PORRE FINE ALL’APARTHEID

Intervista a Tariq Baconi

La scorsa fine settimana, i miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele, uccidendo più di mille israeliani e prendendo circa centocinquanta ostaggi. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, ha annunciato che il suo Paese era in guerra, il suo gabinetto ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti e ha ordinato di bombardare la Striscia di Gaza, dove, negli ultimi giorni, sono stati uccisi ben 1100 palestinesi. Per parlare del conflitto, abbiamo sentito Tareq Baconi, presidente del consiglio di amministrazione del think tank Al-Shabaka, il Palestinian Policy Network. Baconi ha lavorato anche con l’International Crisis Group a Ramallah ed è autore del libro del 2018 “Hamas Contained”. Nel corso della nostra conversazione, che è stata modificata per ragioni di spazio e chiarezza, abbiamo discusso di ciò che Hamas sperava di ottenere, di come la politica del governo israeliano nei confronti di Hamas sia cambiata nel corso degli anni e di come comprendere la portata della violenza e della crudeltà a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni.

Come si spiega la tempistica di questo attacco?

Quello che è accaduto nello scorso fine settimana ha davvero cambiato il paradigma di come intendiamo la dinamica tra Hamas e Israele, nello specifico, ma più in generale tra Israele e i palestinesi. Secondo il vecchio paradigma, c’erano diversi fattori che avrebbero potuto far precipitare questo attacco, come la crescente violenza che gli israeliani stanno usando in Cisgiordania, attraverso i loro coloni e l’annessione; le provocazioni intorno al Monte del Tempio e, naturalmente, intorno alla Striscia di Gaza; e le crescenti restrizioni che fanno parte del blocco di Israele a Gaza. Tutti questi elementi in passato avrebbero costretto Hamas a lanciare qualche tipo di missile o una offensiva che dimostrasse che sta agendo per conto del popolo palestinese e che sta cercando di proteggere i palestinesi, o di cambiare la realtà a Gaza.

La portata dell’offensiva e il suo successo, dal punto di vista di Hamas, significano che siamo in realtà di fronte ad un nuovo paradigma, in cui gli attacchi di Hamas non si limitano a rinegoziare una nuova realtà nella Striscia di Gaza, ma, piuttosto, sono in grado di minare fondamentalmente la convinzione di Israele di poter mantenere un regime di apartheid contro i palestinesi, per un periodo interminabile, senza alcun costo per la popolazione. Quindi, in questo nuovo paradigma, le ragioni per cui Hamas avrebbe attaccato sono abbastanza chiare. Credo che Israele si trovi nella posizione più debole da molto tempo a questa parte. Ci sono grandi crepe all’interno della politica e della società israeliana sulla natura di ciò che il progetto sionista ha prodotto. Penso che l’esercito sia al massimo della sua debolezza perché molti riservisti hanno protestato, perché questo è il governo più fascista della storia del Paese. Quindi, anche a livello internazionale, si sta riconoscendo che questo non è lo Stato democratico ebraico che tutti credevano, ma qualcosa di molto più preoccupante.

Quando dice che siamo arrivati a un nuovo paradigma, intende dire che Hamas ha deciso di creare, con la portata e la brutalità di questo attacco, un nuovo modello?

Non credo che Hamas abbia voluto creare un nuovo paradigma. Ma i politici occidentali e, più in generale, la comunità internazionale hanno cambiato la loro comprensione di questa realtà. Questo cambiamento è in atto già da alcuni anni. Ora i palestinesi e gli israeliani del mondo dei diritti umani, e altri membri internazionali del settore, sono praticamente concordi nel ritenere che si tratti di un regime di apartheid. Nel 2021, i palestinesi sono stati protagonisti di manifestazioni e proteste in tutta la terra della Palestina storica, in un’intifada unitaria volta a superare l’idea che ci sia una divisione tra, diciamo, l’interno di Israele e i territori occupati. Questo è stato, in qualche modo, l’inizio di questo cambiamento, per allontanarsi dal progetto di Oslo di dividere i palestinesi e per comprendere realmente la lotta palestinese come una lotta di un unico popolo contro un unico regime di oppressione. Ma ciò che Hamas ha fatto ora – e non sono del tutto sicuro che Hamas pensasse che la sua offensiva potesse essere così grande come alla fine è stata – ha davvero distrutto l’idea che Israele possa mantenere un regime di apartheid o, piuttosto, che Israele possa ancora fingere di essere uno Stato ebraico e democratico mentre opprime un altro popolo in modo interminabile.

