BENVENUTI NEL GOLFO ARABO-ISRAELIANO

di Anthony Samrani

Benvenuti nel Golfo arabo-israeliano…

Quasi un anno fa, giorno più giorno meno, i siti petroliferi dell’Aramco in Arabia Saudita furono bombardati in un attacco attribuito all’Iran. L’ombrello americano, in particolare per la sua forza di dissuasione, non era stato in grado di proteggere i siti sauditi e gli Stati Uniti non hanno risposto direttamente all’attacco. Questo episodio ha provocato un trauma in Arabia Saudita e in generale nei Paesi del Golfo che hanno tratto la conclusione che la loro alleanza con Washington – e anche la loro ottima intesa con l’amministrazione Trump – non era sufficiente a proteggerli dal nemico iraniano.

Perché tornare su questa sequenza di eventi? Perché oggi non si può veramente capire la posta in gioco dietro la normalizzazione tra Israele, da una parte, ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein, dall’altra, senza calarsi nei panni dei responsabili delle monarchie del Golfo. Questi ultimi non solo condividono molti interessi con lo Stato ebraico, ma anche una visione del medio Oriente, e più in generale del mondo, così che una forma di alleanza tra loro, qualsiasi cosa si pensi, è quasi del tutto scontata.

Non cadiamo nell’errore di credere che la normalizzazione tra Israele e i Paesi del Golfo abbia qualcosa a che vedere con l’idea di raggiungere una pace regionale. D’altronde i tre Paesi in questione non sono stati mai in guerra. In quest’accordo, la questione palestinese non è in gioco e ancor meno ne è l’origine. Essa è un tabù, che alcuni si permettono di rompere, che complica l’ufficializzazione di un idillio già iniziato.

L’alleanza tra Israele e i Paesi del golfo non preannuncia l’inizio di una nuova era in Medio Oriente. Per la semplice ragione che questa è già iniziata da un buon decennio e che la normalizzazione è piuttosto la conferma di tendenze che sono già in atto. Il vecchio Mondo Arabo è morto e con lui la causa palestinese. Il nuovo Mondo Arabo è in piena morfogenesi, a tutti i livelli, e la regione del Golfo non è un’eccezione.

Le petromonarchie del Golfo sono passate in pochi anni da uno status di “Grande fratello” piuttosto benevolo del Mondo Arabo a quello di preda e predatore contemporaneamente. Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati una potenza regionale mentre l’Arabia Saudita, storicamente fautrice di una diplomazia prudente, è passata all’offensiva. È passato il tempo dei regni accomodanti e conservatori. Oggi sono dei falchi spinti da un’ideologia nazionalistica e diretti da giovani lupi.

I Paesi del Golfo sono tutti ossessionati dal futuro, e in questo avvenire hanno bisogno di Israele. La fine dell’età dell’oro del petrolio li spinge a diversificare i loro investimenti sul piano economico. Lo Stato ebraico punta avanzata in materia tecnologica e numerica può essere un partner importante per realizzare questa transizione. Ma, più che il denaro, è la questione politico-militare il nerbo della guerra.

I Paesi del Golfo si sentono accerchiati da due minacce, quella iraniana e quella turca. Il fatto che la regione sia in preda a divisioni profonde con il braccio di ferro tra il Qatar, alleato della Turchia, e l’asse emirato-saudita, o ancora la guerra in Yemen, dove la coalizione saudita combatte gli houti sostenuti dall’Iran, rafforza questa impressione. Le petromonarchie vedono in Israele oggettivamente un alleato che può volere aiutarli contro i due nemici e permettere loro di ottenere dagli Stati Uniti armi più sofisticate. La consegna da parte degli americani degli F-35, che offriranno agli Emirati un vantaggio tecnologico su tutti gli altri Paesi della regione, tranne Israele, sembra essere stato un elemento decisivo per arrivare alla normalizzazione.

Più vicino a bin Zayed che alla Merkel

Ostilità verso l’Iran e la Turchia, il culto dell’autoritarismo e dell’uomo forte per una modernità frenetica, la capacità di intrattenere buone relazioni contemporaneamente con gli Stati Uniti e la Russia, una geopolitica fondata sulla sensazione dell’accerchiamento: i Paesi del Golfo e Israele hanno già molti punti in comune, anche se il paragone ha i suoi limiti. Il governo Netanyahu oggi è molto più vicino nella sua visione del mondo al principe ereditario degli Emirati Mohammed bin Zayed di quanto non lo sia, per esempio, alla cancelliera tedesca Angela Merkel. Per questo l’alleanza tra lo Stato ebraico e i popoli del Golfo, a seconda di quante monarchie faranno questo passo e soprattutto del grado di cooperazione che questa implica, può provocare cambiamenti nella regione che avranno conseguenze. Fino ad ora Israele veniva considerato un attore a parte sulla scena mediorientale, contemporaneamente dotato di una reale superiorità ma di una incapacità, dettata dalla sua stessa natura, di essere una potenza regionale in senso imperiale. Lo Stato ebraico si considerava una fortezza assediata dai suoi nemici che non aveva la vocazione a svolgere un ruolo regionale al di là del dossier arabo-palestinese. Questa dottrina è evoluta nel corso di questi ultimi anni con la moltiplicazione di attacchi aerei contro installazioni dell’Iran o dei suoi alleati in Siria e in Iraq. Ora potrebbe superare una nuova tappa con la conclusione dell’alleanza con i Paesi del Golfo tanto più che, tutte le parti coinvolte, si devono adattare al progressivo ritiro degli americani dal Medio Oriente che non dovrebbe essere messo in discussione dalle elezioni presidenziali del prossimo novembre, chiunque sia il vincitore. Quindi si può immaginare che Israele installi una base militare nel Golfo, a pochi chilometri dalla costa iraniana, e svolgere il ruolo di gendarme in questa regione? Sembrava inimmaginabile fino a ieri e tuttavia questa nuova alleanza apre la strada a questa prospettiva.

Numerosi commentatori hanno osservato che i palestinesi sono stati i principali sconfitti dall’accordo di normalizzazione. Si può mettere in discussione questa visione dei fatti. La nuova generazione di dirigenti nel Golfo ha difficoltà a dissimulare il proprio disinteresse, se non disprezzo, per la causa palestinese, anche se una parte dei loro popoli resta sentimentalmente attaccata a questa questione. Le monarchie del Golfo hanno svenduto l’unico modo di pressione che avevano su Israele per difendere gli interessi dei palestinesi. Ma, malgrado tutto questo, la normalizzazione non cambierà i fatti di questo dossier. Se è vero che l’iniziativa di pace araba non ha sortito un cambiamento di atteggiamento di Israele verso i palestinesi, la normalizzazione non cambierà per forza un cambiamento di atteggiamento dei Paesi del Golfo verso i palestinesi. Potrà accadere che, almeno una parte tra questi, come già fanno la Giordania e l’Egitto, continuino a difendere il concetto dei due Stati, anche se lo faranno, come avviene da anni, solo in via di principio.

Il grande vincitore sul piano propagandistico, perché può denunciare il tradimento degli arabi e affermare che è il solo a difendere la sacra causa, l’Iran, potrebbe essere il vero grande sconfitto di questa nuova alleanza. Soprattutto se il Golfo del futuro diventerà arabo-israeliano piuttosto che arabo-persiano…

Traduzione di Cinzia Nachira

Tratto da L’Orient Le Jour, del 17 settembre 2020

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