UNA “NUOVA” GUERRA DI RELIGIONE?

di Cinzia Nachira

In questi drammatici giorni i commenti su ciò che accade in Palestina sono quasi un coro unanime nel sostenere la tesi che l’escalation di violenza che vede come epicentro Gerusalemme Est sia effettivamente una “nuova” guerra di religione. Questo perché due cugini palestinesi di Gerusalemme Est hanno compiuto un attacco nella sinagoga Har Nof, a Gerusalemme Ovest, uccidendo quattro rabbini (non uno solo di essi era israeliano) ed un poliziotto e restando uccisi dalla reazione delle guardie armate. Come spesso è accaduto, ora da tutte le parti si invoca la condanna dell’attacco, soprattutto perché è avvenuto contro un luogo sacro. E la condanna di questo attacco è scontata. Soprattutto perché cadere nella spirale della “guerra di religione” è un danno terribile al popolo palestinese.

Quando si parla di Israele è difficile mantenere, sembra, la dovuta e necessaria lucidità. Oggi, Benjamin Netanyahu, il primo ministro del governo più oltranzista nella storia di Israele, accusa con elegante leggerezza (propria degli incoscienti) i palestinesi, nessuno escluso, di essere fautori di una guerra religiosa, in nome del fanatico Islam. E come spesso è avvenuto nella storia recente, gli israeliani cercano di sfruttare al massimo le vicende regionali ed internazionali per “dimostrare” che ogni loro azione è giustificata. È esercizio assai facile smentire questo argomento, perché anche quest’ultimo attentato ha delle spiegazioni che hanno a che fare con l’aumento esponenziale della violenza messa in atto dagli israeliani. Nelle ultime settimane gli attacchi sia a Gerusalemme Est che al resto della Cisgiordania da parte dei coloni e dell’esercito sono stati numerosissimi e sono culminati con l’ingresso scenografico di un gruppo di coloni ebrei ortodossi nella Spianata delle Moschee (che per altro hanno contravvenuto ad un’imposizione rabbinica che lo vieta) e gli atti vandalici all’interno della Moschea di Al Aqsa e la morte di un autista palestinese di autobus. Yusuf Hasan al-Ramouni, un giovane di 32 anni, è stato trovato impiccato nell’automezzo che conduceva a Har Hotzvim. Yusuf Hasan al-Ramouni risiedeva a Al Tur, un quartiere di Gerusalemme Est. Le autorità israeliane sostengono che si tratta di un suicidio mentre i membri della famiglia ritengono che si tratta di un omicidio.  Questo episodio ha innescato molti scontri a Gerusalemme Est ed è stato anche il motivo per cui sembra che due cugini palestinesi, Ghassan e Odai Abu Jamal, abbiano compiuto l’attentato alla sinagoga. Ma anche questa è una spiegazione parziale, perché la frustrazione accumulata dai palestinesi in questi ultimi sei mesi non poteva che raggiungere il punto di non ritorno.

All’aumento esponenziale della violenza messa in atto dal governo israeliano occorre, però, anche aggiungere l’incapacità delle leadership palestinesi di dare risposte credibili a questa disperazione. Eppure il popolo palestinese, per l’ennesima volta, aveva tentato nei mesi scorsi – prima della feroce aggressione contro la Striscia di Gaza – di indicare quale fosse la strada da percorrere. Oggi quasi più nessuno ricorda (neppure i più fervidi sostenitori dei palestinesi) che in seguito agli attacchi brutali dei coloni e dell’esercito nel giugno scorso le piazze e le strade di Gerusalemme Est e delle città cisgiordane si erano nuovamente riempite di migliaia di persone che rimettevano in discussione tutto. Soprattutto dopo il barbaro assassinio di un ragazzo diciassettenne di Gerusalemme bruciato vivo per vendicare l’uccisione di tre giovani coloni vicino ad Hebron. Le manifestazioni massicce seguite all’assassinio di Mohammad Abu Khdeir e la riprovazione internazionale per quell’atto misero in grande difficoltà il governo israeliano e in quel momento era ancora possibile che la frustrazione si trasformasse in azione politica.

Ma l’occasione è stata ignorata, da tutti, ed oggi è necessario fare i conti con atti individuali o di piccoli gruppi. Era ovvio, era già accaduto più volte, che il governo israeliano costruisse deliberatamente le condizioni perché si arrivasse a tutto questo. Apparentemente il copione era sempre uguale. Ma era solo un’apparenza e per cercare di non essere travolti dal circolo vizioso sarebbe stato necessario non cadere nella trappola dell’interpretazione degli eventi come se fossero sempre degli stessi cliché. Oggi da molte parti si cercano con affanno i segnali della “terza Intifada”, soprattutto dopo che Marwan Barghouti, dal carcere in cui è rinchiuso dal 2002, ha rilanciato la resistenza armata. Ma a cosa si riferiva Marwan Barghouti? È abbastanza chiaro che il leader palestinese si riferiva agli attacchi individuali per cercare di dar loro un senso politico. Nello stesso senso andava la rivendicazione dell’attacco alla sinagoga da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina [1].

