IL PERSONALE, IL POLITICO E IL CAPITALE (II)

di Marco Maurizi

Parte I

1. Amici, ancora uno sforzo se volete essere anticapitalismo 2. Alla fiera delle identità antagoniste 3. Chi ha paura dell’alienazione? 4. La sconfitta politica della sinistra di classe 5. La sconfitta teorica della sinistra di classe: riduzionismo culturalista e false narrazioni 6. Se “dal basso” non significa nulla 7. Il problema della totalità sociale 

Parte II

8. Il problema è la forma, non il contenuto della produzione
9. Cambiare il potere senza prendere il mondo
10. La falsa opposizione tra mezzi e fini
11. Il socialismo è un asse, non una soggettività
12. La classe va abolita, non decostruita

 

8. Il problema è la forma, non il contenuto della produzione
Come abbiamo visto, infatti, l’aspetto progressivo della modernità secondo Marx risiede nella rottura dei vincoli feudali, nel superamento dell’idea che la misura dei bisogni sia fissata esternamente rispetto all’azione sociale considerata nel suo sviluppo autonomo. A questo elemento negativo, di rottura, il capitalismo aggiunge una dinamica positiva che ha due conseguenze importanti per quanto problematiche: la potenza (1) espansiva e (2) universalizzante della soddisfazione dei bisogni attraverso la produzione di merci. Il modo di produzione capitalistico, in altri termini, tende a crescere su se stesso in forma apparentemente illimitata, intensificando conseguentemente gli scambi di merci e la circolazione del denaro, giungendo così a realizzare per la prima volta nella storia un sistema economico planetario. Ciò non avviene senza contraddizioni. Da un lato, infatti, aumenta il volume e la complessità dei rapporti sociali e, assieme ad essi, dei bisogni e dei loro modi (anche tecnologici) di soddisfacimento. Dall’altro, questa crescita produce inevitabilmente profitto e dunque non è solo genericamente legata allo sviluppo del capitale stesso ma, in molti modi, organizza la società a partire dalla meccanica di autovalorizzazione di quello, rispetto al quale il soddisfacimento dei bisogni umani diventa un elemento accessorio. E, tuttavia, quella crescita e quel soddisfacimento non sono mai mere illusioni. Non esistendo un metro esterno alla società rispetto alla quale essi possono essere giudicati, le uniche due possibilità sono: (a) dichiarare quei bisogni e quella crescita degenerazioni di un equilibrato limitato scambio sociale come avviene nelle società premoderne; (b) riconoscere quei bisogni e quella crescita come reali legittimi, seppure frutto di sfruttamento e di una ancor parziale sviluppo della capacità di auto-organizzazione della società. In altri termini, il capitale, come forza autonoma ed estranea ai bisogni umani che soddisfa indirettamente attraverso la propria circolazione, “scippa” agli uomini il loro potenziale di auto-organizzazione, imponendo ancora un vincolo esterno alle loro capacità produttive. Dunque, tanto più i rapporti sociali sono organizzati surrettiziamente dal capitale, tanto meno lo sono dagli uomini nei loro liberi rapporti reciproci.
Questa è la contraddizione decisiva che occorre comprendere e rispetto alla quale è necessario prendere posizione ma, ecco il problema, tale presa di posizione difficilmente potrà ridursi ad un sì o ad un no allo sviluppo prodotto dal modo di produzione capitalistico. Coloro che rinfacciano a Marx un’eccessiva adesione al “produttivismo” capitalistico, un’accettazione passiva della tecnologia prodotta dal capitale (magari argomentando nel senso vitalistico già visto sopra, secondo cui la tecnologia opererebbe una “riduzione” della complessità della vita all’elemento quantificante, calcolabile ecc.) riducono di molto la complessità dei rapporti sociali capitalistici così come li ha analizzati Marx. Il “lato progressivo del capitale” non sta affatto nell’aumento generale del benessere o nella produzione di beni specifici (treni, automobili o cellulari). Perché anche se è possibile provare, matematicamente, che la riduzione di mortalità o il soddisfacimento di certi bisogni sono aumentati da duecento anni a questa parte, questo dato andrebbe comunque interpretato per potersi tramutare in un giudizio di valore sulla società capitalistica. Non esiste, infatti, alcun metro di misura oggettivo che possa indicare “il prezzo” che l’umanità paga per l’entrata nella fase moderna.
Il punto per giudicare la controversia è un altro. E’ un dato piuttosto formale che materiale. E’ cioè la forma del modo di produzione a fare la differenza tra moderno e premoderno, non il suo contenuto. Il vantaggio della modernità capitalistica sul mondo pre-moderno sta appunto nel fatto che esso socializza la produzione, rende cioè la produzione qualcosa che avviene a partire dai singoli ma istituendo un tessuto di relazioni e scambi universale in cui tutti sono implicati nel reciproco soddisfacimento dei bisogni. Il problema è che il capitale pretende sottomettere questa socializzazione de facto ai propri interessi de iure: cioè al profitto. Esso quindi privatizza fin dal principio la socializzazione che innesca.
Il capitale socializza la produzione nel senso di intensificare gli scambi e dunque l’interdipendenza degli individui in essa coinvolti ma al tempo stesso la privatizza in quanto traduce tutto ciò in un meccanismo di esclusione, poiché mantiene e riproduce costantemente l’opposizione capitale/lavoro e l’ineguale distribuzione della ricchezza prodotta. Nel fare questo porta ad un livello sempre superiore la complessità del sistema degli scambi e, di conseguenza, la società nel suo insieme. Ora, questa intensificazione degli scambi e questo aumento dell’interdipendenza dei produttori avviene attraverso il mercato, cioè attraverso la traduzione in merce di ciò che viene scambiato. Chi si arresta alla critica della “mercificazione” non può che sperare di regredire ad un livello sociale e produttivo che precede l’epoca del mercantilismo: non a caso la destra fascista identifica, erroneamente, il capitalista con il mercante e il capitale con l’usura (cioè con fenomeni che precedono storicamente lo sviluppo del capitalismo propriamente inteso). Ma esiste in realtà un dato assolutamente positivo che accompagna come un’ombra lo sviluppo del mercato globale capitalistico. Esso passa attraverso due elementi che vengono invece solitamente banalizzati dalla critica anticapitalistica più diffusa: la mercificazione e l’astrazione. Questi due fenomeni, lungi dall’essere meramente negativi (“la vita è ridotta a merce”, “la vita è ridotta a qualcosa di calcolabile” ecc.) rappresentano l’elemento realmente universalizzante, il collante sociale, il legame agito che connette i produttori nel processo di soddisfazione reciproca dei bisogni. La mercificazione dei rapporti sociali in realtà produce il comune tramite l’astrazione.
La “merce” è infatti per essenza ciò che viene prodotto da A al fine di soddisfare il bisogno di B (ciò che quindi viene prodotto per non essere consumato in proprio). Dunque è nella natura stessa della merce la tendenza ad istituire un rapporto sociale verso un altro, il quale a sua volta soddisferà con il suo lavoro il bisogno di un terzo e così via. Questa mediazione dei bisogni si compie per mezzo del denaro che rappresenta in forma astratta ciò che di scambiabile c’è tra le diverse merci, ovvero il lavoro sociale che si riversa nella loro produzione. Il prezzo delle merci è così il minimo comune denominatore delle prestazioni sociali, la rappresentazione numerica, quantitativa, della loro scambiabilità. È dunque la misura interna degli scambi sociali che attraverso la produzione dei beni e servizi esprime il livello più o meno adeguato di soddisfazione dei bisogni umani. Merce e denaro, dunque, rappresentano, in forma ancora imperfetta ma già reale, l’interazione degli individui nel reciproco gioco di soddisfazione dei bisogni. Astrazione significa anche misurabilità, dunque razionalità di questo gioco di interconnessioni sociali. La quantificazione delle pratiche sociali ne esprime, in forma ancora parziale, la razionalità e l’universalità reali. Non è in questo che sta l’irrazionalità del modo di produzione capitalistico. La contraddizione tra capitale e bisogni umani non sta nel fatto che lo stesso metodo di fabbricazione delle biciclette venga adottato a Pechino e a Napoli, quasi che uniformare, rendere misurabili e compatibili le procedure di soddisfazione dei bisogni debba coincidere necessariamente con forme oppressive e limitanti dell’irriducibile molteplicità della vita. La distorsione irrazionale di questo processo sta nella logica parzialeprivatistica della socializzazione che così viene realizzata. Il problema è che questa astrazione serve tale logica parziale, dunque non è interamente al servizio della socializzazione del soddisfacimento dei bisogni. Emerge così una razionalità sociale parziale che, proprio in quanto tale, non è vera razionalità, perché non è realmente universale. Solo una razionalità autenticamente sociale, dunque una Ragione agita socialmente, collettivamente, dunque universalmente, sarebbe realmente razionale. I due corni del problema si implicano vicendevolmente. Ma se ciò che è vero, tale ragione sociale emerge tanto più quanto più si inverte il processo inaugurato dalla modernità capitalistica dall’interno (dunque non all’indietro): ovvero solo l’espropriazione dell’interesse privato particolare alla base del meccanismo di accumulazione del capitale può realizzare un’universalizzazione reale del soddisfacimento dei bisogni. Interesse “privato” qui significa l’opposto di interesse “individuale”. L’individuo dovrebbe essere il vero fine della produzione, fine solo indirettamente e illusoriamente servito dal capitale. Si tratta infatti di socializzare la privatizzazione del capitalismo, fare cioè che quello scambio e quell’interdipendenza dei produttori vadano effettivamente a vantaggio di tutti. Non basta contrapporre astrattamente “individuo” e “socializzazione”, immaginando che una società fondata sul modo di produzione socialista possa essere definita nei puri termini della “collettivizzazione” e della “statalizzazione” in quanto contrapposti all’azione individuale.  Se così fosse, evidentemente, non si tratterebbe di una reale socializzazione ma di una variante del dispotismo. Se la lotta al capitalismo viene pensata saltando a pie’ pari le forme con cui il capitale realizza l’intermediazione sociale dei bisogni, ovvero la merce e il denaro, non si potrà che regredire a forme di autoritarismo premoderne o sostituire il capitalismo con un capitalismo di stato ancora più autoritario.