Ma, per tornare alla mia domanda precedente: non si capisce perché, se Hamas non si è prefissato di cambiare il paradigma, abbia intrapreso un attacco di questa portata.

Hamas operava già all’interno del paradigma che vedeva Israele come uno Stato coloniale di apartheid. Ciò che è cambiato è la sua capacità di dimostrare il mito dell’invincibilità a cui Israele si aggrappa e di infrangere l’illusione dei politici di poter mantenere questo regime a tempo indeterminato e che ci sarà l’acquiescenza dei palestinesi. Con questa offensiva, penso che sia molto più difficile tornare a un mondo in cui pensiamo che questo sia solo terrorismo non provocato, come ha sostenuto oggi l’editoriale del New York Times. [L’editoriale afferma che l’attacco è avvenuto “senza preavviso o alcuna provocazione immediata“].

Dal 2007, Hamas è stato effettivamente contenuto nella Striscia di Gaza. C’era l’idea che Israele potesse contare su Hamas per governare la Striscia di Gaza e stabilizzare due milioni di palestinesi che vi sono imprigionati. E c’era un equilibrio molto violento tra le due cose. Ma di fatto Hamas è stato contenuto nella Striscia di Gaza e quasi separato dal resto della Palestina. Storicamente, c’erano ragioni demografiche per cui Israele aveva bisogno di fare questo, per togliere due milioni di palestinesi dal suo controllo, per assicurarsi una maggioranza ebraica mentre continuava a occupare la Cisgiordania. Con questa offensiva, la nozione di contenimento può ora essere compresa per quello che era: Hamas stava aspettando il momento giusto. Ha sempre dichiarato che stava raccogliendo le forze e si stava rafforzando per portare avanti il progetto politico palestinese, con un’ideologia islamista.

Lei ha detto che Israele viene visto sempre più come uno Stato coloniale che viola i diritti umani. Ma sembra che la risposta a questa situazione sia stata un sostegno completo a Israele, in una misura che ho trovato un po’ sorprendente. Quello americano era forse prevedibile, ma c’è stato un appoggio europeo totale e il via libera a Israele per fare praticamente tutto quello che vuole a Gaza. I progressi che lei ha individuato potrebbero essere invertiti?

Assolutamente. Per certi versi, è possibile, e sono completamente d’accordo con lei. Penso che la retorica emersa dopo l’attacco sia stata in parte una continuazione del fondamentale fraintendimento di ciò che causa la violenza. L’importante è porre fine alla guerra e alla morte dei civili. A meno che non si riesca a risolvere i problemi politici dei palestinesi, la situazione non si risolverà. Se Hamas viene decimato, la lotta anticoloniale palestinese continuerà in un’altra veste e con un’altra ideologia. Ciò che trovo spaventoso è che le potenze occidentali e gli americani, così determinati a sostenere Israele nonostante la sua apartheid, pensino in qualche modo di poter mantenere questo progetto a costo zero.

Se assumiamo che le azioni di Hamas siano razionali, nel senso che stanno facendo qualcosa con un obiettivo in mente, ciò non significa necessariamente che le loro azioni abbiano un senso strategico.

