ARTICOLI DI TIZIANO BAGAROLO

In ricordo di Tiziano Bagarolo, membro della Direzione del PCL e validissimo teorico marxista, in particolare, ma certamente non solo, sul terreno della questione ambientale

UN POSTO NELLA STORIA DELL’ECOLOGIA PER MARX ED ENGELS?
MARXISMO E AMBIENTE
1. MARX ED ENGELS SUI TEMI ECOLOGICI
2. SOCIETA’ E NATURA NEL MATERIALISMO STORICO
3. UN ABBOZZO DI CRITICA ECOLOGICA DEL CAPITALISMO
4. PRODUZIONE ED AMBIENTE NELLA CRITICA DEL’ECONOMIA POLITICA
5. UN IDEA EMBRIONALE DI SVILUPPO SOSTENIBILE
6. UN BILANCIO CRITICO
7. PROGRESSO O CATASTROFE
8. COMUNISMO DELL’ABBONDANZA?
9. DIALETTICA MATERIALISTICA E OLISMO ECOLOGICO
10.CHE COSA CI PUO’ DIRE OGGI IL MARXISMO?
MARX-ENGELS-PODOLINSKIJ: UNA TRACCIA TEORICA PERDUTA?
ECOLOGIA E MARXISMO

UN POSTO NELLA STORIA DELL’ECOLOGIA PER MARX ED ENGELS?

La natura è il corpo inorganico dell’uomo. Che essa è il suo corpo inorganico vuol dire che esso deve restare in relazione con essa per non morire. Karl Marx, 1844

Fino a non molto tempo fa gli storici e gli umanisti e in una certa misura anche i biologi non riuscivano a fare i conti con le leggi naturali della biosfera, quell’involucro della Terra che è l’unico luogo in cui può sussistere la vita. L’uomo, in sostanza, non può essere separato da esso; è solo oggi che tale indissolubilità comincia ad apparire chiaramente e in termini esatti davanti ai nostri occhi. Vladimir Ivanovič Vernadskij, 1945

Intendendo la natura e il campo dell’“ecologia come scienza” in un senso molto restrittivo (ad es. assumendo come confine quello tracciato dalla definizione che ne diede Ernst Haeckel nel 1866 come quella parte della biologia che studia le relazioni di un organismo con il suo ambiente) può essere dubbio che sia lecito parlare di ecologia a proposito dell’opera di Marx e di Engels. Accettando questo significato molto ristretto, infatti, si potrebbero trovare nei loro scritti un numero limitato di passi, ovviamente di scarsa originalità e dunque di scarso interesse scientifico dal punto di vista della biologia; utili al più per lo storico per inquadrare il grado di conoscenza che Marx e Engels avevano delle scienze naturali del loro tempo.

Tuttavia da gran tempo la natura e il campo dell’ecologia hanno superato, e ampiamente, i confini tracciati da Haeckel oltre un secolo fa. Ci sono almeno altri tre significati che il termine “ecologia” ha assunto nel corso del XX secolo che ci autorizzano senz’altro a includervi se non l’insieme almeno una parte della riflessione di Marx e di Engels e dunque di trattare legittimamente il loro pensiero sotto questo titolo.

Il primo di questi significati è l ‘estensione alla specie umana dell’impostazione di Haeckel, ossia la possibilità dell’“ecologia umana” come studio delle relazioni della nostra specie con il suo ambiente (o meglio con i suoi ambienti (1)). Si tratta di un’estensione che da lungo tempo pochi si sognano di negare, se non coloro che negano Darwin e l’evoluzione.

