CATALOGNA INDIPENDENTE?

Il 27 ottobre, con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del parlamento catalano, rappresenta sicuramente un momento di svolta nello scontro che contrappone la Catalogna e il governo centrale dello Stato Spagnolo.

Una svolta, questa della dichiarazione unilaterale di indipendenza, che non può sorprendere nessuno e a cui si è giunti soprattutto grazie all’insipienza e alla miopia politica del governo spagnolo diretto da Mariano Rajoy, che invece di disinnescare la tensione, fin dall’agosto scorso, ha fatto di tutto perché la situazione giungesse ad un punto di non ritorno.

Ciò che ha prodotto il maggior numero di elementi per giungere alla dichiarazione del 27 ottobre, evidentemente, è stato il deciso rifiuto di Madrid – fin dal 2015 – di riconoscere il diritto dei catalani ad esprimere con il voto il loro parere, favorevole o meno che fosse, sulla separazione dalla Spagna,. La repressione brutale della Guardia Civìl e della Policia National davanti ai seggi catalani nella mattina del 1° ottobre (giorno del referendum), le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, e tutti gli ostacoli frapposti da Madrid allo svolgimento di quel referendum, lo hanno legittimato e reso vittorioso, a prescindere dai risultati e dal fatto che il caos creato dalle forze di polizia spagnole rendesse impossibile ogni tipo di verifica sull’andamento del voto e a prescindere anche dal fatto che la Costituzione spagnola non lo prevedesse. Di fatto la vittoria del fronte indipendentista al referendum del 1° ottobre è stata sancita dall’atteggiamento di ottusa chiusura da parte del governo spagnolo e della magistratura spagnola. Fino a che lo scontro era rimasto a livello istituzionale la vittoria del fronte del Sì era tutt’altro che scontata, anzi era ben più probabile un esito analogo a quello del referendum del 2014, quando alle urne si recarono 2 milioni di catalani sui 5 aventi diritto, quindi il risultato, nonostante l’80% dei sì, vista l’affluenza, poco più del 35%, non fu positivo per le forze politiche indipendentiste. Ovviamente, nella situazione creata dall’atteggiamento del governo spagnolo con le intimidazioni diffuse, malgrado l’affluenza si sia fermata al 42%, il referendum del 1° ottobre è stato politicamente vinto dagli indipendentisti.

Illusioni

La repressione ha fatto sì che tutto si spostasse sul livello della difesa della democrazia e dei diritti più elementari della popolazione catalana e ha anche fatto superare la spaccatura tra indipendentisti e autonomisti. Nel senso che la scadenza del 1° ottobre è stata vissuta come un momento cruciale in cui in gioco non c’era solo l’indipendenza, ma la rivendicazione di questa come mezzo per difendere l’agibilità democratica.

In questo modo si spiegano le grandi mobilitazioni nei momenti decisivi di tutta questa vicenda, compreso lo sciopero generale del 3 ottobre. È fuor di ogni possibile dubbio che questa vi sia, altro conto è metterla completamente in conto agli indipendentisti. Nel senso che le migliaia di persone che hanno difeso i seggi, tenute aperte le scuole, difeso le schede elettorali e consentito lo svolgimento del referendum non hanno fatto tutto questo con l’obiettivo dell’indipendenza a tutti i costi.

Questo non significa negare il diffuso sentimento nazionalistico in Catalogna, ma sottolineare che il nazionalismo catalano, ben più di altri, ha dimostrato di basarsi sulla reazione al governo centrale che non ha lasciato spazio alla mediazione: resa incondizionata della “regione ribelle” o commissariamento attraverso l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, questo è quanto ha saputo offrire ai catalani la classe politica spagnola, con poche e ondivaghe eccezioni.

Ma anche le stesse forze politiche catalane che in queste settimane hanno rivendicato l’indipendenza unilaterale non hanno finora detto quale progetto statuale vogliano mettere in atto e questo non è un dettaglio, soprattutto se si guarda alla composizione sociale delle masse mobilitate. Si tratta, infatti, in gran parte, del ceto medio che per un verso ha beneficiato della crescita economica e successivamente ha sofferto della crisi che ha spinto il governo centrale a riprendere il controllo fiscale sulla regione, studenti e pubblico impiego. Se, come pretendono alcuni, fossimo di fronte ad una rivolta delle classi subalterne e sfruttate, molto probabilmente per un verso le manifestazioni non sarebbero state così pacifiche e per un altro verso la reazione delle forze di sicurezza catalana, i tanto osannati Mossos d’Esquadra, non sarebbe stata di difesa di quelle migliaia di persone.