È assolutamente vero e credo che la situazione sia ancora in evoluzione. Nessuno può capire dove porterà. Penso che Hamas sia rimasto sorpreso da quanto sia riuscito a spingersi oltre. Israele potrebbe decimare la Striscia di Gaza e Hamas potrebbe cessare di esistere come organizzazione come la intendiamo oggi. Ad ogni modo, ciò che le ultime settantadue ore hanno dimostrato, e credo che questo sia in qualche modo irreversibile, è che esiste un mito sull’invincibilità di Israele come regime di apartheid. Quindi, anche se il tipo di potenza militare schiacciante che Israele può ora scatenare con il pieno sostegno dei suoi patroni occidentali decimerà completamente Gaza, o i palestinesi più in generale, nell’immaginario politico palestinese questo sarà molto profondo. Ecco perché credo che ora ci troviamo in una nuova realtà.

Crede che questo attacco riguardi in parte il rapporto tra Hamas e l’Autorità Palestinese?

È evidente che c’è una frattura istituzionale e politica tra la P.A. e Hamas, che risale a decenni fa. Hamas è un’entità di governo nella Striscia di Gaza da sedici anni. Per certi versi, questo gli è servito. Ma c’è sempre stato un certo grado di ambivalenza che Hamas ha mantenuto, volendo essere meno un’autorità di governo e più un movimento di resistenza armata. Quello che abbiamo visto con questa offensiva, e per alcuni anni prima di essa, è un maggior grado di fiducia da parte di Hamas nell’affermare il proprio ruolo di portavoce dei palestinesi non solo nella Striscia di Gaza, ma in tutta la Palestina, e persino nella diaspora e nelle comunità di rifugiati.

Allo stesso tempo, la P.A. è stata sempre più irrilevante in questo progetto, nel senso che è stata vista come inestricabilmente legata all’apartheid israeliana. Hamas si definisce molto attivamente contro questo e contro la nozione di coordinamenti di sicurezza. Hamas è molto più capace come attore quando c’è un’aggressione israeliana contro i palestinesi, indipendentemente dal fatto che i palestinesi accettino l’ideologia islamista di Hamas o anche le sue tattiche. È l’unico grande partito politico e militare che parla il linguaggio della sfida. E credo che questa offensiva dimostri più che mai quanto sia irrilevante la P.A. in questa costellazione.

Ma, in un certo senso, non crede che questa azione abbia a che fare con una lotta intra-palestinese? E non crede che si trattasse di inviare un messaggio agli Stati arabi riguardo ai trattati di pace con Israele?

Penso che tutti questi fattori fossero presenti, ma credo che, fondamentalmente, un attacco di questa portata non sia stato pianificato nell’ultimo mese o due, e che si sia trattato sicuramente di un attacco che, nel suo cuore, voleva essere una risposta all’impunità di Israele.

Qual è stata la politica del governo israeliano nei confronti di Hamas, nello specifico? La stampa israeliana ha riferito che Netanyahu ha espresso la convinzione che il rafforzamento di Hamas avrebbe indebolito l’Autorità palestinese, impedendo così la creazione di uno Stato palestinese. Come si è manifestata questa convinzione sul campo a Gaza?

Israele ha sempre avuto un’ideologia o una politica o una posizione nei confronti dei movimenti islamici in Palestina, che alla fine sono diventati Hamas, che vede questi movimenti come un contrappeso al nazionalismo secolare, se così si può chiamare l’Autorità Palestinese, visto quello che è diventata. La politica del “divide et impera” è intrinseca al rapporto con i palestinesi. E, nel caso specifico di Hamas, quando è entrato in carica nel 2006, parte dell’idea di Israele era di imporre un blocco, che esisteva in diverse versioni prima che Hamas prendesse il potere.

È diventato presto chiaro che Hamas era in realtà un buon partner per Israele, nel senso che era in grado di stabilizzare la Striscia di Gaza e forniva agli israeliani la foglia di fico perfetta per giustificare il loro blocco. Nessuno poteva davvero chiedersi perché Israele avesse un blocco così disumano. Così Hamas è diventato un ottimo interlocutore. Era un equilibrio violento. Ogni parte accettava la posizione dell’altra.