Per potersi orientare sarebbe necessario smettere di dare lo stesso nome a cose assai diverse. In molti tendono a pensare che le diverse fasi della lotta di liberazione del popolo palestinese si distinguono sostanzialmente per le modalità messe in atto. In altri termini: dalle pietre della prima Intifada alle armi leggere della seconda ai coltelli e le auto usate come proiettili di quella che potrebbe essere la terza. Questa lettura però è assai superficiale e non vede la sostanza delle differenze. Pur rischiando l’accusa di essere nostalgici, sembra necessario sottolineare che la prima Intifada del 1987 è stato il momento in cui la lotta del popolo palestinese consisteva nel coinvolgimento capillare di tutta la società – non era un caso se una delle forme privilegiate di lotta era lo sciopero generale. Il vero punto di rottura era di avere un progetto politico di sviluppo contemporaneamente della battaglia sul terreno contro l’occupazione e di costruzione della società. Questo progetto nasceva da un lavoro durato molti anni durante i quali le organizzazioni politiche palestinesi presenti nei Territori Occupati si erano, in modo non esplicito, contrapposte alla direzione dell’OLP in esilio. Tanto questa differenza era gravida di conseguenze sulle scelte politiche che anche la direzione politica palestinese, installata in quegli anni in Tunisia, fu colta alla sprovvista quando nel dicembre 1987 iniziò a delinearsi una lotta di lungo periodo.

Gli accordi di Oslo che cinque anni dopo, nel 1993, chiusero quella fase, a parte gli aspetti spettacolari che li contrassegnarono, erano il risultato per un verso di quell’atto di coraggio del popolo palestinese – che pagò un prezzo tremendo per la repressione – e, per un altro verso, del fallimento di quella rivolta. Di fatto, tutto ciò che si è sviluppato dopo è stato possibile solo grazie a questo paradosso apparente.

È stato giustamente osservato che se le rivolte arabe scoppiate nel 2011 hanno avuto delle ricadute assai relative in Palestina, tuttavia le prime fasi, queste invece, sono state molto influenzate dalla prima Intifada. E questo non è un dettaglio.

Oggi la situazione è assai più complessa e pericolosa perché, al contrario di una vulgata assai diffusa, non è vero che la Palestina è un caso a sé. Innanzitutto, questo è falso perché nonostante i molti tratti comuni ogni Paese ha una propria dinamica: anche se è più facile ridurre tutto ad uno scontro essenzialmente tra due forze – l’integralismo islamico e le forze che tentano di far risorgere dalle loro ceneri i vecchi regimi – è evidente che così non è. Infatti, dalle vicende che sono accadute negli ultimi mesi, è Israele che ne trae più profitto. E ciò avviene soprattutto perché l’emergere del Califfato – autoproclamato su una parte della Siria e dell’Iraq nel giugno scorso – riduce  tutta la vicenda alla guerra di religione: una situazione ideale per Israele. Per giustificare l’aggressione, la quarta, contro la Striscia di Gaza scatenata l’8 luglio scorso non a caso il governo israeliano ha paragonato Hamas all’ISIS. Sei mesi dopo, Israele porta alle estreme conseguenze tutto questo con un voto a maggioranza del governo che dichiara “Israele lo Stato degli ebrei”. Questa decisione viene adottata non a caso nel momento in cui la leadership palestinese, in tutte le sue componenti, è debolissima e la disperazione e l’esasperazione prevalgono sulla costruzione di un’alternativa politica credibile. D’altronde, è altrettanto evidente che l’Occidente, malgrado le apparenze, negli ultimi mesi ha sviluppato un’insofferenza crescente rispetto all’aggressività delle politiche israeliane. Ciò, ovviamente, non significa sostenere che siamo di fronte ad una svolta epocale dei rapporti che hanno caratterizzato le alleanze strategiche tra i Paesi europei e gli Stati Uniti con Israele. Tuttavia, come già avvenuto in passato, oggi l’oltranzismo di Israele rischia di complicare moltissimo l’intera situazione. Non è un caso se in questi mesi alcuni Paesi europei, malgrado tutto, sono giunti ad accogliere la richiesta dell’ANP di riconoscere lo Stato di Palestina. Questi atti, del tutto simbolici e privi di qualunque implicazione  pratica, tentano di indurre Israele a moderare i suoi atteggiamenti. Di questo cambiamento è testimone anche l’atteggiamento della grande stampa italiana. Un esempio per tutti è un articolo di Alberto Negri pubblicato il 20 novembre da Il Sole 24 ore, La polveriera Medio Oriente e l’assenza dell’Europa [2]:

