente generale, il che non è concepibile senza un sistema monetario stabile” (29). E, a scanso di equivoci, così si pronunciava il Programma di transizione varato nel 1938, al congresso di fondazione della Quarta Internazionale: “La lotta per la libertà dei sindacati e dei comitati di fabbrica, per la libertà di riunione e di stampa, si trasformerà in lotta per la rinascita e lo sviluppo della democrazia sovietica […]. La democratizzazione dei soviet è inconcepibile senza la legalizzazione dei partiti sovietici. Gli operai e i contadini stessi, attraverso il libero suffragio, stabiliranno quali siano i partiti sovietici. Revisione dell’economia pianificata dall’alto in basso, tenendo presenti gli interessi dei produttori e dei consumatori! I comitati di fabbrica debbono riprendere il diritto di controllo sulla produzione. La cooperazione di consumo, democraticamente organizzata, deve controllare la qualità dei prodotti e i loro prezzi. Riorganizzazione dei kolchoz sulla base della volontà dei kolchoziani e dei loro interessi!” (30). In verità l’intera vicenda storica successiva ha costantemente confermato che la variabile cruciale, qualitativamente decisiva, per giudicare la natura e la dinamica di queste società (e quindi per orientare la loro economia sia in rapporto ai bisogni della società sia in rapporto all’ambiente) è sociopolitica, ovvero riguarda l’effettiva socializzazione dell’esercizio del potere politico (e quindi economico) a tutti i livelli. Con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sociali e la loro statizzazione, si creano le condizioni per superare quella sorta di costrizione interna determinata dalla concorrenza per il massimo profitto, la quale conduce sistematicamente a trascurare i vincoli ambientali che non si manifestino in una forma monetaria immediata. Costrizione che è stata efficacemente sintetizzata da Laura Conti nella formula: “Se qualcosa è economicamente conveniente, è in realtà obbligatorio; se non è conveniente, è in pratica precluso” (31). Ma questa potenzialità positiva dell’abolizione della proprietà privata e della concorrenza — che oggi potrebbe essere messa a frutto per promuovere le trasformazioni tecnologiche e produttive che si rendono necessarie per far fronte ai grandi problemi ecologici e sociali e per concentrare in quest’opera grandi mezzi materiali e molteplici energie sociali e intellettuali in modo coordinato — non può diventare effettiva fino a quando la pianificazione è asservita agli interessi di una minoranza privilegiata e il suo operare sopprime l’autonomia, l’interesse, la partecipazione consapevole della massa dei produttori. La panificazione socialista non può essere concepita come sistema di comando amministrativo e burocratico; essa deve essere costruita a partire da forme estese di autogestione, centralizzate in forme democratiche, per ciò che riguarda l’organizzazione produttiva; e su un’ampia democrazia socialista, in forme consiliari, per ciò che riguarda la vita politica. Solo in questo modo le scelte politiche ed economiche possono essere sottoposte costantemente al più largo controllo sociale, e diventare oggetto di libero dibattito da parte di un’opinione pubblica attiva, informata, partecipe; interessata non solo al “particulare” ma a preservare le basi comuni della ricchezza e della vita dell’umanità, cioè la natura e l’uomo stesso.

Note

(15) Sul tema degli sconvolgimenti ecologici provocati in età precapitalistica e durante l’ascesa del capitalismo è utile leggere Alfred Crosby, Imperialismo ecologico, Laterza, Bari 1988. (16) Per il ruolo giocato dagli elementi e dagli agenti naturali nel processo di produzione e nel processo di valorizzazione (di cui il processo capitalistico di produzione è l’unità dialettica) molti sono i riferimenti nei testi di Marx. In primo luogo l’intero capitolo V sul processo lavorativo e il processo di valorizzazione, e il capitolo XIII sulle macchine e la grande industria, del primo libro del Capitale. Si vedano inoltre i passi in Grundrisse, II, pp. 413-14; Capitale, I, p. 429; Capitale, II, p. 371, e Capitale, III, p. 852. (17) Per l’analisi del plusprofitto che deriva dalla monopolizzazione di forze naturali non liberamente disponibili si veda nel terzo libro del Capitale il capitolo XXXVIII, dedicato all’analisi della rendita differenziale (pp. 741 e seg.). (18) Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico [38], pp. 271-281. (19) Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 282. (20) Wolfgang Sachs, Eco-industrialismo, tecnologie avanzate e la ricerca di alternative per il progresso, in La cultura dei verdi [75], p. 185. (21) K. Marx, Opere filosofiche giovanili, p. 236. (22) K. Marx, Grundrisse, I, pp. 16-17. (23) Sugli effetti disastrosi del colonialismo in Brasile si veda l’opera di Josuè de Castro, Una zona esplosiva: Il Nordeste del Brasile, citata ampiamente da Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. (24) K. Marx, Capitale, I, p. 496. (25) Joan Robinson, Libertà e necessità. Un’introduzione allo studio delle società, pp. 79-80. (26) Jean-Paul Deléage, La nature: un paradigme introuvable, in “Critique Communiste”, n. 7, maggio-giugno 1976. (27) Worldwatch Institute, State of the World l988, p. 64. (28) L. Trotskij, L’economia sovietica in pericolo alle soglie del secondo piano quinquennale, ottobre 1932, in Scritti 1929-1936, pp. 78-79. (29) L. Trotskij, La rivoluzione tradita, pp. 100-101. (30) L. Trotskij, Programma di transizione, p. 64. (31) L. Conti, Questo pianeta, p. 14

Capitolo 2

UOMO-NATURA-SOCIETÀ: SVILUPPO STORICO E PROBLEMI DI OGGI (3^ parte)

I tratti emergenti dell’attuale crisi ecologica

Incremento demografico e risorse alimentari. L’esplosione demografica (specie nei paesi sottosviluppati) che nel corso degli anni sessanta sembrava promettere il raddoppio della popolazione mondiale ogni trent’anni e anche meno, provocò la ricomparsa della vecchia idea di Malthus che la popolazione è sempre destinata a crescere oltre le risorse disponibili, e quest’idea fornì anzi la chiave di lettura privilegiata dell’emergente crisi ecologica a quelle correnti ecologiche che esprimevano politicamente posizioni filo occidentali (cioè filo imperialiste). Benché già Commoner, nel libro Il cerchio da chiudere (1971), criticasse la pretesa di vedere una “legge biologica” (versione aggiornata della malthusiana “legge naturale”) là dove c’è in verità un nodo di fattori (prevalentemente) sociali, questa interpretazione torna ancora in molti ambientalisti e ha sedimentato una ingiustificata quanto pericolosa sopravvalutazione di Malthus in contrapposizione a Marx. Eppure il problema si presenta comprensibile (e forse risolvibile) proprio se si rinuncia a vedervi una condanna extrastorica a cui si debba rimediare col puro volontarismo e se ne individuano invece le determinanti sociali. Un po’ schematicamente si può dire che l’esplosione demografica deriva dalla sfasatura temporale con cui i tassi di natalità scendono a equilibrare i tassi di mortalità, dopo che questi sono stati drasticamente abbassati dai miglioramenti sanitari e alimentari connessi ai progressi medico sanitari ed economici. Quanto più rapido è il miglioramento delle condizioni materiali e soprattutto socioculturali delle popolazioni interessate, tanto più rapido è il riequilibrio tra i tassi di natalità e mortalità e, dopo un certo tempo, il raggiungimento della stabilità demografica (i progressi più consistenti nel controllo demografico sono stati realizzati, significativamente, a Cuba e in Cina). Questo processo, che ha richiesto un secolo o due nei paesi industrializzati, sta avvenendo molto più rapidamente nei paesi del Terzo mondo. Ciò non toglie che questa “transizione demografica” comporti problemi talvolta esplosivi per paesi condannati a condizioni di sottosviluppo dalla dipendenza dall’imperialismo. Per quelli più poveri lo spettro della fame è ricorrente come le carestie, le quali dipendono anche dai fenomeni di erosione del suolo e di perdita del terreno coltivabile che derivano dallo sfruttamento irrazionale della terra, a sua volta dovuto alla pressione combinata dello sviluppo demografico e dell’espansione delle colture per l’esportazione. Nei paesi in via di industrializzazione si aggiungono i problemi connessi all’esplosione dell’urbanizzazione e dell’inquinamento delle aree urbane e industriali. Nell’un caso e nell’altro lo sviluppo economico non è in grado di creare occasioni di lavoro in misura superiore a quante ne distrugge nei settori tradizionali, e ciò determina la disoccupazione di quote enormi (30-40%) della popolazione potenzialmente attiva. Anche per questo motivo, la stessa strada che in passato (e ancor oggi) è stata presa dalle ricchezze naturali di questi paesi, viene oggi seguita dagli uomini, anche per la stasi demografica a cui sono pervenuti negli anni più recenti i paesi più avanzati. Si tratta, per il capitale delle metropoli imperialiste, di un indubbio vantaggio: può usufruire di una manodopera a buon mercato in settori in cui si è fatta rigida l’offerta di manodopera indigena (in genere posti di lavoro dequalificati e precari); inoltre il costo di riproduzione di questa manodopera è stato (e in parte continua ad essere) a carico del paese d’origine. Non manca poi il calcolo di poter usare i lavoratori stranieri e i riflessi razzisti presso i lavoratori indigeni, per dividere il movimento operaio. Questi movimenti migratori sono inevitabili nell’attuale contesto economico internazionale. Qualsiasi legislazione xenofoba volta a chiudere le porte in faccia a questi lavoratori o a ricacciarli indietro è inaccettabile. L’unica regolamentazione concepibile è quella che si accompagni a movimenti riequilibratori di risorse finanziarie, tecnologiche e alimentari dai paesi sviluppati ai paesi sottosviluppati; ma ciò è esattamente il contrario di quanto accade oggi nel quadro dell’imperialismo: il servizio del debito estero è divenuto la corda con cui viene strangolata la vita di milioni di esseri umani e, mentre un miliardo di persone e più soffrono di denutrizione, molti miliardi di dollari, nelle economie capitalistiche più sviluppate, vanno a sovvenzionare produzioni agricole destinate alla distruzione per non deprimere i prezzi. Nei decenni a venire l’incremento demografico, per quanto in via di rallentamento, non cesserà di operare. Non è pensabile che si possa raggiungere la stabilità demografica prima della seconda metà del prossimo secolo. Il rischio è che nel frattempo continuino ad operare gli attuali meccanismi spontanei portando la situazione a crisi catastrofiche. Anche perché le tecniche recenti, che hanno consentito un enorme incremento delle rese agricole (fertilizzanti chimici, pesticidi, selezioni delle sementi, ecc.), denunciano un rapido declino dei rendimenti e un costo ambientale insostenibile. E il passaggio a tecniche di agricoltura biologica su vasta scala, in grado di conservare buoni rendimenti senza compromettere la fertilità a lungo termine dei suoli, hanno bisogno di un grande sforzo coordinato di ricerca, formazione di base degli agricoltori, investimenti diffusi nei paesi poveri, riorientamento su scala mondiale delle priorità delle politiche agricole, ecc. Ma tutto ciò è inconcepibile senza profondi mutamenti sociali, come ammette perfino lo studio delle Nazioni Unite. ll futuro dell’economia mondiale, curato dodici anni fa da Wassily Leontief: “Il successo della nuova rivoluzione tecnologica nell’agricoltura, nelle regioni in via di sviluppo, dipende largamente dalla riforma agraria e da altri mutamenti sociali e istituzionali, necessari per superare gli ostacoli non tecnologici per un aumento dell’utilizzazione e della produttività della terra” (32). Esaurimento delle risorse non rinnovabili. Si tratta in primo luogo dei minerali e degli idrocarburi (petrolio, carbone, gas naturale) sul cui sfruttamento intensivo si è fondato lo sviluppo industriale moderno. I primi sono stati distribuiti nella crosta terrestre dall’evoluzione geologica di oltre tre miliardi di anni. I secondi sono invece composti organici (cioè sostanze che hanno fissato in forma di legame chimico l’energia solare captata sulla superficie terrestre) che si sono formati dall’originaria biomassa in tempi variabili dai 5 ai 100 milioni di anni e più. I tempi geologici della formazione dei giacimenti dei primi e dei secondi, confrontati con i tempi storici brevissimi del loro sfruttamento, ne fanno per l’uomo delle risorse non rinnovabili, esauribili. I ritmi di estrazione sono — fino ad oggi e nel prevedibile futuro — estremamente rapidi, tali da lasciare prevedere l’esaurimento dei giacimenti più accessibili di molti di essi (piombo, nichel, zinco, alluminio, rame, oro, argento, mercurio, petrolio) nel giro di poche generazioni. Posto con drammaticità dal Rapporto Meadows, il problema dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili viene a volte presentato come se si tratti di limiti assoluti certi. Si tratta in verità di stime relative a riserve accertate o presunte per un dato costo di estrazione con le tecniche disponibili. Ovvio che queste stime, proiettate nel futuro, abbiano una grande incertezza e siano meramente indicative. Il problema dell’esaurimento non è dunque per domani ma è comunque rilevante. È infatti prevedibile che maggiori disponibilità derivanti dalla scoperta di nuovi giacimenti, o di tecnologie che consentono di sfruttare meglio quelli esistenti, sia possibile solo a costi crescenti, forse rapidamente crescenti, di sfruttamento; ovvero sottraendo risorse (in primo luogo energia) ad altri usi produttivi o di consumo. Non sono quindi i limiti assoluti di questi elementi in natura ad essere rilevanti, ma i limiti entro cui è realizzabile lo sfruttamento delle riserve. E questo sfruttamento va incontro sempre più a rendimenti decrescenti. Il riciclo può dare naturalmente un grande impulso alla riduzione delle quantità che è necessario estrarre ogni anno per mantenere o incrementare i livelli di consumo per ciò che riguarda i minerali; il riciclaggio è invece impossibile per gli idrocarburi utilizzati come fonte d’energia. Anche il riciclaggio di minerali, tuttavia, non può mai essere completo. Esso richiede infatti una certa spesa in termini di energia e di altra materia; entrambi questi costi crescono molto rapidamente quando si cerca di incrementare al massimo il recupero della materia che è andata dispersa con l’uso. A questo proposito, l’economista Nicholas Georgescu-Roegen ha osservato che qualcosa di simile alla legge di entropia vale anche nel caso della materia: ad un certo punto la spesa in materia delle attività di riciclo supera il ricavo di materia del riciclo stesso; pertanto la dissipazione della materia (la sua indisponibilità) è alla lunga irreversibile. Alla luce di queste considerazioni appare del tutto insensata l’attuale tendenza capitalistica che punta sull’“usa e getta” e sulla rapida sostituzione dei beni di consumo; si tratta di un vortice dello spreco che moltiplica solo i rifiuti e l’inquinamento e priva lo generazioni future di risorse che diventano sempre più scarse. Dal punto di vista di una superiore forma sociale, le risorse esauribili dovrebbero invece essere economizzate in tutti i modi (favorendo la loro sostituzione con le risorse rinnovabili, imponendo il riciclo e standard di durata dei beni che ne fanno uso, controllando gli sprechi, ecc.) per consentire di goderne anche alle generazioni future; possibilmente, esse dovrebbero essere lasciate nelle viscere della terra come “riserve” da impiegare solo in situazioni di emergenza. “Le risorse provenienti dal sistema vivente, che ha funzionamento ciclico, sono da considerarsi anch’esse come risorse non rinnovabili, se vengono usate in modo da impedire il loro rinnovamento” (33). È ciò che sta capitando a moltissimi beni ambientali che fino a qualche tempo fa sembravano senza limiti: le risorse idriche (sempre più inquinate dagli scarichi industriali e dai pesticidi), l’aria pulita, la fertilità naturale del suolo, le foreste, ecc. L’humus ad esempio si riproduce naturalmente in misura di qualche centimetro ogni secolo, ma può andar perduto per l’erosione dell’acqua e del vento in pochi anni; questo sta oggi avvenendo su larga scala per le ragioni che abbiamo già indicato sopra; la conseguenza è che nell’ultimo secolo si è raddoppiata la superficie terrestre occupata da aree desertiche o aride. Il problema dell’erosione del suolo e della desertificazione si lega strettamente a quello della distruzione delle foreste. “La copertura arborea non solo è uno degli indicatori più evidenti dello stato di salute della Terra, ma anche uno dei più vitali, in quanto gli alberi sono parte integrante dei sistemi di base che sostengono la vita” (34). La deforestazione accelera l’erosione dei suoli, riduce la produttività agricola, accresce i fenomeni di dissesto idrogeologico (frane e inondazioni), contribuisce all’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera e all’effetto serra, distrugge risorse economiche che abbisognano di cura e tempo per riprodursi. I meccanismi che conducono alla distruzione delle foreste sono diversi. Le piogge acide sono il fattore principale nei paesi sviluppati del Nord del mondo; il disboscamento a scopo agricolo, la conversione a pascolo e il taglio a scopi commerciali sono i fattori principali nel Terzo mondo. Nel caso della distruzione della foresta amazzonica è spesso la pura speculazione, volta a intascare i contributi governativi per l’allargamento delle colture, che guida lo sterminio di quello che rimane l’ultimo polmone della vita sul pianeta, e delle ultime popolazioni indigene che vi abitano. La loro fine potrebbe essere la campana che suona a morto per quella stessa “civiltà” che le sta distruggendo. Le cause di questa catastrofe sono, come già abbiamo visto, sociali; la risposta pertanto non può essere altro che sociale; la stessa trasformazione delle tecniche produttive è subordinata ai cambiamenti sociali. Inquinamento. Il termine designa tutte le forme di degrado della qualità dell’ambiente naturale (aria, acqua, suolo, ecosistemi, ecc.). Comprende una tale varietà di fenomeni che è impossibile darne qui anche solo uno schema esauriente. Ci limitiamo ad alcuni cenni per gli aspetti più macroscopici e preoccupanti. Anche se fenomeni di inquinamento locale possono essere attribuiti a tutte le forme di società, almeno dalla scoperta del controllo del fuoco in poi, solo con la rivoluzione industriale si mettono in moto meccanismi il cui impatto è tendenzialmente globale e planetario. A questo proposito sono particolarmente rilevanti le attività produttive e i trasporti, anche se estese ricadute inquinanti derivano oggi dalla sfera del consumo. Le attività industriali, la produzione di energia termoelettrica, i trasporti, il riscaldamento determinano la gran parte dell’inquinamento atmosferico. Particolarmente dannosi i prodotti delle combustioni, responsabili dell’inquinamento dell’aria nelle città e del fenomeno delle piogge acide. L’uso dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici in agricoltura, gli incidenti industriali (Seveso, Chernobyl, ecc.), la discarica incontrollata dei rifiuti sono responsabili dell’inquinamento del suolo. Particolarmente gravi, in prospettiva, i cambiamenti nella composizione chimica dei suoli provocati dalle piogge acide, che deteriorano alla lunga la fertilità della terra e rendono inattuabile il rimboschimento. Ogni forma di inquinamento tende, comunque, a trasferirsi nelle acque di superficie e nelle falde freatiche. L’inquinamento delle acque va assumendo aspetti sempre più preoccupanti. In tutti i paesi industriali non solo i fiumi e i laghi ma anche le riserve idriche del sottosuolo risultano sempre più contaminate da sostanze biologiche o tossiche dovute agli scarichi delle attività industriali (metalli pesanti, composti organici clorurati), agli scarichi fognari (colibatteri, fosfati, sostanze organiche), all’agricoltura e alla zootecnia (pesticidi, erbicidi, insetticidi, composti azotati e nitrati). Inquinamento e eutrofizzazione (dovuta all’apporto delle sostanze nutritive che provengono dagli scarichi fognari e zootecnici e dall’agricoltura chimica) non risparmiano più neppure i mari, specie le acque costiere delle zone fortemente popolate e industrializzate (l’eutrofizzazione che ha colpito l’Adriatico nell’estate 1988 insegna…). Di tutte le forme di inquinamento l’inquinamento chimico rappresenta oggi la maggior minaccia. Sono circa 70.000 i prodotti chimici che entrano quotidianamente nell’uso, e ogni anno se ne aggiungono da 500 a 1000 di nuovi. “Meno di un quinto di questi prodotti è stato sottoposto ad esperimenti per determinare eventuali effetti acuti, e meno di un decimo è stato preso in esame per la determinazione di effetti cronici (ad esempio effetti cancerogeni), effetti sulla riproduzione, oppure azioni mutagene” (35). Questi prodotti comprendono i pesticidi (ai cui effetti si è già fatto cenno), fertilizzanti, medicinali, materie prime industriali, prodotti di largo consumo, ecc. Particolarmente allarmante il problema dei rifiuti tossici (soprattutto industriali), il cui smaltimento fino ad oggi è stato soggetto ovunque a scarsissimi controlli benché essi rappresentino un “incubo epidemiologico” (36) dal momento che molti effetti sanitari possono manifestarsi solo a distanza di tempo. La moltiplicazione del rischio chimico è strettamente legata ad una legislazione permissiva che fa obbligo alle vittime di dimostrare la dannosità di un prodotto (o alle autorità che vogliono vietarlo); “se invece le industrie dovessero dimostrare che le sostanze sospette non sono in realtà dannose, e se dovessero affrontare responsabilità ben precise per i danni causati dalla produzione, dall’uso e dallo smaltimento dei loro prodotti, i rischi diminuirebbero lungo tutto il ciclo di produzione chimica. Le sostanze rischiose verrebbero eliminate nei laboratori industriali, anziché da un intervento normativo dopo molti anni di uso” (37). L’azione nociva dell’inquinamento ambientale si esplica in moltissimi modi: cambiamento dell’habitat, intossicazione degli organismi viventi, con scomparsa della flora e della fauna e indebolimento degli ecosistemi (a volte la loro distruzione); insorgenza di malattie respiratorie e circolatorie, diffusione del cancro, aborti, malformazioni nella prole, intossicazioni e alterazioni metaboliche nell’uomo; perdite economiche connesse ai danni alle costruzioni, alle colture, al paesaggio, ecc. Infine, preoccupazioni crescenti destano i fenomeni di assottigliamento dello strato di ozono della stratosfera, (“buco nell’ozono”) e di riscaldamento della superficie terrestre (“effetto serra”), entrambi da ricondurre all’incremento dell’inquinamento atmosferico. Il primo fenomeno sembra dovuto alla crescente immissione nell’atmosfera di ossidi di azoto e di fluoroclorocarburi. Poiché lo strato di ozono assorbe la radiazioni ultraviolette che risulterebbero estremamente nocive per ogni forma di vita sulla superficie della terra, è facile comprendere l’entità della minaccia a lungo termine. Il secondo fenomeno, invece, è principalmente collegato alla quantità di anidride carbonica nell’atmosfera che risulta in continuo aumento: circa 15% in più del secolo scorso con la prospettiva di raddoppiarsi nei prossimi cinquant’anni. Questo accumulo deriva dall’eccesso di CO2 immessa nell’atmosfera dai processi di combustione rispetto all’assorbimento da parte della vegetazione e degli oceani. Diversi studi recenti indicano che gli sconvolgimenti climatici connessi ad un raddoppio dell’anidride carbonica potrebbero avvenire in maniera repentina, provocando gravi effetti catastrofici, entro la metà del prossimo secolo: innalzamento del livello delle acque marine, inaridimento di estese aree agricole, perdita di regioni costiere oggi fertili e densamente popolate (che sarebbero sommerse), ecc. Secondo il rapporto 1988 del Worldwatch Institute, “dati nuovi indicano che il riscaldamento della terra è già in corso” (38). I maggiori responsabili sono l’impiego dei combustibili fossili e l’abbattimento delle foreste. La possibilità di controllare l’effetto serra nel prossimo futuro richiede dunque un’inversione di rotta per ciò che riguarda in primo luogo queste pratiche dissennate. L’esplosione del problema dell’inquinamento viene spesso messo in relazione con l’incremento della popolazione e con la crescita del benessere disponibile; questo è ciò che sostiene, ad esempio, l’ideologia corrente che vede il degrado ambientale come un “prezzo” da pagare per il “progresso” esteso “a tutti”. Ma fin dal 1971, nel libro Il cerchio da chiudere, l’ecologo americano Barry Commoner ha dimostrato che l’incremento dell’inquinamento è di gran lunga maggiore, in questo dopo guerra, della crescita della popolazione e del benessere economico, e che la differenza va imputata interamente alle scelte tecnologiche che hanno caratterizzato lo sviluppo (sia produttivo, sia del modo di vita), scelte riconducibili alla logica del profitto: “Spinta da una tendenza intrinseca a massimizzare i profitti, la moderna impresa privata ha colto al volo quelle massicce innovazioni tecnologiche che promettono di soddisfare questa necessità, ignara per lo più che queste stesse innovazioni sono spesso anche gli strumenti delle distruzioni ambientali. Ed è naturale, poiché […] le tecnologie tendono a essere progettate attualmente come strumenti a fine unico. Evidentemente questo scopo è troppo spesso dominato dal desiderio di aumentare la produttività, e quindi il profitto” (39). Con lucidità Commoner conclude che, essendo i problemi ambientali il risultato delle “azioni sociali” dell’uomo e non della sua natura biologica, la soluzione è possibile solo sul terreno sociale, stabilendo una diversa organizzazione economica che sottometta la tecnologia al controllo sociale e ai vincoli ecologici, mediante una pianificazione razionale. Problema dell’energia. Sviluppo degli strumenti esosomatici e incremento del consumo di energia sono andati finora in parallelo nella storia umana. L’energia è necessaria per produrre e far funzionare gli strumenti; questi a loro volta creano la possibilità di accedere a nuove fonti o di usare in modo più efficiente le fonti energetiche disponibili. Due sono state le tappe rivoluzionarie di questa storia: la prima fu la conquista della padronanza del fuoco, forse più di mezzo milione di anni fa, che consentì di convertire l’energia chimica della biomassa (legna, sterpi, ecc.) in potere calorifico; la seconda fu l’invenzione della macchina a vapore del XVIII secolo, che consentì di trasformare il potere calorifico in energia meccanica, cioè in una forma molto pregiata e versatile. In realtà il successo di questa seconda rivoluzione energetica (completata successivamente da altre innovazioni che andavano nello stesso senso) si deve unicamente allo sfruttamento (cioè alla progressiva distruzione) delle riserve esauribili dei combustibili fossili (idrocarburi). Senza questa rivoluzione e senza l’abbondanza di carbone che ne fece inizialmente il successo, è dubbio che avremmo avuto la rivoluzione industriale e con essa il definitivo trionfo mondiale del modo di produzione borghese. Questa rivoluzione consentì di aumentare progressivamente, come mai era avvenuto prima, la produttività del lavoro umano, sottomettendogli strumenti produttivi sempre più numerosi, versatili, efficienti ed energivori (in realtà, nelle condizioni capitalistiche, avvenne il contrario, se si osserva l’accaduto dal punto di vista del lavoratore: è il lavoro vivo che venne sottomesso alla macchina; per un lunghissimo periodo la giornata lavorativa invece di ridursi si allungò e l’incremento di ricchezza prodotto servì a moltiplicare le macchine lasciando impoverito l’operaio). Dalla fine del XIX secolo, l’invenzione del motore elettrico e del motore a scoppio, l’impiego della corrente elettrica, del petrolio e del gas metano diedero nuovo impulso a questo processo. Si svilupparono l’illuminazione elettrica, la motorizzazione, il trasporto privato, gli elettrodomestici, ecc. Il lungo boom economico successivo alla seconda guerra mondiale si fondò anche (ma non principalmente) sull’abbondanza di energia a basso prezzo la cui fonte principale divenne il petrolio. La “crisi petrolifera” del 1973 fu essenzialmente un fatto politico; tuttavia mise fine alla breve stagione dell’energia semi gratuita (l’attuale congiuntura dei prezzi del petrolio sarà comunque transitoria). La presa di coscienza che lo sviluppo non poteva fondarsi all’infinito sulle fonti fossili esauribili fu sfruttata dai governi dell’Occidente per cercare di lanciare alla grande lo sviluppo dell’energia nucleare (di fissione) che, fino ad allora, salvo poche eccezioni, non era riuscita a decollare (l’Urss stava già marciando su questa strada). Il nucleare “civile”, presentato come soluzione definitiva del problema energetico, è stato sviluppato come sottoprodotto (e rimane oggi un anello complementare) dell’atomo “militare” (che ha fatto il suo esordio nella storia con le stragi di Hiroshima e Nagasaki a guerra praticamente conclusa). Ma questa tecnologia, non solo non risolve il problema energetico, non solo non è economicamente conveniente (come dimostra il blocco delle costruzioni negli Stati Uniti, dove le compagnie elettriche sono private) ma è anche estremamente pericolosa per la salute, per l’ambiente e per i diritti civili, come innumerevoli episodi hanno dimostrato (da Windscale a Chernobyl, dagli Usa alla Rft, dalla Francia a casa nostra). Per i rischi a lungo termine della contaminazione ambientale, per le scorie lasciate in eredità alle generazioni future, per le dimensioni senza precedenti delle conseguenze di un incidente catastrofico, per l’effetto di militarizzazione che essa induce nella vita sociale, sui mezzi di comunicazione, sulla ricerca scientifica, si tratta di una bomba a orologeria, di una scelta tecnologica la cui logica intrinseca appare in completa contraddizione con una prospettiva socialista degna di questo nome. Molte di queste implicazioni del nucleare, nell’ultimo decennio sono diventate sempre più chiare a livello di massa in molti paesi, sia sotto l’impressione di alcuni gravi incidenti (Three Mile Island, Chernobyl, Goiania ecc.), sia per l’azione incessante di vivaci movimenti antinucleari. Ciò ha anche prodotto, in diversi momenti e in diversi luoghi, importanti mobilitazioni di massa contro la costruzione di nuovi impianti o per la chiusura di quelli esistenti; si e riflesso sul piano istituzionale e politico (con i referendum in Svezia, Austria, Italia, ecc.; con il dibattito che ha investito le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, in genere pienamente favorevoli al nucleare fino a poco tempo fa) e ha contribuito a veicolare in settori più larghi delle masse lavoratrici i termini più complessivi della questione ambientale. In effetti la questione energetica (e quella nucleare al suo interno) è una sorta di “concentrato” dei problemi dell’ambiente, perché essa mette in gioco le loro molteplici dimensioni: le caratteristiche dell’attuale modo di vita, i limiti delle compatibilità ecologiche e delle risorse, la natura per niente “tecnica” delle scelte tecnologiche, il problema di chi debba decidere riguardo il futuro di tutti, la questione degli armamenti e i rapporti di rapina verso il Terzo mondo… Dal punto di vista ecologico, i problemi fondamentali con cui occorre fare i conti nel prossimo futuro sono due: a) disaccoppiare lo sviluppo economico dalla crescita dei consumi di energia e dall’impiego delle fonti esauribili; b) promuovere l’impiego di tecnologie che riducano l’impatto inquinante, soprattutto l’emissione di anidride carbonica e di anidride solforosa, all’origine di fenomeni come l’effetto serra e le piogge acide. La risposta tecnologica a entrambi i problemi è la stessa, e si identifica in due assi: a) la promozione dell’efficienza energetica (cioè riduzione degli sprechi, miglioramento delle tecnologie e uso più razionale possibile delle fonti in relazione agli usi finali, secondo i principi della termodinamica); b) sviluppo delle fonti rinnovabili (energia idrica, geotermica, eolica, solare, ecc.) con le quali sostituire progressivamente gli idrocarburi. Molti di questi interventi (in special modo quelli volti a migliorare l’efficienza energetica di molti processi produttivi) sembrano essere una scelta pagante anche economicamente già nell’immediato. Non si può escludere, quindi, che essi siano perseguiti anche dai governi borghesi e dalle imprese private, anche per aggirare le difficoltà create dall’opposizione popolare ai mega impianti a carbone e ai piani nucleari. Tuttavia, è impossibile arrivare a una società che unisca fabbisogni energetici contenuti con una migliore qualità della vita e dell’ambiente, senza passare per modifiche sostanziali del modo di vita e dei modi di produzione. Inoltre, tecnologie efficienti, fonti rinnovabili, modi di vita e di sviluppo a bassa intensità energetica sono condizioni imprescindibili per dare la possibilità di svilupparsi in modo equilibrato e non dipendente ai paesi sottosviluppati. Viceversa, perseguire lo sviluppo dell’energia nucleare di fusione (le cui prospettive sono comunque molto incerte) significa puntare su una tecnologia massimamente compatibile con la conservazione dell’attuale ordine economico internazionale e del modo di vita e di produzione esistenti (l’espansione dei consumi, i mega impianti, lo spreco energetico, la tecnologia costosa e super sofisticata sono congeniali alla logica del capitale monopolistico e dello Stato centralistico e autoritario). Corsa agli armamenti e rischio di olocausto nucleare. L’accumulazione di armi di distruzione di massa di ogni tipo (convenzionali, chimiche, biologiche, nucleari) che prosegue ininterrotta dalla fine della seconda guerra mondiale, rappresenta a un tempo una delle minacce maggiori per la vita e la civiltà umana e una delle manifestazioni più clamorose dell’irrazionalità degli assetti economici e politici del mondo contemporaneo. Non approfondiamo qui questo secondo aspetto perché non ne avremmo lo spazio e rimandiamo perciò a quanto elaborato altrove dal nostro movimento. Qui ci limitiamo ad alcune osservazioni in merito alla dimensione ecologica del riarmo. La prima osservazione è sulla natura della minaccia. Che l’impiego su larga scala delle armi moderne possa causare un disastro ecologico di dimensioni planetarie e conseguenze letali per la vita umana sul pianeta è ormai indiscutibile. Ma è sempre più chiaro anche che, per la natura delle armi, le dimensioni degli arsenali, le strategie che ne guidano la costituzione e l’uso, la complessità delle tecnologie in gioco non si può più escludere neppure l’ipotesi di una “guerra per errore” che avvii l’olocausto nucleare; si tratta anzi di una variabile di probabilità crescente, a meno di una decisa inversione nella corsa al riarmo che porti effettivamente alla distruzione massiccia degli ordigni già prodotti e pronti all’uso. La seconda osservazione è sulla natura distruttiva che la corsa al riarmo esplica già nel presente; e non solo nelle innumerevoli guerre locali che continuano a dilaniare il mondo. La produzione di armamenti e il mantenimento di enormi apparati bellici assorbe oggi circa 1.000 miliardi di dollari all’anno, una cifra corrispondente al reddito annuo della metà più povera della popolazione mondiale, all’ammontare dell’intero debito estero dei paesi dipendenti e superiore al reddito annuo di un paese come l’Italia. Ma le risorse reali immobilizzate o distrutte nella creazione degli apparati bellici sono ancora più rilevanti di quel che non dica la stima monetaria del loro ammontare. Si tratta spesso di quote superiori alla metà dell’estrazione e del consumo annuo mondiale di alcuni minerali rari e di quote molto consistenti di tutte le altre risorse esauribili. La ricerca a fini bellici distoglie da altri scopi tra il 30 e il 50% del personale e delle risorse finanziarie investite nella ricerca. La produzione di armamenti, poi, riguarda in genere i settori più moderni degli apparati industriali, tanto all’Est che all’Ovest. Ciò significa che il costo relativo del riarmo in termini di distruzione ambientale e di riduzione del benessere e delle possibilità di sviluppo è enormemente più elevato — già nel presente — di quel che non dica la quota (calcolata in termini monetari) delle spese militari sull’ammontare del reddito. Tutto questo dà la misura dell’importanza cruciale che riveste oggi la lotta contro le spese militari e per il disarmo unilaterale. Le grandi mobilitazioni pacifiste degli anni ottanta hanno sicuramente creato una sensibilità nuova e di massa su questi temi, malgrado esse siano finite senza risultati consistenti (anche se una loro influenza indiretta si può intravedere nelle proposte che vengono avanzate oggi da Mosca e dalle difficoltà propagandistiche che incontra l’imperialismo a replicare semplicemente con dei rifiuti; comunque la portata dei risultati concreti acquisiti finora dalle trattative tra Mosca e Washington è minima). Tuttavia questa sensibilità, pur essendo una base potenziale per la ripresa della lotta nel prossimo futuro, è stata spesso orientata dalle forze politiche riformiste e/o verdi verso forme moralistiche e poco concrete (cultura della pace, pressione per le trattative, disarmo bilanciato, ecc.), che hanno in gran parte disperso nel nulla la forza dì quei movimenti e contribuito a mantenere nel vago le concrete matrici socioeconomiche e politiche della corsa al riarmo, innanzitutto i bisogni dell’imperialismo di conservare il suo “ordine” mondiale fondato anche sulla rapina neocoloniale delle risorse naturali dei paesi dipendenti.