            È importante sottolineare, infatti, che le contraddizioni e le antitesi che si generano nella produzione di merci sono inerenti alla produzione stessa e non alla forma del denaro. Il denaro non si impone dall’alto ai rapporti di scambio, come fosse una specie di “idea a priori”, bensì deriva dallo scambio come sua necessità intrinseca[22]. E questo è il motivo per cui nessuna riforma del denaro, cioè del mezzo di circolazione, può eliminare quelle contraddizioni. Questo è molto importante perché serve a contrastare alcune delle teorie più trite della sinistra anticapitalista e alcune interpretazioni più vetuste della prospettiva marxiana: il riferimento al denaro come fattore di “alienazione” dell’attività sociale (il denaro che si interpone tra gli individui e le cose complicando inutilmente i loro rapporti fino a diventare oggetto di desiderio esso stesso), l’idea che l’espropriazione dei capitalisti abbia come fine una gestione dispotica dell’economia, l’idea che socializzazione e collettivizzazione significhino sacrificio dell’individuo.
Marx risponde anticipatamente a queste accuse proprio analizzando il problema del superamento del denaro, superamento che implica una trasformazione radicale dei rapporti sociali produttivi. Ad es., l’idea degli anarchici proudhoniani di sostituire il denaro con “cedole-lavoro” (cioè con qualcosa che certificasse il lavoro erogato dagli individui) quindi eliminando il mezzo-denaro considerato fonte di “alienazione” e “reificazione” della libera attività degli attori sociali, lascia invece del tutto invariate le contraddizioni del sistema produttivo[23]. Altrove, Marx sottolinea come una riforma del denaro che tendesse a ricondurre tutto il circolante all’attività di una banca centrale potrebbe risolvere le contraddizioni del sistema produttivo solo trasformando la banca centrale in un’istituzione onnisciente che non si limiterebbe a controllare ma dovrebbe inevitabilmente intervenire attivamente nella sfera della produzione come una specie di super-capitalista collettivo[24].
Nel Capitale Marx critica l’idea che la forma capitalistica della proprietà privata possa essere considerata naturale, poiché la proprietà è sempre una specifica modalità sociale di appropriazione della ricchezza prodotta (socialmente). E qui Marx scrive senza mezzi termini che il superamento del modo di produzione capitalistico non consiste in un ritorno ad antiche forme comunitarie di proprietà, bensì in una diversa articolazione del rapporto tra individuo e collettivo, così che si realizzerebbe per la prima volta un modo di produzione in cui l’appropriazione individuale della ricchezza sociale avrebbe come fine l’individuo stesso, libero ed autonomo. Il fine della produzione in una società comunista non sarebbe quindi più la proprietà privata bensì ciò che Marx chiama proprietà individuale[25].
E’ ovvio che anche il problema del rapporto tra qualità quantità viene ridefinito in una situazione che si è lasciata alle spalle i rapporti sociali capitalistici. Ma non nel senso di un ritorno al “qualitativo” in quanto piattamente contrapposto al “quantitativo” magari riducendo il volume e la velocità degli scambi a condizioni più “umane” come auspicano i teorici della decrescita o i cultori dello slowfood. Come se esistesse una misura universale/naturale della velocità o del volume degli scambi sociali, qualcosa che potesse fungere da modello al di fuori o al di là della società nel suo darsi storico. Come se la società curtense del medioevo o lo scenario per-industriale della prima modernità dovessero essere più vicini ad una qualche immutabile essenza umana. Discorso dal quale è inevitabile che si finisca poi nelle secche del primitivismo più infantile che identifica ciò che è proprio dell’umano con ciò che si trova più vicino alla sua origine “naturale”.
9. Cambiare il potere senza prendere il mondo
Si vede come il deficit di elaborazione teorica da parte di gran parte della galassia antagonista su questi punti si saldi fin troppo facilmente al desiderio di interpretare il mondo a partire da un’angolazione particolare vissuta come intrinsecamente buona e che coincide, quasi sempre, con il proprio percorso, i propri valori, i propri desideri. Il primato del privato e del personale si fonda qui sulla cancellazione di ciò che potrebbe politicamente trascenderli. Manca in tutto ciò il necessario complemento oggettivo al desiderio, ciò che potrebbe fare da collante reale, da tessitura effettivamente universale dei bisogni individuali. In altri termini, mancando un’adeguata teorizzazione del sistema delle merci e del denaro, manca anche un valido sostituto a quel necessario, per quanto contraddittorio, fenomeno di universalizzazione e socializzazione dei bisogni che essi incamerano. Dunque non resta che declamare la necessità che tutti i desideri si incontrino magicamente per rovesciare l’attuale sistema di potere, senza che venga indicato come ciò potrebbe essere possibile, dove risiederebbe il comune che si pretende di definire a partire dal mero desiderio individuale. Ed ecco che la prospettiva antagonista senza teoria del capitale finisce per coniugare un moralismo di fondo (“tutti dovrebbe fare come me!”) ad una mistica del desiderio (“quando tutti desidereranno cambiare, il mondo cambierà”) senza che sia possibile indicare il come di tale accordo e, anzi, finendo per rifiutare tutto ciò che pretende andare in direzione di una qualsiasi articolazione di tali istanze.
Un eccellente modello (in negativo) di cosa sia la militanza anticapitalista può essere fornito da uno scritto che ha avuto un’effimera fortuna al tempo dei movimenti no global degli anni ‘90, ovvero Cambiare il mondo senza prendere il potere di Holloway. Si tratta di un testo che ben sintetizza una forma mentis che va ben al di là della diffusione che esso ha effettivamente avuto all’epoca della sua pubblicazione. Si può dire che Holloway sintetizzi alla perfezione il limite dei movimenti antagonisti fondati sul rifiuto del potere e sul rifiuto del denaro. Questi due assi della protesta di certi ambienti no global sono tra di loro strettamente legati: il rifiuto dell’uno comporta il rifiuto dell’altro, l’incomprensione del primo concetto si fonda e a sua volta fonda l’incomprensione dell’altro.
L’idea di Holloway ruota precisamente intorno a questi due fuochi. Da un lato, il potere rappresenta l’alienazione dalla società, qualcosa che si erge al di sopra delle dinamiche e delle relazioni sociali immediate. Il male incamerato dallo Stato sta proprio in questa perdita di immediatezza. Dall’altro, il denaro rappresenta l’estremo esito e la conseguenza inevitabile di tale processo di estraneazione della società da se stessa: il denaro è male perché si interpone tra le prassi sociali e i loro scopi, tra i bisogni e la loro soddisfazione. Benché Marx avesse ben visto e criticato in anticipo questa banalizzazione dello Stato e del Denaro, gli si rinfaccia una focalizzazione sul potere statale e sul mondo dell’economia come due errori complementari e necessari che avrebbero decretato il fallimento del marxismo “ortodosso”. In questo discorso, “alienazione”, “feticismo”, “merce” e “denaro” rappresentano dunque altrettanti aspetti di uno stesso processo di reificazione ed estraneazione della società, tanto che la loro relazione diventa spesso indistinguibilità: non si capisce cosa sia causa di cosa e su quale elemento occorra intervenire per modificare l’assetto sociale complessivo. Ma in realtà, proprio la negazione di un centro del potere (sia esso lo Stato, sia esso il mondo delle relazioni produttive) è al tempo stesso il presupposto e l’esito di questo discorso. Si combatte, per dir così, un po’ “tutto insieme” (l’alienazione, il feticismo, la merce, il denaro…) , quindi niente in particolare.