Questo vale anche per l’atteggiamento da assumere sulla questione mediorientale: perché di questo si tratta quando si affronta la crisi più profonda alle nostre porte insieme all’Ucraina, che promette tragici sviluppi come l’ex Jugoslavia. Possiamo spingere Putin a restituire la Crimea quando non osiamo chiedere a Israele di liberare i territori occupati nel ’67 e acconsentire a uno stato palestinese? Evidentemente no. Se non lo faremo lasceremo sempre più spazio al terrore, alla propaganda dell’Islam radicale di Hamas e della Jihad, abbandonando all’insicurezza perpetua arabi ed ebrei.

Per quanto rivelino una dose notevole di opportunismo ed ipocrisia le parole di Alberto Negri sono emblematiche e indicano in quale direzione si sta muovendo la politica occidentale: quella di avere la moglie ubriaca e la botte piena. D’altronde nello stesso articolo, si sostiene:

Adesso chiediamo ad Assad di andarsene, come vorrebbero Arabia Saudita, Turchia e Qatar, appoggiati da una Casa Bianca sempre più altalenante e insicura: ma abbiamo oggi in Siria un’alternativa migliore al Califfato o a Jabat al Nusra? Gli esempi dell’Iraq e della Libia, sprofondati nel caos, sono sotto i nostri occhi. Dobbiamo fare scelte dure ma realistiche. Prima la Svezia ufficialmente e poi i parlamenti britannico, irlandese e spagnolo hanno appoggiato la soluzione dei due stati in Palestina. E noi che abbiamo Lady Pesc cosa aspettiamo? L’Unione deve farsi carico di una questione che la riguarda direttamente per ragioni storiche, morali ma anche economiche. Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, ha imputato le previsioni al ribasso della crescita ai «rischi geopolitici» in Medio Oriente e Ucraina.

Questo invito ad affrontare i problemi che lo stesso Occidente ha creato in Medioriente guardando ai suoi interessi è tutt’altro che nuovo: anzi possiamo, senza tema di smentita, dire che questo è stato sempre il faro della politica occidentale. Altrettanto non è una novità la tesi secondo cui se un cambiamento non soddisfa meglio sarebbe tornare al passato: meglio tornare ad appoggiare Bashar Assad. Questo desiderio, è necessario dirlo, non è peculiare né di Alberto Negri, né della grande stampa italiana, ma è condiviso anche da moltissimi di coloro che all’inizio appoggiavano le rivolte arabe.  Ma ciò che qui interessa osservare è che ancora una volta le illusioni ottiche rischiano di sostituirsi ad una corretta lettura della realtà. Soprattutto quando i responsabili dei disastri sembrano rinsavire.

La stessa legge voluta da Benjamin Netanyahu sulla ebraicità dello Stato di Israele è essenzialmente una risposta a quei riconoscimenti. E vista l’incapacità dei governi e dei parlamenti occidentali di vedere oltre il proprio naso, ora regna sovrano il silenzio. Quasi a voler dire ai palestinesi che se chiedono il riconoscimento del loro Stato, allora gli israeliani possono definire Israele “Stato ebraico”. Sicuramente, però, sia il primo ministro israeliano, i settori più oltranzisti del governo e della società israeliana, sanno bene ciò che fanno. Infatti, nella stessa legge è contenuta un’altra aberrazione: la legalizzazione della demolizione delle case dei palestinesi, compresi quelli residenti a Gerusalemme, come punizione collettiva per coloro che sono ritenuti responsabili di “atti di terrorismo”. Quindi, ancora una volta, quegli stessi governi e parlamenti occidentali che recentemente hanno criticato Israele per questa pratica barbarica non si rendono conto che tacere equivale a rendersi complici delle escalation di violenza regolate “per legge”.