L’emergente coscienza del limite

Limiti della crescita. I molteplici fenomeni di degrado ambientale — dei quali abbiamo fin qui seguito le tracce e cercato le matrici economiche e sociali delle diverse aree socio-geografiche in cui appare diviso il mondo contemporaneo — in questo dopoguerra sono diventati così diffusi e così imponenti che il dato quantitativo si è trasformato in qualità e oggi è giusto parlare di crisi ecologica come dato globale, planetario. È indubbiamente merito del pensiero ecologista, da un quarto di secolo a questa parte, l’aver richiamato l’attenzione su questo dato nuovo della nostra epoca che ne va sconvolgendo la base materiale e costringe a ripensare i nostri stessi parametri di giudizio. L’aspetto globale del deterioramento del contesto ambientale delle società umane è stato espresso con il tema — comune a tutto il pensiero ambientalista al di là di altre differenze — dei “limiti della crescita”, ovvero dell’impossibilità per la specie umana di perpetuare la sua presenza sulla terra con i modi attuali (crescita demografica, crescita industriale, flussi crescenti di consumo di risorse non rinnovabili e di rifiuti non metabolizzabili e tossici, consumi crescenti — e inquinanti — di risorse in via di esaurimento, ecc.): “Nell’ipotesi che l’attuale linea di sviluppo continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale” (40). In effetti la discussione del problema dei limiti e delle implicazioni da trarne è stata proposta negli ultimi vent’anni in così tante versioni diverse che ciò dimostra di per sé la difficoltà di tracciare in materia un quadro globale, scientificamente attendibile e fondato; e per carenze di conoscenze empiriche e per la difficoltà di comprensione teorica di un problema complesso in se stesso, in quanto risultato dell’interazione di aspetti molto diversi, di processi naturali (bio-ecologici, climatici, chimico-fisici, ecc.), e di processi sociali (demografici, economici, politici, tecnologici, scientifici, culturali, ecc.), molti del quali ancora non ben padroneggiati scientificamente (si pensi al problema dell’effetto serra o a quello dell’incremento demografico). Si aggiunga che in genere i ragionamenti attorno ai limiti sono stati, e spesso sono ancora, viziati da errori metodologici e di fatto che li espongono ad obiezioni più che fondate: • in molti casi sono state tratte previsioni sul futuro immediato da principi scientifici astratti di validità generale, in particolare dal secondo principio della termodinamica (la legge di entropia), che di per sé non possono dimostrare nulla se non che l’universo è destinato a morire dal momento stesso della sua nascita, come ben sapeva Engels. • più spesso le previsioni catastrofiche sono state fondate sull’ipotesi (non sempre esplicita) dell’invarianza degli attuali assetti socioeconomici e tecnologici, ignorando l’esistenza di retroazioni complesse tra tutti i livelli della realtà sociale. Invece di cercare in questa dialettica concreta le possibilità di un’azione politica per evitare la catastrofe, molti ecologisti (soprattutto nell’ambientalismo delle origini, ma questa forma mentis è ancora ben diffusa) hanno proposto delle “soluzioni ecologiche” fondate su qualche improbabile deus ex machina: di volta in volta la conversione repentina della morale pubblica, l’azione energica e illuminata delle pubbliche autorità, la “comprensione” delle leggi biologiche ed ecologiche da parte della cultura dominante, ecc.;

• più in generale le previsioni sui limiti scontano la frammentazione delle conoscenze disponibili in materia (ad esempio l’incertezza delle stime sull’esaurimento delle riserve di minerali o di idrocarburi o sulle possibilità di economizzarli mediante nuovi sviluppi tecnologici); • è del tutto ingiustificata la metodologia che procede aggregando situazioni eterogenee (ad esempio calcolando la media dei consumi mondiali di energia, quando i consumi medi pro capite degli Stati Uniti sono decine di volte superiori a quelli di moltissimi paesi del Terzo mondo) e che sulla base di questi dati aggregati pretende di arrivare a previsioni globali attendibili. Questa metodologia, naturalmente, muove da presupposti ideologici inaccettabili (che tende a convalidare con i propri risultati): “siamo tutti nella stessa barca”, tutti ugualmente in pericolo e tutti ugualmente responsabili. Il che è invece falso, almeno per la terza affermazione. In verità, molte delle catastrofi preconizzate per un futuro prossimo da certo ecologismo sono già tra noi da decenni se non da qualche secolo: sono nient’altro che le condizioni “normali” di esistenza della parte più sfruttata e oppressa della società e del mondo. L’esposizione alla nocività, le malattie che da questa esposizione derivano, la mancanza di condizioni di vita igieniche, il rischio dell’incolumità personale nei luoghi di lavoro sono tutti aspetti della condizione operaia da più di due secoli, che soltanto una lotta a volte durissima ha cominciato a modificare (ma che si ripresentano costantemente ogni volta che si indebolisce l’azione di autodifesa sindacale o peggiorano i rapporti di forza politici). La denutrizione permanente, la mancanza di acqua potabile, la morte per inedia nel caso di avversità climatiche o sociali, le ondate epidemiche che falciano soprattutto i bambini, la mancanza di un’assistenza sanitaria di base, l’inquinamento industriale incontrollato, le stragi da incidente industriale, l’avvelenamento diffuso da pesticidi, il rapido degrado del suolo, dell’aria e dell’acqua per effetto combinato dei processi di incremento demografico, dell’urbanizzazione selvaggia, del super sfruttamento imperialistico e della tecnologia del profitto: tutto questo è oggi realtà quotidiana nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Insomma, la catastrofe non è solo per il futuro: essa è già cominciata, è la tremenda “normalità” del presente. La coscienza del limite. La necessità irrinunciabile di pensare dialetticamente la crisi ambientale, ovvero di non limitarci a individuarne i rischi globali o, all’opposto di separare le singole manifestazioni dalla logica complessiva sociale che vi sottende (vedere gli alberi ma non la foresta), conduce necessariamente a cercare le relazioni delle diverse forme del degrado ecologico con i meccanismi dello sviluppo ineguale e combinato delle società umane, soprattutto nell’epoca attuale: l’epoca dell’imperialismo, della decadenza del capitalismo e della rivoluzione permanente. Questo punto di vista — proprio del marxismo rivoluzionario — deve però includere oggi un dato nuovo (assente nel paradigma teorico e nei riferimenti culturali del marxismo dei “classici”), l’intuizione del quale è un merito che va pienamente riconosciuto al pensiero ambientalista, quali che siano i suoi limiti su altri terreni: questo dato nuovo è la “coscienza del limite”. Con questa formula intendiamo la comprensione che la storia umana in rapporto alla natura è a un passaggio epocale. Lo sviluppo storico della specie umana sulla terra per un tempo lunghissimo (milioni di anni) si è svolto senza che il suo impatto ambientale avesse effetti tanto rilevanti da andare al di là di modifiche, anche profonde, ma nell’ambito locale o di aspetti secondari della biosfera, senza cioè compromettere le condizioni globali di equilibrio degli ecosistemi che consentono la vita umana. Due secoli di sviluppo industriale hanno cambiato questa condizione: oggi l’impatto ambientale della specie umana è potenzialmente globale e planetario. Inoltre, essendo la terra un ambiente fisicamente e biologicamente limitato, la crescita ininterrotta dei flussi di materia e di energia che ha alimentato e alimenta l’espansione economica degli ultimi secoli, è condannata a diventare insostenibile in un futuro molto ravvicinato, per la rottura degli equilibri ecologici globali e la distruzione di risorse non rinnovabili. Ciò significa che essa è alla lunga inconciliabile con ogni prospettiva di vita civile condivisa da tutti gli uomini oggi viventi ed estesa alle generazioni future. Pertanto, non solo il progresso dell’umanità può sempre meno identificarsi con la crescita della ricchezza materiale (ma questo non è mai stato il punto di vista dei fondatori del marxismo, come abbiamo visto sopra), ma le forme stesse dello sviluppo umano debbono d’ora innanzi distaccarsi consapevolmente dalla crescita quantitativa della propria base materiale, la quale sarà sempre più vincolata dai limiti invalicabili della finitezza dell’ambiente fisico biologico. Ma su questi temi torneremo più avanti.

Note

(32) Wassily Leontief, Il futuro dell’economia mondiale, p. 25. Gli stessi concetti sono sviluppati anche alle pagine 32, 4042 e 102-115. (33) Laura Conti, Valore d’uso e valore di scambio, in “Democrazia proletaria”, n. 4, 1985 (è il testo dell’intervento di L. Conti al convegno organizzato da Dp a Milano il 16 febbraio 1985). (34) Worldwatch Institute, State of the World 1988, pp. 5-7; si veda anche l’intero capitolo V, “Il rimboschimento della terra”. Sul tema della deforestazione conta segnalare questa osservazione di Marx, in Capitale, II, p. 255: “Il lungo tempo di produzione (che include solo una durata relativamente breve del tempo di lavoro), e la lunghezza dei periodi di rotazione (del capitale investito, ndr) che ne deriva, fa della silvicoltura un ramo di esercizio privato, e perciò capitalistico, svantaggioso; nell’essenza quest’ultimo è esercizio privato, anche se al posto del singolo capitalista compare il capitalista associato. Lo sviluppo della civiltà e dell’industria in generale si è mostrato così attivo nella distruzione dei boschi che, al paragone, tutto ciò che essa fa invece per la conservazione e produzione è una grandezza assolutamente infinitesimale”. (35) S. Postel, Il controllo dei prodotti chimici, in Worldwatch Institute, State of the World 1988, p. 160. (36) S. Postel, Il controllo dei prodotti chimici, in Worldwatch Institute, State of the World 1988, p. 168. (37) S. Postel, Il controllo dei prodotti chimici, in Worldwatch Institute, State of the World 1988, p. 184. (38) L. Brown – C. Flavin, Lo stato di salute della Terra, in Worldwatch Institute, State of the World 1988, p. 4. (39) B. Commoner, Il cerchio da chiudere, pp. 326-327; si vedano anche i capitoli VIII, IX, XII e XIII. (40) Meadows e altri, I limiti dello sviluppo, rapporto del Sdg del Mit per il Club di Roma, Mondadori 1972, p. 25.

Capitolo 3

PER UNA PROSPETTIVA ECOCOMUNISTA

La dialettica sviluppo delle forze produttive/rapporti sociali di produzione e i limiti della crescita

Una delle conseguenze della presa di coscienza che non è possibile una crescita materiale illimitata in un pianeta le cui possibilità fisiche e biologiche sono irrimediabilmente finite, è stata la messa in discussione della possibilità stessa della liberazione umana dal bisogno e, conseguentemente, della prospettiva della liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione che sulla prima si fonda; ovvero, per dirla con Marx, della prospettiva del comunismo. Sono queste implicazioni che hanno spinto i marxisti rivoluzionari a respingere a suo tempo le conclusioni dei teorici della “crescita zero” quale strada obbligata per scongiurare la catastrofe ecologica. Tuttavia quella risposta si è spesso fondata più sul rifiuto della filosofia politica o sugli errori di metodo impliciti nella tesi avversa che sulla comprensione profonda dei nuovi dati emersi con la crisi ambientale. Non solo: se si rivede la questione alla luce dei testi di Marx e di Engels, si scopre che il rifiuto della crescita zero non utilizzò adeguatamente gli argomenti marxisti. Per questo vale la pena di riesaminare l’intera questione. Da sempre, il principale testo di riferimento sul problema delle condizioni obiettive della rivoluzione socialista e della possibilità del comunismo è un famoso brano della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, che così recita: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura (…). Nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione” (1). In decine di altri passi, in tutte le opere di Marx e di Engels, questi motivi sono anticipati, ripresi, sviluppati, ma il nocciolo è questo. “Presupposto pratico” di una superiore forma sociale è uno sviluppo superiore delle forze produttive materiali sul piano mondiale, “perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe tutta la vecchia merda” (2). Questo schema — ci dobbiamo chiedere — può ancora considerarsi valido, visti i tratti della crisi ambientale odierna? Più in specifico ci chiediamo:

• il paradigma marxiano della dialettica forze produttive-rapporti di produzione fornisce ancora una chiave di comprensione adeguata dell’attuale crisi ambientale, con i suoi tratti di forte novità storica? • Io sviluppo attuale delle forze produttive materiali su scala mondiale può essere la base di uno sviluppo socialista? • questa è ancora una prospettiva realistica o la limitatezza della terra e l’esauribilità delle sue risorse fanno ritenere che l’umanità dovrà adattarsi a uno stadio di sviluppo in cui ciascuno è condannato al lavoro per la maggior parte del suo tempo solo per ottenere lo stretto indispensabile per vivere? • il comunismo, dal punto di vista economico e demografico, dovrà e potrà corrispondere a uno “stato stazionario”? Forse le domande che abbiamo posto possono sembrare astrattamente dottrinarie; ma, a ben vedere, dalle risposte che ad esse si danno dipende il giudizio sulla validità del marxismo come strumento tuttora utile e, più in generale, sulla stessa prospettiva politica per cui ci battiamo.

La crisi ambientale come manifestazione storica della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali esistenti

La risposta da dare al primo quesito è nettamente positiva. In realtà, essa è già stata data proprio dall’analisi precedente che ha posto in luce proprio questo fatto; l’attuale crisi ambientale è una delle forme che oggi assume la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive, il loro carattere sociale e mondiale, e la sopravvivenza di rapporti sociali inadeguati, fondati sull’appropriazione privata della ricchezza, sugli Stati nazionali in contrasto tra loro, sull’anarchia dello sviluppo economico dettato dal mercato, sul prevalere di interessi egoistici (delle classi proprietarie in Occidente, della burocrazia nei paesi non capitalistici) sull’interesse generale. Ma per comprendere adeguatamente questo punto occorre partire dalla nozione marxiana di sviluppo delle forze produttive troppo spesso identificata a torto (anche nelle file della sinistra) con concetti del tutto estranei, quali la crescita del reddito nazionale, o del prodotto interno lordo, o del reddito medio pro capite, o del capitale investito, ecc., sulla scorta dell’economia borghese e dell’ideologia corrente sui mass media. Queste nozioni, infatti, sono prigioniere del “feticismo delle merci”, in quanto considerano la ricchezza sotto l’aspetto del valore di scambio (cioè della sua valutazione monetaria), l’unico che interessi al capitale, e non invece sotto l’aspetto del valore d’uso, che costituisce l’unica vera ricchezza secondo Marx. Le categorie monetarie della ricchezza sono fondamentalmente ingannevoli. Esse non considerano i costi sociali non monetizzati. Includono tra gli incrementi di ricchezza quelli che dal punto di vista sociale sono detrazioni di ricchezza reale (esempio: il valore aggiunto delle attività di recupero dei danni ambientali “accresce” il reddito nazionale, così come l’aumento della spesa sanitaria reso necessario dall’incremento della morbilità di origine ambientale; quando invece si tratta, in entrambi i casi, di ricchezza sottratta ad altri usi per riparare a perdite di ricchezza che invece non sono conteggiate nella contabilità nazionale). Trascura del tutto di considerare quelle che per Marx sono le fonti originarie della ricchezza: la natura e l’uomo. Questa confusione anche nelle file marxiste può essere derivata dal fatto che il tempo di lavoro è considerato l’unità di misura del valore. Ma qui occorre evitare l’equivoco: il tempo di lavoro diventa la misura della ricchezza borghese (cioè del valore di scambio) entro i rapporti mercantili che caratterizzano il capitalismo, ma non è affatto la misura universale, sovrastorica, della ricchezza reale. In realtà, quest’ultima non può avere una misura quantitativa perché è, per definizione, un insieme di cose naturali, di prodotti del lavoro e di facoltà umane qualitativamente eterogenee e irriducibili tra loro. Semmai, in una superiore forma di società, è il tempo disponibile — tempo libero oltre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei beni materiali — che diventa la vera misura della ricchezza, come Marx afferma nei Grundrisse e altrove. È certamente vero che le categorie monetarie — proprio perché esprimono quantità di lavoro oggettivato — si son potute considerare una prima approssimazione della ricchezza reale per tutta una fase dello sviluppo capitalistico; ciò è avvenuto perché il movimento di accumulazione del capitale portava con sè effettivamente lo sviluppo delle basi materiali della ricchezza (e in parte ciò accade anche oggi, naturalmente). Questa approssimazione, però, è diventata e diviene sempre più inadeguata, perché la valorizzazione del capitale comporta la trasformazione crescente delle forze produttive in “forze distruttive” della ricchezza reale. Il concetto di forze distruttive non si applica soltanto all’accumulazione di ordigni bellici e al loro uso o alla distruzione di ingenti mezzi di produzione nelle crisi o ancora allo spreco di ricchezza dovuto al consumo improduttivo delle classi dominanti. Si applica anche — come abbiamo visto fare a Marx stesso — a quelle attività industriali e agricole che, dalla logica del profitto, sono condotte in forme tali da deteriorare gli ecosistemi, sperperare le risorse scarse, distruggere la fruibilità dell’ambiente naturale, ecc. Da almeno una ventina d’anni, anche tra gli economisti borghesi (soprattutto quelli influenzati dalla critica ecologista) si è fatta strada la consapevolezza che le categorie della teoria economica tradizionalmente insegnata nelle università (la cosiddetta “economia neoclassica”, la principale versione moderna di quell’indirizzo che Marx battezzò, con riferimento alla sua epoca, “economia volgare”, perché si aggira attorno alle forme apparenti del modo di produzione borghese ma non sa indagarne il nesso profondo) sono del tutto inadeguate per misurare lo sviluppo della ricchezza e soprattutto per fare i conti con il degrado ambientale prodotto dalle attività economiche. Non sono mancate delle critiche radicali al pensiero economico tradizionale (ad esempio il tentativo di Georgescu-Roegen di fondare una “bioeconomia”, a partire dall’integrazione della legge di entropia nell’analisi dei processi economici e dalla distinzione tra “prezzo” e “valore economico” che ha delle analogie con la distinzione marxista tra valore di scambio e valore d’uso, anche se la comprensione di questa distinzione sfugge del tutto a Georgescu-Roegen); lo stesso approccio tradizionale, in effetti, ha cercato di correre ai ripari formulando delle correzioni teoriche (fondate sulla distinzione tra costi e benefici sociali e privati e sul principio della “internalizzazione” dei costi sociali mediante l’applicazione anche ad essi di un “prezzo” monetario); correzioni peraltro ultra limitate che sono ben lungi dal rappresentare, ovviamente, una autocorrezione pratica dei meccanismi capitalistici; l’autoriforma della teoria serve al più per giustificare qualche limitato intervento pubblico nei casi più gravi… Non si segnalano qui questi sviluppi teorici per farne una critica adeguata (non essendo questa la sede e mancando uno spazio sufficiente) ma per richiamare l’attenzione sul fatto che fermarsi oggi a combattere i teorici della “crescita zero” (oltre tutto sconfitti tra gli stessi ambientalisti dalla crescente consapevolezza che i problemi non si riducono all’incremento demografico e industriale ma hanno una dimensione sociale e mondiale con cui fare i conti) sarebbe fermarsi a combattere una battaglia di retroguardia. Viceversa, il vero punto di forza del marxismo risiede proprio nella sua capacità di spiegare come e perché la distruzione delle basi dello sviluppo sia oggi una conseguenza diretta della sopravvivenza di assetti sociali inadeguati, incapaci di tener conto dei bisogni dell’uomo e della natura, e di conciliare lo sviluppo possibile con i limiti di “sostenibilità” degli ecosistemi naturali. In poche parole: all’ordine del giorno oggi non è la difesa teorica della “missione civilizzatrice” del capitale ma la denuncia della sua natura distruttrice; ne discende l’attualità e l’urgenza della lotta per quella rivoluzione sociale che deve sostituire rapporti di produzione diventati non solo un impedimento allo sviluppo umano ma addirittura una minaccia per la continuità della civiltà, se non della vita, sulla terra. In questa luce, della difesa delle condizioni della vita e della civiltà sul pianeta, noi leggiamo l’attualità di queste parole di Marx del 1846: “Gli uomini non rinunciano mai a ciò che essi hanno conquistato ma ciò non significa che essi non rinuncino mai alla forma sociale in cui hanno acquisito determinate forze produttive. Tutto il contrario. Per non essere privati dei risultati ottenuti, per non perdere i frutti della civiltà, gli uomini sono forzati a modificare tutte le forme tradizionali, non appena il modo del loro commercio non corrisponde più alle forze produttive acquisite” (3).

Ricchezza e liberazione dal bisogno: le possibilità storiche dell’epoca presente

Esistono le basi obiettive per il socialismo? Esistono ancora dei margini per lo sviluppo delle forze produttive? È ancora possibile pensare a un comunismo della ricchezza o la crisi ambientale ci condannerà a un socialismo della miseria, ammesso che esso risulti possibile? Queste domande non riguardano principalmente la teoria, ma direttamente la situazione storica presente; ammettono cioè solo una risposta empirica (e, in ultima analisi, pratica) la quale è tuttavia soggetta a un certo grado di incertezza dovuta a fattori obiettivi ma soprattutto a fattori soggettivi. I fattori oggettivi sono già stati accennati in precedenza: difficoltà di fare stime attendibili sulle risorse disponibili, sul grado di tolleranza degli ecosistemi, sulla portata e gli effetti di alcuni fenomeni che stanno modificando la composizione chimica della biosfera, sulle interazioni complesse tra tutti questi elementi e tra essi e le attività umane, sulla velocità del progresso scientifico-tecnologico e sulle direzioni che esso assumerà, ecc. Ma i fattori soggettivi sono oggi ancora più incerti pur essendo, probabilmente, quelli decisivi. Quanto ancora ritarderà, nei singoli paesi e su scala mondiale la “ristrutturazione” dei presenti meccanismi distruttivi e la realizzazione di modi di produrre, di vivere, di muoversi, di organizzare la vita sociale finalmente sostenibili a lungo termine dagli ecosistemi e dalla biosfera? Questa, in effetti, sta diventando la domanda decisiva. Perché quello che più preoccupa delle attuali tendenze della crisi ambientale è proprio questo: il deterioramento in corso, non trovando chi lo fermi o almeno lo freni (e questo qualcuno non può essere altri che un soggetto sociale), rischia di compromettere per un lungo periodo, se non definitivamente, le basi stesse della vita civile per una popolazione delle dimensioni di quella che abiterà il pianeta verso la metà del prossimo secolo (tra gli otto e i dieci miliardi di individui, almeno secondo stime prudenti). Per ciò dobbiamo essere consapevoli che il bivio storico che oggi ci sta di fronte — l’alternativa tra socialismo e barbarie, tra un passo decisivo verso un vero progresso e il passo che ci farebbe precipitare nel baratro — non rimarrà aperto indefinitamente davanti a noi. Non è ancora scritto da nessuna parte che la catastrofe avverrà senz’altro ma neppure che sarà scongiurata. Se non si faranno passi decisivi verso il socialismo, ad un certo momento la barbarie diventerà inevitabile.

Naturalmente sarebbe insensato un atteggiamento ultimatistico del tipo, per intenderci, di quello assunto dall’ecologo neomalthusiano e filo imperialista statunitense Paul Ehrlich, che alla fine degli anni sessanta aveva affermato che il mondo era spacciato qualora, entro il 1972, non si fosse invertita la tendenza all’aumento della popolazione (per cui concludeva che in tale ipotesi non sarebbe più valsa la fatica di intervenire e, chi lo avesse potuto, avrebbe fatto meglio a godersi gli ultimi sprazzi di vita spensierata) (4). Più semplicemente dobbiamo agire, sapendo che il tempo che abbiamo a disposizione per imboccare la strada dipende dall’efficacia dei nostri sforzi. Anche se non approderemo in pochi anni alla rivoluzione mondiale, potremmo ugualmente marcare risultati importanti: imporre qualche freno, forse efficace, alle tendenze più distruttive dello stato di cose presenti e in questo modo tenere aperta ancora per un po’ la porta che dà all’umanità la possibilità di raggiungere un superiore stadio di sviluppo storico e sociale. E così facendo avremo migliorato, forse sensibilmente, anche le nostre condizioni di vita. Oggi come oggi, dunque, le basi obiettive per il socialismo continuano a maturare e sono tutt’altro che scomparse; ma dobbiamo aver chiaro che il “fattore tempo”, come dicono Lester Brown e Edward Wolf, diventa sempre più importante: “Avviare il mondo su un percorso di sviluppo sostenibile non sarà cosa facile, dati il degrado e la confusione economica che oggi prevalgono. Non sarà certo sufficiente qualche piccolo aumento degli investimenti destinati a un impiego razionale dell’energia, o dei bilanci per la pianificazione familiare. La possibilità di imboccare un simile cammino dipende infatti da un riordinamento complessivo delle priorità e da una fondamentale ristrutturazione dell’economia globale, nonché da un rilancio della cooperazione internazionale pari soltanto a quello che si ebbe dopo il secondo conflitto mondiale. Solo a patto che la volontà di assicurare un futuro sostenibile divenga una delle principali preoccupazioni dei governi nazionali, sarà possibile evitare che il continuo deterioramento dei sistemi naturali che presiedono alla vita economica vanifichi ogni sforzo teso a migliorare la condizione umana. Un futuro sostenibile richiede che si affronti simultaneamente una serie di questioni interconnesse. Rendere stabile il tasso di crescita demografica sarà difficile fino a quando non diminuirà la povertà. Evitare l’estinzione in massa di intere specie potrà risultare un compito impossibile finché il Terzo mondo sarà oberato dai debiti. Il punto forse determinante è che le stesse risorse indispensabili per arrestare il deterioramento fisico del pianeta potranno risultare inaccessibili a meno che la corsa internazionale agli armamenti non subisca un’inversione di tendenza. Qualora il mondo perseveri sulla via attualmente intrapresa, le crisi si accumuleranno e diverranno più frequenti sino a soffocare la capacità stessa delle istituzioni di reagire. Essenziale è il fattore tempo” (5). Dove dissentiamo da Lester Brown e da Edward Wolf è sulla fiducia un po’ illuministica che essi conservano sulla possibilità di resipiscenza dei governi e delle classi dominati; non è su questi soggetti che noi contiamo ma sulla forza immensa — quando diventa autocosciente e si organizza — delle masse lavoratrici, delle donne, dei giovani del mondo intero e sulla loro volontà di “difendere i propri diritti sul futuro” (è il titolo, molto bello, del saggio di Brown e Wolf). Ma ancora una volta, per comprendere adeguatamente le possibilità di sviluppo esistenti, dobbiamo rifarci a Marx e alla sua idea di sviluppo, e non ai modelli correnti che vedono lo sviluppo della ricchezza essenzialmente nella forma della disponibilità illimitata e privata di una montagna di merci, di una crescita fine a se stessa dei consumi opulenti, della possibilità dello spreco senza pensieri… È ovvio che se fosse questo lo sviluppo che abbiamo in mente — e che è poi nient’altro che il modello di ricchezza offerto quotidianamente dalle classi dominanti e dai mass media che ne sono lo specchio — non esisterebbe la possibilità fisica di offrire a tutti questa follia, se non al prezzo di distruggere in pochi anni il pianeta. Ma abbiamo molti indizi che questo “modello di consumi illimitati” non è iscritto nella natura profonda degli uomini; è piuttosto il risultato di condizioni storiche date e un’evoluzione verso un “consumo razionale”. Perciò limitato per il mero aspetto materiale, sia una possibilità reale se si danno le condizioni storiche adatte (fine della penuria, sicurezza per tutti, nuovi atteggiamenti culturali che premiano la ricchezza e la varietà spirituali e condannano l’accumulazione privata fine a se stessa o lo spreco di beni materiali, ecc.). Per Marx, il quale non disprezzava minimamente i comfort della vita moderna — la liberazione dal bisogno e, di conseguenza, dal lavoro costrittivo, riguarda la possibilità per tutti gli individui di soddisfare i bisogni materiali fondamentali della vita con una quantità limitata di lavoro necessario (con un “minimo decrescente”, viene detto nei Grundrisse), oltre il quale resta un ampio tempo disponibile da dedicare all’attività libera, al lavoro creativo, scientifico, artistico, artigianale, ecc.) non più schiavo della divisione del lavoro, allo sviluppo onnilaterale delle facoltà degli individui: “L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del suo processo di riproduzione non dipende quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito. Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni; la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore impiego possibile di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (6). Esistono oggi le potenzialità per garantire a tutti gli uomini il soddisfacimento dei bisogni fondamentali di vitto, alloggio, assistenza sanitaria, istruzione medio-superiore, condizioni di lavoro dignitose e una vita sociale ricca, e di farlo riducendo la giornata (o la settimana) lavorativa? La risposta non può essere naturalmente identica per i paesi che conoscono uno sviluppo industriale vecchio di molti decenni o di secoli e per quei paesi che hanno cominciato l’industrializzazione in tempi recenti o che sono ancora fondamentalmente arretrati. Nel caso dei primi — l’ideologia corrente comincia già a chiamarli “post-industriali”— non c’è dubbio che già oggi sarebbe non solo possibile ma necessaria una forte riduzione dell’orario di lavoro (diciamo: sotto le trenta ore settimanali) solo per assorbire la massa crescente di disoccupati e sottoccupati (lavoro precario, part-time, ecc.); la quale si accompagnerebbe perciò a un miglioramento del benessere generale e non a un peggioramento. E senza altri sconvolgimenti, se non quelli che inevitabilmente accompagnano lo spostamento della domanda da un gruppo all’altro di beni, dovrebbe essere possibile risolvere le gravi insufficienze che permangono e si riproducono nelle società capitalistiche (aree di vecchia e nuova povertà, mancanza di alloggi, assistenza agli anziani e ai disabili, recupero del degrado ambientale, ecc.) nello stesso tempo in cui prosegue la riduzione del tempo di lavoro (diciamo: al livello della mezza giornata o della mezza settimana lavorativa entro la fine del secolo); e ciò per mezzo del normale progresso delle tecniche produttive e delle risorse liberate da una forte redistribuzione del reddito in senso egualitario. Il problema è più difficile per ciò che riguarda i paesi il cui sviluppo è stato fino ad oggi ritardato o bloccato dalla loro posizione nella divisione internazionale del lavoro determinata dall’imperialismo. Tuttavia, se fossero finalmente eliminati i giganteschi sprechi materiali, tecnologici e umani che oggi sono dilapidati in modo distruttivo (corsa al riarmo), parassitario (il mantenimento delle classi dominanti) o superfluo (gli aspetti deteriori del consumismo) e fossero messe a profitto le energie umane che languono in condizioni di sotto utilizzo in tutto il Terzo mondo, sarebbe largamente possibile estendere le condizioni dei paesi più avanzati al resto dell’umanità nel giro di qualche decennio, purché, forse, venga messa rapidamente sotto controllo la dinamica demografica, per la qual cosa è perfettamente adeguato e sufficiente lo sviluppo culturale e una politica attiva di educazione e di sostegno alla pianificazione familiare e all’impiego dei contraccettivi, nel rispetto delle scelte individuali. “Nulla se non la logica capitalistica, ci impedisce di fabbricare o rendere accessibili a tutti vestiti, utensili, apparecchi elettrodomestici e veicoli facili da riparare, economici per consumo di energia, capaci di durare tutta una vita, aumentando simultaneamente il tempo libero e la quantità di beni d’uso di cui la popolazione dispone in un dato momento” (7). Abbiamo tutti gli elementi per credere che le forze produttive esistenti possono essere la base per avviare l’edificazione socialista mondiale; il problema della liberazione dal bisogno e dallo sfruttamento è un compito che l’umanità può proporsi perché essa è nelle condizioni per risolverlo.