Ogni volta che una questione interna israeliana doveva essere deviata, o Hamas doveva deviare le sfide nella Striscia di Gaza, ci poteva essere una configurazione o una sorta di escalation tra loro. Ma si tornava sempre a un cessate il fuoco. E, dal punto di vista israeliano, in modo simile a come tratta il resto dei palestinesi, non c’era alcuna strategia. C’era solo la decisione di gestire l’occupazione, di gestire lo status quo. Quindi non ha mai avuto a che fare con Hamas o con le forze politiche di Hamas. Israele pensava di poter contenere Hamas nella Striscia di Gaza e di permettergli di stabilizzare l’area, e poi era fuori dagli occhi, fuori dal cuore.

C’è una tensione tra ciò che ha appena detto e l’altra idea che ha avanzato, ovvero che l’Autorità Palestinese è stata vista come una collaborazione troppo stretta con Israele e che, in parte, è stata emarginata politicamente per questo motivo? Sembra che lei stia dicendo che, in realtà, Israele in qualche modo preferisce Hamas e ha una sorta di tacita collaborazione con lui.

È una domanda importante, che ho cercato di affrontare. L’accettazione da parte di Israele di Hamas come autorità di governo nella Striscia di Gaza ha sollevato molte domande sul fatto che Hamas si stesse impegnando con lo Stato che si rifiutava di riconoscere, raggiungendo in qualche modo un livello di coordinamento della sicurezza – lo stesso tipo di coordinamento della sicurezza che condanna la P.A. Sta avviando negoziati con Israele e a volte ritira i combattenti o lancia razzi per garantire la calma. Quindi, per certi versi, la realtà di Hamas come autorità di governo ha coinvolto il suo progetto di resistenza e lo ha costretto a impegnarsi con Israele.

Allo stesso tempo, la principale differenza tra Hamas e la A. P. è che Hamas non ha mai ceduto sulla sua ideologia. Non ha mai ceduto sul diritto al ritorno dei palestinesi, né il suo rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele o di rinunciare alla lotta armata. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, poi confluita nell’A.P., ha invece ceduto sui principali elementi del nazionalismo palestinese e sulla convinzione di poter ottenere uno Stato.

Israele ha anche diverse modalità di impegno con ciascuna delle entità governative sotto la sua sovranità, ma anche al di là della sua sovranità. Così il suo rapporto con Hezbollah era in realtà più vicino a quello con Hamas, che è un rapporto di scambi violenti che per certi versi ha anche funzionato a suo favore, e che è fondamentalmente diverso dal modo in cui tratta con la P.A.

Come si pone nei confronti della P.A.?

Non credo che ci sia alcuno scontro. La P.A. ha accettato la sovranità israeliana. Penso che la P.A. ora, la sua ragion d’essere, sia il coordinamento della sicurezza. Ha accettato di governare un bantustan.

Ho sempre sentito dire che c’erano molte attività di controspionaggio israeliano all’interno di Hamas, e presumo che sia ancora così. Perché, secondo lei, questo piano non è stato rivelato?

Diverse persone all’interno di Hamas o che commentano Hamas hanno parlato di un segreto molto stretto all’interno di un gruppo molto ristretto di militari e di altri membri dell’organizzazione. Quello che posso dire è che, storicamente, Hamas ha sempre mantenuto un certo grado di separazione tra la sua ala militare e la sua ala politica. Questa proponeva una strategia. E tale strategia forniva poi la direzione all’ala militare per attuare le sue tattiche senza informarne la sua ala politica. Così l’ala politica dà una direzione vaga e non ha informazioni o dati su quando o come si svolgerà una certa operazione. Mi sembra che questo sia ciò che probabilmente è accaduto – che c’era la sensazione generale della debolezza e la disorganizzazione israeliana negli ultimi sei mesi e l’idea di dare una sorta di direzione per un attacco, ma senza sapere effettivamente quando o come l’attacco sarebbe avvenuto.