Controverso è semmai ancora il modo in cui questa estensione può o deve essere operata. Un interminabile dibattito ha contrapposto da un secolo e più tutto un arco di posizioni ai cui estremi sono da un lato il “determinismo naturalistico” di coloro che pensano che siano interamente applicabili alla specie umana, in buona sostanza, gli approcci e le metodologie dell’ecologia animale (cfr. la sociobiologia, almeno una certa sociobiologia, ultima incarnazione di questo approccio), dall’altro il “culturalismo” ad oltranza di chi ritiene (a mio modo di vedere idealisticamente) che i fattori esplicativi essenziali del comportamento anche ambientale della nostra specie siano solo quelli storico-culturali. La riflessione di Marx ed Engels – che individua nel lavoro e nelle sua articolazioni sociali il marchio della specificità umana nel quadro della natura – ha a pieno titolo un posto di rilievo in questo dibattito, come riconoscono anche alcune recenti autorevoli storie dell’ecologia (2).

Un secondo significato del termine “ecologia” è emerso negli ultimi decenni in relazione ai problemi ambientali legati all’impatto delle attività umane, in particolare di quelle produttive. In questa accezione l’ecologia si occupa in misura crescente delle perturbazioni degli equilibri dei sistemi naturali e dei problemi creati dalle e nelle società umane per l’interazione fra i fattori antropici e quelli naturali della biosfera. L’ecologia come studio dei “malanni” di origine antropica della biosfera, insomma.

Come dimostra questa raccolta, Marx ed Engels hanno un posto di precursori in questo campo. La critica dell’economia politica non solo rimane un contributo imprescindibile per la comprensione dell’economia capitalistica (come pochi studiosi onesti si sognano di negare) ma rappresenta anche un primo abbozzo e un fondamentale termine di paragone per qualsiasi tentativo di “economia ecologica” (3)

C’è infine un terzo significato che il termine “ecologia” è venuto assumendo, in cui l’ecologia come disciplina scientifica sconfina con l’ecologia come filosofia e come visione del mondo, in cui l’ecologia è concepita come un principio regolativo (etico) delle relazioni degli esseri umani fra loro, con gli altri esseri viventi e più in generale con l’ambiente naturale. Un ambito forse meno rigoroso, meno chiaramente definito ma non meno legittimo dei precedenti, sicuramente non meno importante per ciò che riguarda le ricadute pratiche in molti ambiti: nel mondo scientifico, nei mass media, fra gli attivisti dei movimenti sociali ecologisti, più in generale nel settore della produzione culturale di massa che influenza la mentalità corrente e la percezione che la società contemporanea ha di sé stessa e dei problemi ambientali.

E’ indiscutibile che Marx ed Engels appartengono di diritto a questo campo “esteso” dell’ecologia in forza del loro contributo paradigmatico a temi quali le relazioni fra l’uomo e la natura, l’analisi della società moderna e delle sue contraddizioni, il ruolo delle scienze naturali e l’immagine del futuro possibile che essi hanno contribuito a costruire.

Ma qui si pone un problema. La corretta percezione delle concezioni formulate ed espresse da Marx e da Engels su questi temi non è così scontata e così chiara, anche fra gli studiosi, perché a quelle si sono sovrapposte le concezioni, spesso molto distanti, dell’ideologia che, anche con il loro nome, ha avuto ampio corso nel XX secolo, influenzato il movimento operaio e ampi settori di intellettualità, e contribuito a giustificare un’immagine distorta del significato complessivo e del valore del marxismo in relazione alle problematiche ambientali. Mi auguro che la pubblicazione di questa raccolta contribuisca a fare chiarezza su tutta questa materia.

Da tutto quanto detto, emerge con sufficiente chiarezza l’importanza delle pagine di Marx e di Engels che qui pubblichiamo. Al di là della validità intrinseca di ogni singola affermazione (è ovvio che anche la riflessione marx-engelsiana, come ogni altra, sia un prodotto del suo tempo e in qualche misura ne rifletta anche i limiti), siamo di fronte a una potente visione d’insieme e nel contempo a uno sforzo analitico senza eguali avente per oggetto la delineazione del mondo umano contemporaneo quale andava emergendo nel XIX secolo sulla base di tutta la storia precedente, dei suoi intimi conflitti e delle sue prospettive future.