Vincoli ecologici e sviluppo sostenibile: per una prospettiva eco-comunista

Dal momento che l’ambiente terra è limitato e che limitate sono molte delle risorse che le società industriali stanno irrevocabilmente dissipando, non si può sfuggire all’interrogativo se la futura società comunista conoscerà ancora lo “sviluppo” oppure dovrà adattarsi a uno stato stazionario o declinante. Se con il termine sviluppo si intende ciò che ha caratterizzato la crescita industriale degli ultimi secoli allora la risposta diventa inequivocabilmente che la società futura dovrà fare a meno di questo sviluppo. Ovvero: lo sviluppo che si identifica con e che abbisogna della crescita quantitativa (della popolazione; dei flussi di energia; dei materiali lavorati, consumati, trasformati in rifiuti, ecc.) incontra dei limiti insuperabili nella disponibilità di materiali da estrarre dall’ambiente naturale e soprattutto nei margini di tolleranza degli ecosistemi e della biosfera. Pertanto questo tipo di sviluppo non è compatibile con la prospettiva comunista. Se l’umanità futura vorrà “regolare razionalmente il proprio ricambio organico con la natura”, “portarlo sotto il suo controllo” e così “garantire le condizioni inalienabili di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano” — per usare le espressioni di cui si serve Marx (8) — allora essa dovrà innovare profondamente, rispetto alle società industriali di nostra conoscenza, sia la base tecnica, sia i valori culturali e spirituali. Dovrà naturalmente giungere a mettere sotto controllo i propri ritmi riproduttivi, anche se lo farà, crediamo, in forme rispettose dell’autodeterminazione delle donne e degli uomini; dovrà escludere tutte quelle attività di produzione e di consumo che hanno un impatto ambientale insostenibile; dovrà stabilizzare livelli di sfruttamento delle risorse naturali compatibili con i ritmi di riproduzione della natura; dovrà promuovere attivamente e rapidamente la transizione da un ricambio organico sbilanciato, che si fonda largamente su risorse esauribili, ad un ricambio organico che invece risparmia queste risorse e che tendenzialmente fa a meno di esse. A questo proposito Andrè Gorz ha proposto dei criteri che compenetrano l’esigenza ecologica con l’obiettivo sociale di una società egualitaria e solidale: “Non produrre socialmente alcun prodotto tanto dispendioso da non poter mai essere accessibile a tutti, né prodotti tanto ingombranti o inquinanti che la loro nocività avrebbe il sopravvento sui loro vantaggi se la maggioranza della popolazione se ne servisse” (9). Laura Conti ha indicato invece i criteri prudenziali che dovrebbero informare la scelta delle tecnologie nei casi in cui esse possono interferire con il sistema vivente: “La natura ci permette di fare quasi di tutto, ma a tre condizioni: che lo si faccia su scala ridotta, con intensità limitata e a bassa velocità” (10). Questi non vogliono essere che degli esempi; altri criteri dovranno essere proposti e verificati. Si tratta in ogni caso di qualcosa di più di semplici pensate a tavolino: nella misura in cui esprimono una sensibilità nuova che comincia a diffondersi nella società, si tratta di nuovi valori sociali che si affermano e che entrano in collisione con il modo concreto di funzionare del capitalismo e della società attuale. Senza attribuire ad essi una efficacia diretta nel promuovere il cambiamento (che essi non possono avere che in misura limitata), bisogna però comprendere che essi sono una delle forme in cui matura la coscienza sociale della necessità di cambiare; pertanto essi debbono trovare posto nel nostro programma politico, magari tradotti in parole d’ordine più concrete. Riprendendo i termini della domanda iniziale, possiamo affermare che la società del futuro conoscerà sì lo “sviluppo” ma non la continua crescita quantitativa dei flussi materiali. Il che non è affatto incompatibile con la crescita costante (magari moderata) del benessere materiale. Occorre eliminare l’equivoco che lo “sviluppo” coincida con la crescita degli scambi materiali tra l’uomo e la biosfera. Se ciò fosse vero lo sviluppo umano si sarebbe fermato molto tempo fa, quando la popolazione umana raggiunse sulla terra la densità massima compatibile con le risorse alimentari sfruttabili con i metodi primitivi degli ominidi. Invece lo sviluppo della ricchezza (inteso come disponibilità crescente di valori d’uso e di tempo libero per tutti) è essenzialmente un cambiamento qualitativo, la cui base è il progresso tecnologico, che consente di sfruttare meglio, cioè in modo sempre più intensivo e non meramente estensivo, le risorse ambientali. C’è ogni motivo per credere che questo debba valere anche per il futuro. Anzi, questo sviluppo sarà tanto più intenso quanto più crescerà il potenziale scientifico dell’umanità e la sua capacità di padroneggiare coscientemente il proprio rapporto con l’ambiente. Tuttavia un dato inedito con cui fare i conti c’è. Ad opera dello sviluppo industriale siamo giunti ad uno spartiacque ecologico (entropico, direbbe Rifkin), che per l’umanità non è il primo né sarà l’ultimo (ci auguriamo), il quale si manifesta nella forma dell’indisponibilità progressiva di molti materiali esauribili e di risorse ambientali limitate o non rinnovabili (fonti energetiche, risorse minerarie, suolo fertile, spazio, foreste, ecc.), cioè nel costo rapidamente crescente dell’estrazione e del riciclaggio delle risorse esauribili e nella congestione e nel degrado di quelle limitate. Da ciò consegue che lo sviluppo della ricchezza può continuare, da qui in avanti esclusivamente (o quasi) come sfruttamento intensivo. Ciò rende plausibile ipotizzare flussi stabili, se non decrescenti, di elementi materiali e di energia scambiati tra società umana e biosfera, pur in presenza di un andamento crescente (almeno ancora per un certo tempo) della disponibilità dei valori d’uso, in grazia di una crescente efficienza della conversione dell’energia e dei materiali in beni e servizi adatti a soddisfare i bisogni umani individuali e sociali. Ma questa nuova situazione accentua indubbiamente alcuni dei dilemmi che sono propri di ogni forma di economia: privilegiare l’incremento dei consumi o la riduzione del tempo di lavoro? Investire in tecnologie che risparmiano tempo di lavoro o che risparmiano risorse ambientali? Privilegiare nelle condizioni di lavoro l’efficienza o la convivialità?, ecc. Questi dilemmi continueranno a determinare l’evoluzione economica dell’umanità anche in futuro, anche se ciò dovrebbe avvenire — almeno in quella superiore fase di sviluppo che Marx chiama società comunista — in forme finalmente degne dell’uomo, cioè pacifiche e “libertarie”, senza ricorso a violenze fisiche o morali, senza bisogno della coercizione economica o statale, attraverso il libero confronto delle opinioni e delle proposte, con largo spazio per la sperimentazione e l’adozione di soluzioni alternative e la massima autodeterminazione delle realtà locali e delle singole unità produttive compatibile con gli interessi comuni e con l’esigenza di garantire a tutti le medesime opportunità. Alcuni studiosi contemporanei hanno proposto di indicare lo sviluppo di una società che soddisfa i suoi bisogni senza intaccare le prospettive delle generazioni future con il termine di “sviluppo sostenibile”. Se accettiamo il termine, possiamo legittimamente affermare che il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato anticipato più di un secolo fa da Karl Marx nella formulazione delle caratteristiche proprie della società comunista (ad esempio nei passi che abbiamo citato sopra). In questo senso, si può dire che la prospettiva storica preconizzata dal marxismo è un ecocomunismo; dove il prefisso “eco” sta a significare che rispetto alle forme sociali esistenti, debbono cambiare non solo i rapporti fra uomo e uomo ma anche i rapporti fra uomo e natura; che la preoccupazione ecologica è intrinseca alla prospettiva comunista; che un nuovo equilibrio fra uomo e natura è tutt’uno con nuovi rapporti fra uomo e uomo e viceversa. Non si propone qui di sostituire il termine “comunismo” con quello di “ecocomunismo”, anche perché esso non ne innova il contenuto. Si propone soltanto di usarlo, nei contesti adatti e nelle situazioni in cui risulti opportuno, per sottolineare il duplice aspetto, sociale ed ecologico, della prospettiva marxista di liberazione dell’uomo.

I problemi della fase di transizione. La dimensione internazionale

Le osservazioni sviluppate nel punto precedente sono prefigurazioni della società futura quale può realizzarsi soltanto su una base sociale e spirituale nuova e su scala mondiale. Più drammatici e urgenti sono invece i problemi della transizione, intendendo con questa espressione la fase che ci separa da tale forma di società. I gravi problemi attuali sono altri: portare rapidamente i paesi arretrati a livelli di vita accettabili, prerequisito di ogni progresso culturale e sociale; accompagnare la lotta per questi obiettivi con lo sviluppo dell’autoorganizzazione delle masse, unico modo di renderle protagoniste consapevoli delle scelte che le riguardano; sviluppare la coscienza ecologica tra le masse lavoratrici sia del Nord sia del Sud del mondo, così che esse possano prendere in mano la lotta per trasformare il modo di produzione che distrugge la natura. Nel caso dei paesi arretrati non si può parlare di rallentamento della crescita (anche se occorre mettere ogni attenzione per evitare i costi ambientali che questa ha comportato nei paesi di vecchia industrializzazione, cercando nuove modalità tecniche e sociali di sviluppo). Viceversa, nel caso dei paesi imperialisti già in possesso di poderosi apparati industriali e infrastrutturali, diventa prioritario mettere in moto radicali cambiamenti qualitativi piuttosto che ulteriori sviluppi quantitativi. Anche nel caso di decisioni economiche che, apparentemente, migliorano il quadro ambientale su scala locale o nazionale, occorre formulare un giudizio tenendo presente il quadro mondiale complessivo. Facciamo un solo esempio tratto dalle vicende degli ultimi anni: la gigantesca ristrutturazione di grandi complessi siderurgici in Europa e negli Stati Uniti è un controsenso non solo economico (perché molti di questi impianti sono ancora tecnicamente efficienti e potrebbero essere vantaggiosamente utilizzati per fornire l’acciaio di cui abbisogna il Terzo mondo, solo che esso fosse meno strozzato dal debito), ma anche ecologico, perché l’intera operazione si configura in ultima analisi come trasferimento della produzione siderurgica e del relativo impatto inquinante nel Terzo mondo, dove le multinazionali contano di sfruttare una manodopera a più buon mercato e normative ambientali più lassiste; quando invece sarebbe più razionale risparmiare al Terzo mondo i costi ambientali connessi con un’industria che nel Primo mondo appare sovradimensionata rispetto ai bisogni. La posizione sostenuta da molti ambientalisti riguardo al problema della dimensione internazionale del degrado ambientale, appare inconseguente e contraddittoria. Benché enfatizzino la dimensione globale dei problemi ecologici, quando si pongono sul piano dell’azione concreta, essi esprimono un’avversione “di principio” per la pianificazione appena questa oltrepassi l’ambito ristretto delle comunità locali (ambito peraltro indefinibile nella società contemporanea). Elementi di questo atteggiamento si ritrovano anche nella proposta dello “sviluppo autocentrato” avanzata da Democrazia proletaria. Caso limite di questo approccio è la posizione di Laura Conti la quale, dalla considerazione dell’irrazionalità ecologica che caratterizza la divisione mondiale del lavoro imposta dall’imperialismo, deduce la necessità di tornare all’autarchia nazionale e all’economia chiusa (11). In realtà, la ristrutturazione delle relazioni economico-ecologiche tra le varie regioni del mondo, avrebbe bisogno sia di meno, sia di più interdipendenza; cioè, di meno subordinazione dell’economia di un’area specifica ai bisogni estranei che hanno sede altrove (in questo senso è corretto rivendicare l’autodeterminazione dello sviluppo sia contro la dipendenza dall’imperialismo sia contro ultracentralismo burocratico); ma anche di più interscambi su una base di parità tra regioni diverse (fin dal paleolitico l’interscambio tra le comunità umane risulta una delle molle più potenti per promuovere lo sviluppo materiale e culturale). La base paritaria di questa cooperazione multilaterale non può essere ovviamente il meccanismo esterno e cieco dei prezzi del mercato mondiale; può essere solo una forma democratica di pianificazione sovranazionale che fa propria l’esigenza di promuovere lo sfruttamento razionale delle risorse ambientali di ciascuna regione con modalità ecologicamente sostenibili. Si può misurare la necessità della ristrutturazione-integrazione dell’economia internazionale in forme democratiche e pianificate ai fini dello sviluppo del Terzo e del Quarto mondo, sull’impotenza decennale dimostrata in questo compito dagli organismi internazionali esistenti. Anche quando i loro sforzi non sono la mera proiezione della politica estera dei paesi imperialisti (come è il caso della Comunità europea, del Fondo monetario internazionale, ecc.), essi sono destinati a non andare oltre l’espressione di buone intenzioni e l’intervento di soccorso nei casi di estrema emergenza. Un vero salto di qualità in questo ambito è possibile soltanto tra i paesi che via via si sottraggono alla concorrenza capitalistica e cominciano l’edificazione di un nuovo ordine internazionale socialista, purché le reciproche rinunce alla piena sovranità avvengano su base volontaria e in forme democratiche.

Coscienza di classe o coscienza della specie?

“Dalla coscienza di classe si deve passare alla coscienza di specie” (12), la parola d’ordine enunciata da Enzo Tiezzi in Tempi storici, tempi biologici (un libro ricco di spunti ma anche di confusione), riassume in sè la problematica che caratterizza negli anni ottanta molto ambientalismo italiano che viene dalle file della sinistra vecchia e nuova del decennio precedente. La tesi, in sintesi, è quella dell’inadeguatezza del marxismo, della necessità di una nuova cultura politica che oltrepassi i ristretti interessi di classe e si fondi sugli interessi della sopravvivenza della specie; la molla della nuova “politica della specie” viene ad essere, fondamentalmente, una spinta etica illuminata dal pensiero ecologico. In ultima analisi, è una nuova versione della liquidazione della tradizione marxista e l’approdo puro e semplice a quello che è il punto di vista implicito o esplicito di ogni pensiero politico “verde”. Questo modo di ragionare, che pur pretende di tener conto delle lezioni della biologia e della termodinamica, è carente proprio dal punto di vista dell’ecologia quando passa a considerare le forme in cui può mutare oggi lo squilibrio tra la specie e la natura, perché prescinde da un adeguato esame delle forme dell’azione sociale e politica. Il problema della sopravvivenza di una specie si pone, da un punto di vista ecologico, come selezione e conservazione dei caratteri che favoriscono un rapporto equilibrato con l’ambiente e l’eliminazione di quelli che la spingono a distruggere, con l’ambiente in cui vive, anche se stessa (in molti casi quest’ultima eventualità non è esclusa dalle caratteristiche proprie della specie considerata ma dalle interazioni in cui essa si trova con altre specie che fungono da “controllori”; è il caso del rapporto preda-predatore tra molte specie di erbivori e di carnivori, ad esempio). Nel caso della specie Homo sapiens, però, questi caratteri non hanno molto a che fare con la natura biologica degli individui (quest’ultima si rivela sempre più come una base del comportamento ricca di potenzialità suscettibili di sviluppo in direzioni molteplici e anche opposte; l’egoismo o l’altruismo, l’aggressività o lo spirito di tolleranza, la moderazione o l’avidità non sono governati dai nostri geni). Essi vanno piuttosto posti in relazione con l’organizzazione sociale della specie come un tutto la quale, a sua volta, è un aspetto della storia culturale dell’umanità. Società e cultura, in particolare si trovano in un rapporto di reciproca determinazione: “le circostanze fanno gli uomini quanto gli uomini fanno le circostanze” (13). Ciò comporta da lunghissimo tempo che la selezione non opera più sull’eredità genetica degli individui ma, principalmente, sull’eredità culturale delle popolazioni e sulla loro organizzazione sociale. Sono queste forme di evoluzione “inventate” dall’uomo che esplicano la facoltà adattativa di questa specie molto particolare. Ha scritto in proposito Stephen Jay Gould, uno dei massimi paleontologi viventi: “L’impatto dell’unicità dell’uomo sul mondo è stato enorme perché ha stabilito un nuovo tipo di evoluzione per sostenere la trasmissione attraverso le generazioni delle conoscenze acquisite e dei comportamenti. L’unicità umana risiede prima di tutto nei nostri cervelli. È espressa nella cultura costruita sulla nostra intelligenza e sul potere che ci dà per manipolare il mondo. Le società umane cambiano con l’evoluzione culturale, non come risultato di alterazioni biologiche. Non abbiamo prove di cambiamenti biologici nella dimensione o nella struttura del cervello da quando Homo sapiens apparve nei reperti fossili di circa cinquantamila anni fa […]. Tutto quello che abbiamo fatto da allora — la più grande trasformazione nel più breve tempo che il nostro pianeta ha provato da quando la crosta si solidificò quasi quattro miliardi di anni fa — è il prodotto dell’evoluzione culturale. L’evoluzione biologica (darwiniana) continua nella nostra specie, ma la sua velocità, al confronto con l’evoluzione culturale, è così incomparabilmente lenta che il suo impatto sulla storia di Homo sapiens è stato piccolo […]. L’evoluzione culturale può procedere così rapidamente perché opera, come l’evoluzione biologica non fa, in modo “lamarckiano”: mediante l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Qualsiasi cosa una generazione apprenda, passa alla successiva attraverso la scrittura, l’istruzione, l’inculcazione, il rituale, la tradizione e una schiera di metodi che gli uomini hanno sviluppato per assicurare la continuità della nostra cultura. L’evoluzione darwiniana d’altra parte, è un processo indiretto: anzitutto la variazione genetica sorge casualmente, non diretta in modo preferenziale verso caratteristiche vantaggiose, il processo darwiniano opera lentamente. L’evoluzione culturale non è solo rapida; è anche prontamente reversibile perché i suoi prodotti non sono codificati nei nostri geni” (14). Nel passato remoto la selezione naturale ha sicuramente operato “promuovendo” o “bocciando” i gruppi umani anche in relazione alla capacità della loro cultura di fornire un buon adattamento all’ambiente. La bocciatura ha voluto dire la scomparsa fisica delle popolazioni o, più recentemente, la loro sottomissione ad altre popolazioni e culture. Ma da cinquecento anni a questa parte l’unificazione dell’umanità è diventata progressivamente unità dei suoi destini. Innanzi tutto come comune sottomissione al modo di produzione capitalistico e al modello eurocentrico di “civiltà” che esso ha portato con sè. Oggi l’unità di destini riguarda direttamente la sopravvivenza della specie stessa: il verdetto di “promozione” o di “bocciatura” coinvolge l’intera umanità. Tuttavia, c’è un motivo di ottimismo nel fatto che questa selezione non opera sulla base biologica degli uomini ma sui loro modi “culturali” di produrre e di organizzarsi in società. Questi modi possono essere adattati consapevolmente ai bisogni; inoltre essi sono “reversibili” senza che ciò comporti la morte individuale o collettiva ma solo una trasformazione della cultura e della società. Questo fatto sposta il problema della sopravvivenza sul terreno storicosociale e a questo livello deve essere ora esaminato. Il punto di partenza deve essere la constatazione che l’umanità è oggi profondamente divisa in classi e non può perciò esprimere una comune “coscienza della specie” in base alla quale tutti gli individui agiscano armonicamente. La stessa pretesa di oggettività della scienza si afferma solo in mezzo ai condizionamenti dell’ideologia, per cui è mera illusione sperare di fondare una prassi valida universalmente sulla mera comprensione intellettuale dei principi scientifici. Il cambiamento può derivare solo dalle forze sociali concrete che si muovono sulla base di quelli che avvertono come propri interessi vitali (e in genere la valutazione pecca di lungimiranza). La possibilità, quindi, che si realizzi quella “mutazione genetica” (usiamo la dizione in forma metaforica, ovviamente) della specie umana che la salvi dall’autodistruzione è legato all’esistenza di forze sociali abbastanza potenti che, per la loro condizione obiettiva, siano suscettibili di provocare questo mutamento e abbiano l’interesse a farlo. E qui, e da nessun’altra parte, che si fonda la teoria marxista della “coscienza di classe”: le classi salariate, per il fatto di subire entro il sistema sociale vigente uno sfruttamento a cui si ribellano — così come accade alla natura, la quale però non ha coscienza e si “ribella” solo in forme estreme e distruttive verso tutti gli uomini — sono confusamente coscienti di questa situazione e sono disponibili a cambiarla. Questa coscienza, confusa, spontanea, elementare, non basta da sola a fare delle classi salariate un soggetto indipendente in grado di guidare un processo di cambiamento radicale. Anzi, il superamento del livello elementare della “coscienza di classe in sé” e il raggiungimento di un elevato livello di “coscienza di classe per sé” è un processo storico complesso, non lineare, in cui hanno un ruolo importante da svolgere anche settori intellettuali, estranei per collocazione alla classe operaia, ma interni ai meccanismi della produzione scientifica e ideologica, che sfuggono ai condizionamenti della classe dominante sulla base della comprensione intellettuale della situazione storica. La piena coscienza per sè, cioè la comprensione dei compiti politici pratici connessi col momento storico dato, è il livello della coscienza comunista, che non può diventare agente della storia che nella misura in cui s’incarna in una forza organizzata, che agisce consapevolmente per sviluppare la coscienza, l’attività e l’autoorganizzazione delle masse lavoratrici e per orientarle verso la presa del potere politico. E questa, molto schematicamente, la concezione materialistica propria dei marxisti rivoluzionari. Ed è su questa base che critichiamo la formula “dalla coscienza di classe alla coscienza di specie”. Il vero tragitto che la coscienza sociale deve fare è un altro: dalle molteplici coscienze parziali dell’oppressione che la società del capitale produce, alla coscienza comunista come quella che le comprende tutte e le orienta verso la soppressione rivoluzionaria dello stato di cose presenti. È la coscienza comunista, dunque, la vera e adeguata “coscienza della specie” della nostra epoca. Ma ovviamente essa è tale se — e soltanto se — integra la piena consapevolezza della necessaria ristrutturazione ecologica dei rapporti tra la specie e la natura, così come abbiamo sottolineato in precedenza. Essa è tutt’altro che un risultato già acquisito o una ricetta preconfezionata, già scritta in qualche testo sacro. È ad un tempo il risultato di un processo storico e un compito da perseguire consapevolmente: è il nostro compito di marxisti rivoluzionari.

Note

(1) K. Marx, prefazione a Per la critica dell’economia politica, pp. 5-6. (2) K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 25. (3) K. Marx, Lettera ad Annenkov, 28 dicembre 1846, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XXXVIII, p. 460. (4) La posizione di Paul Ehrlich è riferita da Barry Commoner, Il cerchio da chiudere, cap. XI, nota 1: in un’intervista a “Look” (21 aprile 1970), P. Ehrlich dichiarò: “Quando arrivi a un punto in cui ti accorgi che è inutile fare altri sforzi, tanto vale pensare a te e ai tuoi amici e goderti quel po’ di tempo che ti rimane. Questo punto per me è il 1972”. Sullo stesso tono l’articolo di Ehrlich pubblicato da “Selezione” nell’aprile del 1969 citato da Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, p. 103. Per la verità occorre aggiungere che Ehrlich ha nel frattempo mutato opinione, pur restando un sostenitore della centralità del problema demografico. Si veda ad esempio il suo scritto sul numero di dicembre 1988 della rivista “National Geographic”. (5) L. Brown – E. Wolf, State of the World 1988, p. 229. (6) K. Marx, Il capitale, III, p. 933. (7) A. Gorz, Sette tesi per cambiare la vita, p. 43. (8) Le espressioni di Marx in Il capitale, III, pp. 933 e 925. (9) A. Gorz, Sette tesi per cambiare la vita, pp. 13 e 49. (10) L. Conti, Questo pianeta, p. 222. (11) L. Conti, Questo pianeta, p. 206. Per la verità, il pensiero della Conti su questo punto non è molto chiaro: non è chiaro se si propone il ritorno alla chiusura degli scambi o invece nuove forme “democratiche” di regolazione dell’interdipendenza. (12) E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, p. 76. (13) Il passo virgolettato è una parafrasi del passo di K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca, p. 30: “Le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”. (14) S. J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Le pretese scientifiche del razzismo, pp. 309-310.

Capitolo 4

PER LA RIPRESA DEL “FILO VERDE” DEL MARXISMO

Un paradosso che attende spiegazione

Come mai le geniali anticipazioni “ecologiche” proprie del paradigma originario del marxismo sono rimaste pressoché sterili fino agli anni recenti? Come mai le premesse promettenti della teoria non hanno avuto seguito negli sviluppi politici successivi, e i movimenti storici che si sono ispirati in qualche modo all’opera di Marx e di Engels, sono stati così refrattari a cogliere l’emergere della contraddizione ambientale? È questo un paradosso che non ha ancora avuto una spiegazione adeguata ma sarebbe sbagliato negarne l’esistenza. Non pretendiamo di rispondere qui a queste domande in modo definitivo; solo la ricerca storica potrà darci spiegazioni esaurienti. Tuttavia, nella misura in cui ha una portata politica attuale, la questione non può essere elusa e perciò indichiamo qui quelle che, a nostro parere, solo le chiavi di lettura che possono consentire di spiegare questo paradosso (e di porre le basi per il suo superamento pratico). Innanzi tutto: è senz’altro vero — ed è un dato di analisi imprescindibile per questa come per altre questioni della sua vicenda storica — che quella del marxismo “è una lunga storia di esaltazione di un aspetto di Marx contro un altro; delle dimenticanze di un certo aspetto contro un altro” (così si è espresso Costanzo Preve nel convegno promosso da Democrazia proletaria nel 1985). Il vero problema, tuttavia, non è questo; è inevitabile, infatti, che coloro che si sono via via ispirati al marxismo lo leggessero “con gli occhiali del loro tempo” (1), e in buona misura lo semplificassero ad uso della propaganda quotidiana, lo deformassero e lo contaminassero con influenze ideologiche nuove ed estranee, lo sviluppassero in certe direzioni e non in altre. Tutto ciò fa parte del destino di tutti i sistemi di pensiero vitali, che escono dai libri per diventare prassi storica. In parte questo è anche un risultato della ricchezza di motivi che confluirono nella sintesi originaria del marxismo, e che evidentemente si prestano ad essere sviluppati in direzioni diverse. Questa affermazione non ha nulla a che vedere con una vecchia tesi — cara all’antimarxismo volgare, che ama presentare i marxisti come fedeli dogmatici di una chiesa, peraltro dilaniata dalle controversie teologiche — secondo la quale in Marx ci sarebbe tutto e il contrario di tutto, per cui sarebbe sempre possibile difendere qualsiasi cosa e il suo opposto in base a citazioni scelte opportunamente. Ovvio che, se questo fosse vero, il marxismo non potrebbe avere pretese di scienza e più che inutile sarebbe dannoso. Ma per quanto questa immagine trovi indubbie corrispondenze nelle forme degenerate assunte in questo secolo dall’ideologia burocratico-staliniana prima e da quella maoista poi, essa non ha nulla a che vedere con Marx ed Engels (che respinsero spesso con fastidio l’idea stessa di una fazione “marxista”, tanto è vero che è rimasta celebre l’affermazione di Marx di “non essere marxista”), né con la tradizione del marxismo rivoluzionario (da Rosa Luxemburg a Lenin, da Trotskij a Che Guevara). Senza postulare una coerenza interna assoluta e sempre rigorosa — che non è caratteristica di nessuna scienza e tanto meno di un sistema teorico aperto quale è e vuole essere il marxismo — la sua ricchezza multiforme è certamente di tutt’altra natura. Essa non è mera sommatoria di elementi eclettici, diversi e magari opposti ma sintesi organica originale di una pluralità di influenze culturali e scientifiche e di esperienze storiche e politiche assimilate e fuse insieme grazie a un grado estremamente elevato di consapevolezza teorica, come raramente è accaduto altre volte nella storia del pensiero umano. Non è questo il luogo per elencare tutti questi apporti. Ci limitiamo a fare alcune brevi osservazioni per quel che riguarda le fonti della concezione della natura di Marx ed Engels. A questo proposito si debbono considerare non soltanto i risultati delle scienze naturali della metà del diciannovesimo secolo o il materialismo del diciottesimo secolo, l’uno e gli altri tributari del punto di vista del meccanicismo di ascendenza cartesiana e newtoniana (oggi posto sotto accusa, giustamente, dagli sviluppi scientifici prima ancora che dal pensiero ambientalista), ma anche l’influenza della filosofia della natura dei romantici tedeschi dei primi decenni dell’Ottocento (Schelling, Goethe, Ritter…), portatrice di un punto di vista radicalmente antimeccanicistico e di una sensibilità originale dell’unità dell’uomo con la natura, che filtra in qualche modo fino a Marx e ad Engels sia direttamente sia, soprattutto, attraverso Hegel (la nozione dell’uomo come “natura giunta all’autocoscienza”, che si trova tanto nei Manoscritti (2) che nella Dialettica della natura (3), deriva direttamente da Hegel). Anche questo spiega, probabilmente, perché Marx ed Engels abbiano intrattenuto un rapporto fecondo con le scienze naturali del loro tempo senza assorbirne il punto di vista meccanicistico, senza condividere l’esaltazione positivistica della scienza e della tecnica, senza leggere nel darwinismo la dimostrazione dell’inevitabile progresso e del miglioramento inarrestabile del mondo e dell’umanità; ma semmai abbiamo cercato nella “dialettica della natura” il punto di unificazione tra leggi della natura e leggi della storia, tra storia inconsapevole (quella naturale da cui sorge anche l’uomo e la società moderna) e storia consapevole (quella che è il risultato della prassi rivoluzionaria e del disegno cosciente del proletariato). Queste coordinate originarie del marxismo (che restano consegnate ad opere che non trovarono pubblicazione e diffusione che negli anni trenta e sessanta di questo secolo) risultavano tuttavia particolarmente estranee alla temperie culturale degli ultimi decenni del secolo scorso, quando cominciò il processo di diffusione e di volgarizzazione del pensiero marxista. Hegel — il pensatore dal quale il marxismo ha ereditato la dialettica — era allora un “cane morto” ignorato e disprezzato non solo dal pensiero borghese dell’epoca, ma anche dai teorici del nascente movimento operaio socialdemocratico, in cui invece trovavano udienza ideologie eclettiche d’ispirazione positivistica o idealistica. Engels stesso se ne preoccupava, e la Dialettica della natura nacque anche da queste preoccupazioni, come ben spiega Oskar Negt: “Il lavoro di ricerca di Engels (sulla dialettica della natura, ndr) ha fin dall’inizio un senso politico-strategico, ha i suoi destinatari specifici per ogni singolo argomento; poiché le idee del materialismo volgare penetravano nelle scuole di partito della socialdemocrazia — dove si insegnavano contemporaneamente gli elementi del sapere e una determinata visione del mondo — e si insediavano nel cervello dei lavoratori. Ogni insegnamento che si basasse sull’interesse oggettivo dei lavoratori e su teorie storiche incontrava sempre resistenze notevoli, poiché la dialettica era sì attribuita ai processi storici e alle tendenze economiche, ma il resto del mondo era occupato dalle rovine dell’idealismo e da un materialismo a-dialettico di tipo meccanicistico” (4). “Quanto fosse difficile, per Engels, vincere la mentalità dualistica dominante, mediante l’adozione di leggi dialettiche oggettive operanti nella natura e nella società. Lo mostra, poco dopo la sua morte, la scissione della teoria ufficiale della socialdemocrazia nell’idealismo kantiano di Bernstein e nel naturalismo darwinistico di Kautsky, i due prodotti astratti e complementari della dissoluzione della dialettica rivoluzionaria” (5). In effetti, la stessa volgarizzazione del marxismo compiuta da Karl Kautsky ricevette un’impronta positivistica, divenendo una sorta di determinismo evoluzionistico che applicava l’idea darwiniana alle forme sociali. Non per caso, dunque quando si accinse a combattere la degenerazione riformista della Seconda Internazionale, Lenin avvertì l’esigenza di ritornare a fare i conti con Hegel e affermò perentoriamente che non potevano dire d’aver compreso Marx quei marxisti che non avessero letto la Scienza della logica hegeliana (6). Tuttavia anche la rinascita del marxismo rivoluzionario (ad opera di personalità come Rosa Luxemburg, Lenin o Trotskij) non riportò alla luce il “filo verde” del marxismo che era andato sommerso. Le ragioni sono intuibili: l’attenzione qui si concentrava su quegli aspetti del pensiero di Marx che consentivano di orientarsi di fronte a nuovi, urgenti, problemi politici pratici: la crisi del capitalismo e le forme dell’azione politica del proletariato, la natura dell’imperialismo, la lotta per la conquista del potere e l’atteggiamento verso lo Stato, ecc.; su questi terreni la teoria marxista fece grandi passi avanti, sia liberandosi delle deformazioni introdotte dai teorici della Seconda Internazionale sia procedendo oltre in maniera originale. Altri terreni vitali, inevitabilmente, rimasero indietro. Successivamente, l’utilizzazione staliniana della Dialettica della natura per costruire una scolastica vuota di pensiero e apologetica nella sostanza — il cosiddetto Diamat (il materialismo dialettico nella versione staliniana) — andò nel senso opposto di quello che aveva preconizzato Engels. In concreto ripropose l’esaltazione positivistica della scienza e della tecnica, con in più l’elemento antiscientifico che la convalida delle ipotesi non veniva più affidata al metodo sperimentale e al libero confronto ma arrivava direttamente per via gerarchica dal vertice del partito. Di qui il grottesco del lysenkismo, che per molti anni bloccò ogni sviluppo della biologia sovietica imponendo con l’autorità di Stalin il punto di vista, privo di ogni base empirica, dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Episodio, tra l’altro, che discreditò profondamente il marxismo (e il comunismo) agli occhi di molti scienziati che, nel mezzo della crisi degli anni trenta e quaranta, guardavano con interesse ad esso anche fuori dell’Urss, come fu ad es. il caso di uno dei massimi biologi di questo secolo, l’inglese Haldane (7). In Italia, più in specifico, dopo la seconda guerra mondiale si affermò (con la benedizione di Togliatti) una particolare interpretazione del marxismo — in diretta continuità con lo storicismo idealistico di Benedetto Croce che aveva dominato la cultura italiana tra le due guerre — che di quello perpetuava la profonda avversione per il materialismo e per le scienze naturali, estendendo così anche alla sinistra quella frattura tra le “due culture” (quella tecnico-scientifica e quella umanistica) che è propria dell’ideologia borghese ma che nel nostro paese è particolarmente accentuata, almeno dagli inizi del secolo. Per altri versi, successivi tentativi di contrastare questo paradigma storicista si sono svolti all’insegna di un più o meno dichiarato neopositivismo o di una forma di neokantismo (caratteristica a questo proposito la scuola del Della Volpe e di Colletti, esplicitamente fondata sul rifiuto della dialettica in nome della “noncontraddizione” aristotelica). Ovviamente La storia del marxismo come storia delle idee non si regge su se stessa. Quali che fossero le influenze ideologiche esterne al marxismo o gli elementi interni ad esso che le favorirono, queste deformazioni teoriche (che con il pensiero di Marx e di Engels hanno poco da spartire) si svilupparono e si imposero in quanto avevano da svolgere una funzione ben precisa in rapporto con nuovi interessi materiali che si affermavano e con strategie politiche che di volta in volta si allontanavano dalla prospettiva della rivoluzione. Tanto il revisionismo bernsteiniano quanto l’ortodossia kautskiana accompagnarono l’involuzione verso il più piatto riformismo evoluzionistico e verso la piena accettazione delle regole del gioco dello Stato borghese democratico della socialdemocrazia tedesca, dentro alla quale andavano assumendo un peso sempre più determinante gli interessi conservatori degli apparati burocratici del partito, del sindacato, del movimento cooperativo, ecc., tempestivamente denunciati prima di ogni altro da Rosa Luxemburg. Nel caso del Diamat sovietico, alla base della sua costituzione in dottrina ufficiale, c’erano i bisogni del nuovo strato burocratico affermatosi definitivamente con Stalin (ma ancora senza una vera base nei rapporti di produzione) di fornire una legittimazione ideologica ai propri privilegi mentre sempre più si divaricava la contraddizione tra la prassi concreta e l’originario programma rivoluzionario. Nel caso del Partito comunista italiano, infine, si trattava della volontà del gruppo dirigente (avviato decisamente sulla strada della collaborazione di classe e dell’inserimento a pieno titolo nel sistema politico esistente) di darsi una base ideologica “nazionale” con cui attrarre gli intellettuali; il “marxismo italiano”, oltre tutto, si mostrava ben più flessibile della rozza ideologia staliniana per giustificare le scelte politiche contingenti. È quindi una combinazione di motivi che si situano sia sul piano della cultura e dell’ideologia, sia, più concretamente, sul piano delle scelte politiche e degli interessi materiali, che può spiegare perché le forze politiche “marxiste” più importanti non seppero cogliere tempestivamente la contraddizione ambientale; esse cioè non poterono e/o non vollero, o perché ormai impegnate a imitare il capitale in concorrenza con lui (i gruppi dirigenti dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”), o perché direttamente conniventi con esso nei paesi dell’Occidente capitalistico (socialdemocrazie e partiti comunisti). Rimane un interrogativo sulla scarsa sensibilità dimostrata inizialmente dalla nuova sinistra degli anni settanta e dagli stessi marxisti rivoluzionari. In questo caso giocarono sicuramente inadeguatezze culturali, scarsità di forze intellettuali e materiali da dedicare tempestivamente all’elaborazione e all’impegno pratico su questo terreno, ecc. Tuttavia dalla metà degli anni settanta l’importanza della questione ecologica cominciò ad essere colta sempre più chiaramente. C’è un motivo, tuttavia, della sottovalutazione iniziale, che non viene mai segnalato, benché sia in se stesso tutt’altro che negativo: in realtà, accadde tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, che l’emergere della questione ecologica avesse scarsa eco nella sinistra rivoluzionaria anche perché le preoccupazioni ecologiche — che agitavano lo spettro di una catastrofe futura ma non immediata mentre all’ordine del giorno si ponevano con urgenza ben altri problemi, quelli del potere e del rovesciamento dello stato di cose presenti (così sembrava allora) che avrebbero potuto porre su basi completamente nuove il discorso sul futuro che ci attendeva — sembrarono allora una diversione dai compiti del presente che giovava, in sostanza, all’avversario di classe. E certi aspetti dell’ecologismo di quegli anni sembravano fatti apposta per confermare questo pregiudizio (si pensi all’insistenza sul problema demografico, sul “siamo tutti responsabili”, ecc.).