Quindi si impone una domanda essenziale: fino a quale punto la popolazione catalana, che fino ad oggi si è mobilitata in massa, è disponibile a spingersi?

Finora, ciò che è emerso in modo evidente è stata la massiccia mobilitazione sul piano della difesa della democrazia, ma in mancanza di prospettive che reazione potrà esserci?

Coloro, e non sono pochi, che oggi caricano il movimento indipendentista catalano di significati che probabilmente non gli appartengono vedono solo una faccia della medaglia: quella della vittoria su Madrid rappresentata dallo svolgimento del referendum e dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza. Questo elemento, nel contesto europeo degli ultimi due decenni costellati anche da grandi mobilitazioni ma da pochi risultati ottenuti, spinge a vedere nella neonata repubblica catalana un nuovo punto di partenza su cui far rinascere le lotte europee.

Ma su questo è lecito avanzare molti dubbi e per molte ragioni. Finora nessuna forza politica catalana del fronte indipendentista si è espressa in modo favorevole all’uscita dall’Unione Europea, anzi la maggioranza delle forze politiche catalane che finora hanno rappresentato la rivolta contro Madrid hanno espresso semmai la convinzione contraria. Non è un caso se Carles Puigdemont più volte ha fatto appello all’Europa perché intervenisse su Madrid. Dopo un lungo e molto imbarazzante silenzio, quando le istituzioni europee si sono espresse lo hanno fatto, senza eccezioni, a favore del governo madrileno, che non a caso ha atteso di incassare il completo appoggio europeo prima di dichiarare di voler ricorrere all’articolo 155 della Costituzione, che sospende le autonomie regionali, con il conseguente commissariamento dell’autogoverno. Le istituzioni europee per come sono ora organizzate è chiaro che non potranno mai accettare la secessione catalana e sarà altrettanto improbabile che la nuova Repubblica Catalana, venga riammessa nel consesso europeo.

Sicuramente, il fatto che la Catalogna sia allo stesso tempo la regione più ricca dello Stato Spagnolo (di cui rappresenta il 20% del PIL) e della stessa Unione Europea forse renderà più precario il governo diretto da Mariano Rajoy, perché né le istanze europee, né i partiti spagnoli, quelli che sostengono il governo e anche quelli che sono all’opposizione, possono permettere che la “locomotiva” economica si stacchi. Probabilmente, proprio su questo si basavano le richieste del governo catalano di mediazione all’Europa.

Ma nel campo indipendentista catalano se le forze moderate sono per non abbandonare l’Unione Europea, anche la CUP (Candidatura di unità popolare), la forza di estrema sinistra, alleato indispensabile per il governo di Carles Puigdemont, riguardo ai rapporti con l’Unione Europea è piuttosto impacciata. Certo la CUP denuncia la UE come oggi è, invoca una “Europa dei popoli e non delle banche”, ma nulla dice di cosa pensa debba fare la nuova repubblica catalana. Questa incertezza deriva dal fatto che la CUP non può esplicitamente dire né una cosa né l’altra per non perdere consensi.

In questo senso, è vero che la crisi catalana ha aperto una contraddizione fortissima in Europa, mettendo a nudo (per l’ennesima volta in questi anni cruciali) l’inefficacia delle istanze che la rappresentano. Ma da qui a sostenere che l’indipendenza catalana apra la via per una rimessa in discussione dei patti europei nel senso auspicato da tutte quelle forze politiche europee di estrema sinistra che giustamente denunciano l’iniquità economica e sociale di questa Europa, ce ne corre. Soprattutto perché per il momento le grandi mobilitazioni in Catalogna hanno lasciato sullo sfondo i temi sociali ed economici e le forze politiche maggioritarie nel campo indipendentista non sono certo quelle vogliono rimettere in discussione l’assetto europeo. Anzi, sono quelle che vogliono far parte di questa Europa facendo leva sulla ricchezza economica della Catalogna e che peraltro in questi ultimi anni hanno tranquillamente e senza indugi applicato le politiche economiche europee attraverso l’attuazione delle “riforme” del governo centrale spagnolo.

Disillusioni

Gli scenari che possono aprirsi dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza sono imprevedibili, numerosi e anche in contraddizione fra loro. I tentennamenti di Carles Puigdemont di queste settimane ne sono la prova. Ma sono anche la dimostrazione, soprattutto l’invocazione costante ad un tavolo negoziale (i cui contenuti però non è ancora stato detto quali siano), che in realtà il fronte indipendentista è lungi dall’essere coeso. D’altronde, la stessa dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre è stata approvata con pochi voti di scarto. Dichiarare l’indipendenza senza dire cosa poi se ne vuol fare non è certo un brillante debutto.