Holloway tenta, in realtà, di trovare un elemento originario che innesca le dinamiche di oppressione e lo fa ricorrendo proprio alla categoria del “potere”. Esiste un potere che è possibilità di fare, dunque estrinsecazione di un potere virtuale operativo, ciò che Holloway chiama “poter-fare”[26]. Poi esiste invece un potere come comando sugli altri, dunque esercizio di controllo e gestione del poter-fare altrui e questo è ciò che Holloway chiama “potere-su”[27]. Ma questa visione si riduce, come si vede, nuovamente a quella concezione vitalistica, atomistica e immediatistica tipica della sinistra antagonista: il “poter-fare” viene concepito come originariamente puro, incontaminato da ogni dinamica di reificazione perché immaginato nella forma di un’azione che sgorga spontaneamente dagli individui e rimane nel loro raggio immediato di azione e controllo. Ma se così fosse, esso non sarebbe ancora un fatto sociale. Ammesso, e non concesso, che un tale stato idilliaco di armonia tra il soggetto e i suoi atti sia mai esistito, certo esso precede il rapporto autenticamente sociale che si origina solo nel momento in cui il soggetto non dispone più interamente delle conseguenze e del senso dei suoi atti: solo quando l’altro è co-implicato originariamente nel mio fare, quando non domino la serie delle cause e degli effetti in cui il mio fare si inserisce, solo allora il mio fare può essere qualificato come sociale[28]. Dunque, delle due l’una: o il “poter fare” immaginato da Holloway non è sociale, oppure, se lo è, deve essere già originariamente alienato. Ecco allora che tutta la dimensione dell’economico, che in Holloway rappresenta una degenerazione del fare che implica relazioni di potere, inerisce all’essenza del fare stesso, è un elemento ineludibile dello sviluppo sociale di cui la modernità capitalistica è un esito altrettanto legittimo, non una “deviazione” rispetto ad una legge dei rapporti sociali immaginata come “naturale”.
Stesso discorso per quanto riguarda lo Stato. La concezione del potere di Halloway è infatti qui indicativa perché la lotta contro lo Stato è lotta contro il potere-su che “reifica” la vita sociale. Holloway vede nello Stato un “irrigidimento”, una “falsificazione” del flusso originario della vita che sarebbe invece anti-identitario. Lo Stato sarebbe l’istanza che esercita e garantisce il “blocco” del carattere fluido dell’azione sociale, obbligando i soggetti all’assunzione di una “identità” statica che rinnegherebbe il dinamismo dei singoli e della società nel suo complesso per meglio ordinarla e controllarla dall’alto. Con la conseguenza che ogni attività politica rivolta nei confronti dello Stato soffrirebbe inevitabilmente di un analogo irrigidimento, di una analoga limitazione di prospettiva e concentrazione di energie. Occorrerebbe invece dedicarsi a sciogliere quell’irrigidimento impedendo che il flusso delle energie sociali si incanali nei percorsi dell’economico e della politica istituzionale. Stato, merce e denaro sarebbero espressione di “disumanizzazione” e ciò che è propriamente “umano” si porrebbe al di qua della loro introduzione nelle dinamiche sociali. Contro di essi si tratterebbe quindi di fornire delle “anticipazioni di una società umana”[29] ma, come al solito, non è chiaro come, visto che si è negato lo spazio di condivisione che solo potrebbe sollevare il fare individuale in direzione della socializzazione: i due pilastri della socializzazione moderna, infatti, tanto quello politico (lo Stato) quanto quello economico (lo Scambio), sono stati cancellati dall’orizzonte come forme degenerate di relazione sociale. Con il che, nonostante ogni assicurazione in contrario, quello che resta è veramente solo “un ritorno romantico a qualche mitica età dell’oro”[30]. Altrettanto sintomatico il fatto che la critica alla politica tradizionale e istituzionale venga condotta accusando il Partito degli oppressi che intendesse prendere il potere di volersi ergere a “Soggetto Onnisciente” che suppone “conoscere la totalità”[31]. Ma abbiamo già visto come il problema della totalità non vada affatto inteso nel senso di riuscire a gestire i singoli rapporti sociali dall’alto, poiché la possibilità di pensare la totalità sociale non sorge dalla somma empirica dei singoli atti sociali bensì dalla legge che li organizza e li trascende dall’interno. Sociale, nel senso della totalità sociale, è appunto ciò che si pone oltre l’orizzonte del singolo attore sociale e anche del mero aggregato degli atti dei singoli attori sociali. Nella società capitalistica questa totalità pone il problema dello scambio universale regolato dalla legge di autovalorizzazione del capitale. Aggredire il problema dello sfruttamento a livello sociale significa, appunto, andare a colpire il luogo (non fisicamente localizzabile ma logicamente determinabile) in cui si origina quella totalità di rapporti in quanto totalità[32]. Rinunciare al campo della lotta economica, rinunciare al campo della lotta politica in senso istituzionale, significa, molto semplicemente o ritenere irrilevante quella totalità, un’entità immaginaria che smetterebbe di sussistere nel momento in cui si smettesse di arginarne gli effetti di ritorno per dedicarsi “ad altro”, oppure pretendere di raggiungere la totalità per mera somma di atti individuali, confondendo dunque fatalmente il piano particolare dell’empirico con quello dell’universale-astratto.
Ovviamente il discorso va rovesciato: il riduzionismo qui è solo quello praticato da Holloway e dai movimenti antagonisti che ne ricalcano il pensiero, ovvero l’idea che si debba rinunciare in toto alla lotta sul piano economico e a quella sul piano istituzionale e questo perché è l’assunto di partenza ad essere infondato. Non c’è alcuna pura relazione sociale che venga successivamente coartata, reificata e alienata dalla modernità capitalistica. I rapporti sociali sono fin dall’inizio mediati, oggettivati, altri rispetto alle intenzioni degli agenti, è la loro intrinseca natura sociale a renderli tali. Dunque, diventa altrettanto sintomatica l’espressione usata da Holloway, secondo cui lo Stato avrebbe il compito di “disarticolare” i rapporti sociali spontanei per dare loro “forma”[33]. In effetti, è proprio questo che lo Stato, come agente sociale, fa. Ma “dare forma” significa, nel linguaggio filosofico classico, dare senso, rendere intellegibile, dunque condivisorazionale. Ciò che emerge dall’attività sociale diffusa (e che è già, lo ripetiamo, alienata rispetto a se stessa, rispetto alle intenzioni e alla volontà di ogni singolo agente che interagisce nei processi sociali, dunque è già reificata e ultra-individuale seppure in forma oscura e opaca), può in effetti ricevere dalle istituzioni  una forma intellegibile, cioè assumere un senso e un significato a livello dell’universale. Può dunque ricevere il suggello dell’astrazione (tramite la legge, il denaro o l’attività tecno-scientifica ecc.) che la rende tale, piuttosto che essere l’effetto cieco di scambi e di relazioni privi di una intenzionalità comune. Lungi dall’essere mera “alienazione” delle prassi sociali spontanee, questo momento universale-astratto esprime piuttosto il tentativo di raggiungere una prassi che sia autenticamente condivisa e dunque autenticamente sociale. Di quale forma si tratti (se di una forma rivolta all’arricchimento e al potere di pochi, oppure di una forma che contribuisca all’arricchimento e al potere di tutti), non decide il fatto che essa passi attraverso le categorie dell’economico o l’attività dello Stato, bensì, appunto, il modo specifico in cui l’economia e lo Stato intervengono nei processi produttivi e decisionali. Cancellato il problema della totalità, della socializzazione e dell’universale, ciò che resta è il privato e il personale in balia della totalità, della socializzazione e dell’universale violenti della privatizzazione capitalistica.
La lotta al capitalismo declinata come stile di vita, dunque, non solo fallisce il colpo sul versante critico-negativo, ovvero nel determinare il luogo di attacco al capitale. Per lo stesso motivo, fallisce anche nella capacità progettuale-positiva che dovrebbe sostituire il regime capitalistico. Perché in tutti i progetti emancipativi vissuti come “stile di vita”, e sia pure come stili di vita “comunitari”, manca l’elemento dell’universalizzazione. Soppressa la metamorfosi del capitale in merce e denaro come elemento di mediazione che produce la cooperazione oggettiva tra i produttori, con che cosa si intende sostituire quel processo reale di socializzazione? Con la semplice volontà di associarsi. Ma su quali basi? Con quale garanzia di efficacia reale? Con quale misura della sua razionalità intrinseca? È ovvio infatti che il glocal (“pensare globalmente e agire localmente”) è solo uno slogan che non può sostituire tali processi, né ne offre un metodo di analisi, poiché essi, sorgendo sotto l’auspicio di un desiderio, sfuggono per definizione alla necessità. Risulta piuttosto plausibile che si disegnino scenari opposti: quelli in cui, al posto della cooperazione e della socializzazione della produzione in senso globale, prevalga l’atomizzazione, il trionfo di logiche e interessi particolaristici, la celebrazione dell’identitarismo e del protezionismo.