Molte delle figure anticoloniali o rivoluzionarie che veneriamo – penso a Nelson Mandela e all’African National Congress – hanno usato la violenza per raggiungere i loro scopi. E penso che oggi ci sia un’ingenuità su quanto spesso i gruppi nel corso della storia abbiano usato la violenza. Allo stesso tempo, quando sento gli israeliani dire cose come: “La gente in Palestina è un animale che sarà trattato come tale”, o quando sento le notizie sui bambini morti nelle città israeliane, a volte ho difficoltà a pensare che si tratti di una strategia militare, o di una parte di una lotta politica coerente con fini chiari in mente. Spesso sembra sadismo. E non so come dovremmo pensare a questi atti nel contesto di lotte più grandi, anche di lotte più grandi che sosteniamo. Come si pone di fronte a questo problema?

È una domanda davvero importante e, credo, molto, molto difficile. Ci faccio i conti ogni giorno. Quello che dice è assolutamente giusto. Non c’è stata lotta anticoloniale o lotta per la decolonizzazione senza violenza. Parte del problema è che è davvero importante tornare a indviduare la causa principale di ogni lotta anticoloniale, che è la violenza coloniale. È fondamentale fondare la discussione in questo contesto, perché la violenza di Hamas non arriva dal nulla. E parte del problema, come lei dice, del sadismo, è che i palestinesi hanno vissuto giorno dopo giorno con la morte e la violenza.

È la prima volta che vengo intervistato dal New Yorker, e questo accade perché sono stati uccisi degli israeliani. Cosa è successo quando i palestinesi sono stati uccisi a migliaia, solo nei quindici anni in cui ho seguito Hamas? Quindi, quando vogliamo davvero pensare a cosa sia questo motore di violenza – e le immagini che stanno uscendo sono disgustose – dobbiamo capire che la violenza coloniale instilla la disumanizzazione sia nell’oppressore che nell’oppresso. Ed è completamente folle. Per me è sconcertante che i manifestanti israeliani vadano a protestare per la democrazia in un regime di apartheid. L’unico modo per sostenere questa contraddizione è accettare che le vite dei palestinesi siano assenti o sacrificabili. E quindi dobbiamo comprendere questa violenza, che, ancora una volta, è straziante, in questo contesto.

Ma se vogliamo pensare ad Hamas e al suo progetto politico, il gruppo non parla ancora a nome di tutti i palestinesi. I palestinesi non sono tutti islamici. La questione più importante è che il progetto politico palestinese, che era l’Olp, in realtà più in linea con i movimenti anticoloniali degli anni Settanta e Ottanta, è stato ugualmente trattato come un’organizzazione terroristica dall’Occidente fino a quando non è stato decimato sia a livello istituzionale che attraverso l’assassinio e l’imprigionamento dei leader politici palestinesi. Questa è stata la decimazione del progetto politico del movimento anticoloniale. E, nel caso palestinese, ha funzionato, o ha funzionato temporaneamente. Ma il progetto politico in questo momento si sta ricostituendo, e finora Hamas ne è la manifestazione più forte.

Quello che dice sulla situazione coloniale che causa questa quantità di violenza è vero in senso macroscopico. Ma le persone commettono violenza anche in ogni tipo di circostanza: Israeliani che non sono vittime del colonialismo; gruppi islamisti che vogliono uccidere gli ebrei perché sono ebrei. Alcune violenze non sono necessariamente legate alla lotta coloniale, ma forse è sempre stato così nel corso della storia.

Penso che sia vitale per i leader politici e per i palestinesi essere in grado di vedere la sofferenza, la tragedia, la perdita di vite umane e la violenza, e di mantenere il valore etico nel vedere la giustizia della propria lotta, pur soffrendo per la violenza sadica. Dobbiamo essere in grado di sostenere entrambe le cose. Dobbiamo riconoscere che le lotte anticoloniali sono violente. Ma non tutta la violenza è finalizzata a un progetto politico. Come lei dice, la violenza si verifica per i motivi più disparati. Dobbiamo essere in grado di sostenere questa verità e allo stesso tempo riconoscere lo scopo etico di porre fine all’apartheid. E penso che sia molto difficile farlo quando i media cercano di ritrarre la situazione in bianco e nero. È molto complesso e dobbiamo essere in grado di mantenere questa complessità. 

11 ottobre 2023

Tratto da: www.newyorker.com

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