Le riflessioni sulla storia di Walter Benjamin e la crisi attuale

Già negli anni tra le due guerre mondiali, comunque, c’era stata una riflessione che aveva rinnovato la sensibilità marxiana ed engelsiana della natura e che si era proiettata ad interrogarsi sul destino dell’umanità alla luce delle tragedie e delle potenzialità della moderna “civiltà”: si tratta dell’opera di Walter Benjamin, critico letterario e filosofo, morto suicida nel 1940 per sottrarsi alla cattura da parte dei nazisti. E una riflessione che procede per immagini e per aforismi, più che per analisi compiute, ma non per questo è meno significativa o penetrante: “L’ultima guerra […] è stata il tentativo di un nuovo inaudito connubio con le potenze cosmiche […] Questo grande corteggiamento del cosmo s’è compiuto, per la prima volta, su scala planetaria, cioè nello spirito della tecnica. Ma poiché l’avidità di profitti della classe dominante contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue. Dominio della natura, insegnano gli imperialisti, è il senso di ogni tecnica. Ma chi vorrebbe prestar fede a un precettore armato di sferza che indicasse il senso dell’educazione nel dominio dei bambini da parte degli adulti? L’educazione non è forse in primo luogo il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuole parlare, il dominio non dei bambini ma di quel rapporto? Così anche la tecnica: non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità” (8). “Dalle più antiche usanze dei popoli sembra giungerci come un monito a guardarci dal gesto dell’avidità nell’accogliere ciò che riceviamo con tanta ricchezza dalla natura […]. Ma se un giorno la società, sotto la spinta del bisogno e della cupidigia, avrà a tal punto tralignato da poter ormai ricevere i doni della natura solo predando, da spiccare i frutti ancora acerbi per piazzarli vantaggiosamente sul mercato e da dover ripulire ogni piatto per sentirsi sazia, allora la sua terra s’impoverirà, e la campagna darà cattivi raccolti” (9). Questa comprensione della possibilità della distruzione dell’umanità e della vita planetaria si salda con la consapevolezza dell’insostenibilità della situazione presente (la catastrofe imminente è nello stesso tempo immanente), ed è questo che giustifica una decisa scelta rivoluzionaria: “Il concetto di progresso dev’essere fondato nell’idea di catastrofe. La catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato […]. Questa decisione di sottrarre l’umanità, all’ultima ora, alla catastrofe che di volta in volta la minaccia, fu per Blanqui, più che per ogni altro rivoluzionario di quel periodo, l’elemento determinante. Egli si è sempre rifiutato di schizzare piani per ciò che sarebbe venuto in seguito” (10). “L’idea che ci si fa della lotta di classe può indurre in errore. Non si tratta in essa, di una prova di forza in cui si decida la questione di chi vince e chi perde, né di uno scontro al cui termine al vincitore andrà bene e allo sconfitto male. Pensare così significa dare ai fatti un travestimento romantico. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella lotta, è comunque condannata a perire delle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione è soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. Durata o fine di un’evoluzione culturale tre volte millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto […]. E se la liquidazione della borghesia non sarà compiuta ad un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata. Intervento, rischio e rapidità del politico sono una questione di tecnica, non, non di cavalleria” (11). Questi spunti sono stati ulteriormente elaborati in uno degli ultimi scritti di Benjamin, le Tesi di filosofia della storia del 1940; lo storicismo vi è criticato in quanto punto di vista sulla storia che si immedesima “nel vincitore” (e che torna pertanto di vantaggio “ai padroni del momento”); ma particolarmente presa di mira è la fiducia positivistica nel progresso inevitabile delle umane sorti che caratterizza la concezione del mondo della socialdemocrazia e che le impedisce di vedere e combattere la barbarie che di continuo ritorna nel presente e che minaccia il futuro. In questo contesto, è di grande interesse la tesi n. 11 che formula una critica penetrante del riformismo socialdemocratico: “Il conformismo, che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia, non riguarda solo la sua tattica politica ma anche le sue idee economiche. Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo. Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi nella direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica. La vecchia morale protestante del lavoro celebrava la sua resurrezione — in forma secolarizzata — fra gli operai tedeschi. Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come ‘la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura’. Allarmato, Marx ribatté che l’uomo che non possiede altra proprietà che la sua forza-lavoro ‘non può non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi… proprietari’ [e inoltre che ‘la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana’; ndr]. Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: ‘Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel… miglioramento… del lavoro… consiste la ricchezza che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto’. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo. Fra cui c’è anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle utopie socialiste anteriori al ’48. Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura che viene opposto — con ingenuo compiacimento — a quello del proletariato. Paragonate a questa concezione positivistica, le fantasticherie che hanno tanto contribuito a far ridere di Fourier, rivelano un senso meravigliosamente sano. Secondo Fourier, il lavoro sociale ben ordinato avrebbe avuto per effetto che quattro lune avrebbero illuminato la notte terrestre, che il ghiaccio si sarebbe ritirato dai poli, che l’acqua del mare non avrebbe più saputo di sale, e che gli animali feroci sarebbero entrati al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura è in grado di sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo. Al concetto corrotto del lavoro appartiene come suo complemento la natura che, per dirla con Dietzgen, ‘esiste gratuitamente'” (12). Il pessimismo rivoluzionario di Benjamin — così come la sua rivendicazione del marxismo come utopia scientifica, dal forte carattere messianico — rimane oggi il punto di partenza e la premessa di ogni riflessione marxista rivoluzionaria sul tema della crisi ambientale. Riflessione certo “controcorrente” rispetto alla trionfante ideologia borghese degli anni ottanta (specie nella versione craxiana e reaganiana) per la quale, peraltro, suona appropriata l’espressione di Franco Fortini sulla “volgarità del Progressismo Generalizzato e Riformista” (13) che si bea delle proprie illusioni. “La visione progressista della storia costituisce da due secoli il fondo comune del pensiero occidentale. Nata, nella sua forma moderna, con l’Illuminismo, è divenuta premessa implicita od esplicita categoria a priori delle più svariate interpretazioni della realtà storica, attraversa le frontiere delle dottrine politiche e Weltanschauungen sociali, conferendo i propri colori tanto al conservatorismo quanto al liberalismo, alla socialdemocrazia ed al comunismo, all’autoritarismo ed alla democrazia, alla reazione ed alla rivoluzione, al colonialismo ed all’anticolonialismo. Fondata su di una concezione strettamente quantitativa della temporalità, si raffigura il movimento della storia come continuum di costante miglioramento, irreversibile evoluzione, crescente accumulazione, benefica modernizzazione, il cui motore è dato dal progresso scientifico, tecnico ed industriale. La forza di attrazione di tale paradigma del progresso è così potente, da condizionare finanche il pensiero dei suoi avversari tradizionalisti, che tendono sempre più ad accettarlo come fatalità inevitabile, limitandosi a dare un segno negativo a quanto l’ideologia dominante valuta positivamente. Giacché tutti i tentativi di restaurazione del passato (ad opera, per esempio, di movimenti politicoreligiosi integralisti) portano a sanguinose impasse, la necessità e le virtù della moderna civiltà industriale basata sul progresso tecnico appaiono come ineludibile evidenza. In questa concezione progressista della storia, le catastrofi della modernità — come le due guerre mondiali, Auschwitz ed Hiroshima, le guerre coloniali ed imperialiste la distruzione dell’ambiente naturale, il pericolo di un olocausto nucleare che ponga fine all’esistenza della specie umana — appaiono come incidenti di percorso, deplorevoli ma marginali nel Grande Movimento permanente di Miglioramento” (14). La crisi ambientale mette a nudo definitivamente la natura consolatrice — sostanzialmente reazionaria — di questa visione mitologica della storia e ripropone la piena attualità della nozione marxiana della prassi rivoluzionaria, cioè consapevole e radicale, unico modo per operare quella scelta tra socialismo e barbarie, tra civiltà e catastrofe, che si presenta drammaticamente all’orizzonte della nostra epoca.

Note

(1) C. Preve, Materialismo storico tra pacifismo ed ecologia, in “Democrazia proletaria”, n. 4, 1985. (2) K. Marx, Manoscritti ecc. (trovare riferimento). (3) F. Engels, Dialettica della natura, in ecc. trovare riferimento). (4) O. Negt, Il marxismo e la teoria della rivoluzione nell’ultimo Engels, in Storia del marxismo, Einaudi, vol. II, p. 151. (5) O. Negt, Il marxismo e la teoria della rivoluzione nell’ultimo Engels, in Storia del marxismo, Einaudi, vol. II, p. 149. (6) Questo e il testo letterale della affermazione paradossale di Lenin: “Non si può comprendere perfettamente il Capitale di Marx e particolarmente il primo capitolo, se non si è compresa e studiata attentamente tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo, nessun marxista ha compreso Marx!” (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Feltrinelli, Milano 1976, p. 171). (7) Sul tema dello stalinismo e la scienza si veda il bel saggio di Michael Löwy, Stalinist Ideology and Science, in The Stalinist Legacy, a cura di Tariq Alì, Penguin Books, 1984. (8) W. Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, p. 68. (9) W. Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, pp. 20-21. (10) W. Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, p. 141. (11) W. Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, pp. 43-44. (12) W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, pp. 81-82; la citazione di Marx fra parentesi quadre è di Marx, Critica al programma di Gotha, p. 23. (13) F. Fortini, Verifica dei poteri, p. 74. (14) Michael Löwy, Redemption et Utopie, 1988, p. 253.

Parte seconda

LA POLITICA DELL’AMBIENTE

Capitolo 5

BORGHESIA, CLASSE OPERAIA E AMBIENTE

Chi dispone della natura?

Tutta l’analisi che precede dimostra che non è sostenibile quanto affermano molti ambientalisti, e cioè che — alla luce della questione epocale della sopravvivenza della specie — perdono di importanza le contraddizioni di classe; che tutti siano ugualmente responsabili della crisi ambientale; che, coerentemente, la politica ecologista non è né di destra né di sinistra ma si colloca su un terreno più avanzato. Non è mancato chi si è spinto oltre: Adriano Sofri è giunto a sostenere che l’ecologia è un “lusso” che solo la borghesia può permettersi, che essa è congeniale solo alla classe dominante, perché è essa che, avendo superato le preoccupazioni per l’oggi, può porsi quelle per il domani (“il manifesto”, 21 marzo 1987). È quanto mai chiaro, invece, che la definizione di una politica ambientalista adeguata non può prescindere dall’individuazione netta della discriminante di classe che attraversa la crisi ambientale, che ne condiziona le forme di manifestazione e, soprattutto, la possibilità di darvi soluzione. La collocazione obiettiva delle diverse classi sociali rispetto ai problemi ambientali, cioè, fondamentalmente, alla determinazione del rapporto tra le attività umane e la natura, non è per nulla la stessa. La borghesia è la prima responsabile del degrado dell’ambiente in cui viviamo, almeno per ciò che riguarda la parte di mondo di cui ora ci occupiamo, cioè l’Occidente capitalistico e, segnatamente, l’Italia. Lo è in quanto è la classe dominante, quella che esprime i governi, quella che informa della sua ideologia e della sua prassi l’intera società e lo Stato. Lo è soprattutto perché essa è l’agente cosciente del capitale, cioè di quel meccanismo economico che, con il suo funzionamento in apparenza oggettivo, privo di volontà, induce la maggior parte delle conseguenze devastanti sugli ecosistemi da cui dipende la nostra vita che oggi conosciamo. La classe operaia, viceversa, letteralmente non possiede le sue condizioni di lavoro e di vita, con cui entra in relazione mediante il mercato, nella forma in cui viene disposto da chi possiede queste condizioni, cioè le classi dominanti. Essa quindi non può disporre come vuole di queste condizioni né del suo metabolismo con la natura. Esse sono pienamente disponibili solo per coloro che ne detengono la “proprietà privata”. È facile cogliere questa fondamentale differenza solo che si ponga mente alle differenze nelle condizioni di alloggio, di vita, di divertimento, di autorealizzazione di cui possono godere coloro che fanno pane delle classi dominanti in confronto a quelle che toccano in sorte a chi fa parte invece delle classi sfruttate. Tuttavia questa differenza è solo una vaga approssimazione dell’abisso che separa la classe dominante dal resto della società se si considera che le scelte tecnologiche ed economiche fondamentali — quelle che orientano lo sviluppo di una civiltà per decenni se non per secoli: si pensi all’automobile, al nucleare, alla petrolchimica, all’ingegneria genetica, alle armi spaziali, ecc. — sono monopolio pressoché esclusivo di qualche centinaio di grandi gruppi industrial-finanziari transnazionali degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone, controllati forse da qualche migliaio di persone, “elette” a quella funzione “per diritto divino” (del dio dollaro, yen, marco, lira, ecc.). Al contrario, per la maggior parte degli individui “normali” non si dà concretamente la possibilità di scegliere in che modo, con che tecnologia, con quali beni di consumo, con quali mezzi di lavoro organizzare la propria vita, se non nell’azione politica collettiva, l’unico mezzo con cui essi possano sperare di condizionare le scelte della classe dominante (fino al rovesciamento di questa).

Le contraddizioni della borghesia

Ovviamente le classi dominanti non sono al riparo dalle conseguenze delle loro azioni distruttive sull’ambiente e, sotto questa luce, la crisi ambientale riguarda anche loro e tocca anche i loro interessi. Ciò spiega, tra l’altro, le denunce che partono da ambienti strettamente legati alla classe dominante nelle sue espressioni sovranazionali, come il famoso Rapporto Meadows e le altre ricerche promosse dal Club di Roma, ovvero perché l’adozione di misure legislative e regolamentari in materia di inquinamento sia a volte richiesta da settori della stessa classe borghese. Il fatto è che la distruzione dell’ambiente a opera di una determinata attività capitalistica può distruggere in certi casi i presupposti naturali, obiettivi, di un’altra attività capitalistica (il caso più ricorrente è quello degli effetti dell’industria chimica sull’industria turistica: Farmoplant docet). D’altra parte anche l’industria del disinquinamento può rivelarsi un affare, soprattutto se a pagare è il bilancio pubblico, cioè i contribuenti… Più in generale la borghesia è oggi consapevole che il degrado ambientale rappresenta alla lunga una fonte di costi economici e a volte di gravi problemi politici. Di qui la nascita di un riformismo ecologico borghese, la cui filosofia di fondo è fondamentalmente tecnocratica: “dobbiamo dimostrare di saper fare il nostro mestiere, per non aver grane e non far sorgere il sospetto che qualcuno potrebbe farlo meglio di noi”: così potremmo riassumere questo punto di vista, per l’accettazione sociale del quale viene generalmente scomodato il noto rituale degli “esperti”, dei “rapporti” e delle “conferenze consultive” nazionali e internazionali. Oltre a questa contraddizione interna al capitale, occorre certamente considerare anche il fatto che il degrado dell’ambiente naturale mette a repentaglio anche la salute, la vita, la fruibilità della natura del borghese “in quanto uomo” (anche se in misura incomparabilmente inferiore di quel che accade per i gradini inferiori della scala sociale). E ciò può spingerlo individualmente a voler fare qualcosa. È la natura stessa del deterioramento ambientale, poi — che implica in molti casi la comprensione di nessi di causaeffetto tutt’altro che evidenti, esperibili solo con procedure scientifiche — che spiega perché la sensibilità ecologica si sia manifestata inizialmente negli ambienti scientifici e che tuttora essa si manifesti con più forza presso i settori sociali che godono di livelli medio-elevati di istruzione; ovviamente è più facile per costoro comprendere la gravità e le implicazioni del degrado ambientale che non per le masse lavoratrici a cui sono stati negati — soprattutto in passato — gli strumenti di comprensione necessari e la cui consapevolezza evolve essenzialmente sulla base dell’esperienza diretta. Queste contraddizioni della borghesia producono politiche fondamentalmente contraddittorie, e non solo perché non incidono sul meccanismo di fondo che induce il degrado ambientale. Gli interventi statali, infatti (attuati in genere secondo il principio della “socializzazione dei costi” a carico dei bilanci pubblici), non vanno oltre le misure parziali, essenzialmente settoriali, via via che si manifestano le emergenze. Esse sono per loro natura inadeguate (privilegiano il sintomo, il recupero, non la malattia e la prevenzione) e sono inoltre eluse e/o evase, spesso con la tacita compiacenza dei funzionari governativi e degli stessi ministri. Un clamoroso esempio di questo aggiramento delle norme legali da parte degli stessi governi che le stabiliscono è stato offerto nell’estate del 1988 dal traffico di rifiuti tossici tra diversi Paesi europei e altri del Terzo mondo, in molti casi attuati con regolari autorizzazioni ministeriali che violavano la normativa esistente sulle garanzie che debbono essere date dalle ditte che si assumono il compito dello smaltimento. Evidentemente è più comodo così, fino a quando non scoppia lo scandalo… Il fatto è che anche ciò che viene accettato in considerazione dell’interesse generale di classe, è spesso negato, aggirato (quando possibile) se può risultarne un vantaggio individuale. Nell’ultimo decennio, in ogni modo, la crescente pressione popolare per interventi a tutela dell’ambiente e a favore della ricerca di alternative tecnologiche (specie nel campo dell’energia) si è scontrata, quasi ovunque in Occidente, con orientamenti politici conservatori ispirati all’ultraliberismo, che hanno drasticamente ridotto precedenti stanziamenti volti a questi scopi, alleggerito le norme di tutela, abolito i controlli amministrativi su alcune attività potenzialmente pericolose per l’ambiente. L’amministrazione Reagan, ad esempio, ha cercato di tagliare gli stanziamenti per la ricerca nel campo delle energie rinnovabili, della lotta biologica ai parassiti, delle tecniche di smaltimento controllato dei rifiuti, ecc. e ha bloccato la normativa che doveva prescrivere precisi standard di efficienza agli elettrodomestici. In compenso, “in conseguenza dell’espansione della spesa militare, il Dipartimento per l’energia sembra essersi trasformato più che altro in un’agenzia di armamenti nucleari” (1). Si tratta di una conferma sintomatica della comunanza di sorti che unisce le masse lavoratrici e la natura sotto il regime del capitale.

Complicità della classe operaia?

Agli occhi di certo ecologismo, i lavoratori sarebbero complici del capitale per il fatto stesso di lavorare in fabbriche che sono inquinanti e pericolose, come se fosse praticabile una specie di “obiezione di coscienza ecologista” sul piano individuale (per ciò che riguarda le responsabilità collettive che la classe operaia deve assumersi anche sul terreno della lotta ambientale, diciamo altrove). Ma alcuni ambientalisti di sinistra hanno creduto di individuare anche un meccanismo economico obiettivo in base al quale la classe operaia si fa complice del capitale nel processo che porta al saccheggio della natura. Scrive ad esempio Laura Conti: “Il presupposto di un meccanismo economico che implica il continuo aumento della produttività del lavoro è la crescita illimitata del mercato e dei consumi (ciò vale solo nel capitalismo, ndr). Di questo meccanismo i lavoratori non furono soltanto vittime: esercitarono invece un ruolo storico complesso e contraddittorio, e si può dire che l’accelerazione dello sviluppo tecnologico impressa dalla rivoluzione industriale — che oggi entra in contrasto con i limiti ambientali e con gli equilibri biologici — non è figlia del capitale, bensì del rapporto fra il capitale e la forza-lavoro, dei conflitti fra i due protagonisti, delle composizioni che i conflitti volta per volta trovarono elevando il livello della tecnologia, moltiplicando la sua potenza e quindi il suo impatto con l’ambiente… Credo che sia la consapevolezza, per quanto oscura, del ruolo storico svolto, a ostacolare la presa di coscienza dei limiti che questo ruolo incontra” (2). La parte di verità di queste affermazioni equivale a rimproverare la classe operaia moderna di non essere una classe di schiavi: è noto che il modo di produzione antico fondato sulla schiavitù si è rivelato refrattario allo sviluppo tecnologico (non lo schiavismo capitalistico però). Dal fatto che la lotta di classe sia stata e sia uno stimolo all’innovazione tecnologica non consegue che delle forme e della natura di questo sviluppo siano responsabili i lavoratori: esso è sempre stato il frutto delle scelte effettuate dai capitalisti per i loro bisogni di valorizzazione del capitale e di dominio sulla forza lavoro. L’intero argomento è interessante solo perché rivela l’ottica distorta di certo ecologismo deluso dalla sinistra ufficiale, il quale cerca nella classe operaia, invece che nella linea politica dei partiti operai riformisti, una spiegazione (falsa) alle proprie delusioni. La conclusione che si deve ricavare invece dalla situazione messa in luce da Laura Conti, è che occorre sottoporre le tecnologie a una scelta consapevole, controllata socialmente e razionalmente, in vista di fini non egoistici; occorre cioè sottrarla ai rapporti capitalistici di produzione. Se questo è il compito che ci si propone, la classe operaia è il primo alleato che si incontra sulla propria strada. Per noi resta valida la prospettiva che Virginio Bettini così riassumeva in Ecologia e lotte sociali, dodici anni fa: “I lavoratori hanno un’ottima conoscenza dei problemi dell’inquinamento, perché li vivono quotidianamente; ma è necessario che la partecipino a quegli studiosi che intendono informare la popolazione sugli aspetti più gravi della crisi ambientale. Questa alleanza tra scienza e classe operaia rappresenta il primo stadio di un’azione diretta a risolvere la duplice crisi che sta degradando l’ambiente in cui viviamo e quello in cui lavoriamo. Un primo passo, forse, verso la sopravvivenza!” (3). La nostra fiducia nella classe operaia non la idealizza e non ci porta certo a dire che essa ha sempre ragione. Al contrario, comprendiamo bene come oggi, sotto il peso delle sconfitte dell’ultimo decennio, disorientati da dirigenti sindacali e politici che hanno predicato per anni i valori dell’avversario di classe, assediati da un clima sociale ostile, i lavoratori possano essere diffidenti verso il tema ambientale, soprattutto quando viene usato per attaccare il posto di lavoro o per chiedere altre svendite. Per superare questa diffidenza occorre formulare delle proposte d’azione che uniscano difesa dell’ambiente e difesa del posto di lavoro; occorre cercare in ogni situazione di creare tra lavoratori e ambientalisti un fronte comune, scegliendo opportunamente le forme di lotta. Non sempre la scelta del referendum è la più adatta a consolidare queste condizioni (almeno in una prima fase). Se è vero, quindi, che c’è tendenzialmente una unità di interessi tra la classe operaia e la lotta in difesa dell’ambiente, è anche vero che far coincidere in concreto, oggi, questi interessi dipende interamente dalla linea politica: non è possibile farlo ignorando gli specifici bisogni dei lavoratori (come capita ai verdi di fare); non è possibile farlo neppure sulla base dell’orientamento delle forze operaie ufficiali, che accettano come indiscutibili le compatibilità economiche e politiche del sistema vigente.

Note (1) C. Flavin, È possibile creare un futuro energetico sostenibile? in State of the World 1988, p. 53. (2) L. Conti, presentazione di E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, p. 24. Tiezzi cita Andrea Poggio che esprime concetti analoghi (p. 187) ma riferendosi, più correttamente, ai limiti politici del movimento operaio, non a una sua condizione obbiettiva.(3) B. Commoner-V. Bettini, Ecologia e lotte sociali, p. 201.

Capitolo 6

MOVIMENTO OPERAIO E AMBIENTE IN ITALIA

Le ragioni del ritardo: l’ideologia e la prassi della collaborazione di classe

L’atteggiamento delle direzioni tradizionali del movimento operaio, e del movimento operaio stesso come movimento ufficiale, cioè inquadrato dai riformisti, è stato ed è correntemente interpretato dai verdi come “industrialismo”. Vi è in ciò un elemento di verità, che sarebbe poco serio negare, minimizzare o banalizzare, in quanto la soggezione alle esigenze del capitalismo determina nei fatti un completo allineamento con la logica perversa del capitalismo industriale (che del resto ben spesso i riformisti, non diversamente dai fascisti, identificano con il “capitale produttivo” e “nazionale”, in contrapposizione al capitale finanziario, speculativo, parassitario e per eccellenza “multinazionale”. Ma la critica dei Verdi manca affatto il bersaglio allorché essa tende ad implicare una particolare affezione dei riformisti alla classe operaia industriale in quanto tale (ancorché spiegata con la volontà dei riformisti di “tenersi buona” una parte essenziale della propria base elettorale, e comunque un’essenziale base di contrattazione). Questa interpretazione del “ritardo ecologico” riformista per amore (interessato) del proletariato industriale, e compiacenza verso i suoi pregiudizi, appare inoltre essenzialmente apologetica dello stesso riformismo di matrice socialdemocratica o staliniana, in cui il riformismo verde individua certo un concorrente, ma anche un interlocutore, in definitiva, un’altra variante riformista. Innegabilmente, alle origini storiche del riformismo — almeno in Italia (in età giolittiana), più che per esempio in Germania, come argomentato ripetutamente ed in vari tempi da Gramsci — vi è una sorta di patto di collaborazione di classe, di “patto tra i produttori” per usare l’espressione neoriformista berlingueriana, tra le forze trainanti del capitalismo, soprattutto industriale (e specie i settori più moderni dell’industria pesante metalmeccanica, siderurgica, navale, ecc.), e settori definibili come “aristocrazia operaia”, comunque connessi a più ampi settori relativamente privilegiati o garantiti di proletariato industriale. Scaturisce da ciò il “patto fra i produttori”, il mito degli “investimenti produttivi che creano occupazione” e il socialsciovinismo. Ideologia e concreta attitudine collaborazionista che persiste al di là delle complesse vicissitudini della stessa composizione di classe, nel ricambio generazionale e nel complessivo allargamento, benché discontinuo, del proletariato, con reclutamento di nuove leve dalle campagne, con la massificazione del lavoro impiegatizio, ecc. Ma per definizione il riformismo ignora, e se è il caso nega e reprime, le esigenze autonome del proletariato in quanto classe soggettivamente e/o obiettivamente antagonistica all’insieme dei rapporti sociali capitalistici: e questo sia nelle fasi di prosperità economica, per esempio, minimizzando la nocività del lavoro in tutti i suoi molteplici aspetti, sia in quelle di crisi e recessione, accettando, di fatto, l’espulsione della manodopera in ottemperanza agli imperativi della ristrutturazione industriale. Il riformismo, del resto, non può essere visto semplicemente come una fazione politica corporativa legata ad una presunta lobby operaia dei cui interessi si fa carico per scopi elettorali, secondo la lettura dei verdi (essi stessi ultraparlamentari) o di alcuni riformisti (per esempio sindacalisti), nel contesto della “democrazia conflittuale” e della “società complessa”, di cui sarebbero protagoniste le rappresentanze dei vari gruppi d’interesse. Il riformismo invece, anche su terreni elementari come la difesa del posto di lavoro, del salario, della salute dei suoi presunti committenti, si rivela non essere altro che l’agente della borghesia in seno al movimento operaio, il persuasore della collaborazione di classe (tra il lupo e l’agnello), e non l’espressione di una limitata contrapposizione immediata (tradeunionistica) degli operai ai padroni sul terreno dei rapporti di fabbrica. D’altra parte, la cultura (o meglio l’ideologia) del riformismo non coincide con una pretesa “cultura operaia”, necessariamente condizionata dalla condizione operaia di espropriazione e di alienazione e dal predominio dell’ideologia capitalistica; essa è piuttosto una variante (sempre meno differenziata) dell’ideologia borghese dominante, quanto meno nella sua veste liberaldemocratica e parlamentare. Il limite invalicabile del riformismo, a prescindere dalla maggiore o minore sofisticazione dottrinaria, resta l’insieme delle compatibilità capitalistiche, sia dell’impresa, sia dello Stato borghese. Occasionalmente, il riformismo può bensì cavalcare la protesta operaia contro le condizioni di lavoro, ma sempre per ricondurla al miglioramento interno al (del) sistema. Sotto questo profilo, il suo atteggiamento di fondo non si discosta sostanzialmente da quello dell’ecologismo riformista anche se ovviamente le priorità tematiche differiscono.

In questo contesto, una discrepanza effettiva può consistere nell’ottimismo connaturato al riformismo iniziale, e persistente al di là di tutte le smentite degli eventi recenti e recentissimi (già nel 1976, Perry Anderson scriveva “Molte riflessioni di Adorno sulla natura — che erano potute sembrare deviazioni idiosincratiche della Scuola di Francoforte — sono improvvisamente tornate di attualità nel corso del dibattito sull’ecologia” (1)). Così, Claudia Mancina, una delle redattrici della bozza del documento congressuale del Pci può scrivere: “Non si può continuare a gridare che il mondo va a rotoli a una società che ha fatto conquiste di ricchezza e civiltà non sottovalutabili […] che sono in gran parte il frutto delle nostre lotte”. Questo in presenza non solo del degrado ambientale con tutte le sue implicazioni catastrofiche, ma altresì della disoccupazione di massa, delle “nuove povertà”, della continua concentrazione delle ricchezze; degli undici omicidi bianchi quotidiani in Italia, ecc. Ma è del pari evidente che il riformismo può, non meno degli ambientalisti, denunciare le magagne, lo sfascio sia “morale” sia “idrogeologico”, salvo proporre rimedi puramente nominali o ciarlataneschi. Va peraltro riconosciuta almeno all’ambientalismo fondamentalista o radicale una sensibilità verso lo “stato di emergenza permanente” essenzialmente estranea e ripugnante al riformismo, a priori abbacinato dalla “modernità”, e soprattutto dalla “modernizzazione”. Tutto ciò vale essenzialmente sia per il Pci sia per il sindacato (a partire dalla Cgil), peraltro con una certa divisione di compiti.

Le organizzazioni ufficiali

Il Pci, a parte una fase iniziale, in cui effettivamente giocava l’esaltazione del “modello Urss” (primato dell’industria pesante, faraoniche quanto dissennate opere di ingegneria ambientale, ecc.), è oggi condizionato essenzialmente dalla propria profonda compenetrazione con il meccanismo di gestione pubblica (e non solo pubblica) borghese, a livello di amministrazioni municipali, ruolo manageriale in svariati istituti parastatali, senza contare il cooperativismo piccolo ma anche medio-borghese (ereditato dall’antica destra socialdemocratica), e tutta una rete imprenditoriale diffusa che costituisce non solo un’interfaccia, ma una profonda osmosi con il capitalismo, almeno di piccole e medie dimensioni. Per tutto ciò, se da un lato si trova costretto ad intervenire su di un arco relativamente vasto di tematiche, alcune delle quali ambientali, dall’altro subisce ed accetta tutte le costrizioni del sistema in primo luogo nella prassi amministrativa (comunque fondamentale per un simile partito). Massimo esempio, l’enorme ritardo e le perduranti ambiguità nell’acquisizione di una posizione antinucleare (raggiunta, del resto, anche in quanto l’industria nucleare non rappresenta per nulla una roccaforte o priorità strategica per il capitalismo italiano). Lo stesso dicasi per i problemi dell’inquinamento sul territorio, ove la “sensibilità” del Pci è particolarmente condizionata dalle contraddittorie preoccupazioni del suo elettorato piccolo-borghese, soprattutto in chiave turistica (le analogie tra un qualunque sindaco della costa di Romagna ed il borgomastro Stockman del Nemico del popolo di Ibsen sono particolarmente spiccate). Naturalmente, l’adesione acritica al business turistico poco si concilia con la preservazione ambientale; come del resto il desiderio quanto meno di evitare aspri conflitti con le imprese inquinanti locali. Del resto, è evidente che le preoccupazioni turistiche possono, da un lato, motivare rivolte contro i centri di inquinamento, ma dall’altro favorire la dissimulazione dell’inquinamento stesso. L’esempio Montedison è di ovvia rilevanza, non solo per il sindacato, ma per lo stesso Pci. Quest’ultimo è stato parte attiva nel promuovere l’operazione Enimont, come in passato ha tifato per Schimberni (ed oggi ne sostiene l’incarico a ristrutturatore delle Ferrovie dello Stato). In tutto ciò, le preoccupazioni ambientali hanno trovato ben poco spazio — come del resto quelle occupazionali, giacché proprio sotto Schimberni, e con la benedizione del Pci, si è proceduto al dimezzamento degli addetti nella chimica di base e petrolchimica. Altro esempio, la Pirelli: il disco verde dato dal Pci allo smantellamento ed all’espulsione degli operai è stato motivato con un fumosissimo terziario avanzato: praticamente mai si sono affacciati problemi ambientali (non irrilevanti anche e soprattutto in campo di salute dei lavoratori). L’attuale posizione del Pci risulta completamente appiattita sulla più volgare apologia della “modernizzazione” e della presunta ricchezza dell’attuale civiltà. Ma anche la precedente impostazione berlingueriana dell’austerità come “nuovo modello di sviluppo” in superficie prendeva di mira il consumismo capitalistico; in realtà sfociava nella accettazione delle esigenze capitalistiche di contenimento salariale e di ristrutturazione anticrisi, nell’ottica dello scambio politico e dei due tempi: il Pci avrebbe fatto passare i sacrifici in cambio di una successiva cooptazione nella sfera governativa. Come è noto, una volta svolto il suo compito, il Pci ha invece ricevuto il benservito. Tutto questo non impedisce che, soprattutto a livello elettorale, il Pci (almeno in alcune dichiarazioni occhettiane, nonché in alcune innocue accentuazioni ingraiane), possa fare in qualche misura concorrenza ai verdi: del resto, vi sono esempi di amministrazioni (vedi Milano) in cui craxiani, riformisti e verdi cooperano in una finzione di interventi ambientali che sono, nel migliore dei casi, inefficaci palliativi per una situazione estremamente degradata. Ciò vale ugualmente per la Fgci, che ha assunto recentemente un look ecopacifista in cui il pacifismo liberaldemocratico, l’esaltazione della nonviolenza, ecc., hanno la meglio su un ecologismo quanto mai fumoso e di fatto largamente declamatorio. Nella sostanza la politica del territorio praticata dal Pci segue per gli aspetti ambientali, come per gli altri(occupazionali, sociali, culturali, ecc.) le tendenze in atto, determinate dagli interessi capitalistici e burocraticoclientelari, con la sola differenza di alcune lottizzazioni in proprio. Nell’ambito sindacale, nessuno può seriamente negare che almeno un aspetto della questione ambientale — la nocività in fabbrica — sia stato patrimonio di lotte d’avanguardia larga nel periodo della radicalizzazione della prima metà anni settanta. Ma significativamente, proprio il sindacato burocratizzato si è contrapposto a queste lotte in nome della produttività, non senza ricorrere a misure repressive come nel noto caso dei lavoratori della Montedison di Castellanza. Questo atteggiamento è risultato tanto più marcato quanto più i problemi ambientali erano strettamente connessi alla natura stessa dell’impresa, a partire dalle aziende chimico-farmaceutiche. Non a caso, il sindacato chimico (Fulc), e la confederazione riformista largamente maggioritaria (Filcea-Cgil) è stato ed è la categoria più riottosa ad assumere questa problematica (come pure quella antinucleare), sia pure per ricondurla nell’alveo delle “normali” relazioni industriali. Il socialsciovinismo della burocrazia della Filcea (governata da un ferreo patto tra craxiani e miglioristi) ha consentito demagogiche denunzie delle “multinazionali estere” (vedi La Roche, caso Seveso…), ma nulla viene detto e tanto meno fatto contro la benemerita Montedison e centinaia di “fabbrichette di morte”. E tuttavia è falsa l’affermazione del segretario generale nazionale della Filcea, Sergio Cofferati (“Nuova rassegna sindacale”, 5 dicembre 1988) che “tutto l’interesse” del sindacato “si esauriva in quel che accadeva dentro la fabbrica”, cioè che il sindacato si preoccupava più dell’ambiente di lavoro che di quello esterno. Significativo anche l’esempio del sindacato del settore automobilistico. L’accettazione di fatto (tranne qualche critica letteraria) del predominio della “strategia dell’automobile”, con tutte le ovvie implicazioni ambientali, solo nella demagogia di alcuni burocrati era funzionale allo “sviluppo dell’occupazione”. Basti vedere come è stata pugnalata alle spalle la lotta dei lavoratori alla Fiat nell’ottobre 1980, mentre le timide proposte sull’ampliamento dei trasporti pubblici sono puntualmente smentite dall’atteggiamento del sindacato verso (o piuttosto contro) le lotte dei ferrovieri, e la complice inerzia del Pci nei confronti delle prospettive governative di tagli e privatizzazioni. Quello che la storia recente ci ha proposto è lo squallido spettacolo di un sindacato che, pur assistendo passivo o addirittura consenziente all’espulsione massiccia di forza lavoro, giustifica con preoccupazioni occupazionali la preservazione di impianti oltremodo inquinanti, e del resto riconvertibili, come la Farmoplant di Massa o l’Acna di Cengio spesso nocivi più agli addetti che al territorio. Quanto alla riconversione, il sindacato tende a identificarla senz’altro con la ristrutturazione, e comunque ne auspica una “programmazione” congiunta con il padronato ed il governo. In tal senso, il sindacato e il Pci possono prevedibilmente partecipare a pieno titolo all’“imbroglio ecologico” che si va profilando, per cui le aziende capitalistiche con una mano inquinano e con l’altra “disinquinano” (a volte le stesse, come nel caso della Montedison). Pioniera ancora in questo campo la Filcea-Cgil la quale, lungi dal richiedere che vengano quanto meno legalmente perseguite le imprese che inquinano, nel suo congresso auspica che vengano erogati ulteriori fondi pubblici agli inquinatori per misure preventive o palliative di disinquinamento. Lo stesso sembra prospettarsi per le riconversioni (che ovviamente, non s’intende far gravare finanziariamente sugli imprenditori-inquinatori).