10. La falsa opposizione tra mezzi e fini
Quando si sottolinea la centralità del canale politico istituzionale, si ha sempre il timore di suonare retrò, vetero-marxisti, di celebrare le virtù taumaturgiche del “Partito rivoluzionario”. E già si sente salire il coro di coloro che si lamentano di una prospettiva in cui si tratterebbe di “aspettare il giorno della rivoluzione” rimandando nel frattempo ogni tentativo di cambiare la vita qui e ora.
Anche in questo caso si è venuta creando una contrapposizione tra due posizioni altrettanto unilaterali. Quella secondo cui il fine della rivoluzione avrebbe una priorità assoluta sui mezzi per raggiungerla e dunque giustificherebbe a posteriori qualsiasi abuso, e quella secondo cui invece la rivoluzione dovrebbe essere già interamente contenuta nei mezzi con cui si cerca di attuarla o, in una versione più debole, non potrebbe esserci alcuna contraddizione tra i mezzi e i fini, dunque non sarebbe lecito raggiungere lo scopo finale della rivoluzione attraverso atti che moralmente le sono difformi (tipico il caso della non-violenza come mezzo e fine della lotta). Il primo caso è quello del marxismo sovietico e delle sue derivazioni ortodosse, con la sua necessità di istituire una gerarchia, il suo culto dei capi, il suo ottimismo ufficiale, la spregiudicatezza della sua tattica e della sua strategia, la sua visione meccanicistica e burocratica della trasformazione sociale in cui gli individui finiscono per essere pedine di un gioco controllato dall’alto. Nel secondo caso, caratteristico invece della sinistra movimentista e più prossima all’anarchismo, non ci sarebbe alcuna possibilità di articolare una differenza tra tattica e strategia, il cambiamento dovrebbe avvenire in piccolo, qui e ora, per poi allargarsi ad altre comunità secondo un concetto di rete orizzontale e policentrica.
Come abbiamo visto altrove, l’opposizione tra sinistra “stalinista” e sinistra “anarchica” elide completamente la presenza teorica e storica di una terza opzione, interna alla storia del movimento operaio e che, per quanto obiettivamente minoritaria, indica la possibilità di superare almeno teoreticamente tale contrasto: quello della rivoluzione permanente che raccoglie l’eredità di Rosa Luxemburg[34] e Leon Trotsky. Questo modello unisce i pregi delle due posizioni alternative usandoli per correggerne reciprocamente i difetti, coglie cioè tanto il fattore oggettivo-strutturale, quanto quello soggettivo-individuale dei processi rivoluzionari. Esso vede (1) nel cambiamento posto a livello strutturale una necessità inderogabile di ogni progetto rivoluzionario: riconosce l’esistenza dei corpi intermedi, delle forme sociali, come modalità specifiche in cui si dà l’esperienza umana, dunque, al contrario della concezione anarchica, non assume l’oggettivazione sociale come il male, la “reificazione” dell’azione individuale come la causa stessa dell’oppressione. Riconoscere che le strutture complesse sono un fatto che attiene all’esperienza sociale dell’uomo e non una mera “degenerazione” aiuta a collocare a questo livello il potenziale di cambiamento della società e con ciò amplia le possibilità di azione al di là di ciò che i singoli o le singole comunità potrebbero fare rinunciando a tutto ciò che non è immediata espressione dei loro bisogni o delle loro capacità dirette. D’altro canto, la teoria della rivoluzione permanente vede (2) nella liberazione delle energie sociali il vero motore della rivoluzione e anche il garante della sua capacità di non irrigidirsi in strutture burocratiche e anti-democratiche. La rivoluzione è “rivoluzionamento” delle masse, delle loro aspettative, capacità, bisogni, non può vivere se questi non si ampliano e si approfondiscono, dissolvendo, con lo stesso atto con cui creano il nuovo, le forme stantie e oppressive del vecchio. Il fattore soggettivo diventa qui anche ciò che impedisce alle strutture di degenerare in meri apparati che si auto-perpetuano perdendo di vista il fine per cui erano state istituite (che è, appunto, l’allargamento della base sociale della rivoluzione, della partecipazione ai processi decisionali, della possibilità di inventare nuove forme di convivenza e di soddisfazione dei bisogni). Dunque è assolutamente vero che il problema della reificazione degli apparati esiste, ma non esiste tra gli individui e gli apparati come tali, poiché gli apparati, le strutture, le forme oggettive del vivere comune, fanno parte della costruzione di senso dell’esperienza sociale. Piuttosto quella reificazione esiste tra le strutture e il senso che tali strutture esprimono o dovrebbero esprimere nel processo di superamento del capitalismo, di modo che l’irrigidimento burocratico è l’espressione del fatto che la struttura inizia a perdere di vista la produzione di senso che l’aveva istituita, finendo per limitarsi a perpetuare se stessa bloccando così la transizione ad un diverso modo di produzione.
            Non interessa qui quanto le strutture organizzative che si richiamano all’esperienza della rivoluzione permanente (la IV Internazionale ecc.) di fatto poi l’abbiano espressa adeguatamente. La questione qui è anzitutto teorica, verte cioè sulla possibilità di un modello che faccia saltare quell’opposizione tra mezzi e fini che ci lascia in uno stallo da cui è poi impossibile una seria analisi del modo in cui i conflitti all’interno del capitalismo possano guadagnare una prospettiva di autentico trascendimento del suo orizzonte produttivo. Il termine “rivoluzione” qui allude ad un cambiamento di massa, radicale che giunga ad intaccare la struttura produttiva capitalistica. Non allude quindi ad una qualche specifica forma di conflitto (violenta o meno), quanto alla possibilità di lasciarsi alle spalle il modo di produzione capitalistico organizzando una convivenza pacifica e senza sfruttamento a livello globale. Abbiamo già visto, d’altronde, come ciò non sia possibile senza tenere conto dello specifico modo in cui tale conflitto deve organizzarsi anche attorno ai nodi del potere statale e della produzione. In tal senso, anche l’opposizione tra massimalismo riformismo porta sulla cattiva strada. Assumere una posizione massimalista (tutto e subito), infatti, tende a considerare ogni riforma un arresto del processo rivoluzionario e un tradimento, senza considerare quanto invece la conquista di posizione sul campo della lotta contro lo sfruttamento del capitale permetta una maggiore possibilità di manovra, di spingere verso richieste più avanzate ecc. Assumere una posizione riformista e socialdemocratica classica, invece, significa al contrario limitarsi a concepire il cambiamento sociale come mera addizione di riforme slegate da un percorso coerente e unitario di superamento del capitalismo. È chiaro come qui riemerga il problema della totalità: non ci può essere percorso unitario, né può esserci un salto oltre l’orizzonte del capitale se la società non viene pensata come un tutto organizzato a partire dal processo di autovalorizzazione del capitale stesso perché solo un cambiamento a questo livello del conflitto garantisce la possibile uscita dal cerchio che esso disegna. È chiaro che ciò non cambierà necessariamente le relazioni di genere o di specie, non sconfiggerà il razzismo né l’inquinamento. Ma è altrettanto chiaro che se non si agisce a questo livello si lascerà il capitale agire indisturbato e dunque gli si permetterà di riorganizzare il sistema dei bisogni e la propria autoperpetuazione come sistema di sfruttamento di classe attorno a quelle issues: un capitalismo delle pari opportunità (di sfruttamento), gay-friendly, vegano e ambientalista non è affatto una contraddizione in termini.
            Questo non significa che le forme organizzative tradizionali del lavoro salariato, il partito e il sindacato, siano l’afla e l’omega della trasformazione sociale. Ma abbandonare totalmente questo livello dell’azione politica, disinteressarsi di ciò che qui accade, significa lasciare campo libero alle forze che la lotta di classe sanno farla molto bene, cancellando diritti e rimuovendo consequenzialmente i limiti allo sfruttamento di tutte e tutti. Anche solo essere in grado di determinare quale tra i partiti più distanti dal tuo interesse di classe sia preferibile avere al governo magari per poter organizzare meglio l’opposizione sociale sembra diventato un pensiero irricevibile. Mentre si tratterebbe di mero buonsenso. Dall’epoca di Lenin, in cui si predicava “l’analisi concreta della situazione concreta” e non si escludeva nessun mezzo che potesse garantire una posizione di vantaggio nella lotta di classe, siamo giunti alla consacrazione della mera testimonianza e del purismo aprioristico dei mezzi come unica forma di lotta legittima. L’agire politico svapora nell’etica dell’intenzione.