Di più: si tratta di un’immensa opera di pensatori che non intendevano limitarsi a “interpretare il mondo” ma intendevano trovare le chiavi per “cambiarlo”.

E cambiarlo in un senso molto preciso, nel senso della liberazione umana. Ossia dell’abolizione di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo e della realizzazione di nuove relazioni sociali più aderenti ai bisogni degli esseri umani, in grado consentire loro di padroneggiare consapevolmente le relazioni con la natura di cui la specie umana è parte e da cui dipende per il presente e per il futuro. Per chi, all’alba del XXI secolo, è ancora impegnato su questo fronte si tratta di un’opera imprescindibile.

Per l’ideologia del capitalismo trionfante della fine del XX secolo – che chiude gli occhi senza problemi di fronte alle tragedie del capitale dell’ultimo secolo (due terrificanti conflitti mondiali, il fascismo e il nazismo, Auschwitz e Hiroshima, i crimini del colonialismo e del neocolonialismo, il marasma economico degli anni trenta nelle metropoli avanzate, il sottosviluppo che ancora attanaglia la maggioranza della popolazione mondiale, la catastrofe economica e sanitaria del continente africano, la progressiva catastrofe ambientale che incombe sul pianeta…) – il marxismo non è stato altro che una velleitaria utopia che si è convertita in tragedia dove e quando si è cercato di metterla in pratica. La confutazione di questa paccottiglia ideologica non era il compito che ci siamo proposti in questa nota introduttiva.

Lascio perciò che sia il lettore a trarre le conclusioni, a giudicare il valore e l’utilità dell’approccio teorico di Marx e di Engels per i nostri attuali problemi ecologici, fiducioso della forza intrinseca del pensiero che emerge dagli scritti che qui vengono presentati.

Note:

1) Cfr. il pregevole lavoro di Bernard Campbell, Human Ecology. The story of our place in nature from prehistory to the present, Aldine, New York 1985.

2) Cfr. P. Acot, Storia dell’ecologia; J.P. Deléage, Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della natura; D. Woster, Storia delle idee ecologiche

3) Si veda il nostro Produzione e ambiente. Paradigmi a confronto.

MARXISMO E AMBIENTE

Premessa

Perché rileggere Marx e Engels sulla questione ambientale

Nessun dubbio che Marx ed Engels si siano occupati di lotta di classe. “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”: così si apre il primo capitolo del Manifesto del partito comunista. La “storia scritta”, più tardi correggerà Engels, per rimarcare la natura storica e recente della divisione in classi delle società umane.

Ma il marxismo ha qualcosa da dire anche sull’ambiente?

Se per marxismo si intende – come faremo qui – in primo luogo il pensiero di Marx e di Engels, la risposta da dare non può essere che positiva, nettamente positiva, per quanto sia di gran lunga più diffusa l’opinione opposta.

In realtà, l’approccio di Marx ed Engels al tema dei rapporti fra uomo e natura (e fra società e ambiente) è tutt’altro che conosciuto.

I testi classici dei fondatori del marxismo nell’ultimo secolo sono stati vagliati, analizzati, sezionati molte volte e ne sono state tratte delle antologie sui più diversi argomenti. Invece il tema della natura, e i problemi ecologici in genere, sono stati, fino ad anni recenti, piuttosto trascurati. Altrove, tuttavia, sono anni che gli studiosi marxisti hanno cominciato a scavare in questo campo con serietà e rigore. Ho l’impressione che il nostro paese sia rimasto attardato. In italiano, ad esempio, non è disponibile una antologia di testi marx-engelsiani su questi temi, antologie che pure esistono su tanti altri argomenti (2).

Per fortuna negli ultimi anni si è diffuso un grande interesse per un recupero del pensiero marxista in questo campo: direi che questa esigenza sta diventando senso comune tra coloro che non si sono pentiti e sono rimasti da questa parte della barricata.