Coscienza di classe e coscienza ecologica

Occorre tuttavia riconoscere che il perdurare dell’egemonia riformista non è rimasto senza conseguenze sulla coscienza delle masse lavoratrici. Essa ha condotto e conduce infatti un’opera di profonda diseducazione, del resto ben visibile anche in altri ambiti, fatta di culto del lavoro, di esaltazione della produttività, di lotta all’assenteismo, ecc., in parte eredità di vecchie tradizioni di aristocrazia operaia (di lavoratori specializzati), ma in prevalenza effetto “pedagogico” della politica complessiva delle direzioni riformiste in una classe operaia d’altro canto sempre più massificata e dequalificata. Né è certo un caso che tendenze opposte si siano diffuse nei primi anni settanta. Ma la repressione riformista, congiuntamente alle intrinseche debolezze delle avanguardie, hanno permesso la ripresa di controllo burocratico, che a sua volta ha indotto un’enorme regressione della coscienza anche solo tradeunionistica. Evidentemente, la radicalizzazione non comportava di per sè, meccanicamente, un’ascesa della classe operaia alla piena “coscienza possibile” di classe “per sè”. In generale la psicologia collettiva ritarda sulle stesse grandi lotte di classe che non varchino la soglia rivoluzionaria. Sarebbe quindi apologetico sostenere che la “intelligenza operaia” (al di là delle avanguardie, peraltro di massa negli anni sessanta), fosse arrivata alla percezione, seppur approssimativa, della questione ambientale in tutto il suo spessore e la sua estensione. Ma è puro gioco di bussolotti ideologici pretendere che i motivi di quest’inadempienza risiedano in una qualche solidarietà connaturata agli operai con l’industrialismo capitalistico (come fanno verdi e radicali, ma anche altri personaggi vetero o neoriformisti). Tutta la storia antica e recente del movimento operaio sta a dimostrare il contrario, cioè che nelle masse proletarie sussiste una spontanea resistenza allo sfruttamento capitalistico. Ma la medesima storia sottoscrive parimenti il concetto, marxista e poi leninista che, malgrado tale tendenza spontaneamente anticapitalista, il proletariato non può assumere piena coscienza di classe se non elevandosi ad una visione dell’insieme delle contraddizioni sociali determinate, e che questa coscienza collettiva può benissimo venir impedita od espropriata qualora la direzione, invece di esprimere e veicolare, come dovrebbe, questa visione generale, nei fatti ne porti avanti un’altra, generale anch’essa, ma mutuata dall’ideologia borghese e sostenuta dai propri più o meno organici legami con le classi dominanti: in questo caso, ne risulta addirittura una regressione rispetto alla stessa coscienza sindacale di classe in sè, ossia nei rapporti immediati, sul terreno economico, col padronato. Così, gli operai diseducati a difendere la propria salute in fabbrica ben difficilmente la difenderanno (e con essa quella degli altri settori della popolazione) fuori della fabbrica stessa. Come accennato in precedenza queste interpretazioni degli ambientalisti, oltre ad esprimere in taluni casi un viscerale disprezzo della classe operaia (specialmente evidente nei verdi transfughi dalla sinistra ed estrema sinistra), forniscono una giustificazione obiettivistica della subalternità burocratica all’industrialismo capitalistico, ossia al capitalismo tout court — a partire appunto dal presunto “interesse comune” di operai e padroni, che è il dogma centrale del riformismo. Ovviamente, non rientra nell’orizzonte ideologico dei verdi doc la critica reale, non solo legittima ma necessaria alla lunga sottovalutazione delle problematiche ambientali come potenziali fattori dirompenti anticapitalistici da parte di chi a ciò avrebbe dovuto essere effettivamente interessato, cioè la sinistra rivoluzionaria (è vero che in alcune tendenze rivoluzionarie, oltre all’accettazione di taluni schemi progressisti-evoluzionisti della vulgata marxista, una visione ingenua della rivoluzione imminente e, in definitiva, automaticamente predeterminata facilitava il rinvio o la negligenza di questa, come di altre in realtà essenziali tematiche).

Note (1) P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, p. 113.

Capitolo 7

AMBIENTALISMO: IDEOLOGIA E POLITICA

Ecologia: tra scienza e ideologia

Prendendo in esame l’ambientalismo è necessario essere consapevoli che si tratta di un fenomeno eterogeneo e complesso che ha ormai un quarto di secolo di vita e che — se nell’insieme esprime il farsi strada di una progressiva consapevolezza della gravità della questione ambientale — ha avuto già tutta una serie di sviluppi nelle direzioni più disparate. Si va da una produzione scientifica e culturale rigorosa e impegnata a una letteratura che ha conosciuto tutte le sfumature ideologiche possibili (dal neomalthusianesimo antiumanistico e filoimperialistico al radicalismo fondamentalista, dall’ecologia politica influenzata dal marxismo degli anni settanta al riformismo tecnocratico di ispirazione capitalistica, dalle ricerche puntuali su temi specifici alle “nuove concezioni del mondo” di stampo più o meno religioso o idealistico). Sul piano pratico esso ha prodotto tanto il rafforzamento delle associazioni conservazioniste tradizionali che si propongono di sensibilizzare l’opinione pubblica e i governi sulla necessità di tutelare le coste, i boschi, le specie minacciate di estinzione, ecc. mediante la creazione di parchi, riserve, zone protette ecc. (Wwf, Italia nostra, ecc.), quanto la nascita di organizzazioni “militanti” che si propongono di operare su un arco più vasto di temi ambientali e soprattutto di farlo con gli strumenti della mobilitazione politica (Greenpeace, Lega ambiente, gruppi locali, ecc.); e ancora le varie leghe anticaccia, antivivisezionistiche, ecc., le iniziative di economia alternativa (agricoltura biologica, ecc.), le università verdi. Sul piano più propriamente politico, questa nuova sensibilità si è già tradotta anche in grosse mobilitazioni di massa, ad esempio contro il nucleare (fin dalla seconda metà degli anni settanta) o contro singoli episodi di distruzione dell’ambiente o di minaccia alla salute (aeroporti di Narita e di Amburgo, la diga sul Danubio, in Italia i casi Acna, Farmoplant, ecc.). Tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, inoltre, si è diffuso in tutta Europa il fenomeno delle liste verdi alle elezioni locali e nazionali (alle quali non sono certo mancate le affermazioni elettorali) che va visto anche in relazione alla crisi politica e ideale della nuova sinistra degli anni settanta… E evidente che l’approccio del marxismo rivoluzionario a questa realtà complessa non può essere che articolato e fondato di volta in volta sul giudizio che si dà sulle potenzialità e la dinamica del fenomeno con cui ci confrontiamo.

Il mero dato obiettivo della gravità della crisi ambientale non rende ragione delle forme che assunse, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, l’esplosione d’interesse per l’ecologia. Hans Magnus Enzensberger osservava in un saggio del 1973 che il “successo” dell’ecologia si era accompagnato a una involuzione — dalla scienza all’ideologia — almeno per quel che riguardava la pretesa di certi settori di costruire una “ecologia umana” e di farne una sorta di scienza generale (1). In quanto parte della biologia, scienza del vivente, l’ecologia attiene convenzionalmente allo studio dei livelli di organizzazione della vita che oltrepassano l’organismo individuale; essa riguarda cioè le popolazioni (insieme di individui di una stessa specie che vivono in un dato luogo), le comunità (le popolazioni di un dato ecotopo), gli ecosistemi e la biosfera (essendo i livelli inferiori, studiati da altri rami della biologia, quelli del protoplasma, cioè dell’organizzazione molecolare, delle cellule, dei tessuti, degli organi e degli organismi). Ovviamente anche le popolazioni umane, in quanto composte di esseri viventi che sono collocati dentro gli ecosistemi e la biosfera, entrano legittimamente nel campo d’interesse dell’ecologia. Tuttavia si tratta di popolazioni affatto particolari, il cui comportamento non si riduce alle loro caratteristiche biologiche, e che perciò non possono essere studiate con i soli metodi e concetti della biologia, pur adeguati per le altre specie. Eppure la risonanza pubblica che l’ecologia si conquistò inizialmente fu dovuta anche alle conclusioni clamorose sul futuro dell’umanità (in netto contrasto con la trionfante ideologia dello sviluppo illimitato e progressivo degli anni sessanta) che alcuni autori derivarono dalle semplificazioni metodologiche (determinismo biologico) che abbiamo appena criticato (è il caso delle opere di Paul Ehrlich, ad esempio, autore nel 1966 del libro La bomba della popolazione). In effetti, una “ecologia generale” che pretenda di avere validità scientifica dovrebbe includere come scienze particolari tutte quelle che hanno attinenza con la realtà umana nei suoi molteplici aspetti: biologico, economico, sociale, politico, culturale, tecnologico, ecc. La costruzione di una disciplina onnicomprensiva dell’uomo e della natura — dati lo stadio di avanzamento delle singole discipline che dovrebbero comporla, la natura controversa dei paradigmi di tutte le scienze sociali, la tendenza alla frammentazione che continua a caratterizzare tanto l’organizzazione accademica quanto l’organizzazione applicativa delle diverse scienze nell’attuale contesto capitalistico — è, oggi come oggi, un’aspirazione più che una possibilità, benché la necessità di una tale “ecologia generale” (o come in altro modo si voglia chiamarla) stia diventando sempre più urgente. L’esigenza di rompere le barriere disciplinari artificiosamente create dalla divisione del lavoro intellettuale è sempre più avvertita come esigenza interna allo stesso sviluppo scientifico, oltre che come necessità imposta dall’esterno dalla natura complessa e globale dei problemi del mondo contemporaneo. Si tratta di una tendenza che Marx aveva presentito fin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 (“La storia stessa è una parte reale della storia naturale, dell’umanizzazione della natura. La scienza naturale comprenderà un giorno la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo comprenderà la scienza naturale: non ci sarà che una sola scienza” (2)) e per certi aspetti essa esprime il bisogno di pensiero dialettico che si fa strada nella scienza contemporanea. È plausibile pensare che solo una ripresa del marxismo, in connessione con una ripresa su larga scala del movimento di trasformazione rivoluzionaria degli attuali anacronistici assetti sociali, possa dare la spinta decisiva allo sviluppo scientifico contemporaneo in direzione di tale scienza generale dell’uomo e della natura, includente la società. Essa potrebbe allora assumere la funzione di guida consapevole del metabolismo tra specie e natura; sarebbe un “guidare” che, come aveva ben capito Engels e come afferma efficacemente Edgar Morin, sarebbe nello stesso momento un “seguire” la natura che ci guida (3). Essa potrebbe svolgere quel ruolo di “amministrazione” della produzione materiale dei valori d’uso nell’economia socializzata, “senza l’intervento del famoso ‘valore’”, e occupare così il posto che l’economia politica non avrebbe più titolo e funzione per ricoprire, come preconizzava Engels più di un secolo fa nell’Anti-Dühring (4). Almeno nell’ultimo quindicennio, tuttavia, il riduzionismo biologico non è più il dato caratterizzante della letteratura ecologista che va per la maggiore, anche perché altre centralità hanno preso il posto dell’attenzione quasi esclusiva delle origini per il problema demografico. Il problema delle tecnologie, con l’enfasi sulle tecnologie “dolci” (caratterizzate cioè dalla piccola scala, dal controllo quasi artigianale del lavoratore su di esse, dal carattere appropriato all’ambiente) in contrapposizione alle tecnologie “dure” (cioè caratterizzate dalla grande scala, dalla centralizzazione decisionale, dal forte impatto ambientale); il problema della qualità della vita, con un’attenzione critica crescente per i modi di vita (l’organizzazione dei trasporti, il degrado della vita urbana, il consumismo, l’organizzazione burocratica dei servizi sociali, il verde inesistente, ecc.); più recentemente il problema dell’ingegneria genetica e delle nuove tecniche riproduttive (che presentano il rischio di mettere la logica del profitto nella condizione di intervenire sul patrimonio genetico e nella riproduzione umana); questi e altri temi ancora sono entrati nell’orizzonte dell’ecologia. Tutto ciò ha ampliato i terreni di intervento politico dell’ambientalismo, rafforzando la sua tendenza a disperdersi in mille rivoli settoriali e localistici, tendenza d’altra parte apertamente teorizzata. Ma invece di spingere a un approfondimento dell’analisi sociale e politica, questi sviluppi hanno condotto a un’impostazione fondamentalmente etica, o etico-culturale, per cui la lotta contro il degrado della natura e della convivenza sociale viene intesa sostanzialmente come un processo di cambiamento culturale; la stessa proiezione politico-istituzionale viene teorizzata come momento complementare, aggiuntivo, il cui orizzonte resta parziale e pragmatico, cioè ristretto, in concreto, a un riformismo minimale.

Agli inizi degli anni settanta, la critica marxista, compresa quella marxista rivoluzionaria, tese a sottolineare la natura piccolo borghese dell’ideologia ecologista in via di formazione e dei settori sociali che più vi prestavano attenzione. Ciò corrispondeva indubbiamente a un dato di fatto, ma forse comportò la sottovalutazione delle potenzialità che si aprivano e un certo ritardo di comprensione della valenza globale che andava assumendo la crisi ambientale, i cui effetti riguardano tutti (le classi sfruttate in modo particolare). Oggi in effetti i settori più sensibili, quelli che forniscono il quadro attivo del movimento ambientalista, restano quelli caratterizzati da elevati livelli di istruzione e da una collocazione lavorativa che consente una certa autodecisione; ma la sensibilità ai guasti ambientali si rivela sempre più un dato diffuso; essa si è fatta strada e si afferma anche nella classe operaia, anche se spesso non può esprimersi adeguatamente per le scelte politiche di collaborazione di classe delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio. Ma, come ha dimostrato la vicenda del nucleare in Italia, anche la questione ambientale può diventare oggi un motivo di contraddizione dentro a queste stesse organizzazioni.

Arcipelago ambientalista, lotte di massa, Verdi nel caso italiano

Nel nostro paese la sensibilità ecologica si è allargata ad ampi strati popolari negli anni più recenti, dopo un quindicennio di lotte e battaglie rimaste in un ambito più ristretto, soprattutto per il succedersi di tutta una serie di situazioni di emergenza ecologica, frutto di un degrado ambientale sempre più preoccupante. Il punto di svolta è stato sicuramente l’impatto dell’incidente nucleare di Chernobyl, che ha reso concreto e drammatico per milioni di persone un dato che in precedenza era rimasto nella forma dell’inquietudine diffusa, suscitata dalle denunce ecologiste. La battaglia referendaria, e il suo esito vittorioso nel novembre del 1987, coinvolgendo direttamente la comunità nazionale nello scontro che il movimento antinucleare aveva condotto per anni contro le scelte del governo e dell’Enel, ha dato a milioni di lavoratrici e di lavoratori la possibilità di esprimersi direttamente su una questione cruciale per il futuro comune, sottraendola, una volta tanto, al monopolio del padronato, del governo o dei presunti “esperti”. In quest’ultimo anno, poi, la dimensione drammatica dei problemi è tornata alla ribalta con i casi clamorosi della Farmoplant di Massa, del disastro dell’Adriatico, della vicenda delle “navi dei veleni”, per non segnalare che gli episodi più macroscopici… L’ambientalismo oggi in Italia è dunque diventato sensibilità diffusa, suscettibile di esprimersi anche in mobilitazioni di massa in occasioni particolari, spesso con la capacità di incidere e polarizzare lo scontro politico. Il tessuto connettivo di questa sensibilità è un movimento variamente articolato in associazioni, strutture locali e nazionali, centri di iniziativa su temi specifici, di norma poco centralizzati e coordinati, molto variegato anche dal punto di vista dell’ispirazione ideale e politica, ma che non ha mancato in certi momenti di produrre uno sforzo nazionale. Ma questa pratica sociale produce un livello di coscienza politica che nella maggior parte dei casi rifiuta di misurarsi con la necessità di dare risposte complessive ai problemi affrontati. La formula con cui questa pratica viene teorizzata, “pensare globalmente, agire localmente”, esprime e congela questi livelli di coscienza, offrendo una giustificazione illusoriamente “concreta” ai limiti profondi di minimalismo riformista che questa pratica manifesta. A un livello riformista minimale si muovono anche le organizzazioni nazionali dell’arcipelago ambientalista, sia quelle conservazioniste (Wwf, Italia nostra, ecc.) sia la Lega per l’ambiente, che si muove più dinamicamente e funziona maggiormente come canale nazionale di iniziativa e coordinamento dell’attività militante sui temi ambientali, legata da un rapporto contraddittorio con le organizzazioni della sinistra ufficiale e, oggi, anche con la federazione delle liste verdi. Le caratteristiche di movimento d’opinione dell’ambientalismo favoriscono la trasformazione del suo quadro dirigente in ceto politico spregiudicato e opportunista che si muove verso l’inserimento nelle istituzioni, disponibile a giostrare tra diversi schieramenti politici. Sintomatica l’evoluzione del processo avviato con la presentazione di liste verdi alle elezioni amministrative del 1985 e che oggi, conquistata una discreta presenza parlamentare nelle elezioni del 1987, si va consolidando nel partitino rissoso denominato “federazione delle liste verdi”. Questo giudizio non si estende all’operato passato di molti personaggi che oggi partecipano a questa esperienza piuttosto squallida. Al contrario, il merito di alcuni di costoro come precursori della battaglia ambientalista nel nostro paese va ugualmente riconosciuto. Nella seconda metà degli anni settanta, si sono avute in Italia una interessante esperienza di ecologia politica orientata a sinistra (i primi anni della rivista “La nuova ecologia” di Virginio Bettini ad esempio) e un’importante vicenda di lotta antinucleare a partire dalla mobilitazione popolare sui siti, sfociata anche nella costituzione del Comitato nazionale per il controllo delle scelte energetiche, animato tra gli altri da Gianni Mattioli e Massimo Scalia. La maggior parte dei quadri dell’odierno ambientalismo, infatti, come pure molti esponenti di primo piano delle liste verdi, provengono da queste esperienze e dalla militanza degli anni settanta nelle file della sinistra tradizionale e soprattutto della nuova sinistra. Per molti di essi la battaglia ecologista è stata anche il frutto della presa di coscienza dei limiti di queste forze sul terreno ambientale.

Tuttavia con gli anni ottanta e la sconfitta operaia, l’involuzione politica di questi settori ha assunto la forma di una deriva progressiva verso il completo disimpegno riguardo le contraddizioni di classe e la scelta di proiezione istituzionale, il cui approdo è il pieno adattamento alle “regole del gioco” del sistema politico, al di là della pretesa estraneità esibita nelle dichiarazioni; tragitto ancora non del tutto completato, forse, ma ben visibile. Alla base della spregiudicatezza del ceto politico verde ci sono fattori diversi: l’assenza di un vero radicamento sociale, innanzitutto; risultato in parte obiettivo della natura interclassista (cioè prevalentemente piccolo-borghese e intellettuale) del movimento ambientalista ma elevato teoricamente a scelta strategica; l’approssimazione dei legami tra leadership e “base militante” dell’arcipelago verde; quest’ultima in verità conta ben poco rispetto ai personaggi che “fanno opinione” sui mass media; la favorevole onda elettorale che ha premiato il Sole che ride ben al di là delle sue proposte concrete o della sua consistenza reale, essendosi raccolta attorno alle sue liste innanzitutto la volontà di dare un segnale. Contano ovviamente gli orientamenti a cui si ispirano i gruppi dirigenti e con cui essi giustificano le proprie mosse. La pretesa di non collocarsi rispetto agli schieramenti politici tradizionali (la pretesa di essere “né di destra né di sinistra”) in nome di un altro modo di fare politica sui contenuti, è anche un alibi per le operazioni più disinvolte (come l’apertura di credito ai recenti governi pentapartitici). La “concretezza” delle proposte nasconde a malapena il piccolo cabotaggio e l’assenza di qualsiasi progetto di trasformazione degno di questo nome. Il tutto è funzionale, tuttavia, a trovare spazi dentro al sistema politico quale esso è e, perché no, negli assessorati e nelle giunte degli enti locali. Sul piano ideale e strategico l’ambientalismo italiano non conosce una corrente fondamentalista radicale, ma si muove pressoché totalmente, anche se fra diverse sfumature, in un orizzonte riformistico. La battaglia ambientalista è di proposito separata, se non contrapposta, in genere, a qualsiasi ipotesi di rovesciamento, rivoluzionario o meno, degli assetti economici e politici esistenti. Viene negato il problema stesso delle classi e la necessità di individuare il soggetto sociale del proprio progetto politico, così come delle responsabilità e degli interessi che determinano l’attuale situazione di degrado crescente. Ciò sfocia nell’accettazione e nell’adattamento, più o meno consapevoli, all’ordine di cose presenti che è responsabile della drammatica emergenza ambientale che si va denunciando. Più che di fondamentalismo, in Italia si può parlare di “integralismo verde” di settori come quello che si esprime per bocca di Alexander Langer, che coniuga l’accettazione delle regole del gioco istituzionale con le aperture verso le forze governative (tanto la Dc che il Psi) e verso le gerarchie cattoliche (ad esempio sul tema dell’aborto e delle nuove tecniche riproduttive); integralismo che confessa apertamente le sue affinità con il conservatorismo politico sociale e che non manca di risvolti ideologici oscurantisti. Queste caratteristiche ideologiche e politiche e questi metodi d’azione, possono anche essere fattori di successo nel breve periodo e nella fase di presente riflusso che attraversiamo. Ma nel più lungo periodo sono fattori di contraddizione che agiranno inevitabilmente, come vediamo comincia ad accadere oggi tra i Grünen della Germania federale. Le energie attivate e le attese alimentate in questo modo, verranno a trovarsi frustrate dalla constatazione che, all’omologazione politica dell’esperienza verde, non corrisponderanno che risultati marginali e trascurabili, non diversamente da quello che è accaduto per le forze politiche e sindacali tradizionali. Il marxismo rivoluzionario deve saper far leva su questa contraddizione, che inevitabilmente tenderà a delinearsi nel medio periodo, per conquistare quelle forze che si liberano dei limiti dell’ideologia minimalista e cercano la strada per soluzioni radicali adeguate ai problemi. Si tratta di forze potenzialmente militanti e combattive, che oggi non cercano un riferimento nella classe operaia per la paralisi di quest’ultima sotto il peso delle sconfitte passate e per l’ideologia e la pratica vergognosa di collaborazione di classe che anche sul terreno dell’ambiente contraddistingue gli apparati sindacali. Per conquistare queste forze è necessario riqualificare la nostra identità, il nostro programma, le nostre proposte; ma tutto ciò non sarà sufficiente se non crescerà anche la nostra capacità di agire con efficacia e puntualità nelle mobilitazioni che si creano, e di essere anzi tra coloro che le costruiscono (almeno dove la nostra presenza ce ne dia la possibilità, ad esempio tra i giovani). Il nostro metodo di lavoro deve fondarsi sulla preoccupazione di promuovere l’unità d’azione più ampia tra quanti vogliono battersi per gli obiettivi concreti di volta in volta posti al centro della mobilitazione. Ma questa azione deve accompagnarsi con un’opera di chiarificazione sui nessi sociali dei problemi ambientali e della necessità di lavorare per costruire l’unità con la classe operaia, di dare la precedenza alle forme di lotta che aiutano i soggetti della lotta stessa ad auto organizzarsi e a diventare protagonisti attivi. Dobbiamo mostrare nella pratica l’utilità del marxismo rivoluzionario, la sua capacità di fornire le risposte giuste. Non solo quelle teoriche, che consentono di comprendere le ragioni profonde della catastrofe ambientale, ma anche quelle programmatiche e politiche che indicano i passi da fare sulla strada del rovesciamento dello stato di cose presenti e della realizzazione di un tipo di sviluppo e di relazioni sociali che metta d’accordo l’uomo con l’uomo e la specie con la natura.

Note

(1) H. M. Enzensberger, Zur Kritik der politischen Ökologie, in “Ökologie Kursbuch”, n. 33, ottobre 1973; tradotto in “Critique Communiste”, n. 7, maggio-giugno 1976. La critica di Enzensberger prendeva di mira in particolare la pretesa “ecologia umana” di P. Ehrlich. (2) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, Opere filosofiche giovanili, p. 233. (3) E. Morin, Il pensiero ecologico, pp. 133-135. (4) F. Engels, Anti-Dühring, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 299.

Parte terza

LINEE PER UN PROGRAMMA TRANSITORIO SULLE QUESTIONI AMBIENTALI Capitolo 8 LA QUESTIONE AMBIENTALE: UN RIEPILOGO

Osservazioni generali

La problematica dell’ambiente costituisce un importantissimo arricchimento delle tematiche politiche e culturali dei marxisti rivoluzionari sia per gli aspetti analitici sia per quelli programmatici. Per questo non è solo questione di contenuti, nel senso di aggiungere qualche obiettivo, ma di orientamento, nel senso che le considerazioni ambientali devono diventare uno dei criteri principali in base ai quali gli obiettivi sono formulati. Da un punto di vista di orientamento generale, peraltro, come cercheremo di dimostrare, costituisce una conferma della validità dei criteri fondamentali delle nostre analisi e del nostro programma: l’approccio alla realtà come una totalità dinamica, l’internazionalismo e la necessità di un’internazionale rivoluzionaria di massa, la necessità basata su un’economia pianificata democraticamente, il metodo del programma di transizione, il controllo operaio, ecc. Dato che l’obiettivo che ci prefiggiamo è di avviare una discussione, un testo di carattere programmatico non può avere l’ambizione di presentare un programma già bello ed elaborato, ma più modestamente limitarsi a indicare i criteri metodologici, gli elementi generali e alcune indicazioni di massima per la realtà italiana. E quello che il testo cercherà di fare augurandosi di essere utile al fine preposto. È una semplice banalità osservare che oggi il problema della devastazione — o vera e propria distruzione — dell’ambiente è una preoccupazione presente alla coscienza di vasti settori della società nel nostro come in molti altri paesi. Tuttavia non è un problema nuovo. Per non risalire troppo indietro nel tempo, il prodursi di devastazioni, anche gravi, dell’ambiente ha accompagnato il sorgere e lo sviluppo del capitalismo, della manifattura e poi della rivoluzione industriale. Si è trattato, fino al secondo dopoguerra, di fenomeni relativamente limitati, magari gravi localmente ma non generalizzati. Relativamente limitata era anche la coscienza del problema, ristretta per lo più a settori del mondo intellettuale e scientifico. Quasi del tutto assente nel movimento operaio organizzato, anche se in alcuni casi limitati si era espressa anche in lotte e mobilitazioni; si trattava comunque di casi sporadici. Fino ad anni recenti non era diventata coscienza di massa di nessun settore della società. Il problema nei suoi termini attuali si pone a partire dal secondo dopoguerra, ed è dovuto ad una serie di fattori che caratterizzano questo periodo, e principalmente: • il lungo boom economico nei paesi detti “a capitalismo industriale avanzato”, con la produzione in massa dei beni di consumo durevoli, che ha comportato, tra l’altro, l’enorme sviluppo della chimica e della produzione di energia (compresa quella nucleare); • l’utilizzo sempre più massiccio in agricoltura di macchine, concimi chimici, insetticidi (o pesticidi); • l’enorme diffusione dei trasporti in genere e di quelli privati (auto) in particolare; • l’enorme sviluppo dell’industria degli armamenti; • l’allargamento del modello capitalistico occidentale ad altri paesi, il Giappone prima, poi i “nuovi paesi industrializzati”; • l’imposizione della dominazione (neo) imperialista sui paesi del Terzo mondo, caratterizzata dallo “scambio ineguale” e da un violento supersfruttamento di uomini e risorse (miseria dell’enorme maggioranza della popolazione; deforestazione, desertificazione dei suoli, ecc.). Nello stesso tempo, anche se per effetto di meccanismi economici e politici diversi (in primo luogo la mancanza di democrazia, la pianificazione burocratica e l’irresponsabilità della burocrazia), anche nell’Unione Sovietica e negli altri paesi dell’Est si è sviluppato un gravissimo processo di devastazione dell’ambiente che ha già prodotto diverse catastrofi

(delle quali Chernobyl è solo quella più clamorosa, la punta dell’iceberg). Tra le purtroppo molte altre si può ricordare l’inquinamento del lago Baikal (la più grande riserva d’acqua dolce del pianeta) e lo stato avanzato di prosciugamento del lago (o mare) di Aral. L’azione combinata dei vari elementi che abbiamo schematicamente indicato, non ha prodotto soltanto un aumento quantitativo senza precedenti dei fenomeni di inquinamento e di devastazione ambientale, ma ha prodotto una situazione nuova: per la prima volta questa devastazione si è generalizzata, si è estesa su scala mondiale; alcuni dei processi inoltre sono praticamente irreversibili (per esempio la desertificazione). L’aggravarsi disastroso della situazione ha stimolato alla fine una presa di coscienza relativamente ampia e di massa del fenomeno, a partire già dai primi anni sessanta (si può prendere come evento simbolico la pubblicazione nel 1962 del libro della biologa statunitense Rachel Carson Primavera silenziosa) e poi nel corso degli anni settanta. In Italia lo sviluppo di una coscienza relativamente ampia si è cominciato ad avere verso la metà degli anni settanta, con le mobilitazioni contro le centrali nucleari. Una dimensione di massa si è raggiunta negli ultimi anni, in Italia come negli altri paesi, in conseguenza di catastrofi gravi (Seveso, Three Mile Island, Bhopal, Chernobyl, il Reno a Basilea, Farmoplant, ecc.); della devastazione crescente di vaste aree del pianeta (“morte dei boschi” per le piogge e nebbie acide in Europa e Nord America; desertificazione in Asia, Africa, America Latina al ritmo di 200.000 chilometri quadrati all’anno secondo stime ufficiali di organismi dell’Onu; del crescente inquinamento dell’aria — specie nelle grandi città —, delle acque dei fiumi, dei laghi, dei mari (il disastro dell’Adriatico nell’estate 1988); della minaccia crescente di sconvolgimenti epocali (termine quanto mai inflazionato, ma che in questo caso è pienamente giustificato) su scala planetaria (“buco dell’ozono”, effetto serra). Quello che era un “lusso” di pochi è oggi diventata una preoccupazione di molti.

La situazione attuale potenzialità e pericoli

Ci troviamo dunque oggi in una situazione in cui la distruzione dell’ambiente in tutte le sue forme ha assunto una gravità tale da costituire, assieme alla minaccia nucleare, la principale fonte di preoccupazione e allarme per il futuro stesso dell’umanità e contemporaneamente si sviluppa una coscienza ampiamente diffusa in tutti gli strati sociali della gravità del problema. Espressione di questa coscienza sono, tra l’altro, i vari movimenti ambientalisti e verdi in vari paesi europei e altrove. Questo potrebbe essere un elemento positivo — ed è relativamente tale — e costituire l’elemento di speranza per una soluzione positiva del problema. La realtà, come sappiamo, è più complicata. La radicalizzazione sui temi dell’ambiente si è effettuata al di fuori del movimento operaio, in settori non proletari, soprattutto giovanili. Questo per una serie di motivi di cui due sembrano essere i principali: • l’arretratezza, le incomprensioni, le gravi carenze del movimento operaio stesso su questi temi, i comportamenti opportunistici e strumentali delle organizzazioni sindacali e politiche riformiste (ad es. sul nucleare); • il fatto che la radicalizzazione è avvenuta soprattutto nel periodo delle sconfitte della classe operaia e della controffensiva della borghesia. Di conseguenza il movimento operaio non è stato il punto di riferimento naturale dei movimenti ambientalisti, come era stato invece in passato per altri movimenti, con effetti benefici per tutti. La presa di coscienza è per ora parziale, non c’è un’individuazione precisa delle cause di fondo della distruzione dell’ambiente nei meccanismi del sistema capitalista, ma si accusa genericamente una “cultura industrialista” di cui saremmo un po’ tutti responsabili, compresi gli operai che difendono il loro posto di lavoro. Prevale nei movimenti ambientalisti la posizione non classista “né di destra né di sinistra”. Il marxismo stesso è visto come un’ideologia “industrialista”. Due sono dunque i motivi di fondo per una discussione e una proposta programmatica dei marxisti rivoluzionari sui temi dell’ambiente: • l’esistenza di un grande, anzi enorme, problema materiale: la devastazione dell’ambiente; • la necessità per il movimento ambientalista di una coscienza più complessivamente anticapitalista, con una pratica conseguente, a scanso di essere riassorbito in un’ottica e una pratica riformiste e risultare del tutto inefficace. A questo fine l’impostazione marxista rivoluzionaria può dare un contributo estremamente importante, forse decisivo. Per converso è assolutamente indispensabile integrare la tematica dell’ambiente in un programma rivoluzionario, sia per l’importanza oggettiva del problema, sia per la credibilità del programma stesso in particolare agli occhi dei giovani ma, evidentemente, non solo di questi. L’integrazione va fatta con l’impostazione accennata all’inizio.

Le responsabilità

L’individuazione delle cause e responsabilità precise è un punto di partenza imprescindibile. Individuiamo le responsabilità del sistema di produzione capitalistico, al di là degli elementi del periodo più recente accennati prima, nei meccanismi fondamentali di funzionamento del sistema, come articolazione delle osservazioni di Marx sul carattere distruttivo della produzione capitalistica (“… la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo in quanto distrugge contemporaneamente le fonti di ogni ricchezza: la terra e l’operaio”) (1). Schematicamente individuiamo i meccanismi seguenti: • la proprietà privata dei mezzi di produzione e la concorrenza, che implicano la necessità di mantenere al minimo i costi di produzione, in primo luogo quelli della forza lavoro e di tutto ciò che attiene all’ambiente (metodi di lavorazione, dispositivi e materiali non inquinanti; riciclaggio dei materiali, smaltimento dei rifiuti, ecc.), e il sistema di calcolo dei costi dei prodotti impresa per impresa che esclude dal conto i costi della devastazione dell’ambiente; • la produzione per il profitto e per il mercato che impone certe scelte produttive, tecnologiche e scientifiche a scapito di altre, indirizza — e devia — la ricerca scientifica, favorisce lo sviluppo dell’industria energivora e dell’agricoltura “dei veleni” (altrettanto energivora), la scelta nucleare come “alternativa” al carbone e al petrolio per la produzione di elettricità, a scapito della ricerca per l’utilizzo dell’energia solare e delle altre fonti alternative, e l’elenco potrebbe continuare a lungo; • Io Stato nazionale — garante ultimo dei profitti — come ostacolo insormontabile all’adozione di iniziative sovranazionali imprescindibili per la soluzione di problemi di carattere sovranazionale o mondiale (desertificazione, piogge acide, inquinamento dell’aria e delle acque, ecc.); • la produzione bellica, il “complesso militare-industriale”, divenuto ormai parte integrante strutturale del capitalismo per l’economia e per la dominazione imperialista, con lo sviluppo delle armi termonucleari, la corsa agli armamenti nei diversi settori (nucleare, chimico, biologico, convenzionale), il commercio delle armi, ecc., che tra tante conseguenze nefaste ne ha anche, e tutt’altro che trascurabili, rispetto alle tematiche ambientali (spreco di risorse ed energia, devastazione dell’ambiente, ecc. e, ovviamente, in primis, tutti i rischi attuali e potenziali del nucleare). Un elemento che non si può considerare un meccanismo fondamentale ma che è indotto in definitiva dal profitto ed ha a sua volta importanti conseguenze sull’ambiente è l’instaurarsi di modelli culturali e di comportamento, specialmente nei paesi a capitalismo “avanzato”, distorti come l’uso dell’auto privata invece dei mezzi di trasporto collettivi, certi aspetti del “consumismo”, “l’usa e getta” invece del riciclaggio, ecc.