11. Il socialismo è un asse, non una soggettività
Che rapporto dovrebbero avere dunque il femminismo, i gruppi queer, l’attivismo ecologista e antispecista con il socialismo, posto che questo significa tenere in debito conto gli strumenti rappresentativi della classe lavoratrice a livello politico e sindacale? Si tratta di tornare al primato del politico sul personale? Per rispondere a questa domanda facciamo un passo indietro. Proviamo a riconsiderare il problema della militanza tradizionale e la famigerata questione della “palingenesi” del socialismo, ovvero l’idea secondo cui il socialismo avrebbe creato “l’uomo nuovo”, ovvero cambiato l’umanità e risolto tutti i nostri problemi. La subordinazione di tutte le lotte alla lotta per il socialismo si fondava (anche) su questa concezione errata. Che tuttavia è errata non perché sia troppo socialista, ma perché non lo è abbastanza. Per riprendere una battuta di Marcuse: “non ogni problema che uno ha con la sua ragazza è necessariamente dovuto al modo di produzione capitalistico”. L’idea che il socialismo risolva i problemi dell’umanità deriva proprio da una cattiva generalizzazione della teoria marxiana, quella secondo cui Marx avrebbe preteso scrivere una sociologia generale, elaborare un’antropologia filosofica o, peggio, un sistema della storia.
Poiché la militanza nel partito finiva per assorbire gran parte del tempo degli individui e delle comunità locali, permeandole e attraversandole integralmente, il politico entrava già nel privato seppure spesso nella forma alienata che le organizzazioni staliniste davano alla partecipazione. D’altro canto, nei partiti di massa occidentali accadeva che la struttura politica tradizionale accogliesse nella militanza anche situazioni esterne al mondo del lavoro, cercando di “assorbirne” nel programma, se non le istanze, almeno la possibile soluzione: ciò che apriva al problema del “dopo la rivoluzione” ma sicuramente permetteva una maggiore dialettica tra pubblico e privato, tra istanze particolari e lotta al capitale.  Il divergere odierno di pubblico e privato (la militanza che si ritira interamente nel privato) è solo una ulteriore alienazione reciproca delle due sfere, in base alla quale entrambe rischiano di atrofizzare ancora di più che prima. Il problema, certo, è la modalità storicamente specifica che ha condotto le organizzazioni della sinistra tradizionale ad assumere i tratti rigidi e dirigistici dello stalinismo e la accuse di “deviazionismo” che spesso colpivano istanze di liberazione che provenivano da altri strati sociali o da elaborazioni teoriche diverse dal marxismo ufficiale. Ciò ha avuto un ruolo, come abbiamo visto, nel processo di alienazione di tali istanze nella sfera del privato, il che, a sua volta, ha ulteriormente allargato la distanza tra la militanza tradizionale e l’idea di re-invenzione della vita che proveniva dalle punte più avanzate della cultura “borghese”. E ha senz’altro contribuito all’irrigidimento della militanza, alla sua disumanizzazione reale, alla sua austera burocratizzazione. Ma condannando le forme, i metodi e gli obiettivi della militanza tradizionale per questo significa, nuovamente, confondere una questione storica con una posizione teorica. In realtà le strutture oggettivano le dinamiche interne della lotta nel tentativo di universalizzare l’azione (a tutti i livelli, dal locale all’internazionale) proprio per affrontare il capitale sul suo stesso terreno. Dire che la lotta al capitale condotta su questo piano conduce necessariamente al dirigismo burocratico significa confondere stalinismo oggettivazione dei processi sociali. E questa confusione, per altro, opera in termini perfettamente stalinisti, perché lo stalinismo intendeva la burocratizzazione come un fenomeno inevitabile mentre la sinistra movimentista, al converso, criminalizza la mediazione istituzionale come di per sé, cioè di nuovo inevitabilmente, dirigistica e burocratica. Stalinismo e sinistra anarchizzante condividono cioè la medesima errata teoria sociale, solo invertita di segno: ciò che per l’uno è positivo per l’altra è negativo e viceversa.
Tra la pretesa al cambiamento qui e ora e la dimensione storicamente trascendente dell’socialismo c’è un salto incolmabile. Inevitabile. Nessuna prassi singolare, nessuna immaginazione può colmarla. Ciò non accade perché l’al di là del capitalismo sarebbe un concetto utopico, inesauribile (secondo il linguaggio messianico di Bloch) ma perché lo stato dei rapporti reali determina le possibilità stesse del socialmente immaginabile. Basti pensare a come la condizione che si pone auspicabilmente oltre l’orizzonte del capitalismo sarà non solo comunitariama lo sarà per di più in senso nazionale internazionale. E questo è assolutamente non anticipabile dalla prassi e dall’immaginazione dei singoli o delle singole comunità. Dunque ogni prassi e ogni immaginazione tentata nel presente sarà inevitabilmente condannata al particolare. Il qui e ora mostra così tutti i suoi limiti, la sua parzialità escludente, anche con possibili derive conservatrici, corporative, campanilistiche. Alla falsa universalità delle single issues (il genere, la razza, l’orientamento sessuale, la specie) corrisponde la falsa singolarità delle situazioni “locali”, delle singole “vertenze”. Occorrerebbe piuttosto tracciare la linea che definisce l’opposizione di classe a tutti i livelli e tornare a pensare la lotta a quell’opposizione come necessariamente strutturata su più piani. Ma, anzitutto, come essenzialmente strutturata. Poiché il capitale organizza la sua lotta ad un livello che necessita di una risposta altrettanto organizzata. La rinuncia alla lotta organizzata al capitale anche su uno solo dei livelli in cui esso struttura il comando sul lavoro è rinuncia alla lotta al capitale tout court.
Ora, è chiaro che la teorizzazione di contesti di oppressione la cui portata, struttura e significato esulano dal rapporto di sfruttamento capitalistico in senso stretto (dal femminismo alla queer theory, dall’ecologismo all’antispecismo ecc.) ha significato l’esigenza di praticare una “nuova sensibilità”, ovvero di far emergere già qui gli atteggiamenti e le pratiche non-discriminatorie e alternative rispetto allo status quo senza dover “aspettare il giorno della rivoluzione”. Tutto questo ha una sua plausibilità, come vedremo, che va ben al di là dell’accusa banale secondo cui i lavoratori non sono “buoni” sic et simpliciter ma possono esercitare anche loro rapporti di dominio e praticare la discriminazione verso altri soggetti oppressi. In realtà, non solo al lavoratore salariato non si chiede di essere “moralmente” superiore agli altri (qualsiasi cosa questo voglia dire), ma anche il suo essere in una posizione di “potere” nei confronti di altri (qualsiasi cosa questo voglia dire) non ci dice ancora nulla sul potenziale eversivo della specifica lotta al capitale che il salariato può svolgere, perfino in relazione a quelle vere o presunte relazioni di “potere” in cui il lavoratore potrebbe trovarsi invischiato. Qualsiasi giudizio su questo punto necessita di un’operazione teorica preliminare che l’intersezionalismo, per i motivi già visti, rifiuta di fare: occorrerebbe cioè prima separare le diverse forme di oppressione e sfruttamento, dare alla relazione di comando sul lavoro da parte del capitale la sua specifica collocazione e chiarire il modo in cui essa interagisce con le altre forme di “potere” o con le pratiche di discriminazione. Gli interesezionalisti, invece, in genere saltano a pie’ pari l’analisi del modo di produzione capitalistico e mescolano assieme alle altre forme di “discriminazione” il rapporto di subordinazione salariale. Dal che poi è facile far scattare il meccanismo secondo cui la lotta al capitale pretende che “si aspetti il giorno della rivoluzione” prima di “cambiare la vita”. Certo, non si vuole qui tacere quanto le organizzazioni storiche della sinistra abbiano sottovalutato, e spesso ancora continuino a ignorare l’esistenza di forme ancestrali, premoderne di oppressione che ricevono una nuova veste e una nuova funzione nel modo di produzione capitalistico. È senz’altro un dato acquisito che la lotta anticapitalistica debba assumere anche a livello personale in forma quanto più possibile ampia e condivisa delle pratiche non discriminatorie e che, per dirne una, l’epoca in cui le donne erano “gli angeli del ciclostile” sia definitivamente tramontata o si debba fare il possibile per farla tramontare definitivamente. Ma occorre allo stesso modo tornare a fare chiarezza su un punto decisivo: ciò deve avvenire non perché quelle pratiche siano momenti ineludibili della lotta contro il capitale, perché non lo sono (molte di quelle istanze sono invece politicamente “trasversali” e nulla assicura che esse non potrebbero trovare un’adeguata collocazione all’interno del regime di produzione capitalistico); né tantomeno perché sarebbero momento della lotta ad una misteriosa entità che sarebbe la sintesi di tutte le forme di oppressione: tale entità è un mero ens rationis, una costruzione teorica cui non corrisponde alcuna realtà unitaria, con una logica coerente che si potrebbe combattere a partire dalla mera somma di pratiche anti-discriminatorie.