La mia esposizione sarà soprattutto una ricognizione di ciò che si può rintracciare negli scritti di Marx e di Engels sui temi che oggi suscitano le nostre preoccupazioni in relazione alla crisi ecologica: i rapporti uomo-natura e società-ambiente e il tema produzione-ambiente; accennerò anche ad alcune questioni controverse, come i concetti di sviluppo e di progresso; riserverò infine qualche parola alla nozione di comunismo dell’abbondanza in relazione al problema dei limiti ecologici del pianeta.

Riassumendo il senso della mia esposizione, anticipo qui quanto segue. Nell’originario pensiero marxista possiamo trovare una sensibilità “ecologica” all’avanguardia per i tempi; un’idea del rapporto uomo-natura che costituisce una apertura verso la nascente ecologia; le premesse teoriche per una buona comprensione delle problematiche produzione-ambiente. Di più, troviamo qualcosa che non troviamo altrove: la spiegazione dei meccanismi economici che producono necessariamente il degrado dell’ambiente nel modo capitalistico di produzione (qualcosa che nessun altro studioso, e neppure nessun altro ecologista, è riuscito a spiegare in modo più convincente).

Per dare un giudizio storico fondato non bisogna dimenticare che l’ecologia in quanto tale non esisteva ancora negli anni in cui Marx ed Engels elaborarono i loro scritti fondamentali. Come è noto, il termine “ecologia” venne proposto da Ernst Haeckel, zoologo di Jena e divulgatore di Darwin in Germania, nel 1866, solo un anno prima dell’apparizione del primo libro del Capitale (1867). Ma l’ecologia come disciplina scientifica autonoma vide la luce solo alla fine del diciannovesimo secolo ed affermò un suo compiuto punto di vista (il suo “paradigma”) solo nella prima metà di questo secolo.

D’altra parte, nel marxismo originario esistono anche delle ambivalenze, delle ambiguità, specie per l’enfasi sulla categoria di “sviluppo delle forze produttive”, che si sono prestate in seguito ad interpretazioni antiecologiche e che sono forse responsabili di una certa sordità manifestata successivamente in varie occasioni dai teorici e dai movimenti che si sono richiamati al marxismo. Ma questo aspetto non va sopravvalutato: le ragioni principali di questa sordità vanno cercate in altre direzioni (3).

Inoltre, non troviamo ancora in Marx ed Engels una riflessione sui possibili soggetti della lotta ecologica, né la premonizione delle minacce di catastrofe che si sarebbero affacciate nella seconda parte di questo secolo, e neppure dell’importanza che avrebbero assunto i conflitti ambientali

Ma non sarebbe giusto cercare in testi di un secolo e mezzo fa risposte compiute per i nostri problemi odierni. E’ un’altra l’utilità di rileggere oggi Marx ed Engels: recuperare un metodo e un approccio complessivi che si dimostrano attrezzi utili, anzi insostituibili, per capire il presente. Ma ai problemi del presente siamo noi (per quanto con l’aiuto di questi attrezzi) che dobbiamo trovare risposte adeguate.

1. MARX ED ENGELS SUI TEMI ECOLOGICI

Un approccio protoecologico

In termini molto schematici – e anticipando conclusioni che cercherò di dimostrare nel seguito del mio discorso – si può così sintetizzare quel che c’è nel marxismo fin dalle origini (4):

1. un approccio protoecologico al rapporto uomo-natura;

2. l’abbozzo di una critica ecologica del capitalismo;

3. una idea embrionale di sviluppo sostenibile (una prospettiva ecocomunista, ho scritto altrove).

Vediamo ora per ordine alcuni di questi aspetti.