Note (1) Marx, Il capitale, I, pp. 552-553.

Capitolo 9

QUALE SOLUZIONE? ALCUNE PROPOSTE

La necessità di una risposta globale

I termini essenziali del problema della distruzione dell’ambiente, esposti in modo ultra schematico sono: • l’inquinamento della terra, delle acque e dell’aria da parte di un numero crescente di sostanze tossiche e nocive prodotte dalle attività industriali, agricole e anche domestiche; • la distruzione delle foreste soprattutto nella fascia tropicale, con la conseguente distruzione di numerose specie viventi vegetali e animali e la diminuzione della produzione di ossigeno; • la desertificazione della grandi superfici di terra, causata dall’agricoltura di rapina da parte delle multinazionali alimentari e dalla stessa distruzione delle foreste equatoriali; • il cosiddetto “effetto serra” causato dall’aumento della percentuale di anidride carbonica (C02) nell’atmosfera, causato soprattutto dalla combustione di carbone e petrolio in varie attività; • il cosiddetto “buco dell’ozono” sulle cui cause e implicazioni non c’è ancora totale accordo tra gli scienziati;

• connesso a questi, e con evidente implicazioni per l’ambiente, è il problema del rischio di esaurimento di alcune materie prime e di fonti di energia non rinnovabili, sottoposti come sono attualmente ad uno sfruttamento selvaggio, o un vero e proprio saccheggio. La semplice esposizione di questi elementi basta a dare un’idea della difficoltà, in ogni caso, di una soluzione a positivo di questi problemi, e ciò per vari motivi. Sul piano materiale, per la dimensione stessa dei problemi, la loro complessità, il fatto che di alcuni di essi non sono ancora del tutto chiari né i meccanismi specifici che li producono, né i loro effetti a lungo termine, né soprattutto i possibili effetti sinergici. Non c’è completo accordo ad esempio, tra scienziati ed esperti, sugli effetti a lungo termine dell’effetto serra, del buco dell’ozono e del possibile effetto combinato o sinergico dei due. Lo stesso vale per altri aspetti del problema. Una serie di problemi appare di difficile soluzione da un punto di vista tecnico o sembrano implicare, a prima vista, la necessità di soluzioni che comportano peggioramenti insopportabili nelle condizioni di vita della massa della gente. Ad esempio, come è possibile, ridurre sostanzialmente e in tempi brevi l’immissione di C02 nell’atmosfera senza rinunciare a bruciare combustibili fossili per produrre energia, e senza ricorrere al nucleare e non avendo a disposizione fonti alternative in quantità sufficienti? E un esempio tra i tanti che si potrebbero fare sia per l’industria che per l’agricoltura. Al di là della varietà e della complessità delle manifestazioni ci sono due elementi comuni nel problema: • il carattere globale nel doppio senso di estensione mondiale e di mettere in causa non questo e quell’aspetto del sistema ma l’insieme dei suoi meccanismi fondamentali; • il fatto di essere il prodotto per così dire naturale del modo di produzione capitalistico, cioè di un modo di produzione paralizzato in cui non c’è nessuna possibilità di controllo reale da parte della massa della popolazione sui processi di produzione e distribuzione (questo vale anche per i paesi a “socialismo reale” cioè a economia pianificata burocraticamente). Se è vero quanto detto fin qui ne consegue che, quali che siano i problemi tecnici da affrontare è indispensabile, come preliminare, un approccio globale al problema, e globale nei due sensi di vederlo su scala mondiale e di mettere in discussione non questo o quell’aspetto ma l’insieme dei rapporti sociali ora in vigore in tutto il mondo. E da questo punto di vista il metodo marxista conserva un valore insostituibile. È evidente che, per una soluzione a positivo dei problemi, saranno indispensabili profondissime e radicali trasformazioni nell’insieme dei rapporti sociali, cioè nei rapporti di produzione nell’industria e in agricoltura, nei rapporti politici e culturali, nei costumi e nei modi di vita, nei rapporti tra i popoli. Senza voler entrare troppo in particolari per evitare di fare prefigurazioni, per l’agricoltura non si tratterà tanto di un impossibile “ritorno alla natura”, ma di un’impostazione che miri al mantenimento di livelli produttivi ottimali in rapporto a molti e diversi criteri, tra i quali quello del mantenimento della fertilità naturale dei terreni e l’equilibrio tra le diverse specie viventi (animali e vegetali) sarà determinante. Ciò implicherà il ricorso a metodi più “naturali” (esempio ricorso a insetti predatori invece dei pesticidi) ma sulla base di una conoscenza molto maggiore di quella attuale dell’insieme dei processi biologici, climatici, ecc., come risultato quindi di un grande sviluppo della ricerca scientifica, e sulla base di una impostazione di insieme che metta in primo luogo la considerazione degli equilibri globali, complessivi. Per l’industria, e per quanto riguarda i paesi “sviluppati” occorrerà una trasformazione radicale; interi settori produttivi e metodi di lavorazione andranno presumibilmente abbandonati (e tanto per cominciare la produzione di armi); occorreranno colossali ristrutturazioni e le nuove produzioni dovranno essere attentamente verificate nel loro impatto ambientale a lungo termine. Per l’energia, oltre ad un uso più razionale e al risparmio, il ricorso all’energia solare in primo luogo e alle altre fonti rinnovabili appare l’unica via praticabile. I rapporti tra paesi “sviluppati” e quelli del terzo mondo dovranno essere trasformati totalmente in tutti gli aspetti, a partire certamente da quelli economici (scambio ineguale) e politici (dominazione imperialista). Il criterio del rispetto degli equilibri globali dovrà essere seguito, evidentemente, per tutti gli aspetti delle attività umane: produzioni industriali, energetiche, trasporti, abitazioni, ecc. In questo quadro si colloca anche l’esigenza di una valutazione sulla quantità globale della popolazione umana compatibile con l’insieme delle altre esigenze del pianeta. In una parola a l’intera vita associata, in tutto il mondo, che andrà impostata su basi nuove e diverse, in cui le considerazioni ecologiche dovranno avere un peso determinante nelle scelte. Si tratta dunque di proporre non la modifica di qualche aspetto del “modello di sviluppo” attuale ma un modello globalmente alternativo, qualitativamente diverso.

La necessità della rivoluzione socialista mondiale

In estrema sintesi ciò che oggi è necessario è contrapporre all’anarchia del modo di produzione capitalistico un’economia pianificata democraticamente su scala mondiale. Non che questo sia garanzia sicura di risolvere i problemi; ma, per lo meno, rappresenta una ragionevole speranza o possibilità, mentre con il sistema capitalistico una soluzione globale, complessiva appare del tutto illusoria e impossibile. Anche per questa ultima valutazione solo qualche esempio: la distruzione che prosegue a ritmo accelerato della foresta amazzonica con il risultato probabile di creare un “Sahara” bis in America latina, di cui si vedono già i segni premonitori nel Nordest brasiliano, lo sviluppo accelerato della motorizzazione privata, la politica del Fmi verso i paesi del Terzo mondo, il proseguimento senza esitazioni della corsa agli armamenti. Tantissimi altri se ne possono trovare anche più probanti di questi. Al di là degli esempi particolari, l’impostazione di un’economia e di una società su basi ecologiche implica la rimessa in discussione dei meccanismi fondamentali e irrinunciabili di funzionamento del sistema; per questo il capitalismo appare strutturalmente incapace di risolvere il problema nella sua globalità. Dire ciò non significa ritenere che il capitalismo sia incapace di adottare delle misure rispetto al problema, ma che è incapace di affrontare la sua dimensione globale nel duplice significato del termine. Le soluzioni capitalistiche sono o soluzioni parziali — nel senso che affrontano separatamente singoli aspetti del problema — e per lo più solo sul piano tecnico (esempio “industria del disinquinamento” come un settore produttivo in più nel sistema così com’è), o soluzioni di classe a favore evidentemente della classe dominante, e dolorose per il resto dell’umanità. Appare francamente difficile, o meglio impossibile, vedere il capitalismo affrontare problemi capitali come quelli cui abbiamo accennato dal punto di vista degli interessi generali dell’umanità; tanto per fare un altro esempio, per quello che riguarda le materie prime, lo vediamo piuttosto fare delle guerre per assicurarsene il controllo che non progettare un uso razionale, equilibrato e pianificato che tenga conto delle necessità di tutti i popoli della terra; e a questo proposito basta tenere presente qual è la politica attuale del Fmi verso i paesi del Terzo mondo. Questa valutazione del capitalismo non porta d’altra parte neanche a pensare necessariamente al “crollo” o alla “catastrofe finale” (per lo meno nel breve periodo), ma al peggioramento grave di aspetti importanti delle condizioni di vita (es. aumento di malattie “ambientali”: cancro, ecc. nelle città e nelle campagne) di grandi masse di popolazione sull’intero pianeta, senza peraltro escludere singole catastrofi, anche di grandi proporzioni, e un contributo decisivo a quella che per intere regioni del pianeta può essere la catastrofe finale (Sahel, Amazzonia). Quanto detto per il capitalismo vale anche in grande misura, nell’ambito di sua competenza, per il “socialismo reale”, anche se per opera di meccanismi diversi, soprattutto per mancanza di una democrazia reale, di una reale possibilità di controllo dal basso. Anche dai pochi tratti forzatamente schematici che abbiamo esposto sembra chiaro che i problemi posti dall’emergenza ambiente, per la loro dimensione e per la loro complessità possono avere una possibilità di soluzione solo a partire da una economia pianificata democraticamente su scala mondiale, cosa che né il capitalismo né il “socialismo reale” sono manifestamente in grado di fare. Ne consegue che, anche per i problemi dell’ecologia come per tanti altri problemi capitali dell’umanità, la rivoluzione socialista mondiale (con la rivoluzione antiburocratica) appare essere la condizione necessaria (anche se non di per sè sufficiente), quasi la premessa a qualsiasi possibilità di soluzione, e il socialismo, ancora prima che la condizione di spettacolari progressi dell’umanità, sembra diventare la precondizione della semplice sopravvivenza della stessa. Il problema della distruzione dell’ambiente è, se vogliamo, una ragione o una dimensione in più per la necessità storica della rivoluzione socialista (e di quella antiburocratica). Ancora un dato esemplificativo: come è possibile che i paesi del Terzo mondo possano sfuggire al sottosviluppo e al saccheggio, alla distruzione selvaggia delle loro risorse materiali e umane e del loro ambiente; come sottrarsi alle guerre che periodicamente insanguinano e devastano questo o quel paese, all’aggressione larvata o, quando è il caso, diretta da parte delle potenze imperialiste; come ribaltare il cosiddetto rapporto Nord-Sud, il meccanismo infernale dell’indebitamento (che tra l’altro ha anche pesanti conseguenze in termini di distruzione dell’ambiente); come è possibile pensare a una pianificazione democratica delle risorse e della produzione che tenga conto anche delle loro esigenze vitali, se non viene infranto, distrutto quell’autentico sistema di rapina che è la dominazione imperialista, il mercato mondiale capitalistico?

Il metodo del programma di transizione

In questo contesto si riconferma tutto il valore di un’impostazione marxista del problema e, in particolare, il metodo del programma di transizione. Quest’ultimo è importante per il criterio dei contenuti rivendicativi, per la tematica del controllo operaio e per l’individuazione del soggetto sociale portatore del programma stesso. Il criterio dei contenuti rivendicativi consiste nel formulare gli obiettivi da porre al centro delle lotte di massa in modo da costituire un “ponte” tra i bisogni quotidiani come essi sono percepiti dalle masse e l’esigenza della presa del potere; ovvero fare sì che l’esigenza della rivoluzione non si riduca ad un’astratta predicazione propagandistica; fare sviluppare dalla viva esperienza concreta dei lavoratori una coscienza anticapitalistica, la coscienza che per poter affrontare seriamente i problemi occorre prendere il potere, e favorire sulla base di questa coscienza l’autoorganizzazione di massa. Con questa impostazione la rivendicazione centrale dovrebbe essere la “espropriazione risarcitrice”, cioè l’esproprio senza indennizzo degli inquinatori e dei “produttori di morte” (armi e altro), la nazionalizzazione e la riconversione sotto controllo operaio, a partire da casi esemplari, come l’Acna di Cengio o la Farmoplant nei quali la proprietà capitalistica si rifiuta di attuare le necessarie riconversioni tecnologiche senza ridurre l’occupazione. Il controllo operaio deve essere considerato l’asse centrale delle nostre proposte in merito alla questione ambientale. Essa è l’aspetto determinante anche quando si accompagna alla richiesta dell’esproprio e della nazionalizzazione. Esso è infatti l’elemento dinamico, quello che stimola e l’organizzazione e l’attività delle masse. Viceversa, una nazionalizzazione senza controllo operaio, può facilmente essere “riassorbita” entro il normale funzionamento del capitalismo, come dimostra nell’esperienza italiana l’industria pubblica e quella a partecipazione statale. Inoltre il controllo operaio va inteso in senso ampio, non solo come controllo della produzione nella fabbrica — che rimane comunque indispensabile e fondamentale — ma come “controllo sociale”, con l’estensione di funzioni da strutture sindacali e simili e la creazione di strutture ad hoc sul territorio (comitati di controllo di quartiere, associazioni ambientaliste, organizzazioni dei consumatori, ecc.). Occorrerà sviluppare la collaborazione di strutture di lavoratori dell’industria con lavoratori di altri settori (università, istituzioni scientifiche di ricerca), studenti universitari e tecnici, ecc. e il collegamento con strutture sindacali e di altro tipo dei coltivatori per un’impostazione analoga per quanto riguarda l’agricoltura. Dato che il problema si pone su scala mondiale, di fondamentale importanza il collegamento su scala internazionale dei lavoratori, a partire magari da coordinamenti sindacali, mobilitazioni congiunte in vari paesi contro una multinazionale, ecc. Quanto detto fin qui pone il problema del soggetto sociale che possa farsi carico di questo programma. È evidente che, anche in questo ambito non può essere che la classe operaia (intesa correttamente come l’insieme dei lavoratori salariati), per i motivi che in generale fanno di essa il soggetto imprescindibile di qualsiasi progetto di trasformazione sociale di grande portata, come colonna portante di un sistema di alleanze con altri settori sociali. Il dato strutturale è che solo il proletariato ha l’interesse e la forza per imporre una riorganizzazione complessiva, basata non sul profitto ma sui bisogni collettivi della società ed individuali dei singoli, sul rispetto della natura, su di un equilibrato progresso. Solo il proletariato ha la capacità di autorganizzazione di massa, di solidarietà, di cooperazione su larga scala che sono le precondizioni di una soluzione socialista. Nel quadro di una necessaria “politica di alleanze” del movimento operaio, importanza crescente vengono ad assumere quadri tecnici e scientifici nei vari settori della produzione industriale ed agricola e della ricerca, una impostazione marxista della questione ambientale sviluppata in modo corretto può, tra l’altro, essere una via per conquistare elementi appartenenti a questi settori alla concezione della necessità di una ricostruzione autenticamente socialista della società.

La situazione italiana

Quelle fin qui esposte sono valutazioni e indicazioni programmatiche su scala generale, ma è evidentemente indispensabile dare qualche indicazione più specifica per la situazione italiana dove ci troviamo ad operare direttamente. Anche qui la coscienza dei problemi dell’ambiente si è sviluppata a partire dai problemi energetici e dalle mobilitazioni contro le centrali nucleari, da avvenimenti catastrofici come Seveso, Bhopal, Chernobyl e, in particolare nell’ultimo anno dal disastro della Farmoplant, dalle vicende delle scorie italiane in giro per mezzo Terzo mondo, dalla storia infinita dell’Acna, dal disastro dell’Adriatico più Manfredonia e l’elenco potrebbe continuare. Alcune lotte e mobilitazioni hanno avuto un esito relativamente vincente, in particolare quelle contro le centrali nucleari, altre un esito più incerto, come la vicenda della Farmoplant, altre ancora, come quella del l’Acna vedono pericolose divisioni tra ambientalisti e lavoratori con il rischio di una sconfitta. Per quanto riguarda la disastrosa situazione dell’Adriatico non si va, da parte padronale e governativa, al di là di impegni generici, mentre la legge finanziaria ha addirittura tagliato i fondi destinati all’intervento sul problema. Anche qui indichiamo alcuni esempi, tra i più noti e clamorosi, di una situazione di notevole gravità per tutti gli aspetti del problema. Anche qui la maggior parte dei problemi è di grande complessità; ad esempio l’inquinamento dell’Adriatico chiama in causa l’insieme del “modello di sviluppo” della pianura padana, le attività industriali, agricole e l’allevamento, oltre alle attività domestiche. Considerazioni analoghe valgono per altre situazioni.

Non crediamo sia compito nostro elaborare dei piani o dei contropiani tecnico-scientifici, ma di indicare le condizioni politiche che possano permettere di impostare credibilmente le soluzioni tecniche. Peraltro per alcuni problemi, progetti o contropiani validi sul piano tecnico-scientifico sono già stati elaborati: ad esempio per l’energia, dal Comitato nazionale per le scelte energetiche, con proposte che appaiono fondate e convincenti; per l’Adriatico esistono studi che individuano le cause dell’inquinamento e indicano le possibili soluzioni tecniche. Il problema in genere non sembra essere tanto un problema tecnico, ma di costi sociali delle soluzioni e/o di potenti interessi che verrebbero intaccati da scelte alternative; un problema dunque politico. C’è anche un elemento di difficoltà nell’indicare soluzioni alternative per una situazione nazionale, ed è la già menzionata dimensione internazionale dei problemi; per fare l’ennesimo esempio, per quanto riguarda le centrali nucleari l’argomento utilizzato strumentalmente dai filo nucleari italiani delle centrali francesi, svizzere ecc. è in se stesso reale; per tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale la soddisfazione per la chiusura di Montalto (distante 5-600 km) è relativa perché sono molto più preoccupanti le centrali dei paesi confinanti, distanti solamente 100-200 chilometri. Un altro elemento di difficoltà sta nella contraddizione inerente al fatto che il problema è globale ma si presenta con manifestazioni locali: una soluzione locale o parziale non può quindi essere complessivamente soddisfacente, rischia di essere in ogni caso un rattoppo mentre la soluzione globale non è normalmente realizzabile. È la contraddizione che i verdi hanno, a quanto pare, cercato di risolvere sulla carta con il celebre slogan “pensare globalmente, agire localmente” che ha portato più volte ad agire opportunisticamente, con un minimalismo che ha dato scarsissimi risultati. L’esempio più clamoroso di questo problema è proprio quello dell’Adriatico, dove i comuni turistici hanno speso centinaia (o migliaia) di miliardi per costruire depuratori rivelatisi, a una certa distanza di tempo, del tutto inutili; ci si è attaccati alla manifestazione del problema senza andare alla radice e senza prenderlo nella sua dimensione globale (“modello di sviluppo” industriale e agricolo della Valle Padana).

Energia, industria chimica, trasporti: alcune proposte

Fatte queste osservazioni prudenziali, vedendo di individuare alcune linee programmatiche sulla questione dell’ambiente nel nostro paese, si tratta di individuare i problemi di grande portata oggettiva, suscettibili di stimolare una mobilitazione, sui quali avanzare rivendicazioni che possano favorire una dinamica di transizione, cioè di presa di coscienza e di lotta anticapitalistica. In base a questi criteri tre settori sembrano particolarmente rilevanti: • l’energia; • i trasporti; • l’industria chimica. Sono importanti presi uno a uno e ancor più nella loro correlazione in quanto c’è evidentemente una stretta connessione tra un certo tipo di sistema di trasporti, un certo tipo di industria chimica, e una certa quantità e qualità di richiesta di energia, e così via. Per tutti e tre i settori una sensibilità di massa esiste, sia pure in misura diversa, più viva per la chimica e l’energia, a causa dei vari disastri, e che si è già espressa in mobilitazioni e campagne politiche, meno forse rispetto al problema dei trasporti; qui è certamente sentito il disagio per l’inquinamento atmosferico e gli altri guasti prodotti dalle auto specie nelle grandi città, ma non si è ancora giunti, a livello di massa, a mettere in discussione l’auto stessa, anzi. Tuttavia è semplicemente impensabile qualsiasi programma di ristabilimento di un ambiente vivibile che non rimetta in discussione l’intero sistema dei trasporti, ribaltando l’impostazione attuale e dando la priorità ai trasporti pubblici e ai mezzi collettivi, alle ferrovie — elettriche — rispetto alle autostrade, come parte fondamentale di una più generale trasformazione del nostro modo di vivere. Lo stesso ragionamento vale ovviamente per gli altri due settori che sono strategici non solo nel sistema attuale, ma anche per qualsiasi progetto di cambiamento. Le indicazioni programmatiche che possiamo avanzare sono evidentemente di carattere propagandistico, i contenuti specifici sono diversi nei tre casi ma sempre riconducibili alla logica del programma di transizione. Nel caso della chimica la rivendicazione dell’esproprio senza indennizzo, della nazionalizzazione e riconversione sotto il controllo dei lavoratori, sempre ribadendo che quest’ultimo è l’elemento determinante, ha una sua forza logica che dovrebbe favorirne la comprensione, data la gravità dei guasti prodotti da una chimica in mano ai privati e fuori di ogni controllo, e data la refrattarietà dimostrata ripetutamente dai monopoli chimici a prendere essi stessi misure di riconversione. La necessità del controllo dei lavoratori come elemento determinante, oltre che a motivi politici di ordine generale è dovuta al fatto che il settore pubblico della chimica non si comporta molto meglio di quello privato per cui la sola indicazione di passaggio dall’uno all’altro non dà alcuna garanzia di una reale possibilità di soluzione dei problemi.

Un caso particolarmente evidente a questo proposito è quello della Farmoplant, dove esiste un piano per la riconversione ad altre attività, elaborato da forze ambientaliste locali (Gruppo di lavoro dell’assemblea permanente dei cittadini di Massa e Carrara — Medicina democratica – movimento di lotta per la salute –), che, oltre a fornire servizi utili, salvaguarda e aumenta l’occupazione ed ha ricevuto un finanziamento dalla Cee, ma è stato finora del tutto ignorato dalla Montedison e dalle autorità di governo locali e nazionali. In un testo di carattere generale non ci si può soffermare troppo su un caso particolare, tuttavia la vicenda della Farmoplant merita un’attenzione particolare come caso emblematico per vari aspetti. Per questo accenniamo brevemente ai principali punti del progetto di riconversione, che sono: un sistema di produzione e distribuzione dell’energia mediante teleriscaldamento per il territorio; la realizzazione di un centro nazionale di ricerche per le bonifiche e la prevenzione ambientali; la realizzazione di un centro per il recupero della marmettola e per la valorizzazione del marmo e delle sue applicazioni; la realizzazione del servizio pubblico di raccolta differenziata e riciclaggio dei rifiuti urbani di Massa Carrara e Montignoso; la realizzazione di un servizio di ristorazione collettiva per il territorio. Il progetto, con dati particolareggiati è contenuto in una pubblicazione a cura del Gruppo di lavoro dell’assemblea permanente e di Medicina democratica che da anni conducono una meritoria attività di ricerca e di lotta contro la Montedison. I contenuti tecnici di un programma per gli ultimi due settori sono patrimonio abbastanza comune sia di forze che si richiamano al movimento operaio sia di forze ambientaliste: • per quanto riguarda l’energia si tratta di combinare l’uso più razionale (il “risparmio” e l’“efficienza” energetica), con il ricorso a fonti diversificate, soprattutto a quelle rinnovabili e, in particolare all’energia solare che appare, per molti aspetti, quasi l’unica speranza per una soluzione ecologica del problema energia; • per quanto riguarda i trasporti si tratta di combinare il ricorso a mezzi di trasporto collettivi elettrici e su rotaia, a scapito delle auto individuali e degli autocarri (evidentemente non la loro abolizione) con il ricorso al “risparmio” di viaggi (molti spostamenti sono inutili o dovuti a uno sviluppo caotico degli insediamenti industriali, commerciali, ecc.). Anche solo da questi pochi cenni schematici appare l’enormità dei problemi, degli interessi e delle resistenze che ci si trova di fronte e che solo un’enorme mobilitazione di massa può vincere; ne risulta ancora confermato il ruolo centrale, assolutamente imprescindibile, della classe operaia. L’elemento comune di un programma per i tre settori nella logica del programma di transizione è il controllo dei lavoratori e la mobilitazione diretta, l’autorganizzazione degli interessati attorno ai lavoratori stessi, come strumento indispensabile per una soluzione vittoriosa del problema. Quelle che avanziamo sono, beninteso, indicazioni di carattere propagandistico, che non possono trovare applicazione nella situazione contingente o in ogni mobilitazione parziale. Possono diventare credibili come indicazioni concrete solo in una situazione di grande ascesa di un movimento di massa, di mobilitazioni generali in cui si pongano l’esigenza e la possibilità di sbocchi politici generali; non è dunque la situazione attuale o del prossimo futuro. Tuttavia, anche avanzarle nella situazione attuale ha un’utilità per indicare, magari a settori ristretti, un metodo, una via e, soprattutto, la necessità di soluzioni d’insieme e l’insostituibilità del soggetto sociale che di queste soluzioni può essere il portatore. Inoltre, anche nella situazione attuale, alcune di queste indicazioni possono trovare ascolto presso settori di massa in occasione di mobilitazioni parziali ma importanti, come possono esserci su questioni direttamente connesse all’ambiente (vicenda dell’Acna, ancora Farmoplant, ecc.), o sul “piano di ristrutturazione” delle ferrovie con la previsione di un taglio di 40.000 posti di lavoro, o ancora su altre questioni riconducibili a queste tematiche.

Generale e particolare

Le indicazioni che abbiamo sommariamente esposto sono di carattere generale, ma le manifestazioni del disastro ambientale sono il più delle volte particolari. Il più delle volte anche la coscienza delle persone coinvolte non va al di là del problema locale ed esige una soluzione a questo. Da qui nasce il problema di come collegare le indicazioni generali ai casi particolari; è un problema che si pone ad es. in occasione di fabbriche chimiche che inquinano (Farmoplant, Acna, ecc.). La soluzione che è stata avanzata dalle varie componenti del movimento ambientalista in questi casi: la chiusura della fabbrica, richiesta con o senza un referendum popolare, non è priva di contraddizioni e suscita interrogativi e perplessità. E un’impostazione che non si può condividere, se è una linea generale, per due ordini di motivi: • perché attacca le singole manifestazioni del problema, caso per caso, senza andare alle radici, alle cause di fondo, alle connessioni nazionali e internazionali (la fabbrica eventualmente chiusa può essere ricostruita da qualche altra parte, nel Sud dell’Italia o del mondo, ecc.); • perché implica una scarsa considerazione delle condizioni dei lavoratori, al di là delle formulazioni verbali.

Per la nostra impostazione programmatica tutti e due gli aspetti sono di fondamentale importanza, e la difesa dei lavoratori è una condizione prioritaria. Dovremmo quindi, in generale, contrapporre alle proposte di pura e semplice chiusura quella dell’esproprio e riconversione sotto il controllo dei lavoratori. Questa posizione generale non implica necessariamente l’opposizione a qualsiasi proposta di chiusura di una fabbrica; ci possono essere infatti dei casi in cui questa appare l’unica soluzione nell’immediato o a breve termine. Pensiamo ad esempio al caso dell’Acna, una storia di inquinamento che va avanti da quasi un secolo, in cui le promesse di riconversione sono state pressoché infinite nel corso dei decenni trascorsi, e non sono quindi più credibili, ed anche le strutture sindacali sono scarsamente credibili per il loro comportamento opportunistico nel corso degli stessi decenni. Ma anche in un caso di questo genere non dovremmo semplicemente accettare la chiusura della fabbrica ma rivendicare la possibilità di accettare la chiusura nel quadro di un piano di riconversione del settore, con i criteri che indichiamo, nel quale quindi anche i lavoratori della fabbrica in questione possano avere ricollocazione produttiva. Un altro problema particolare è posto dall’uso del referendum come strumento per la soluzione di certi problemi (Farmoplant, ecc.). Anche in questo caso ci sono dei problemi, in quanto il referendum appare uno strumento parziale e per molti versi inadeguato. Altri aspetti, peraltro, sono positivi. Non si tratta quindi di opporsi ma, se del caso, di partecipare con atteggiamento critico, valorizzando gli aspetti positivi, in particolare l’aspetto di pronunciamento democratico, il fatto di dare direttamente la parola alla gente, ma criticando nello stesso tempo il carattere limitato, insufficiente dello strumento e la necessità di strumenti che permettano un intervento molto più diretto e decisivo della gente nelle decisioni e nella gestione delle cose importanti. Questo oltre a sostenere, naturalmente, i nostri contenuti programmatici. Come criterio generale il nostro intervento nelle situazioni particolari dovrebbe ispirarsi alle indicazioni generali, avanzando quindi proposte che non siano in contraddizione con la logica di quelle. Crediamo che le indicazioni accennate qui possano essere esemplificative in tal senso. Confidiamo che il dibattito congressuale porti molti arricchimenti su questo come su tutti gli altri aspetti del problema.

BIBLIOGRAFIA GENERALE RAGIONATA

Nota del 14 agosto 2009.

Pubblico questa bibliografia qual è stata concepita venti anni fa per il libro Marxismo ed ecologia, con l’integrazione aggiunta nel 2000. E’ mia intenzione, tuttavia, di rivedere e integrare ulteriormente questa bibliografia generale, a partire dalle bibliografie curate in questi anni per altri lavori, per farne uno strumento sempre più ricco e utile per temi quali il marxismo e il suo rapporto con l’ecologia e le questioni ambientali in generale; l’ecologia scientifica, l’ecologia politica e i movimenti ambientalisti; le relazioni economia-ambiente, l’economia ecologica, le politiche ambientali; i rapporti fra il movimento operaio e il movimento comunista e l’ecologia e le questioni ambientali in genere; le implicazioni filosofiche ed etiche della crisi ambientale, ecc. Segnalerò le nuove aggiunte con un doppio asterisco (**). Questo è essenzialmente uno strumento di lavoro che viene condiviso con il lettore interessato. Si può consultare e utilizzare in proprio singole indicazioni librarie liberamente. Eventuali utilizzi della bibliografia in blocco o di parti significative di essa (specie dei commenti) sono ammessi, purchè non a fine di lucro, a condizione di citare l’autore e la fonte.

La bibliografia che segue non ha alcuna pretesa di completezza. Più modestamente risponde a due finalità: 1) dare le indicazioni bibliografiche complete di tutte le opere citate nel testo; 2) suggerire un percorso di letture per chi voglia approfondire personalmente i molti temi che s’intrecciano nella riflessione su marxismo e questione ambientale. In buona misura, i titoli che vengono qui suggeriti altro non sono che tracce dei percorsi compiuti da coloro che hanno lavorato a questa riflessione, ne riflettono i pregi (se ci sono) e i limiti. Tuttavia molti dei titoli che compaiono qui sotto contengono delle ricche bibliografie, sia generali sia su temi particolari, alle quali rimandiamo coloro che sono intenzionati ad approfondire i singoli temi o lo stesso problema generale.

Nota aggiuntiva (agosto 2000) La bibliografia è stata sostanzialmente integrata con l’indicazione di nuovi titoli (preceduti da un asterisco *) di scritti — usciti in genere nell’ultimo decennio — che rappresentano delle integrazioni, degli approfondimenti o degli sviluppi, a volte di grande interesse, rispetto ai temi affrontati nel nostro scritto del 1989. Ho incluso nell’elenco i miei scritti più recenti su questi argomenti.

Opere di Karl Marx e Friedrich Engels

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1977. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1970. – Certamente migliore e meglio tradotta quest’ultima edizione. I Manoscritti sono un’opera fondamentale della formazione del pensiero di Marx, vero e proprio crogiolo di idee che prenderanno forma compiuta nelle opere successive. Scritti a Parigi tra il marzo e il settembre del 1844 (ma pubblicali solo nel 1932), nel periodo successivo alla pubblicazione dei “Deutsch-französische Jahrbücher” (Annali franco-tedeschi) ai quali collabora anche Engels, nei Manoscritti Marx fa i conti con le fonti del suo pensiero: Feuerbach, Hegel, gli economisti classici (in particolare Smith, Ricardo, Say) e i pensatori socialisti e comunisti francesi. Sono famosi per l’analisi che Marx vi compie dell’alienazione del lavoro nella società capitalistica. Ma in realtà essi contengono in nuce, in forma ancora eminentemente filosofica, tutti i maggiori temi del pensiero marxiano: la critica dell’economia politica, la critica del comunismo babuvista (qui chiamato comunismo “rozzo”), la concezione materialistica della storia, la critica dell’idealismo hegeliano congiunta al recupero del metodo dialettico, l’individuazione del proletariato come soggetto storico che sopprime l’alienazione del lavoro nel comunismo. Il tema del rapporto tra l’uomo e la natura ritorna più volte in diversi contesti. La lettura dei Manoscritti si presenta ostica per chi non abbia una qualche familiarità con i temi e il linguaggio della filosofia hegeliana. Karl Marx – Friedrich Engels, La sacra famiglia, in Marx – Engels, Opere complete. Vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972.– Prima opera comune di Marx ed Engels, anch’essa di polemica verso i “giovani hegeliani”, fu scritta tra il settembre e il novembre del 1844 e fu pubblicata all’inizio dell’anno successivo.

Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, IV, Editori Riuniti, Roma, 1972. – Engels scrisse quest’opera tra la fine del 1844 e il marzo del 1845, dopo il suo soggiorno inglese del 184244. Un’analisi di “ecologia umana” sull’habitat delle masse lavoratrici alla metà del XIX secolo. Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx – Engels, Opere complete, vol. V, Editori Riuniti, Roma, 1972.– Scritte a Bruxelles nella primavera del 1845, pubblicate da Engels nel 1888. Undici “tesi” che riassumono in forma concentrata, fulminante, le critiche di Marx alla filosofia di Feuerbach e definiscono a positivo la concezione dell’attività sensibile umana, della prassi. Karl Marx – Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1977. – Come Marx stesso scrive nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), con quest’opera, scritta a quattro mani tra la fine del 1845 e l’autunno del 1846 (ma anch’essa fu pubblicata integralmente solo nel 1932), egli ed Engels intesero “fare i conti con la (propria) anteriore coscienza filosofica”. In effetti l’ldeologia tedesca è da molti considerata la prima opera “marxista”. In essa viene formulata la concezione materialistica della storia che serve da base per la polemica filosofica contro Feuerbach e i “giovani hegeliani” e per la critica del “socialismo tedesco”. Il tutto è piuttosto voluminoso ma la parte fondamentale sono le prime 70 pagine in cui i due espongono il loro punto di vista. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, con introduzione di Maurice Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1974. – Pubblicata nel 1859, doveva essere un’anticipazione del Capitale, la cui pubblicazione ritardò invece sempre più. Di particolare interesse la Prefazione nella quale Marx presenta in forma sintetica ma sistematica il materialismo storico. Qui compare anche la distinzione ormai scolastica tra struttura economica della società e sovrastruttura, e l’elenco dei diversi modi di produzione che, “a grandi linee, marcano il progresso della formazione economica della società”. In effetti, quest’opera segna l’inizio della pubblicazione dei risultati maturi a cui è giunta la riflessione sistematica di Marx sul modo di produzione capitalistico, riflessione che ha il suo laboratorio e crogiolo nei Grundrisse, ovvero: Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), a cura di Enzo Grillo, La Nuova Italia, Firenze, 1968. – Si tratta dei quaderni, non destinati alla pubblicazione, in cui Marx volle “mettere in chiaro almeno i lineamenti fondamentali (Grundrisse)” della sua analisi prima di procedere al lavoro sistematico destinato alla pubblicazione. Essi sono dunque un gigantesco abbozzo e un’anticipazione dei temi del Capitale, ma contengono a volte degli sviluppi che nell’opera definitiva non hanno trovato posto (ad esempio la parte sulle Forme che precedono la produzione capitalistica o alcuni passi sulle macchine e sull’applicazione della scienza alla produzione). Furono pubblicali dall’istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca in due volumi solo nel 1939 e nel 1941. La traduzione italiana non comparve che nel 1968. Di grande rilievo l’Introduzione (Einleitung) scritta tra l’agosto e il settembre del 1857, già pubblicata da Kautsky nel 1903 (ma con varie imprecisioni) e in italiano nel 1954. Essa delinea in termini generali il metodo d’indagine di Marx, per la conoscenza del quale essa è un testo fondamentale. Karl Marx, ll capitale, a cura di Delio Cantimori, Raniero Panzieri e Maria Luisa Boggeri, introduzione di Maurice Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1974.– I tre libri furono pubblicali nel 1867 da Marx e nel 1885 e nel 1894 da Engels. Il cosiddetto quarto libro, cioè le Teorie sul plusvalore, che comprende i quaderni dedicati alla storia dell’economia politica e alla critica degli economisti precedenti, fu pubblicata da Kautsky in una versione rimaneggiata in tre volumi tra il 1905 e il 1910; l’edizione critica vide la luce solo nel 1954-1961. In italiano sono disponibili diverse edizioni. * Karl Marx, Teorie sul plusvalore, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, XXXIV-XXXVI, Editori Riuniti, Roma, 1979. – L’ideale completamento del Capitale, chiarificano le continuità e le differenze fra Marx e l’economia politica classica, nonché tutta una serie di aspetti della stessa teoria marxiana. * Friedrich Engels, La questione delle abitazioni, Samonà e Savelli, 1971 (1872-73). – Replicando alle proposte di riforma di un proudhoniano, Engels sviluppa temi come le cause della crisi delle moderne metropoli e il problema degli alloggi per gli strati inferiori della popolazione, ricollegandosi ai temi affrontati trent’anni prima nella Condizione della classe operaia in Inghilterra. Friederich Engels, Anti-Dühring, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, XXV, Editori Riuniti, Roma, 1974. – È un’opera polemica contro Eugen Dühring, presuntuoso quanto vacuo pensatore tedesco, sostenitore di un socialismo vago e pseudo scientifico, che ebbe una certa influenza nelle file della socialdemocrazia tedesca negli anni settanta del secolo scorso, costringendo Engels a scendere in campo contro di lui. A questo fine Engels fu obbligato ad approfondire anche temi filosofici e scientifici, di cui peraltro già si stava occupando per la progettata opera Dialettica della natura. L’AntiDühring fu pubblicalo tra il 1876 e il 1878, dapprima a parti sul “Vorwärts”, il giornale ufficiale del partito socialdemocratico, quindi in volume nel 1878. Alcuni capitoli rielaborati da Engels, furono pubblicati in francese nel 1880 con il titolo Socialisme utopique et socialisme scientifique, e successivamente tradotti in molle altre lingue (in italiano l’opuscolo è noto col titolo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza). Quest’opera, a cui anche Marx mise mano, svolse un ruolo importante nella diffusione del marxismo; inoltre essa costituisce il primo tentativo di volgarizzazione e di sistematizzazione del pensiero marxista anche per ciò che riguarda la filosofia, le scienze naturali, ecc. Friedrich Engels, Dialettica della natura, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, XXV, Editori Riuniti, Roma, 1974. – Scritta a varie riprese tra il 1873 e il 1883, quest’opera molto controversa fu pubblicata solo nel 1925 in Urss (il capitolo Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia era apparso nel 1896 sulla rivista di Kautsky, “Die Neue Zeit”). Essa comprende alcuni capitoli più elaborati (ma abbastanza disorganici tra loro) e una gran massa di appunti e di frammenti. Indubbiamente un giudizio complessivo su quest’opera è difficile. Accanto a riflessioni acute e ad anticipazioni geniali, vi sono valutazioni datate e formulazioni infelici, che in effetti si sono prestate a costruire una sorta di filosofia marxista di tipo scolastico e dogmatico ad opera dello stalinismo (il cosiddetto Diamat), con ciò tradendo lo spirito, se non sempre la lettera, di Engels. Karl Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, 1976. – Commento critico alla bozza di programma del partito socialdemocratico tedesco. Un testo chiave del 1875 sui problemi della società di transizione. * Karl Marx, Inchiesta operaia, in “Revue Socialiste”, n. 4, Paris, 1880. – Oggi anche in K. Marx, Economia e socialismo, De Adam editore, Parma, 1969. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma, 1971. Karl Marx. Friedrich Engels, India Cina Russia, a cura di Bruno Maffi, Il Saggiatore. Milano, 1970. – Gli scritti di questa antologia rivelano un’attenzione costante e insospettata per gli aspetti ambientali dei temi sociali e politici che vi sono trattati. * Karl Marx – Friedrich Engels, Carteggio, VI, Edizioni Rinascita, Roma, 1953. Karl Marx – Friedrich Engels, Carteggio, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, XXXVIII-L, Editori Riuniti, Roma, 1972-77.

Opere sul pensiero di Marx ed Engels

Perry Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Bari, 1977 (Considerations on Western Marxism, 1976). * Tiziano Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Nuove edizioni internazionali, Milano, 1989. – La prima edizione di questo saggio. * Tiziano Bagarolo, Marxismo ed ecologia: un’occasione perduta?, in “Il calendario del popolo”, n. 547 e n. 548, Milano, 1991. * Tiziano Bagarolo, Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica perduta?, in “Giano. Ricerche per la pace”, n. 10, Roma, 1992. * Tiziano Bagarolo, Marxismo e questione ecologica, Edizioni Punto rosso, Milano, 1993. – Include i saggi Che cos’è l’ecomarxismo e La politica ecologica dei primi anni della rivoluzione russa. * Tiziano Bagarolo, La dialettica materialistica nella natura e nella storia, in “Proposta per la rifondazione comunista”, n. 9, luglio 1995, Milano. – Una valutazione d’insieme del pensiero di Engels sulla natura e sulle scienze della natura. * Tiziano Bagarolo, Friedrich Engels: una biografia politica, inedito, 1995. * Tiziano Bagarolo (a cura di), Introduzione a Engels, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1995. * Tiziano Bagarolo, L’ecologia di Marx, in “Proposta”, n. 31, Milano, 2001. * Daniela Bencivenga, Karl Marx e la natura, “Il calendario del popolo”, n. 577, Milano, 1994. * Ted Benton (a cura di), The Greening of Marxism, The Guilford Press, New York London, 1996. Raccolta di saggi fra i più significativi degli ultimi vent’anni sul controverso argomento delle relazioni fra marxismo ed ecologia. In questo senso un testo di riferimento, anche se l’ispirazione “ecomarxista” è per più aspetti discutibile. * Ernest Bloch, Sul progresso, Guerrini e Associati, Milano, 1990 (ed. orig. Differenzierungen im Begriff Fort-schritt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1963). * Mauro Borromeo, Podolinskij, un intellettuale organico, in “Quaderni di storia ecologica”, n. 1, Milano, 1991. * Nikolaj Ivanovic Bucharin, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, La Nuova Italia, Firenze,1977 (ed. orig. Teorija istoriceskogo materializma. Populjarnyi ucebnik marksistskoj sociologii, Moskva,1921). * Nikolaj Ivanovic Bucharin, Teoria e prassi dal punto di vista del materialismo dialettico, in N.I. Bucharin e altri, Scienza al bivio (Interventi dei delegati sovietici al Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia. Londra 1931), De Donato, Bari, 1977 (ed. orig. Science at the Cross Roads, Frank Cass and Company Limited, London, 1971). * Marcello Buiatti, Marxismo e biologia: la concezione del vivente e il dibattito ecologico, in “Marx centouno”, n. 4, Milano, 1991. * Paul Burkett, Marx and Nature: A Red and Green Perspective, St. Martin Press, New York, 1999. – Un’opera fondamentale per la ricostruzione analitica accurata e la discussione sistematica del pensiero di Marx e di Engels sui medesimi temi del nostro scritto e per la confutazione dettagliata e puntuale delle critiche ambientaliste rivolte al marxismo sulla base di travisamenti o interpretazioni approssimative o infondate. Un merito preminente del lavoro di Burkett è quello di aver focalizzato l’attenzione non tanto sul Marx filosofo degli scritti giovanili ma sul Marx scienziato del capitale e della critica dell’economia politica, dimostrando indiscutibilmente la forte valenza ecologica dell’intera costruzione teorica del marxismo. * Andrea Carandini, L’anatomia della scimmia. La formazione economica della società prima del capitale, Einaudi, Torino, 1979. – Studio di grande interesse sulle categorie con cui Marx analizza le società precapitalistiche alla luce delle acquisizione dell’antropologia contemporanea. * Guido Carandini, La struttura economica della società, Marsilio, Padova, 1971. – * Guido Carandini, Lavoro e capitale nella teoria di Marx, Mondadori, Milano, 1977 (prima edizione Marsilio, Padova, 1972). – * Mario Cingoli (a cura di), Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico, Teti editore, Milano, 1998. – Il volume raccoglie gli atti del Convegno internazionale di studi organizzato dall’Università statale di Milano nel novembre 1995. Molte le riflessioni e gli spunti interessanti per i temi dal nostri scritto. Peccato che in una tale occasione sia mancata una trattazione sistematica della riflessione engelsiana sulla natura alla luce dei problemi ecologici. * Osvaldo Coggiola, Engels: o segundo violinos, Xama, São Paulo, 1995. – * Osvaldo Coggiola (a cura di), Marx e Engels na Historia, Xama, São Paulo, 1996. – Atti del simposio realizzato dal Dipartimento di storia dell’Università di San Paolo per il centenario della morte di Engels. Numerosi saggi analizzano il valore del pensiero di Marx e di Engels su problemi come la storia e la storiografia, lo stato, l’interpretazione della natura e della scienza, la tecnologia, il femminismo. * Ernst Colman, Breve comunicazione sugli scritti inediti di Karl Marx riguardanti la matematica, le scienze naturali, la tecnologia e la storia di queste discipline, in Bucharin e altri, Scienza al bivio (Interventi dei delegati sovietici al Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia. Londra 1931), De Donato, Bari, 1977 (ed. orig. Science at the Cross Roads, Frank Cass and Company Limited, London, 1971). * Luigi Cortesi, Storia e catastrofe. Considerazioni sul rischio nucleare, Liguori editore, Napoli, 1984. Mario Dal Pra, La dialettica in Marx, Laterza, Bari 1977. – Il testo si segnala per la ricostruzione puntuale del pensiero di Marx sulla dialettica dalle opere giovanili alla Introduzione del 1857 ai Grundrisse.

* Jean-Paul Deléage, La critica eco-marxista dell’economia politica, in “Capitalismo Natura Socialismo”, n. 2, Roma, 1991. * Enrique Dussel, Verso un’etica ecologica a partire da Marx, in Enrique Dussel, Un Marx sconosciuto, Manifestolibri, 1999. – Una corretta interpretazione della teoria del valore di Marx contro i fraintendimenti di una certa critica ecologista e non solo. * Aant Elzinga – Andrew Jamison, Cultural Components in the Scientific Attutude to Nature: Eastern and Western Modes? Research Policy Institute, Lund, Sweden, 1981. – Un saggio, da un punto di vista marxista, che esamina la discussione dell’influenza dei fattori culturali sulla formazione del pensiero scientifico riferito alla natura. * Eleonora Fiorani, Friedrich Engels e il materialismo dialettico, Feltrinelli, Milano, 1971. * John Bellamy Foster, Marx’s Ecology: Materialism and Nature, Montly Review Press, New York, 2000. – Una ricostruzione dell’ispirazione materialistica ed ecologica del pensiero di Marx ed Engels sulla natura e la società, sullo sfondo del contesto intellettuale della loro epoca e dei problemi della nostra; e insieme una critica all’ispirazione spiritualistica di un certo ecologismo contemporaneo. Un’opera che è il naturale complemento di quella di Paul Burkett. * Stefano Garroni (a cura di), Engels cento anni dopo, La citta del sole, Napoli 1995. – Il volume raccoglie alcuni studi comparsi sulle riviste tedesche “Topos” e “Marxistische Blätter” nel centenario della morte di Engels. Robert Havemann, Dialettica senza dogma. Marxismo e scienze naturali, Einaudi, Torino 1965 (Dialektik ohne Dogma. Naturwissenschaft und Weltanschauung, 1964). – La riflessione acuta e competente di uno scienziato e di un marxista su materialismo dialettico e scienze naturali, una denuncia dell’oscurantismo stalinista. * Hans Heinz Holz, Natura e storia in Marx, in G.M. Cazzaniga – D. Losurdo – L. Sichirollo (a cura di), Marx e i suoi critici, QuattroVenti, 1987. – * Istituto Gramsci, Uomo natura società. Ecologia e rapporti sociali, Editori Riuniti, Roma, 1972. – Il volume raccoglie gli atti del convegno dell’Istituto Gramsci tenutosi alle Frattocchie nel novembre 1971. Analisi e dibattiti di grande interesse. * Paul Kägi, Biografia intellettuale di Marx, Vallecchi editore, Firenze, 1968 (Genesis des historischen Materialismus, Europa Verlag, Wien,, 1965 Karel Kosik, Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965 (Dialektika konkrétniho, 1963). – Una interpretazione penetrante e antiscolastica del metodo dialettico alla luce della categoria della totalità concreta, in grado di confrontarsi con gli approcci contemporanei (teoria generale dei sistemi, strutturalismo, funzionalismo, ecc.). Lawrence Krader, Evoluzione, rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico; in Storia del marxismo, vol. I, Einaudi, Torino 1978. * Jean-Pierre Lefebvre (a cura di), Karl Marx – Friedrich Engels, Lettres sur les sciences de la nature (et les mathématiques), Editions sociales, 1974, Paris. * Michel Löwy, Marxismo tra romanticismo e modernità, in “Capitalismo Natura Socialismo”, n. 2, Roma, 1991. * Michel Löwy, La dimensione romantica del marxismo, in “A sinistra”, n. 2, Roma, 1992. * Cesare Luporini, Il rapporto uomo-natura alle origini del marxismo, in “Rivista critica di storia della filosofia”, marzoaprile 1955. – Una lettura precorritrice e a lungo ignorata. Ernest Mandel, La formazione del pensiero economico di Marx, Laterza, Bari, 1973 (La formation de la pensée économique de Karl Marx de 1843 jusqu’à la rédaction du “Capital”. Etude génétique, 1967). – Di grande interesse i capitoli dedicati ai Manoscritti, ai Grundrisse, al tema dell’alienazione e della società socialista. * S. Marcus, Engels, Manchester e la classe operaia, Einaudi, Torino, 1978. * Gustav Mayer, Friedrich Engels, Einaudi, Torino, 1969 (ed. orig. Friedrich Engels, 1935). David McLellan, Karl Marx. La sua vita e il suo pensiero, Rizzoli, Milano, 1976 (ed. orig. Karl Marx his life and thought, McMillan, London, 1973). – Sulla vita e le opere giovanili di Marx. Interessante per la ricostruzione chiara e accessibile dei concetti fondamentali dei Manoscritti del 1844. * Fabio Minazzi – Sebastiano Timpanaro, Dialogo sul materialismo, in “Marx centouno”, nuova serie, n. 4, Milano, 1991. * Benno Müller-Hill, I filosofi e l’essere vivente, Garzanti, Milano 1984 (Die Philosophen und das Lebendige, 1981).– L’autore è un valente genetista che discute in questo saggio la connessione fra scoperte scientifiche, idee filosofiche e ideologie sociali. Particolarmente interessante la presentazione e la discussione del valore conoscitivo della dialettica materialistica engelsiana alla luce delle moderne conoscenze genetiche. Oskar Negt, Il marxismo e la teoria della rivoluzione nell’ultimo Engels, in Storia del marxismo, vol. II, Einaudi, Torino 1979. – Di particolare interesse il par. 4: Origini politiche della dialettica della natura. * Michele Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo. Per una critica del “capitalismo reale”, Erre emme edizioni, Roma, 1993. – Un’analisi approfondita dei problemi socio-ecologici del capitalismo contemporaneo da un punto di vista marxista. La miglior opera del genere pubblicata in Italia nell’ultimo decennio. Un testo di riferimento che deve essere conosciuto. Corredato da una ricchissima bibliografia attenta anche alla letteratura in lingua francese e inglese. * Michele Nobile, Il capitalismo illimitato e il momento escatologico del marxismo, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 23, Roma, 1996. * James O’Connor, L’ecomarxismo. Introduzione a una teoria, Datanews, Roma, 1989 (ed. orig. Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction, 1988). – Una reinterpretazione delle categorie marxiane della crisi per includere la crisi per motivi ecologici. Meritevole il recupero di centralità della categoria marxiana delle “condizioni di produzione”; per il resto l’approccio di O’Connor è viziato da una certa unilateralità “economicistica” ed è tutt’altro che rigoroso nella rilettura di Marx. Questo saggio segnò comunque internazionalmente una ripresa di interesse per il marxismo in relazione alle questioni ambientali. * Howard L. Parsons (a cura di), Marx and Engels on Ecology, Greenwood Press, Westport, Connecticut e London, England, 1977. – La prima, e finora unica (a mia conoscenza), selezione degli scritti di Marx ed Engels sull’ecologia. * Giuseppe Prestipino, Natura e società. Per una nuova lettura di Engels, Editori Riuniti, Roma, 1973. – Una riflessione sull’opera engelsiana che ne segnala l’attualità anche per i problemi ecologici. * Massimo Quaini, Marxismo e geografia, La Nuova Italia, Firenze, 1974. – Esame della dimensione spazio-ambientale del materialismo storico e scoperta delle “condizioni naturali” della produzione. * Roman Rosdolsy, Genesi e struttura del Capitale di Marx, Laterza, Bari, 1974 (). – * Manuel Sacristán, Il lavoro scientifico di Marx e la sua nozione di scienza, in Marx, marxismo, filosofia. Saggi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1988. * Wolfdietrich Schmied-Kowarzik, Il significato della critica marxiana per il padroneggiamento dei nostri attuali problemi ecologici, in “Marx 101”, n. 1-2, Milano, 1985. – Questo studioso tedesco ha attirato l’attenzione sull’influenza esercitata sul pensiero del giovane Marx dalla filosofia della natura di Schelling. Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari, 1973 (ed. orig. Der Begriff der Natur in der Lehre von Marx, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a. M., 1962). – L’interesse dell’autore (della scuola di Francoforte) è fondamentalmente filosofico. Un libro comunque utile per ricostruire i fondamenti del pensiero marxiano ed engelsiano della natura (intesa qui soprattutto nel significato di “mondo esterno” all’uomo e al soggetto piuttosto che nel suo significato di “ambiente”). Non sempre convincente. Interessante il secondo capitolo: “La mediazione sociale della natura e la mediazione naturale della società”. Livio Sichirollo, Dialettica, Mondadori, Milano, 1983. – La dialettica da Platone a Hegel, da Marx a Gramsci. Bibliografia ricchissima. Gianni Sofri, Il modo di produzione asiatico, Einaudi, Torino, 1974. – Ricostruzione magistrale di una “controversia marxista” su un concetto dalla grande valenza politica. * Kannet M. Stokes, Man and the Biospher: toward a coevolutionary political economy, Sharpe, Armonk London, 1994. – * Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri Lischi, Pisa, 1975. – Una riflessione di grande spessore di un autore controcorrente rispetto al clima intellettuale prevalente, fino ad allora, nel marxismo italiano. Nel 1997 è stata pubblicata la terza edizione dalle edizioni Unicopli, Milano. * Maria Turchetto, Categorie economiche ed ecologia, in “Marx centouno”, n. 3, Milano, 1990. * Ferdinando Vidoni, Ruolo delle scienze naturali nel pensiero marxiano, in A. Guerraggio F. Vidoni, Nel laboratorio di Marx: scienze naturali e matematica, Franco Angeli, Milano, 1982. – * Ferdinando Vidoni, Natura e Storia. Marx ed Engels interpreti del darwinismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1985. –

Introduzione all’ecologia e alle scienze naturali

Ecco alcuni titoli di testi in genere piuttosto agili rispetto alla mole, chiari e semplici nel linguaggio e nell’esposizione, pensati a scopo divulgativo, economici nel prezzo, utili per un primo approccio. Alcuni sono corredati da utili bibliografie per chi vuole approfondire. * Tiziano Bagarolo, L’ecologia e la sua storia, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 16, Roma, 1994. – Recensione del libro di Jean-Paul Deléage, Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della natura. * Tiziano Bagarolo, L’ecologia e il rapporto uomo-natura, in Tiziano Bagarolo ed altri, Ecologia, movimenti verdi e capitalismo. Materiali introduttivi su marxismo ed ecologia, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994. Giuseppe Montalenti, Introduzione alla biologia, Editori Riuniti, Roma, 1983. Giuseppe Montalenti, L’evoluzione. Einaudi, Torino, 1982. Eugene P. Odum, EcoIogia, Zanichelli, Bologna, 1987 (Ecology, 1963). Vittorio Silvestrini, Che cos’è l’entropia, Editori Riuniti, Roma, 1985. Ecologia e scienze naturali: approfondimenti Pascal Acot, Storia dell’ecologia, Lucarini, Firenze, 1989 (ed. orig. Histoire de l’écologie, Presse Universitaire de France, Paris, 1988). Peter W. Atkins, Il secondo principio, Zanichelli, Bologna, 1988. Stephen Jay Gould, Questa idea della vita, Editori Riuniti, Roma 1984 (Ever since Darwin, 1977). * Peter Bunyard – Edward Goldsmith (a cura di), L’ipotesi Gaia, Red edizioni, Como, 1992 (ed. orig.: Gaia, the Thesis, the Mechanisms and the implications, Wadebridge Ecological Centre, 1988). Il volume raccoglie un insieme di saggi di grande interesse su una delle ipotesi più controverse del recente pensiero ecologico. * Giorgio Celli (a cura di), Ecosistemi, Le Scienze, Milano, 1990. * Mauro Cerruti – Ervin Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano, 1988. – Raccolta di saggi di diversi studiosi che ha come filo conduttore la ridefinizione degli strumenti scientifici e culturali con cui pensare la natura e il rapporto società-natura, alla luce delle nuove riflessione epistemologiche (teorie dei sistemi, del caos, della complessità) e della crisi ambientale. Barry Commoner, ll cerchio da chiudere, Garzanti, Milano, 1986 (The Closing Circle, 1971; prima edizione italiana 1972).– Opera fondamentale, segna la netta presa di coscienza che i problemi ambientali sono problemi sociali e politici alla cui origine c’è il peccato originale del profitto. Un testo che influenzò la parte migliore del pensiero ecologista degli anni settanta. Laura Conti, Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro e ambiente, Mazzotta, Milano, 1977. Laura Conti, Questo pianeta, Editori Riuniti, Roma, 1983; nuova edizione ampliata 1987 (citiamo da quest’ultima). Laura Conti, Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia. Mondadori, 1988.– Con passione e lucidità la Conti si è battuta per anni per far capire alla sinistra tradizionale l’importanza e i termini della questione ambientale. Ma non ha colto come l’insensibilità ambientale sia una delle facce della strategia di collaborazione di classe degli apparati, non un effetto della collocazione obiettiva della classe operaia. * Robert Edward Cook, Raymond Lindeman and the Trophic-Dynamic Concept in Ecology, in “Science”, n. 198, ottobre 1977. Paolo Degli Espinosa – Enzo Tiezzi, I limiti dell’energia, Garzanti, 1987. – Un testo generale sui problemi dell’energia. Presenta un “piano per un’Italia da 100 Mtep” e appendici sulla disponibilità delle fonti fossili, le piogge acide, l’effetto serra. Ampia bibliografia. * Jean-Paul Deléage, Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della natura, Cuen, Napoli, 1994 (ed. orig. Histoire de l’écologie. Une science de l’homme et de la nature, La Découvert, Paris, 1991). – Una storia dell’ecologia come scienza di frontiera in evoluzione e un contributo a comprendere la natura e l’uomo come sua parte. Un testo di divulgazione scientifica nel senso migliore del termine. * Angelo De Marchi, Ecologia funzionale. L’ambiente e le sue dinamiche, Garzanti, Milano, 1992. – Un testo tra il manuale e il saggio divulgativo, utile per accostarsi in modo rigoroso all’insieme delle problematiche e delle metodologie dell’ecologia. * Jean-Marc Drouin, Réinventer la nature. L’écologie et son histoire, Desclée de Brower, Paris, 1991. – Un saggio sull’ecologia come scienza e sulla sua storia, ricco di spunti di riflessione anche per i non specialisti. Stephen Jay Gould, Il pollice del panda, Editori Riuniti, Roma 1983 (The panda’s thumb, 1980). Stephen Jay Gould, Intelligenza e pregiudizio. Le pretese scientifiche del razzismo, Editori Riuniti, Roma, 1985 (The mismeasure of man, 1981). – Segnaliamo le opere di S. J. Gould (uno dei maggiori paleontologi contemporanei, autore di una riformulazione dell’ipotesi dell’evoluzione – la cosiddetta teoria dell’evoluzione puntiforme – che riscuote crescenti adesioni) perché egli unisce rigore scientifico e passione politica nel combattere le pretese scientifiche dei pregiudizi sessisti, razzisti, classisti ecc. Del primo testo si veda la parte settima, “scienza della società”, dove, tra l’altro, si dà atto ad Engels di aver visto meglio degli studiosi della sua epoca la traiettoria evolutiva dell’uomo – nel capitolo della Dialettica della natura sulla Parte avuta dal lavoro nell’umanizzazione della scimmia, – come avrebbero provato tutte le successive scoperte paleontologiche; e la parte ottava, “Scienza e politica della natura umana”, dove tra l’altro si sviluppa una critica approfondita del determinismo biologico in polemica con E. O. Wilson, Sociobiologia. Del secondo testo si segnalano la confutazione della interpretazione positivistica della teoria dell’evoluzione (la cui responsabilità è fatta risalire a Wallace piuttosto che a Darwin) e la ricostruzione dei tentativi di molti scienziati del secolo scorso e di questo di dare basi scientifiche ai pregiudizi sull’inferiorità intellettuale delle donne, dei neri, degli asiatici, ecc. Alle pretese moderne di dimostrare l’ineguaglianza ereditaria degli uomini è dedicalo il terzo libro. * Jacques Grinevald, L’effet de serre de la Biosphère, in “Stratégies énergetiques, Biosphère & société”, n. 1, Genève, 1990. * Edward J. Kormondy (a cura di), Readings in Ecology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1965. – Importante antologia di saggi che hanno segnato il dibattito ecologico del XX secolo nel mondo anglosassone. * Peter H. Harman, Energia, forza e materia. Lo sviluppo della fisica nell’Ottocento, il Mulino, Bologna, 1984 (ed. orig. Energy, Force, and Matter. The conceptual Development of Nineteenth-Century Physics, Cambridge University Press, Cambridge, 1982). * Ernest Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino, 1990. – Mayr è uno dei massimi biologi e storici della biologia del XX secolo, che non teme di dichiararsi in questi termini a favore di Engels: “Un noto teorico sovietico del marxismo si è riferito ai miei scritti definendoli “puro materialismo dialettico”. Non sono marxista e non conosco la più recente definizione di materialismo dialettico, ma devo ammettere di condividere una parte delle posizioni antiriduzionistiche enunciate da Engels nell’Anti-Dühring, e che lo schema hegeliano di tesi-antitesi-sintesi esercita su di me un forte richiamo”. Edgar Morin, ll paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano, 1974 (Le paradigme perdu: la nature humaine, 1973). Edgar Morin, ll pensiero ecologico, Hopeful Monster, Firenze, 1988 (L’écologie généralisée, 1980 (La Méthode, II: La Vie de la Vie, 1980). – Dai primi anni settanta il sociologo francese ha sviluppato un’opera complessa che cerca di ripensare alla luce dell’ecologia i paradigmi con cui concepiamo la natura, l’organizzazione sociale, la produzione culturale, la natura umana. I risultati sono suggestivi (anche se non sempre convincenti). Giorgio Nebbia (a cura di), La biosfera, Le Scienze, Milano, 1976. * Wolfgang Sachs, La natura come sistema. Per una critica dell’ecologia, in “Linea d’ombra”, n. 61, Milano, 1991. – ? Alberto Simonetta, Ecologia, Boringhieri, Torino 1975. * Vladimir Ivanovic Vernadskij, La biosfera e la noosfera, Sellerio editore, Palermo, 1999. – Volume di grande valore scientifico e storico; pubblica alcuni dei più importanti scritti di Vernadskij a partire dal saggio fondamentale La Biosfera comparso per la prima volta a Leningrado nel 1926 e a Parigi tre anni dopo. * Vladimir Ivanovic Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista, a cura di Silvano Tagliagambe, Edizioni Teknos, Roma, 1994 (Filosofskie mysli naturalista, Nauka, Mosca 1988). – I principali scritti di riflessione metodologica ed epistemologica di Vernardskij, composti fra il 1927 e il 1942 ma pubblicati per la prima volta integralmente solo nel 1988, in piena perestrojka; il volumetto li rende disponibile per la prima volta in una lingua diversa dal russo, arricchiti da una impegnativa introduzione del curatore intitolata Uno scienziato ai confini tra più saperi. * Vladimir Ivanovic Vernadsky, La Géochimie, Alcan, Paris, 1924. – Le lezioni tenute nel 1923 alla Sorbonne di Parigi, in cui si dà conto per la prima volta del concetto geobiofisico di biosfera e se ne illustra la genesi. * Vladimir Ivanovic Vernadsky, La biosfera, Red edizioni, Como, 1993. – Si tratta della prima versione italiana di questo saggio fondamentale, purtroppo in una versione ridotta. Di grande interesse il saggio introduttivo di Jacques Grinevald, Vernadsky e la scienza della biosfera. * Donald Worster, Soria delle idee ecologiche, Il Mulino, Bologna, 1994. (ed. orig. Nature’s Economy. A History of Ecological Ideas, Cambridge University Press, 1985). – Una storia dell’ecologia molto anglosassone, anzi nordamericana, come il clima in cui è stata concepita la prima edizione di quest’opera negli anni settanta (Nature’s Economy. The Roots of Ecology, Sierra Club, San Francisco, 1977). Più che dell’ecologia come scienza analitica si occupa delle idee con cui il mondo moderno, dal Settecento alla fine del XX secolo, ha pensato la natura e il rapporto con essa. In ogni caso una lettura stimolante.

Le società umane e l’ambiente

Perry Anderson, Dall’antichità al feudalesimo, Mondadori, Milano, 1978 (Passages from Antiquity to Feudalism, 1974). Perry Anderson. Lo stato assoluto, Mondadori, Milano, 1980 (Lineages of the Absolutist State, 1974). * Tiziano Bagarolo, Conquista della natura e accumulazione originaria. Riflessioni sulle conseguenze ecologiche dell’invasione europea delle Americhe, prefazione ad Alfred Crosby ed altri, America latina 1492-1992. La conquista della natura, Quaderni di “Quetzal” n. 4, Milano, 1993 (traduzione di The Conquest of Nature, 1492-1992, numero speciale della rivista “Report on the Americas” [v. XXV, 2, settembre 1991] edita a New York dal North American Congress on Latin America). – Il saggio è stato ripubblicato, con modifiche secondarie, in “La contraddizione”, n. 37, Roma, 1993. Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. Einaudi, Torino 1978 (Labor and Monopoly Capital. The Degradation of Work in the Twentieth Century, 1974). – Opera fondamentale sulla “degradazione del lavoro nel ventesimo secolo”, come recita il sottotitolo. * Bernard G. Campbell, Human ecology. The story of our place in nature from prehistory to the present, Aldine Publishing Company, New York, 1985. Diverse forme sociali in rapporto col loro ambiente: un approccio niente affatto riduzionistico, una comparazione sociale e storica con un occhio ai problemi del presente. Vere Gordon Childe, Il progresso nel mondo antico, Einaudi. Tori no, 1963 (What happened in History). – Vere Gordon Childe, L’uomo crea se stesso, Einaudi, Torino 1952 (Man makes himself, 1936).– Opere classiche sulla preistoria e la storia delle civiltà antiche. * Alfred W. Crosby, Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492, Einaudi, Torino, 1992 (ed. orig. The Columbian Exchange. Biological and Cultural Consequences of 1492, 1972). Alfred W. Crosby, Imperialismo ecologico. L’espansione biologica dell’Europa, 900-1900, Laterza, Bari, 1988 (Ecological imperialism. The biological expansion of Europe, 900-1900, 1986). – Un quadro interessante delle trasformazioni ecologiche connesse con diversi momenti della storia umana (la rivoluzione neolitica, l’espansione mondiale dell’Europa borghese dopo le scoperte geografiche del XV-XVI secolo). * Alfred W. Crosby ed altri, America latina 1492-1992. La conquista della natura, Quaderni di “Quetzal” n. 4, Milano, 1993. Jean-Claude Debeir – Jean-Paul Deléage – Daniel Hemery, Storia dell’energia. Dal fuoco al nucleare, Edizioni del Sole-24 ore, Milano,1987 (ed. orig. Les servitudes de la puissance. Une histoire de l’énergie, Flamarion, Paris, 1986. – Opera fondamentale sul nesso tra società umana, modi di produzione, risorse e sistemi energetici; propone la nostra medesima impostazione marxista. Ricchissima la bibliografia. Jean-Paul Deléage, La nature: un paradigme introuvable, in “Critique Communiste”, n. 7, maggio-giugno 1976. – Una riflessione sistematica e approfondita da un punto di vista marxista. Completata da una ricca bibliografia di testi accessibili in francese e inglese. Questo saggio di J. P. Deléage è stato la guide-line della nostra riflessione ed è stato tenuto come traccia per l’elaborazione del secondo capitolo. * Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino, 1998 (ed. orig. Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies, Norton & Company, New York, 1997. – Un testo a cavallo fra antropologia, storia, ecologia e geografia che cerca di spiegare a partire dai grandi fattori ambientali le tendenze secolari della storia umana almeno fino all’unificazione dell’ecumene ad opera di Colombo. Qua e là si affacciano i rischi di una sorta di determinismo ambientale; nel complesso si tratta di un’opera di “materialismo storicoecologico”. * Eleonora Fiorani, Il naturale perduto. Una crisi ecologica nella modernità, Edizioni Dedalo, Bari, 1989. – Il rapporto con l’ambiente naturale, in particolare con la vegetazione, nelle culture primitive e la sua perdita nella modernità; il rapporto con il paesaggio e il giardino come tentativi di ricostruire il “naturale perduto”. * Eleonora Fiorani, Selvaggio e domestico. Tra antropologia, ecologia ed estetica, Muzzio, Padova, 1993. – La domesticazione della natura fra tecnica, ecologia e cultura dalla preistoria alla modernità. * Eleonora Fiorani, Il mondo senza qualità. Per una geo-filosofia dell’oggi, Lupetti, Milano, 1995. – Una riflessione filosofica sulla contemporaneità fra geografia ed ecologia, fra antropologia ed epistemologia. * Vito Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Laterza, Bari, 1992. – * Marvin Harris, La nostra specie, Rizzoli, Milano, 1991 (Our Kind, Harper & Row, New York, 1989). – La storia evolutiva e socio-culturale dell’umanità nella divulgazione di uno dei massimi antropologi contemporanei, propugnatore di un approccio di “materialismo culturale” che ha strette analogie col “materialismo storico”. * William McNeil, Plagues and Peoples, Anchor-Doubleday, Garden City N.Y., 1976. – Saggio di grande interesse sulla dipendenza delle popolazioni umane dalle epidemie e dai loro agenti e sull’influenza che questi esercitano sulla storia. * William McNeil, Uomini e parassiti. Una storia ecologica, Il saggiatore, Milano 1979 (The human condition. An ecological and historical view, Princepton University Press, 1979). Carolyn Merchant, La morte della natura, Garzanti, Milano, 1988 (ed. orig. The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution, Harper and Row, San Francisco, 1980). – Un testo di grande interesse, che intreccia piani d’analisi diversi (modi di produzione, forme culturali, sviluppi scientifici), in cui si esamina in parallelo la sorte delle donne e quella della natura nel passaggio che porta alla società moderna. Serge Moscovici, La società contro natura, Astrolabio, Roma, 1981 (ed. orig. La societé contre nature, Union Géneral d’Édition, Paris, 1972). Joan Robinson, Libertà e necessità. Un’introduzione allo studio della società, Einaudi, Torino, 1972 (Freedom and necessity. An Introduction to the study of society, 1970). * Karl-Wilhelm Weeber, Smog sull’Attica. I problemi ecologici nell’antichità (ed. orig. Smog über Attika, Artemis Verlag, Zürich München, 1990), Garzanti, Milano, 1991. – I problemi ambientali e la loro percezione presso i greci e nel mondo romano. * Lynn White Jr., Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica, in “Il Mulino”, n. 226, marzo-aprile 1973 (ed. orig. The Historical Roots of the Ecological Crisis, in “Science”, 155, 1967). – Il dualismo uomo-natura e la svalutazione della seconda ad opera del cristianesimo hanno condotto il pensiero occidentale a disconoscere la solidarietà fra la specie umana e il mondo naturale e a far prevalere un approccio freddamente utilitaristico di sfruttamento della natura. Giudizio già espresso anche da Engels nella Dialettica della natura.