L’approccio dovrebbe essere diverso. Posto che la lotta contro la discriminazione di genere, le pratiche di resistenza antirazzista, il consumo consapevole fino al veganismo rappresentino momenti di una “nuova sensibilità”, esprimano un’esigenza di testimoniare l’impegno al cambiamento, un “mi preme” urlato in faccia all’indifferenza della maggioranza silenziosa, essa può svolgere un ruolo importante in un processo di trasformazione radicale del presente ma a due condizioni. Un’avvertenza di buon senso che può farsi valere è che tutto ciò non deve ovviamente cedere al moralismo che frantuma, piuttosto che compattare il fronte della resistenza all’oppressione, esprimendosi nella pretesa per cui il modo in cui gli altri agiscono sia frutto di una cattiva volontà, piuttosto che di una specifica forma sociale di esistenza. In secondo luogo, occorre che le diverse lotte trovino o meglio riscoprano il terreno in cui possono far valere obiettivi condivisi, articolare una tattica e una strategia di lotta. Nel fare questo devono ovviamente sottrarsi ai meccanismi ideologici di cattura della cultura liberal (smettere di pensare in termini di egemonia del “discorso” e ripensare la centralità delle relazioni produttive nell’attuale sistema sociale). Ciò non significa affatto subordinarsi alle organizzazioni tradizionali di lotta dei lavoratori. Devono però riscoprire che solo il terreno dell’analisi di classe permette di formulare i problemi della prassi ad un livello universale in cui le diverse forme di oppressione possono trovare una via d’accesso ai meccanismi sociali istitutivi del mondo in cui vivono. Devono cioè far entrare l’anticapitalismo realmente nelle proprie teorizzazioni e nella propria prassi, piuttosto che ridurlo a slogan. Spesso oggi le organizzazioni di ispirazione marxista fanno a gara per aggiungere “etichette” o “suffissi” alla propria militanza (gruppi marxisti-femministi-ecologisti ecc.). Sarebbe meglio avvenisse il contrario: che i gruppi femministi, ecologisti, queer ecc. iniziassero non tanto ad etichettarsi come marxisti (si etichettano fin troppo…), bensì a ripensare il capitale e il suo specifico modo di funzionamento. La prospettiva qui presentata, dunque, non pretende affatto che i movimenti di lotta si facciano dettare l’agenda dai partiti tradizionali della sinistra o dai sindacati. Nella misura in cui nessuno ha garantita la ricetta per pensare e contrastare adeguatamente il capitale è ovvio che rispetto al problema della centralità di questa lotta tutti i gruppi e i partiti, inclusi quelli della sinistra, si trovano sullo stesso piano e nessuno può rivendicare un ruolo di “avanguardia”. Ma è certo che tale ruolo spetta oggettivamente a chi tale contraddizione riuscirà a pensare in modo adeguato, pensandola nella sua specificità, senza disinnescarne la radicalità, annacquandola in senso moralistico. E dunque a chi di fatto contribuirà ad articolare e organizzare la lotta a livello posto dal capitale. Ed è altrettanto chiaro che tutte le posizioni pseudo-radicali che chiedono di abbandonare uno dei piani di organizzazione della lotta al capitale rinunciando a qualsiasi posizionamento tattico e strategico condannandolo astrattamente come “tradimento” di una non meglio identificata causa di “liberazione” contribuiscono in realtà al successo del capitale stesso e il loro “anticapitalismo” andrebbe considerato alla stregua di ciò che è: una mera formula verbale.
Come va pensata a livello teorico dunque l’opposizione tra personale e politico? La soluzione sta nel riattivare la dialettica tra quei poli che è stata manomessa dalla critica alla forma organizzativa tradizionale della militanza e dei suoi terreni istituzionali di lotta. Questo implica ripensare le categorie del personale e del politico dentro quella dinamica positiva di universalizzazione e astrazione innescata dalla modernità, di cui il capitalismo è una fase ma che non si esaurisce nell’orizzonte stesso del modo di produzione capitalistico. Ciò può a prima vista sembrare un tentativo di sottrarre all’individuo il suo raggio d’azione in favore dei processi oggettivi e tornare a concezioni vetuste della militanza impersonale e burocratica: ma questo accade solo perché, come abbiamo visto, la concezione del politico e del personale cui ci si appoggia è astratta, astorica e mistificata.
Dire che si è caricata la sfera dell’individuo e delle relazioni personali di un peso trasformativo eccessivo non significa negare totalmente che qualcosa di fondamentale qui accada. Ma dare il giusto peso a questo livello significa anche riconoscere la dialettica che il capitale vi introduce. È lo sviluppo capitalistico che produce infatti la ricchezza materiale, tecnologica e simbolica (culturale) di cui oggi l’individuo dispone,seppure sempre in forma ineguale e contraddittoria. È infatti ancora il processo di accumulazione che relega questo stesso individuo nell’impotenza e nell’atomizzazione. In un caso come nell’altro, senza una focalizzazione sul modo di funzionamento specifico del capitale, ci sfuggirà anche la potenzialità reale, nonché il limite e la parzialità che la sfera dell’individuo può giocare nei processi di trasformazione sociale.
Al contempo si tratta di restituire alla militanza il carico di ciò che è “politico” in senso non-personale come forma di mediazione oggettiva delle relazioni sociali. L’incapacità di discutere nel merito, di affrontare questioni teoriche e pratiche al di fuori dell’emotività momentanea, di gestire la dialettica delle idee senza lasciarla degenerare in psicodramma è un tratto caratteristico della militanza di movimento che difficilmente potrà essere contestata. Ma questa incapacità di spostare il baricentro del pensiero e dell’azione su un piano oggettivo, non è una forma di compensazione delle storture della militanza burocratica, bensì un ulteriore esempio di quella mistica del soggetto vitalistico che ha in sospetto ogni forma di “irrigidimento” del pensiero e dell’azione. Il soggetto, piuttosto, trova se stesso nell’aprirsi verso l’Altro, laddove questo termine non indica solo e tanto l’altra soggettività, quanto proprio la dimensione del non-soggettivo, ciò che il vitalismo anarchizzante immagina essere la sfera della reificazione, della morta oggettività. Quando il personale è posto come sfera dell’autenticità, magari anche della relazione intersoggettiva come correttivo degli egoismi e degli egocentrismi, ciò che viene posto in relazione è ancora e sempre una soggettività idealistica, chiusa nel culto di un umanismo fatto di “io” e “tu”, di “prossimità”, di “sincerità”. Ciò che viene comunque escluso è che il senso del pensiero e dell’azione individuale possa compiersi in qualcosa che trascenda il soggetto e la relazione tra soggetti, possa essere non l’espressione di un vissuto, bensì la costruzione di un comune che sussista anche al di fuori di quel vissuto. Ed è a questo livello che la comunità, laddove viene evocata, può lavorare nel senso dell’universalità e non del particolarismo. Perché proprio la comunità è il luogo per antonomasia dell’incontro accogliente di un’alterità che mi precede e mi fonda e rispetto alla quale non avrebbe senso porre la questione dell’alienazione del “puro” essere se stessi, così come della reificazione di un rapporto tra non-identici che si vorrebbe però pregiudizialmente “fluido”.
Il blocco alla trasformazione socialista è il comando del capitale sul lavoro. È rispetto a questo blocco che devono collocarsi le soggettività oppresse (di genere, razza, orientamento sessuale, specie ecc.), non per occluderne la percezione in un nebuolsa di identità dominanti/dominate, ma per farlo risaltare nella sua diversità. La gerarchia che regola i rapporti di produzione capitalistici, infatti, è specifica perché strutturale, cioè aliena da ogni elemento soggettivo. Il capitale funziona a partire dalla logica automatica della propria autovalorizzazione. Esso “assorbe” le soggettività per sublimarle nel suo meccanico dispiegamento, agendo come un processo acefalo, “senza soggetto” avrebbe detto Althusser. Ecco perché qui, a livello delle relazioni produttive capitalistiche, l’elemento culturale “discriminatorio” è derivato (anche laddove contribuisce a sostenerlo: ad es. nella sintesi tra oppressione salariale e discriminazione in base all’etnia o al genere) e non è essenziale alla sua costituzione in quanto rapporto di subordinazione capitalistico, dunque neanche alla sua dissoluzione. Il capitale può sempre riorganizzarsi quando il riconoscimento di un diritto gli sottrae la possibilità di sfruttare ulteriormente o più intensamente la forza lavoro. In questo ambito la prassi sociale volta alla lotta contro le “discriminazioni” deve riconoscere la propria impotenza o, meglio, la propria non pertinenza. Non solo l’imprenditore non ha nessun bisogno di “disprezzare” i propri operai per sfruttarli, ma perfino l’imprenditore “buono” che desidera il loro bene non può fare nulla, rimanendo imprenditore, per sottrarli allo sfruttamento[35].