Inoltre, tutte le forze politiche dovranno fare i conti con le elezioni annunciate dal governo spagnolo per il 21 dicembre prossimo. Il governo di Mariano Rajoy non si è spinto fino a mettere fuori legge le forze politiche indipendentiste. Comunque, questa scadenza rappresenta un grande problema per le forze indipendentiste perché rinunciare a priori a presentarsi significherebbe, senza la loro messa al bando da parte spagnola, dover ricollocare su un piano diverso da quello sperimentato sinora la loro battaglia. Cosa che non è certamente facile a farsi in questa situazione.

Finora, infatti, la battaglia indipendentista è stata popolare, certamente, ma anche, se non soprattutto, istituzionale. Non è di poco conto poter usare come strumento di lotta un parlamento regionale, i suoi ministeri, le municipalità, ecc.

Inoltre, ci si deve chiedere se, nonostante le elezioni le abbia convocate il governo che ha commissariato la regione, le forze politiche che hanno finora rappresentato le istanze indipendentistiche sono disposte a rinunciare ad una vittoria abbastanza scontata. Se tutto l’arco di forze indipendentiste dovesse essere  messo fuori legge, ovviamente, gli scenari potrebbero diventare molto preoccupanti, perché come è stato evidente in queste settimane, c’è un’evidente capacità di mobilitazione soprattutto sul piano della difesa dei diritti democratici, ma le conseguenze dell’articolo 155 potrebbero essere devastanti a causa della reazione di Madrid, che per il momento ha dato prova di un’assenza totale di intelligenza politica e lungimiranza.

Fare previsioni in una situazione tanto fluida e confusa è un esercizio inutile ed anche dannoso. Invece, è necessario, ancora una volta, non confondere la realtà con i propri desideri e, a maggior ragione, non tentare di modellare la realtà ai propri desideri. Questo non significa non schierarsi dalla parte di coloro che stanno correndo un rischio enorme. Significa riuscire a farlo in modo diverso dal tifo da stadio oppure dallo scegliersi una bandiera da sventolare per potersi identificare con una causa in modo acritico.

Proprio perché la situazione è assai pericolosa (le ingenti forze di polizia e dell’esercito inviate da Madrid in Catalogna nei giorni precedenti al referendum del 1° ottobre non sono state ritirate, quindi possono essere mobilitate in qualsiasi momento) occorre la lucidità necessaria ad evitare facili ubriacature, da cui ci risveglieremmo tutti assai male.

Nazionalismi 

In questo quadro non è da sottovalutare un altro elemento di pericolo, sia sul breve quanto sul lungo periodo: l’esaltazione dei nazionalismi. Questo atteggiamento nell’Europa di questi anni è tutto fuorché una novità e certamente non si possono, e non si devono, mettere tutte le spinte nazionalistiche sullo stesso piano. Ma queste hanno in sé il germe dell’involuzione, questo è l’elemento più inquietante di tutta la vicenda catalana.

Come è stato evidente in queste settimane, l’aspirazione all’indipendenza catalana ha catalizzato il nazionalismo castigliano di destra ed estrema destra, fattore ovviamente sfruttato da Mariano Rajoy e anche dalla monarchia per dimostrare che le loro politiche hanno un largo consenso. I nazionalismi contrapposti sono una mina vagante che può esplodere in qualunque momento.

Un conto è fare una battaglia per uno Stato federale, tutt’altro è fare una battaglia per delle nazioni sovrane all’interno di una parvenza di Stato unitario. La decomposizione e la parcellizzazione dell’opposizione sociale di fronte alla crisi economica, sono due elementi basilari non estranei al ricorso ai nazionalismi. Non bisognerebbe mai dimenticare che come disse Samuel Johnson quattro secoli fa, “il patriottismo è ultimo rifugio dei cialtroni” e che rischiano di diventare tali anche quei nazionalismi che, come quello catalano, hanno anche una matrice progressista, almeno in una parte dei suoi rappresentanti.

Difendere il diritto dei catalani ad esprimersi liberamente sul proprio avvenire, difenderli da ogni attacco da parte del governo centrale spagnolo e rispettare gli esiti delle loro scelte, però, non significa identificarsi automaticamente con queste. Né può significare ritenere che nel resto d’Europa la “soluzione catalana” rappresenti la via d’uscita allo sfruttamento dei popoli europei.

Contrapporre la solidarietà internazionale agli interessi dei popoli è una scorciatoia verso l’abisso. Sottrarre la solidarietà agli interessi delle élites politiche interessate solo alla propria sopravvivenza è l’unica soluzione. Finora la storia ci ha insegnato che le altre strade sono state lastricate di sangue e sfruttamento, anche se in nome dei popoli.

La redazione

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