Ma, d’altronde, anche appoggiare senza riserve la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina, nelle attuali condizioni equivale ad un suicidio politico. Come è noto, nessuna delle risoluzioni internazionali che riguardano Israele ha visto applicazione e non solo a causa dei veti statunitensi. La domanda che ci si dovrebbe porre è: cosa cambierebbe in realtà? Si è detto che la differenza consisterebbe nel fatto che dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina non si potrebbe più parlare di uno Stato (Israele) che occupa dei Territori, ma un altro Stato (Palestina). Peccato, però, che questo Stato occupato non ha né confini, né esiste. Ciò che invece si rischia, accettando questa logica, è di essere complici della legalizzazione a livello internazionale della colonizzazione, del Muro di separazione unilaterale e di molto altro contro cui ci si è sempre battuti. Quindi, in altre parole, di rendere legale ciò che fino ad oggi si riteneva inaccettabile. Ciò in che definitiva  sostiene gli inviti a “scelte dure, ma realistiche” di Alberto Negri. Accontentarsi di gesti simbolici, già di per sé un atteggiamento di un’ipocrisia insopportabile, nell’attuale situazione porterà drammi terribili nel futuro. Perché questi sono gesti simbolici per i palestinesi, ma concretissimi, invece, per Israele. Favorendo, inoltre, lo scivolamento sempre più a destra della opinione pubblica israeliana e la discesa agli inferi della disperazione di quella palestinese. Non è un caso se il generale Al Sissi, prima di venire in Italia per essere accolto con tutti gli onori da Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e Papa Bergoglio (per il quale evidentemente la promessa di un golpista di salvaguardare “la sicurezza delle minoranze religiose, cristiani in testa”, è una garanzia sufficiente e tale da dimenticare le stragi di cui è responsabile…con buona pace dei poveri e gli oppressi del mondo), in un’intervista rilasciata a Franco Venturini e Ferruccio De Bortoli, ha affermato:

[…] noi siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe [3].

Certo non è una novità che l’Egitto abbia buoni rapporti con Israele, ma questa dichiarazione va oltre quanto visto dall’insediamento di Anwar al Sadat in poi e chiarisce molto i termini di ciò che oggi potrebbe valere quanto il riconoscimento di uno Stato palestinese (inesistente).

Ma, purtroppo, in tempi di crisi politica, sociale, economica ed etica come quelli che stiamo vivendo è facile cadere in trappole di retorica. Tuttavia la situazione è cruciale e da parte di tutti è necessaria un’assunzione di responsabilità. Se, giustamente, si intravvede nella rinascita della lotta dei curdi di Siria una possibile alternativa ad uno scontro binario da cui sembrava impossibile uscire, è possibile scorgere una via d’uscita percorribile per il popolo palestinese? Evidentemente, l’ottimismo, in questo caso, è fuori luogo e perfino offensivo. Non abbiamo una risposta univoca, però pensiamo, che, a dispetto dei detrattori vecchi e nuovi delle altrui lotte per la libertà e l’uguaglianza, abbia del tutto ragione Azmi Bishara quando ci avverte che la partita non è chiusa e ci dice:

Tuttavia, il più grande punto di forza della democrazia in questa battaglia è che la Nuova Era Araba non è un miraggio che scompare quando ci si avvicina. Rimane un’intera generazione di giovani che ha urlato e mostrato la propria solidarietà, che ha prodotto i propri martiri e feriti, che ha scoperto la propria voce e il proprio sangue ed è stata sopraffatta dal corso degli eventi.

Questa è una generazione che ha risvegliato i sogni dimenticati delle generazioni precedenti, ha ispirato l’immaginazione delle proprie società e ha affascinato il mondo intero. Essa ha scioccato gli opportunisti e terrificato le forze reazionarie, stati e regimi, persone di destra e persone i cui soli attributi di sinistra sono i loro nomi e il loro sciovinismo.

I reazionari hanno serrato i ranghi contro la Nuova Era Araba, ma nessun membro del vecchio establishment osa prendersi gioco di essa, eccetto i pazzi. I suoi fantasmi attraversano l’intera nazione araba e ciò è ancora presente nel linguaggio, gli sguardi e i toni .[4]

28.11.2014


[2]              Alberto Negri, La polveriera Medio Oriente e l’assenza dell’Europa, http://argomenti.ilsole24ore.com/alberto-negri.html

[3]           Franco Venturini, Truppe egiziane per la Palestina, intervista pubblicata da Il corriere della sera, 23 novembre 2014 http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_23/al-sisi-fattah-truppe-egiziane-la-palestina-2feddb18-72eb-11e4-9964-9b0d57bdf835.shtml

[4]           Azmi Bishara, Chi sono i nuovi arabi?, in al-Arabi al-Jabeed, 5 novembre 2014, tradotto da Saverio Leopardi e pubblicato da Il lavoro culturale, 21 novembre 2014. http://www.lavoroculturale.org/i-arabi/

 

Potrebbe piacerti anche Altri di autore