E tuttavia, ecco il punto decisivo, perché la trasformazione socialista dei rapporti di produzione possa essere autenticamente democratica è necessario tenere in conto la partecipazione effettiva di tutte le soggettività oppresse dal capitale anche al di fuori di quelle relazioni produttive. Proprio perché qui è la società nel suo complesso che si auto-organizza per la prima volta nella storia e trova solo nella razionalità socialmente condivisa il proprio metro di giudizio, è essenziale a tale progetto emancipativo anche l’emancipazione definitiva di tutti i soggetti che possono aspirare ad avere un ruolo nella costruzione della volontà comune che deve sorregge l’autorganizzazione della produzione e la soddisfazione generale dei bisogni.  Nessuna liberazione del desiderio può instaurarsi senza abolire il comando sul lavoro che essa, per conto suo, non può abolire. Dal canto suo, se la lotta socialista vuole realmente puntare ad una riorganizzazione della produzione su base paritariapartecipata democratica, deve fare propria la lotta contro le forme di discriminazione che precedono o eccedono i rapporti di produzione capitalistici. Non solo un generico “rispetto” per l’altro, ma la partecipazione attiva e reale di “minoranze” e soggettività oppresse è perciò consustanziale al progetto socialista (certo senza che nessuna possa far valere una volontà di egemonizzare le altre). La lotta socialista, da questo punto di vista, assume la forma di un asse attorno a cui ruota il problema del soggetto e dei suoi rapporti con l’alterità, non è una super-soggettività che “ingloba” le altre.
12. La classe va abolita, non decostruita
Tutto ciò non cambia laddove il soggetto viene messo in questione nella sua identità rigida magari per aprirlo alla fluidità di genere, all’alterità non-umana o all’utopia post-human. Se la identity politics viene contestata muovendosi sullo stesso terreno accademico e iper-teoreticista (che in realtà, come abbiamo visto, è ipo-teoretico), se cioè all’identità si contrappone un rifiuto dell’identità, l’orizzonte della politica identitaria non viene realmente trasceso. Quando ad es. alcune teorizzazioni queer lottano per un’abolizione del dualismo di genere polemizzando contro il femminismo di seconda generazione si tocca con mano come quel meccanismo identitario e moralistico finisca per affettare perfino le lotte che fanno della critica all’identità il proprio fulcro: si fa della non-identità un feticcio e si condanna moralisticamente chi non “sente” la necessità di farsi attraversare dalla differenza[36]. La sacrosanta lotta contro la violenza e l’esclusione delle trans, infatti, non implica affatto l’accettazione in toto della prospettiva queer da parte delle femministe, meno che mai quando si pretende cancellare in nome della lotta alla discriminazione la soggettività femminile, le sue forme organizzative e i suoi obiettivi storici di lotta. Certi passaggi di Preciado sono un perfetto esempio di moralismo rivoluzionario, cripto-identitario e astratto: “io credo che la politica sia uno spazio di invenzione collettiva e che se vogliamo trasformare le relazioni di potere basate su etnia, genere e sesso, dobbiamo immaginare un altro insieme di relazioni e dobbiamo desiderare il cambiamento. Non possiamo realizzare un cambiamento sociale che non desideriamo, ma la maggior parte delle persone non lo desidera veramente perché vuole mantenere i propri privilegi sociali e politici”[37]. Termini come “potere” e “privilegio” vengono sganciati da qualsiasi contestualizzazione materiale, storica e ridotti a etichette vuote. Un’afro-americana, non importa se sfruttata fino allo sfinimento, sarà comunque considerata “privilegiata” nel suo ruolo “cis” rispetto alla repubblicana trans Caitlyn Jenner. Altrettanto sconvolgente è la tendenza delle comunità queer a sottovalutare l’impatto devastante del capitalismo sulla riproduzione femminile quando si parla di GPA, ulteriore segno di come l’iper-teoreticismo nella definizione dei rapporti di potere possa finire per occultare completamente le dinamiche del potere reale. Il “cambiamento sociale” auspicato, non meno vuoto del “privilegio” che denuncia, viene invocato a partire da un supposto desiderio di “cambiare tutto”, con la inevitabile colpevolizzazione di chi non desidera abbastanza o desidera, povero lui, in modo (s)corretto. E non importa se l’ingiunzione a desiderare altrimenti proviene da chi, alla fin fine, non si interessa granché della tua condizione economica: “ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale”[38]. Lo “stato sociale” è, ovviamente, anche altro: ma per la rivoluzione dell’affetto questo altropassa sempre troppo frettolosamente in secondo piano.
Qui emerge il problema filosofico di cui abbiamo accennato e che pur essendo eredità della stagione post-moderna, sopravvive purtroppo all’esaurimento di quella moda accademica nel pensiero diffuso di molta sinistra di movimento e non: l’idea che l’anti-essenzialismo l’anti-universalismo siano delle conquiste filosofiche che vadano senz’altro in direzione di una liberazione ulteriore rispetto alla modernità illuministica. In questa esaltazione della singolarità atomistica e della soggettività fluida, si registra quella fobia dell’alienazione e della reificazione che abbiamo visto essere tutt’altro che neutra e ingenua[39].
Ora, è del tutto ovvio che l’anti-essenzialismo in natura sia pienamente giustificato e rappresenti una conquista progressiva della scienza moderna da Galileo a Darwin. Che la filosofia debba fare i conti con questo, con l’assenza di un’ontologia che possa giustificarne aprioristicamente gli asserti, è un dato di fatto. Non è ovviamente questa la sede per discutere di quale tipo di ontologia possa, ammesso che possa, corrispondere a questo stato di fatto e dunque entrare nei dibattiti sul neorealismo filosofico, il materialismo speculativo ecc. Qui basterà sottolineare come l’insuffiencenza dell’essenzialismo “naturale”, non dica nulla su come si debbano trattare i problemi di essenza nel mondo sociale. È ovvio che laddove l’essenzialismo naturale veniva a sovrapporsi all’essenzialismo “culturale” (dal pensiero di Aristotele giù giù fino a Kant e oltre) l’opera di attacco a questo tipo di essenzialismo culturale è meritorio. Tuttavia, predicare un anti-essenzialismo di principio nella cultura è assurdo. Applicato con rigore da Marx alla “naturalizzazione” dei fenomeni sociali esso viene oggi esteso a qualsiasi pretesa di leggere la rigidezza essenzialista delle forme sociali. Ma questo significa impedirsi di comprendere fenomeni come il modo di produzione capitalistico che hanno invece un’essenza che non deriva dal nostro modo di “tassonomizzarli” bensì dalla loro logica interna di sviluppo. La confusione tra ciò che è stabile perché prodotto di una precisa legge sociale che si vuole abolire e ciò che è stabile perché prodotto di una “fissazione” della mente è oggi molto diffusa. Ed è conseguenza, da un lato, dell’ideologia liberal che ha preso piede all’epoca del trionfo del post-moderno in ambito accademico[40], dall’altro, dello spontaneo idealismo di chi rimane fissato a quella che non a caso Marx chiamava la superficie “fenomenica” dei processi sociali. Il problema fondamentale qui è che negarsi il pensiero dell’essenza di tali processi, dunque considerare una certa forma sociale la semplice conseguenza di un pensiero essenzialistico, significa che non si cercherà nella modificazione di quell’essenza un cambiamento dell’apparenza fenomenica, bensì si vedrà quest’ultima come qualcosa che può essere modificata a piacimento dalla volontà o dal desiderio degli attori sociali. Ora, il rapporto tra lavoro e capitale ha la forma stabile e la logica necessaria di una relazione d’essenza rispetto alla quale i rapporti sociali che dipendono da questa sfera rappresentano altrettante modificazioni fenomeniche. Ed è chiaro, come abbiamo più volte detto, che non tutti i rapporti sociali cambiano integralmente quando si cambia quell’essenza (dunque la fine del capitalismo non garantisce nessuna liberazione rispetto ad altri rapporti di oppressione), ma è chiaro che tutti si relazionano al modo specifico di essere del capitale e che questa relazione (il modo cioè in cui il capitale modifica i rapporti di genere o di specie, le relazioni comunitarie, i processi decisionali, la cultura, ecc.) per la parte che riguarda il capitale, ammesso che sia possibile scorporarla dal resto, rimane legata alla sua essenza specifica la cui rigidezza non può essere ricondotta ad una volontà di “tassonomizzare” il molteplice.