Naturalismo e comunismo nel giovane Marx

Il punto di partenza di questa ricognizione è necessariamente l’intreccio fra “naturalismo” e “comunismo” nel più importante degli scritti giovanili, i Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’opera in cui Marx fa i conti, fra le altre cose, con Feuerbach, con la dialettica di Hegel e con l’economia politica classica, un vero e proprio crogiuolo di molti dei temi marxiani che saranno sviluppati nelle opere successive. Nei Manoscritti, rimasti allo stato di abbozzo e di appunti, Marx cerca di dare sistematicità al suo pensiero dopo il recente approdo al comunismo, di andare oltre l’umanismo materialistico di Feuerbach e di inserirlo in una visione dell’uomo e della storia che deve necessariamente fare i conti con l’eredità di Hegel e del suo schema dialettico-idealistico della storia. Ora, è importante osservare che il materialismo del giovane Marx è innanzitutto un “naturalismo”: l’uomo è parte della natura, “condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante”; e che questo dato originario non viene soppresso dal lato “attivo” proprio della specie umana, la quale mediante il lavoro modifica se stessa (il suo modo di essere) e la natura (5):

“L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze esistono in lui come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali.”

Il significato di queste parole è reso ancor più chiaro dal parallelo tracciato con le piante (6):

“Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è oggetto del sole, come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole.

“Un essere che non abbia la propria natura fuori di sé, non è un essere naturale, non partecipa all’essere della natura.”

In realtà sono moltissime nei Manoscritti le suggestioni “ecologiche”. Oltre al brano già citato, molti altri passi parlano:

a) dell’unità fra l’uomo e la natura, della natura come oggetto del lavoro dell’uomo, dell’uomo come parte della natura e della natura come suo “corpo inorganico” (7):

“L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.”

“La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura.”

b) dell’uomo come essere insieme naturale e sociale, che ha una storia (8):

“Ma l’uomo non è soltanto un essere naturale; è anche un essere naturale umano, cioè è un essere che è per se stesso, e quindi un essere che appartiene ad una specie […]. E come tutto ciò che è naturale deve avere un’origine, così anche l’uomo ha il suo atto d’origine, la storia, che però è per lui un atto d’origine, di cui egli ha conoscenza, e che per ciò in quanto atto di origine consapevole è un atto di origine che sopprime se stesso. La storia è la vera storia naturale dell’uomo.”

“Il carattere sociale è il carattere universale di tutto il movimento: come la società stessa produce l’uomo in quanto uomo, così l’uomo produce la società. L’attività e il godimento sono sociali tanto per il loro contenuto quanto per la loro origine: perciò sono attività sociale e godimento sociale. L’essenza umana della natura esiste per l’uomo sociale: infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, e così pure come elemento vitale della realtà umana, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana. Soltanto qui l’esistenza naturale dell’uomo è diventata per l’uomo esistenza umana; la natura è diventata uomo. Dunque la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura.”

c) dell’alienazione dell’uomo dalla natura come conseguenza della alienazione del lavoro, che è causa e risultato della proprietà privata (9):

“Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo 1) la natura e 2) l’uomo stesso; la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estraneo all’uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale […].

“Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene?

“Se un’attività che è mia non appartiene a me, ed è un’attività altrui, un’attività coatta, a chi mai appartiene?

“Ad un essere diverso da me.

“Ma chi è questo essere?

“Son forse gli dei? […] gli dei non furono mai essi stessi i soli padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se, quanto più col proprio lavoro l’uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell’industria, l’uomo dovesse per amore di queste forze rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto.

“L’essere estraneo, a cui appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l’uomo.

“Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio […]. Non già gli dei, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo […].

“Ogni estraneazione dell’uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro […].”

Quest’uomo è il “capitalista”, e “la proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l’operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall’altro.”

d) del comunismo come soppressione della estraneazione e come realizzazione della esigenza di riconciliazione dell’uomo con l’uomo e della specie con la natura (10):

“il comunismo, in quanto soppressione della proprietà privata, è la rivendicazione della vita umana come sua proprietà, cioè il divenire dell’umanismo pratico […].”

“Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione.”

e) delle condizioni di vita degli operai nelle città industriali (l’uomo torna ad abitare nelle caverne, scrive Marx, e neppure il bisogno di pulizia è più assicurato) (11):

“Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può esser cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio. La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’operaio. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma animalesca… L’uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno.”

f) della produzione di bisogni innaturali e artificiosi ad opera dei venditori delle merci, e della dipendenza dagli oggetti che si realizza se si accresce il denaro piuttosto che la ricchezza di relazioni umane non estraniate (12):

“Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere ala propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smodato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava – schiava ingegnosa e sempre calcolatrice – di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari; la proprietà privata non sa fare del bisogno grossolano un bisogno umano; il suo idealismo è l’immaginazione, l’arbitrio, il capriccio… In parte questa estraneazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi, da un lato produce un imbarbarimento animalesco, e una completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall’altro lato […].”

2. SOCIETA’ E NATURA NEL MATERIALISMO STORICO

Se nei Manoscritti del 1844 abbiamo un approccio materialista che deve ancora molto a Feuerbach, nella Ideologia tedesca, scritta insieme ad Engels, viene formulato per la prima volta il cosiddetto “materialismo storico”, ovvero l’idea della storia come processo la cui chiave di spiegazione va ricercata nelle condizioni materiali di vita, nella produzione e riproduzione sociale della vita materiale degli uomini, e non principalmente nella sfera delle idee.

Ora, è estremamente significativo che nell’Ideologia tedesca sia scritto che il primo presupposto della storia sono, per così dire, traducendo in linguaggio contemporaneo le parole di Marx e Engels, le condizioni ecologiche in cui gli uomini vengono a trovarsi e che modificano con la loro azione (13):

“Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini.”

La società stessa è un fenomeno che emerge dalla natura e che dalla natura resta dipendente (14):

“La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro, quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra.”

Il materialismo storico, dunque, non nasce come negazione del naturalismo ma come superamento della sua astratta unilateralità: l’essenza dell’uomo, afferma Marx nelle Tesi su Feuerbach dello stesso periodo, è definita dall’insieme delle sue relazioni sociali (15).

Il materialismo storico non va inteso dunque solo come teoria della lotta fra le classi (come spesso hanno semplificato i marxisti sulla scorta di una lettura superficiale del Manifesto del partito comunista), ma come teoria dell’unità dialettica di due aspetti fra loro strettamente intrecciati e non separabili: il rapporto fra uomo e natura (che è rapporto di unità e di lotta, dicono Marx ed Engels) mediato dal lavoro (16), e il rapporto fra uomo e uomo, cioè le relazioni sociali all’interno della specie, la lotta delle classi, che è anche e soprattutto lotta per l’appropriazione delle condizioni di produzione e quindi della natura (17).

Il lavoro, attività finalistica, consapevole, condotta con l’aiuto di strumenti e di forze naturali, è ciò che distingue l’uomo dagli animali, ciò che rende la specie umana capace di modificare le sue condizioni di dipendenza dalla natura.

Modificarle, ma non sopprimerle. Il lavoro resta pur sempre, come verrà detto nel Capitale, “condizione naturale eterna della vita umana”, il mezzo con cui l’uomo “media, regola e controlla il ricambio organico (Stoffwechsel) fra se stesso e la natura” (18). Stoffwechsel è un termine che Marx riprende dalle scienze naturali del suo tempo che proprio nei primi decenni dell’Ottocento andavano indagando le relazioni materiali fra gli esseri viventi e l’ambiente (19). Nel corrente lessico ecologico Stoffwechsel è il termine usato in tedesco per designare il metabolismo e gli scambi materiali fra gli organismi e l’ambiente.

Il “ricambio organico” è dunque, né più né meno, che l’insieme delle relazioni che legano la specie umana al suo ambiente naturale.