Ecologia, economia e ambiente nel cosiddetto “socialismo reale”

* Tiziano Bagarolo, Ecologia e Rivoluzione sovietica, in “Il calendario del popolo”, n. 573, Milano, 1994. * Tiziano Bagarolo, Lenin sconosciuto. La rivoluzione sovietica e ecologia, in “Marxismo rivoluzionario”, n. 3, Milano, 2004. * Kendall E. Bailes, Science and russian culture in an age of revolutions: V.I. Vernadskij and his scientific school, 18631945, Undiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1990. Biografia fondamentale dello scienziato e pensatore russo più importanti della prima metà del XX secolo. * A.I. Berg – E.K. Fëdorov – I.T. Frolov – P.L. Kapitsa, L’uomo e l’ambiente, Editori Riuniti, Roma, 1974. – Il volume raccoglie gli interventi a una tavola rotonda sul tema dei rapporti fra l’uomo e l’ambiente organizzata nel 1973 dalla rivista ufficiale sovietica “Voprosty filosofii” a cui sono intervenuti scienziati, economisti, filosofi e storici. Jean-Paul Deléage, La neige était noire, in “Inprecor”, n. 280, Paris, 1989. – Una presentazione sintetica dei problemi della crisi ambientale nei paesi dell’Est. * Loren Graham, Science and Philosophy in the Soviet Union, A. Knopf, New York, 1972. * David Joravsky, The Lysenko Affair, Harvard University Press, Harvard, 1970. * Danijl Nicolaevic Kashkarov, Environment and Community. Fundamentals of Synecology, New York State Museum, Albany, N.Y., 1935 (ed. orig. Sreda i soobshchestvo, Medgiz, Mosca, 1933). – Si tratta della traduzione inglese del primo manuale sovietico di ecologia. L’autore è uno degli studiosi di punta dell’epoca. Una lettura di estremo interesse sia per constatare il livello teorico d’avanguardia a cui era giunta l’ecologia sovietica prima della repressione staliniana sia l’importanza teorico-pratica ad essa attribuito dagli studiosi più avvertiti ai fini della pianificazione razionale dello sviluppo economico socialista. Boris Komarov, Il rosso e il verde. La distruzione della natura in Urss, Edagricole, Bologna, 1983 (Le Rouge et le Vert, la destruction de la nature en Urss, 1981). – Il testo circolava in Unione Sovietica una decina d’anni fa grazie al samizdat. * Dominique Lecourt, Il caso Lysenko, Editori Riuniti, Roma, 1977 (Lyssenko. Histoire réele d’une “science proletarienne”, 1976). – Una analisi marxista del fenomeno Lysenko e del suo rapporto con il materialismo dialettico in versione staliniana. * Michael Löwy, Stalinist Ideology and Science, in Tariq Alì (a cura di) The Stalinist Legacy, Penguin Books, 1984. * Zhores A. Medvedev, L’ascesa e la caduta di T. D. Lysenko, Mondadori, Milano, 1971 (The Rise and Fall of T. D. Lysenko, 1968). * Zhores A. Medvedev, L’Oriente sarà verde? Come uscire dal socialismo inquinatore, in “Il Mulino”, 336, Bologna, 1991. – Un articolo informato sulla politica dell’ambiente in Urss da Kruscev a Gorbaciov e sulle ragioni del suo sostanziale fallimento. Il sostanziale disinteresse della burocrazia per l’applicazione di normative in astratto molto avanzate fra le principali ragioni del disastro. * Silvano Tagliagambe, Scienza e marxismo in Urss. Loescher editore, Torino, 1979. Lev Trotskij, L’economia sovietica in pericolo alle soglie del secondo piano quinquennale, in Scritti 1929-1936, Mondadori, Milano, 1970. Lev Trotskij, La rivoluzione tradita, Rizzoli, Milano, 1982 Lev Trotskij, Programma di transizione, Nuove edizioni internazionali, Milano, 1981. * Douglas Robert Weiner, Models of Nature. Ecology, Conservation and Cultural Revolution in Soviet Russia, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1988. – Un testo di importanza capitale per la conoscenza delle vicende dell’ecologia e della conservazione della natura in Unione sovietica. Una lettura affascinante, che sconvolge i luoghi comuni consolidati e restituisce un quadro di relazioni insospettate fra il nuovo potere rivoluzionario e una fiorente comunità di studiosi impegnati sul terreno della conservazione. Una relazione tutt’altro che tranquilla ma in ogni caso positiva per un decennio, ossia fino alla “normalizzazione” staliniana attuata da personaggi come Prezen e Lysenko. * Douglas Robert Weiner, A Little Corner of Freedom. Russian Nature Protection from Stalin to Gorbachëv, University of California Press, Berkeley Los Angeles London, 1999. – Seguito e conclusione dell’opera precedente, ricostruzione del percorso carsico della lotta per la protezione della natura in Unione sovietica in un periodo di oltre mezzo secolo, dalla repressione staliniana, attraverso il disgelo krusceviano, fino all’attivismo del periodo della stagnazione e del dopo Chernobyl. Racconto avvincente di una vicenda finora sconosciuta e ricca di passaggi inaspettati e nel contempo esperienza storica da cui partire per definire un programma per un comunismo ecologico capace di trarre le lezioni del passato.

Economia e ambiente

* Tiziano Bagarolo, L’economia ecologica. Alcuni cenni introduttivi, in Tiziano Bagarolo ed altri, Ecologia, movimenti verdi e capitalismo. Materiali introduttivi su marxismo ed ecologia, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994. * Tiziano Bagarolo, Economia e ambiente: il paradigma contestato, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 20, Roma, 1995. – Recensione del libro di Mercedes Bresso, Per un’economia ecologica. * Tiziano Bagarolo, Produzione e ambiente: paradigmi a confronto, inedito, 1996 (pubblicato in Brasile da O. Coggiola in un qualche volume che non riesco a ritrovare). Jean-Philippe Barde – Emilio Gerelli, Economia e politica dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1980 (Economie et politique de l’énvironnement, 1977). – Un testo che illustra l’approccio neoclassico ai problemi e alla politica dell’ambiente. Gli autori sono consulenti di organismi internazionali (Gerelli e stato il consulente per la politica ambientale del governo Goria). Mercedes Bresso, Pensiero economico e ambiente, Loescher, Torino, 1982. – Il testo ricostruisce il dibattito contemporaneo sui problemi ambientali soprattutto nell’ambito dell’approccio tradizionale. Interessante per l’excursus storico dai fisiocratici a Marx, a Georgescu-Roegen (anche se il punto di vista di Marx e presentalo in modo riduttivo). Ampia bibliografia. * Mercedes Bresso, Per un’economia ecologica, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1993. – Testo interessante come rassegna del dibattito che da alcuni decenni contrappone all’economia ufficiale una corrente di economisti che ne rimette in discussione i presupposti metodologici ed analitici e le soluzioni operative. Meno riuscito nelle sue pretese di proporre un “nuovo paradigma”. Del tutto infondata, infine, l’interpretazione dei contenuti e del ruolo storico della teoria marxiana del valore in rapporto al contributo della natura ai processi produttivi umani. * Silvana De Gleria, Prodotto netto ed energia netta (ovvero: dogma fisiocratico e dogma energetico), in “Economia politica”, II, n. 2, 1985. * Nicholas Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts e London, England, 1971. – Opera di riferimento per tutto il dibattito su economia e ambiente. Purtroppo non ancora disponibile in italiano. * Nicholas Georgescu-Roegen, Analisi economica e processo economico, Sansoni. Firenze, 1973 – Raccoglie diversi saggi scritti tra il 1960 e il 1971. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Boringhieri, Torino, 1982 (ed. orig. Energy and Economic Myths, Pergamon Press, New York e Oxford, 1976). – L’opera di Georgescu-Roegen è il tentativo più radicale di rimessa in questione dell’approccio economico tradizionale (quella che egli chiama l’“economia standard”). Per certi aspetti la sua “bioeconomia” riscopre la distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio (valore economico e prezzo, per Georgescu-Roegen). Peraltro Georgescu-Roegen dimostra di non aver minimamente compreso questa e altre somiglianze tra la sua prospettiva analitica e quella di Marx. Sulla personalità e l’opera intellettuale di questo autore si può vedere anche Stefano Zamagni, Georgescu Roegen, Etas libri Milano, 1979. Orio Giarini, Dialogo sulla ricchezza e il benessere, rapporto al Club di Roma sullo sviluppo economico, Mondadori, Milano, 1981 (DiaIogue on Wealth and Welfare. An Alternative View of World Capital Formation, 1980). – Un testo che illustra l’inadeguatezza degli approcci economici tradizionali alla luce dell’emergente crisi ecologica e propone una ridefinizione della nozione di “valore” che includa i valori negativi (“valore dedotto”), pur senza rompere con il paradigma tradizionale. * K. W. Kapp, The social costs of the private enterprise, Harvard University Press, Harvard ,1950. – Opera pionieristica apparsa nel 1950, mai tradotta in italiano. Una critica ai fondamenti dell’economia neoclassica. * Karl Wiliam Kapp, Economia e ambiente. Saggi scelti. Otium, Ancona, 1991. – Per la prima volta disponibili in italiano alcuni saggi di un precursore dell’economia ecologica, ovvero della corrente del pensiero economico che contesta presupposti e conclusione dell’approccio economico tradizionale, nel campo delle relazioni fra il sistema economico e l’ambiente. Segnalo, fra gli altri, il saggio Gli indicatori ambientali come indicatori di valori d’uso sociali che non a caso prende spunto da alcune riflessioni di Marx e di Engels. * Rita Madotto, L’ecocapitalismo. L’ambiente come grande business, Datanews, Roma, 1993. – Una rassegna delle politiche ambientali capitalistiche e delle proposte “verdi” di riforma e della loro radicale insufficienza. Contributo prezioso di una studiosa purtroppo prematuramente scomparsa. * Juan Martinez-Alier, Economia ecologica. Energia, ambiente, società, Garzanti, Milano, 1991 (ed. orig. Ecological economics. Energy, Environment and Society, Basil Blackwell, Oxford, 1987). – Una rassegna degli economisti “eretici” che fra il 1880 e il 1940 hanno trattato i fenomeni economici sotto il loro aspetto fisico energetico, mettendo in rilievo le ineliminabili implicazioni ambientali dei processi economici. * René Passet, L’economia e il mondo vivente, Editori Riuniti, Roma, 1997 (ed. orig., L’économique et le vivant, Payot, Paris, 1979). – * Charles Perrings, Economia e ambiente, Etaslibri, Milano, 1992 (ed. orig. Economy and Environment, Cambridge University Press, Cambridge, 1987. – Saggio teorico fra i più stimolanti; propone un modello euristico per analizzare le interrelazioni fra l’economia e l’ambiente a partire dal livello della “produzione in generale” e reinterpretando il mutamento tecnologico come controllo. Si segnala per la critica radicale alle teoria e alle politiche ambientali del’approccio dominante e per spunti teorici e pratici che non mancano di consonanze (ma anche di dissonanze) col marxismo. * Sandro Pignatti – Bruno Trezza, Assalto al pianeta. Attività produttiva e crollo della biosfera, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. – Molto interessante per l’approccio analitico. Interessante, anche se in modo diverso, la “filosofia politica” dei due autori, docenti universitari rispettivamente di Ecologia e di Economia politica all’Università di Roma, che sembrano condividere con Hans Jonas l’idea che la crisi ambientale richiede l’uscita dal capitalismo, ma verso una società autoritaria. * Sergej Podolinskij, Le socialisme et l’unité des forces physiques, in “Revue Socialiste”, n. 8, Paris, 1880. * Sergej Podolinskij, Il socialismo e l’unità delle forze fisiche, in “La Plebe”, XIV, nuova serie, n. 3 e n. 4, Milano, 1881 (ora anche in “Quaderni di storia ecologica”, n. l, Milano, 1991). * Sergej Podolinskij, Menschliche Arbeit und Einheit der Kraft, in “Die Neue Zeit”, I, Stuttgart, 1883. * Carla Ravaioli, Il pianeta degli economisti, ovvero l’economia contro il pianeta, Isedi, Torino, 1992. – Il libro è una sorta di inchiesta sulla percezione dei problemi dell’ambiente nella comunità degli economisti attraverso l’intervista a 28 fra i suoi esponenti più in vista. Ne esce un quadro istruttivo sul “silenzio” dell’economia ufficiale (ma sarebbe meglio dire sull’analfabetismo e la presunzione che la caratterizza in tema di ambiente) ma anche sull’inquietudine e la ricerca di nuovi approcci delle correnti che si è soliti indicare con i termini “economia ecologica” ed “ecomarxismo”. * Claudia Rosani, L’industria dell’ecobusiness, “Capitalismo Natura Socialismo”, n. 9, Roma, 1993. * Claudia Rosani, Produzione e ambiente nella teoria economica dominante, in Tiziano Bagarolo ed altri, Ecologia, movimenti verdi e capitalismo. Materiali introduttivi su marxismo ed ecologia, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994. Ernst F. Schumacher, Piccolo è bello, Mondadori, Milano, 1977 (Small is Beautiful, 1973). – Critica profonda ai modi di essere dell’economia contemporanea. Ha il limite di porsi da un punto di vista essenzialmente idealistico (propone un cambiamento nella nostra “metafisica” e un ritorno alla saggezza delle migliori tradizioni cristiana e buddista). I temi della crisi ambientale * George Axtone (a cura di), Il rischio nucleare. Analisi del rapporto sull’incidente di Chernobyl, Unicopli, Milano, 1987. – Dall’esame del rapporto ufficiale sovietico una riflessione sul tema del controllo sociale delle tecnologie. * Tiziano Bagarolo, Contro lo spettro di Malthus più potere alle donne, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 18, Roma, 1994. * Tiziano Bagarolo, “Pazze” le mucche o folle il sistema che le ha prodotte?, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 23, Roma, 1996. Lester Brown e altri, State of the World 1988, Rapporto sul nostro pianeta del Worldwatch Institute, Isedi, Torino, 1988. – È il rapporto annuale (il primo tradotto in italiano) che il Worldwatch Institute pubblica ogni anno dal 1984 sullo stato di salute del pianeta (quello del 1989 ha già avuto un’ampia eco sui mass media perché afferma che non abbiamo più di un decennio per cominciare a cambiare rotta). Realizzalo da decine di studiosi sulla base delle informazioni e delle ricerche più recenti, congiunge analisi e segnalazione delle novità tecnologiche, politiche e istituzionali per farvi fronte. * Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1990 (Silent Spring, 1962). – La pubblicazione di quest’opera, che denunciava gli effetti devastanti della moderna agricoltura chimica, quasi quarant’anni fa segnò l’avvio della stagione dell’ecologia come preoccupazione sociale. Alberto Castagnola (a cura di), Alle radici della fame, Cosv, Milano 1984. – Una denuncia del controllo delle multinazionali delle sementi e dei pesticidi e dei meccanismi del sottosviluppo. Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite (a cura di), Il futuro di noi tutti. Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, Bompiani, Milano, 1988 (Our common future, 1987). – È il cosiddetto rapporto Brundtland, dal nome del l’ex primo ministro norvegese Gro Brundtland che ha presieduto la commissione. Un quadro globale della natura “insostenibile” dell’attuale sviluppo, con un’attenzione particolare ai problemi del Terzo mondo e agli aspetti socioeconomici e istituzionali. Barry Commoner, La tecnologia del profitto, Editori Riuniti, Roma 1973. Barry Commoner, La povertà del potere, Garzanti, Milano, 1976 (The Poverty of Power, 1976). Barry Commoner, La politica dell’energia, Garzanti, Milano, 1980 (The Politics of Energy, 1979). – In appendice Nessuna politica energetica in Italia, di V. Bettini e G. Nebbia * Jean Fallot, Sfruttamento, inquinamento, guerra, Bertani editore, Verona, 1976. – * E.K. Fëdorov, Risorse, ambiente, popolazione. L’interazione tra società e natura, Editori Riuniti, Roma, 1975. – Il punto di vista di un autore sovietico. * Harrisburg emergenza nucleare. Il rapporto americano sull’incidente alla centrale di Three Mile Island, Etas Libri, Milano, 1980 (ed. orig. Report of the President’s Comission on the Accident at Three Mile Island, 30 ottobre 1979). – Una lettura molto istruttiva. Il rapporto ufficiale giunge alla conclusione che, date la situazione accertata, l’incidente era in qualche modo “inevitabile”, e che per il proseguimento della produzione di energia nucleare sono “indispensabili trasformazioni radicali” nell’organizzazione e nella prassi del settore. * Istituto Ambiente Italia (a cura di), Ambiente Italia, rapporti annuali, Edizioni Ambiente, Milano (dal 1995). – Sull’esempio del più noto rapporto del World Watch Institute statunitense e delle lavoro del Wuppertal Institut tedesco, anche Legambiente pubblica, ormai dal 1989, un rapporto annuale sullo stato dell’ambiente nazionale ricco di analisi, dati e proposte che è uno strumento fondamentale di conoscenza delle problematiche dell’ambiente nel nostro Paese. * IUCN – UNEP – WWP (a cura di), Caring for the Earth. Prendersi cura della Terra: strategia per un vivere sostenibile, Gland (Svizera), 1991. – Documento del World Conservation Union, dell’United Nations Environmental Programme e del World Wide Fund for Nature in vista di Rio 1992, che aggiorna un analogo documento pubblicato nel 1980. Un documento ricco di dati, analisi e proposte. Wassily Leontief, ll futuro dell’economia mondiale, Mondadori, Milano, 1977 (The Future of the World Economy, 1977). – Rapporto per le Nazioni Unite sui problemi economici di lungo termine (popolazione, risorse alimentari, risorse minerarie, inquinamento, commercio, movimento di capitali, strutture istituzionali). “Le scienze”, edizione italiana di “Scientific American”, n. 147, novembre 1980.– Dedicato ai problemi dello sviluppo economico e alle risorse. Donella H. Meadows e altri. I limiti dello sviluppo, rapporto del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology per il Club di Roma, Mondadori, Milano, 1983 (Limits lo Growth, 1972).– È forse il testo più famoso sul problema della cosiddetta “crescita zero”; esso e una preoccupata diagnosi delle prospettive dell’umanità da un punto di vista che potremmo definire di “riformismo capitalistico tecnocratico”. A distanza di tempo si può affermare che le ragioni di questo rapporto superavano di gran lunga le obiezioni dei suoi critici, malgrado limiti metodologici e politici. * Ministero dell’Ambiente, Relazione annuale sullo stato dell’ambiente, Istituro Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1989. * Ministero dell’Ambiente, Relazione sullo stato dell’ambiente, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1992. – Rapporti governativi ufficiali (previsti inizialmente con cadenza annuale), sulla situazione dell’ambiente e degli interventi ambientali del Paese. Fonti di dati di grande interesse. Norman Myers (a cura di), Atlante di Gaia, Zanichelli, Bologna 1987 (l’edizione originale inglese è del 1985).– Un atlante ecologico che fornisce un quadro della situazione ambientale planetaria in centinaia di grafici e di schede mollo dense. * Giorgio Nebbia, Una società solare?, in “Capitalismo Natura Socialismo, rivista di ecologia socialista”n. 2, Roma, 1991. * Giorgio Nebbia, Lo sviluppo sostenibile, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi), 1991. – * Giorgio Nebbia, Le trappole della carrying capacity, in “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 23, Roma, 1996. Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza. rapporto della commissione indipendente sui problemi dello sviluppo internazionale. Mondadori, Milano 1980 (The Independent Commission on International Development Issues, 1980). – È il famoso rapporto Brandt, dal nome del presidente della commissione che lo ha elaborato. Sotto accusa l’ordine economico internazionale e la corsa agli armamenti * Atiq Rahman – Nick Robins – Annie Roncered (a cura di), La bomba climatica. Popolazione o consumi? Un conflitto possibile, Cuen, Napoli, 1993. – Uno studio fondamentale sulla questione della crescita demografica che smonta le spiegazioni (interessate) degli approcci neomalthusiani e mette giustamente al centro dell’attenzione i problemi dei meccanismi socio-economici che determinano l’ineguale distribuzione della ricchezza e dei consumi fra le diverse regioni del mondo. * Fabio Terragni, Il codice manomesso. Ingegneria genetica: storia e problemi, Feltrinelli, Milano 1989. – L’intervento sulle caratteristiche ereditarie degli organismi, attraverso la manipolazione del loro codice genetico, non è più solo ricerca di laboratorio ma vero e proprio settore tecnologico con impatto sempre più pervasivo sia sulla produzione agricola sia sulla medicina. Un testo datato ma utile per la messe di informazioni che fornisce e per le riflessioni che propone. * O Vittori (a cura di), Il clima mondiale, Quaderni de “Le scienze”, n. 54, Milano,1990. – * Wuppertal Institut, Futuro sostenibile, Emi, Bologna, 1997 (ed. orig. Zakunftsfähiges Deutschland, Birkhäuser, Berlino Basilea, 1996). – Si tratta dell’edizione internazionale del rapporto commissionato al Wuppertal Institut dalla Bund, la Lega tedesca per l’ambiente e la natura, e da Misereor, l’agenzia per la cooperazione e lo sviluppo della Conferenza episcopale tedesca. Si tratta di uno studio che tratteggia gli obiettivi e i cambiamenti necessari per realizzare uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile. Per i contenuti della proposta significativo il sottotitolo dello studio: Riconversione ecologica, nord-sud, nuovi stili di vita. La coscienza ecologica, i movimenti ambientali, l’ecologismo * Tiziano Bagarolo ed altri, Ecologia, movimenti verdi e capitalismo. Materiali introduttivi su marxismo ed ecologia, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994. * Centro per la salute Giulio A. Maccacaro (a cura di), Attualità del pensiero e dell’opera di G. A. Maccacaro. Costruzione della scienza del lavoro della salute dell’ambiente salubre, Cooperativa Centro per la salute Giulio A. Maccacaro, Milano, 1988. – Il volume raccoglie gli atti del convegno dedicato alla figura e all’opera di Giulio Maccacaro, svoltosi a Castellanza nello stesso anno. Un interessante documento su un’esperienza di lavoro e di riflessione unica del suo genere, frutto della collaborazione di operai, tecnici e studiosi impegnati su vari piani (sindacale, politico, professionale e scientifico), che ha dato un contributo importante alla teoria e alla prassi di un ambientalismo su basi classiste e anticapitalitiche. * Barry Commoner, Far pace col pianeta, Garzanti, Milano 1990 (Making Peace with the Planet, 1990). Barry Commoner – Virgilio Bettini, Ecologia e lolle sociali, Feltrinelli, Milano 1976. – I temi dell’ambiente, dell’inquinamento, della popolazione con una impostazione “rossa” (era questo il colore dell’ecologia in Italia allora). In apertura ricostruzione del caso Icmesa di Seveso. * Raymond H. Dominick III, The Environmental Movement in Germany. Prophets and Pioneers, 1871-1971, Indiana University Press, Bloomington Indianapolis, 1992. – Ricostruzione della nascita del movimento ambientalista in Germania: i precedenti storici, i legami fra conservazionismo e spirito nazionale, il rapporto con il nazismo, i movimenti antinucleari. * Global Forum, La “Carta della Terra”. Il manifesto dell’ambientalismo planetario, Isedi, Torino, 1993. – Raccoglie i materiali (in forma di dichiarazioni, trattati e protocolli sui vari temi) elaborati dal forum alternativo promosso in occasione della Conferenza ufficiale sull’ambiente che si è tenuta a Rio de Janeiro nel 1992. L’alternativa “ambientalista” al manifesto ufficiale Our common future. Molto interessante sia per la parte critica e analitica sia per quella propositiva, per quanto la prospettiva d’azione generale sia di tipo democratrico-radicale e non anticapitalistico. Edward Goldsmith, Robert Allen, La morte ecologica, a cura di Giorgio Nebbia, Laterza, Bari, 1973 (A Blueprint for Survival, 1972).– Autori due redattori della rivista “The Ecologist”, contiene tutti i pregi e tutti i limiti dell’ecologismo fondamentalista dei primi anni settanta, in particolare un approccio etico e naïf alla questione del cambiamento sociale e politico (si veda questo passo: “Uno dei dieci comandamenti del Vescovo di Kingston dice: “Non nominare il nome di Dio invano ignorando la sua legge naturale” In altre parole: deve esserci una completa fusione tra la nostra religione e il resto della nostra cultura, perché non c’è alcuna distinzione tra legge di Dio e legge di Natura e l’uomo deve ubbidire ad entrambe come ubbidisce qualsiasi altra creatura”). * Fabio Giovannini, Le culture dei verdi. Un’analisi critica del pensiero ecologista, Edizioni Dedalo, Bari, 1987. – Saggi di vari autori esaminano i contributi al pensiero ecologista che sono venuti da Gregory Bateson, Ivan Illich, Rudolph Bahro, Edward Goldsmith, Fritjof Capra, il rapporto Meadows, Andrè Gorz, Alain Touraine, Barry Commoner, Giorgio Ruffolo, Robert Junk e Gene Sharp. * Fabio Giovannini, Le radici del verde. Saggi critici sul pensiero ecologista, Edizioni Dedalo, Bari, 1991. – Ideale continuazione del lavoro precedente. Sotto esame Edgar Morin, Konrad Lorenz, Nicholas Georgescu-Roegen, Jeremy Rifkin, James O’Connor, l’ecofemminismo, l’ecocristianesimo e gli approcci della sociologia politica alle questione tecnologia e ambientale. Andrè GORZ, Sette tesi per cambiare la vita, Feltrinelli, Milano 1977. (Ecologie et liberté, 1977). – Un manifesto dell’ecosocialismo autogestionario. * Richard H. Grove, Le origini dell’ambientalismo occidentale, in “Le Scienze”, n. 289, settembre 1992. – Articolo che sintetizza i risultati del lavoro seguente. * Richard H. Grove, Green imperialism. Colonial expansion, tropical island Edens and the origins of environmentalism 1600-1860, Cambridge University Press, 1995. – La prima ricerca sistematica sulle origini della preoccupazioni per il degrado ambientale connesso dall’espansione coloniale delle potenze europee. Amorry B. Lovins, Energia dolce, Bompiani, Milano 1979 (Soft energy paths, 1977).– Contro il nucleare, la proposta della transizione a tecnologie energetiche “dolci”. Con l’illusione che una proposta ragionevole possa conciliare interessi inconciliabili. * Luigi Mara – Marcello Palagi – Gianni Tognoni (a cura di), Da Bophal alla Farmoplant. Crimini e chimica di morte, l’EcoApuano editore, Carrara, 1995. – Il volume raccoglie gli atti della terza e della quarta sessione del Tribunale permanente dei popoli dedicate al crimine di Bophal, nonché una ricostruzione della vicenda analoga, anche se meno nota (e fortunatamente meno devastante) della Farmoplant di Massa. * Luigi Mara, Oltre lo spreco, l’EcoApuano editore, Carrara, 1994. – Tema centrale dell’opera è la lotta contro il business capitalistico dei rifiuti (e degli inceneritori in specie) e i rischi che esso rappresenta per la salute dei lavoratori e delle popolazioni. L’autore, esponente storico del gruppo di lavoratori di Castellanza protagonisti delle lotte contro la Montedison, nonché membro del Centro per la salute G. Maccacaro, oltre a una conoscenza tecnica di prim’ordine, offre in questo libro una riflessione più generale sui temi della lotta per la salute e l’ambiente nel quadro del capitalismo. L’ampiezza di prospettive è testimoniata dall’appendice sul disastro ambientale del cosiddetto “socialismo reale”. * George Perkins Marsh, L’uomo e la natura. Ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, Introduzione, cura critica e ricerca iconografia di Fabienne O. Vallino, Franco Angeli, Milano, 1988 (ristampa anastatica, introdotta, curata e illustrata da F.O. Vallino, della seconda edizione italiana uscita presso Barbèra a Firenze nel 1872; ed orig. Man and Nature; or physical geography as modified by human action, Scribner, New York,1864). – * Edgar H. Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano. Cento anni di storia, Carabà Edizioni, Milano, 1995. – Opera sistematica sulle origini, dal secolo scorso agli anni settanta, del movimento per la conservazione dell’ambiente in Italia. Fra i molti meriti di questa storia, la ricostruzione di un episodio esemplare, la rivolta della popolazione di Mori in Trentino contro l’inquinamento di un impianto di produzione dell’alluminio agli inizi degli anni trenta. * Fernando Mires, Ecologia politica in America Latina, La Piccola Editrice, Celleno (Vt), 1992 (ed. orig. El discurso de la naturaleza. Ecologìa y politica en America Latina, San José, Costa Rica, 1990). * Michele Nobile, Movimenti sociali ambientalisti e partiti verdi, in Tiziano Bagarolo ed altri, Ecologia, movimenti verdi e capitalismo. Materiali introduttivi su marxismo ed ecologia, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994. Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, Einaudi, Torino 1972. – Un “classico” delle origini italiane dell’ecologia politica. In parte superato per i giudizi sull’ambientalismo (oggi molto diverso da quello anglosassone della fine degli anni sessanta preso di mira nel libro). Interessante il recupero di un punto di vista materialista e classista. Jeremy Rifkin, Entropia, Mondadori, Milano 1982 (Entropy, 1980). – Con postfazione di Nicholas Georgescu-Roegen. Anche per Rifkin la salvezza può venire solo da una rivoluzione nella nostra “concezione del mondo”. * Arturo Russo – Gianni Silvestrini (a cura di), La cultura dei verdi, Franco Angeli, Milano, 1987. – Una raccolta di saggi di natura e valore diverso, frutto del lavoro delle Università verdi. Delineano i riferimenti scientifici, culturali, politici ed economici del movimento ambientalista. Interessanti i saggi iniziali sulla crisi del paradigma meccanicistico nelle scienze e i nuovi orientamenti della biologia e della fisica. * Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998. – Una raccolta di saggi che esamina criticamente i concetti usualmente utilizzati nel dibattito sui temi dello sviluppo e dell’ambiente, secondo una prospettiva storico-antropologica fortemente influenzata dall’ambientalismo. * Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo. Nord e sud dopo il tracollo dell’Est, Macro edizioni, San Martino di Sarsina (Fo), 1992. – Il pensiero di W. Sachs, incentrato sulla critica del concetto di sviluppo (anche di “sviluppo sostenibile”) e della costellazione di idee che lo accompagna nel senso comune e nel pensiero dell’Occidente capitalistico, si presenta come una salutare provocazione contro le certezze semplificatrici. * Sial, Speciale ecologia, n. 8-9, giugno 1993. – Problemi ambientali e coscienza ecologia in America latina a un anno dalla conferenza di Rio de Janeiro e dalle celebrazioni del Cinquecentenario della Conquista, a cura del Servizio Informazione America Latina. Enzo Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Garzanti, Milano, 1984. Un libro che ha fatto discutere la sinistra con la proposta di superare la “coscienza di classe” in nome della “coscienza di specie”. Interessante come provocazione. Ma non si delinea affatto quel “nuovo paradigma” di cui si afferma la necessità. Implicazioni etico-filosofiche dell’ecologia e della crisi ambientale * Tiziano Bagarolo, Responsabilità per il futuro ed utopia, in “Giano. Ricerche per la pace”, n. 8, Roma, 1991. – Recensione dello scritto di Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica. * Tiziano Bagarolo, Per un’etica della responsabilità nella ricerca tecnico-scientifica, in “Giano. Ricerche per la pace”, n. 14/15, Roma, 1993. * Sergio Bartolommei, Etica e ambiente. Il rapporto uomo-natura nella filosofia contemporanea di lingua inglese, Guerini e Associati, Milano, 1989. * Silvio O. Funtowiz – Jerome R. Ravetz, Problemi ambientali e scienza postnormale, in “Oikos”, 3, Bergamo, 1991. – Un saggio sulla necessità di ripensare i modi di operare degli scienziati alle prese con i problemi dell’incertezza e del rischio legati alla tecnologia e alla crisi ambientale; in particolare sull’esigenza di superare la separazione fra specialisti e opinione pubblica e di predisporre percorsi democratici che consentano non solo il controllo sociale su scelte tecniche dal forte impatto sociale e/o ambientale ma anche una più adeguata acquisizione degli stessi dati rilevanti per il processo decisionale. * Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1992 (ed. orig. Das Prinzip Philosophie der ökologischen Krise, C.H. Beck’scche Verlagsbuchhandlung, München, 1991). * Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica, Einaudi, Torino, 1990 (ed. orig. Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilization, Insel Verlag, Frankfurt a.M., 1979). – Una riflessione etico-filosofica sui cambiamenti morali e socio-politici implicati dalla crisi ecologica. Al centro della riflessione l’esigenza di costruire un’etica della responsabilità estesa alla natura e alle generazioni future. Sul piano più propriamente politico Jonas addombra l’idea che, per scongiurare la deriva verso la catastrofe e i conflitti che ne deriveranno, sia necessario affidarsi a un regime autoritario per imporre il sistema economico “più austero” di cui c’è bisogno. * Maria Antonietta La Torre, Ecologia e morale. L’irruzione dell’istanza ecologica nell’etica occidentale, Cittadella editrice, Assisi, 1990. * Arne Naess, Ecosofia Ecologia, società e stili di vita, Red edizoini, Como, 1994 (Okology, samfunn og livsstill, Universitetsforlaget, 1976). – L’“ecologia profonda” nelle proposte del suo esponente più significativo, il filosofo norvegese che nel 1973 introdusse la distinzione fra “Shallow” e “Deep” Ecology. Altri testi Walter Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, Einaudi, Torino, 1983. (Gesammelte Schriften, 1972-1982). Walter Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1981. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1981. Franco Fortini, Verifica dei poteri, Mondadori, Milano, 1965. Erich Fromm, L’uomo secondo Marx, in Alienazione e sociologia, Franco Angeli, Milano, 1973 (Marx’s Concept of Man, 1961). Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1977, (To Have or to Be, 1976).– L’opera di Fromm riprende l’approccio dei Manoscritti marxiani del 1844 alla natura umana e al rapporto uomo natura società combinandoli con la lezione freudiana. Michael Löwy, Rédemption et Utopie, Presse Universitaire de France, Paris, 1988. Paolo Casini, La natura, Isedi, Milano, 1975. – Nicolao Merker, Karl Marx 1818-1883, Editori Riuniti, Roma, 1983. – Robert Lenoble, Per una storia dell’idea di natura, Guida Editori, Napoli, 1974. – William Leiss, Scienza e dominio. Il “dominio sulla natura”: storia di una ideologia, Longanesi, Milano, 1976 (ed. orig. The domination of Nature, New York, 1972). –

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