            È per questo che non si può pensare di “decostruire” la classe, come si pretende o si è preteso di decostruire il genere, la razza e la specie. Le distinzioni di classe vanno abolite realmente, non “ripensate”. In questo contesto va quindi posta anche una ricalibrazione del problema dell’essenza rispetto alle questioni di genere di specie. La lotta contro l’oppressione di genere e lo sfruttamento della natura non-umana trova infatti nelle teorizzazioni anti-identitarie queer e antispeciste una punta avanzata. Si tratta però spesso di concezioni che vedono proprio nella “tassonomizzazione” un problema di oppressione. Dunque la violenza di sistema sarebbe rivolta anzitutto alla costruzione di “polarità”, di “schemi binari” (maschio/femmina, umano/non-umano) attorno a cui sarebbero costrette ad organizzarsi le differenze potenzialmente infinite, le singolarità irriducibili di cui sarebbe “in realtà” fatta l’esistenza. È altamente dubbio che questa ontologia sia coerente ed efficace come pretende. Ma abbiamo già detto che non ci interessa porre la questione in questi termini. Il problema per noi è ancora e sempre teorico e politico perché attiene al modo in cui quei rapporti sociali interagiscono con rapporti produttivi di tipo capitalistico. L’operazione politica decisiva potrebbe essere la “decostruzione” del genere e della specie, forse, se quelle categorie non fossero a loro volta iscritte in quella dinamica produttiva. Nel momento in cui invece lo sono, diventa illusorio pensare di poter cambiare aspetti che attengono alla parvenza fenomenica del processo sociale lasciando inalterata l’essenza. Ciò potrebbe essere vero solo se si pensasse che tale essenza coincida con l’eteropartiarcato o con lo specismo. Ma in tal modo occorrerebbe che l’eteropatriarcato e lo specismo fossero a loro volta in grado di spiegare i rapporti capitalistici, visto che, in questa prospettiva, li produrrebbero. E ciò, semplicemente, non è vero. I rapporti specificatamente capitalistici scompaiono così dall’orizzonte o vengono ridotti a tassonomizzazioni “binarie”, generici rapporti di “discriminazione” fondati su un’altrettanto generica “gerarchia”. È molto probabile invece che quella derivazione del capitale dai rapporti di genere e di specie non riesca proprio perché il capitale è piuttosto la potenza asessuata e anumana che investe col suo potere disponente i rapporti sociali e li riorganizza in base alle proprie necessità. Ciò avviene perché esso realizza il collante, di per sé non soggettivo, attorno a cui le soggettività si incontrano. Ripensare quel collante come qualcosa che investe le soggettività e ne libera il potenziale è, come abbiamo visto, il compito politico dell’anticapitalismo, rispetto al quale ogni pretesa di partire dal desiderio atomistico o da un astratto universalismo rappresenta un passo indietro reale e/o un’immaginaria fuga in avanti.
La decostruzione di genere e specie è sì necessaria perché un progetto socialista possa mettere in discussione l’organizzazione gerarchica della società. Ma il fine dell’azione di liberazione da tale rigidità delle essenze naturali non coincide affatto con l’abolizione di ogni essenza o forma sociale, bensì con la realizzazione di un comune che permetta l’invenzione e la moltiplicazione delle differenze stesse. Si tratta di rendere possibile un ordine sociale in cui queste differenze si liberino e si organizzino al di fuori dalle relazioni di sfruttamento. Questa trasformazione è certo qualcosa che si può tentare di anticipare fin da ora nei rapporti personali ma, per quanto siamo venuti dicendo, non potrà esserlo in modo completo poiché sarà sempre costretto ad essere vissuto a livello di stili di vita privati o di relazioni intersoggettive e di gruppo particolari. Non a caso l’aspetto autenticamente societario di tali relazioni, in cui è cruciale pensare una specifica modalità di organizzazione del lavoro e dunque il superamento oggettivo delle relazioni capitalistiche, non compare mai: le teorie decostruttive passano tragicamente sotto silenzio questo problema. Le potenzialità di questa trasformazione e invenzione delle differenze è invece a sua volta racchiusa nella costruzione di una socializzazione cooperativa che non è possibile anticipare neanche nel più futuristico delirio cyber, per tacere dei rassicuranti sogni primitivisti e anti-tecnologici. La “durezza” del fatto sociale, per dirla con Durkheim, obbliga anche l’immaginazione a tenere il passo della trasformazione reale delle relazioni di potere. E finché la relazione di potere del capitale non verrà affrontata e battuta sul suo terreno, anche il più sfrenato sogno di reinvenzione della vita è destinato al brusco risveglio che gli riserva la spietata realtà.
Fine

 


[22] K. Marx, Lineamenti, cit., p. 83.
[23] Ibid., p. 73.
[24] Ibid., pp. 95-96.
[25] “La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. È la negazione della negazione. Essa ristabilisce non la proprietà privata, ma al contrario la proprietà individuale basata sulla conquista dell’età del capitale, sulla cooperazione e sul possesso collettivo del suolo e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”. K. Marx, Il Capitale, Newton & Compton, Roma 1996, p. 548.
[26] John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Napoli, Carta-IntraMoenia, 2004, pp. 42.
[27] Ibid., pp. 43.
[28] Nonostante Holloway affermi che “il fare è intrinsecamente sociale”, il suo essere-sociale è associato all’immagine del “flusso”, dell’“intreccio”, del “coro”. Ibid., pp. 40-41.
[29] Ibid., p. 106.
[30] Ibid.
[31] Ibid., p. 118.
[32] Dunque anche in ciò che quella totalità lascia sussistere al suo “esterno”: il capitale ha strutturalmente bisogno, come insegnava la Luxemburg, di un “fuori” da aggredire, colonizzare, integrare nella sua dinamica autovalorizzatrice; lo Stato esiste in rapporto – non sempre e solo dialettico – con il suo “altro”, sia il diritto statuale altrui che il diritto statuale esterno, quello delle istituzioni transnazionali ecc.
[33] John Holloway, Cambiare il mondo, cit., pp. 246-247.
[35] Già Marx, non a caso, ammoniva nel Capitale a non scambiare le caratteristiche personali dell’individuo che occupa il posto di capitalista e proprietario terriero con queste medesime funzioni sociali. K. Marx, Il capitale, cit., p. 43.
[36] Non è forse un caso che molte teorizzazioni queer prendano a prestito il pensiero di J. Butler la cui la nozione di “performatività” mi sembra in buona parte sovrapponibile alle sociologie anarco-vitalistiche qui criticate (o, perlomeno, non mi sembra offrire ad esse la necessaria resistenza). Non solo è qui sempre la “ripetizione” di atti singolari a produrre le strutture sociali, ma perfino il “potere nella sua persistenza” non esiste di per sé bensì è, di fatto, “un agire ripetuto”. J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996, p. 169. Cfr. anche la critica di Nancy Fraser alla confusione concettuale prodotta dalla sovrapposizione tra eterosessismo e sfruttamento capitalistico in N. Fraser, Fortune del femminismo Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre corte, Verona 2014, pp.
[37] Intervista a Beatriz Preciado, El Espectador, 6 febbraio 2014, tr. it. in www.abbattoimuri.wordpress.com
[38] Beatriz Preciado, Noi diciamo rivoluzione
[39] Un modo banale di attaccare a questa concezione è quello tipico di Fusaro che identifica ogni concetto post-moderno con l’ideologia “neo-liberista” passando per l’identificazione tra atomizzazione sociale e nominalismo filosofico, per cui la “fluidificazione” delle identità e la dissoluzione delle essenze stabili sarebbe sempre e solo al servizio della riorganizzazione del capitale (salvo poi cadere anche lui nel vitalismo quanto contrappone a ogni pie’ sospinto la “reificazione capitalistica” ad una presunta intensità delle comunità e delle relazioni premoderne). In questo modo, ovviamente, non esiste alternativa tra Unione Europea e Sovranismo Nazionale o tra Preciado e Adinolfi.  Il punto decisivo è invece proprio tentare di articolare quell’opposizione tra essenzialismo e anti-essenzialismo riguadagnando il punto di vista di Marx che, lo ribadiamo, non è un punto di vista ontologico bensì storico e dialettico, volto alla decifrazione delle dinamiche strutturali della società moderna.
[40] Non va ovviamente sottovalutata l’influenza delle riletture di Nietzsche degli anni ‘60-’70. Cfr. J. Rehmann, I nietzschiani di sinistraFoucault, Deleuze e il postmodernismo: una decostruzione, Odradek, Roma 2009.

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