Ma il lavoro e la divisione del lavoro (che è causa e prodotto dello sviluppo delle forze produttive) fondano anche la dimensione sociale dell’uomo e della storia (20):

“I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse di proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli uomini in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro.”

Per il marxismo, dunque, il dato di partenza dell’analisi teorica è l’unità dialettica fra la dimensione naturale e quella sociale dell’uomo in tutte le sue concrete manifestazioni storiche.

Questa non è solo un’affermazione di principio. Per quanto in seguito l’attenzione del marxismo si concentri soprattutto su uno dei versanti della dialettica storica (la lotte di classe), il secondo versante (il rapporto con la natura) non scompare, e ritorna in molti passaggi, alcuni dei quali costituiscono vere e proprie pagine di ecologia politica dello sviluppo capitalistico.

Con il lavoro, e con l’evoluzione storica che da esso prende le mosse, l’uomo non solo muta le condizioni sociali entro cui opera, ma modifica anche la natura, interagisce con essa. L’homo faber, l’uomo che lavora, è anche un animale che costruisce strumenti per lavorare (a toolmaking animal dice Marx con Benjamin Franklin, un animale che si crea e espande degli organi esosomatici, potremmo dire con l’ecologo Alfred Lotka), che gli conferiscono un potere crescente di intervenire sulla natura che lo ospita e di modificarla in vista delle proprie finalità (21).

In genere negli scritti di Marx e di Engels troviamo un giudizio positivo di questa capacità prometeiche dell’uomo. C’è un passaggio dei Grundrisse, ad esempio, il cui Marx dice ammirato che la natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, pali del telefono; che questi “sono organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata.” (22)

Tuttavia, Marx e Engels non sono neppure ciechi di fronte al degrado della natura che spesso le attività umane producono; a volte in modo non intenzionale, per ignoranza; altre volte per miope brama di guadagno individuale e privato (23). In effetti, essi ci hanno lasciato decine di vere e proprie pagine di “ecologia politica” in cui si saldano insieme la denuncia e l’analisi dei meccanismi sociali che sono all’origine del degrado.

3. UN ABBOZZO DI CRITICA ECOLOGICA DEL CAPITALISMO

Pagine di ecologia politica in Marx e Engels

Vediamo alcune delle pagine che prendono in esame le conseguenze ambientali del modo di produzione capitalistico.

Uno dei temi più ricorrenti è il degrado delle città industriali. Ne tratta Engels nello scritto su La situazione della classe operaia in Inghilterra, nella Questione delle abitazioni, nell’Anti-Dühring; ne tratta Marx nei Manoscritti (lo abbiamo visto sopra) e nel Capitale (24). Non solo vengono descritte le condizioni antigieniche delle abitazioni e dei quartieri proletari, ma viene anche denunciato il degrado ecologico, l’avvelenamento dei fiumi e dell’aria, il problema dei rifiuti (25).

Un altro tema ricorrente sono le conseguenze distruttive della agricoltura industriale la quale, scrive Marx nel Capitale; “mina le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (26)

Marx giudica poi che la dipendenza dai prezzi incostanti del mercato non sia compatibile con una gestione razionale di agricoltura e foreste, perché la logica del profitto a breve termine entra in contraddizione con quella della riproducibilità in tempi lunghi delle risorse naturali come la fertilità del suolo e la vegetazione (27). Contraddizione fra i tempi della valorizzazione e i tempi biologici, potremmo dire, parafrasando il titolo di un noto libro di Enzo Tiezzi.

Di più, troviamo osservazioni di Marx sul fatto che questi cambiamenti introdotti dallo sviluppo capitalistico (la selvaggia crescita delle città, l’adozione di tecniche agricole industriali, lo sviluppo del commercio a lunga distanza delle derrate agricole, lo scarico dei liquami nei fiumi) sempre più conducono alla rottura del ricambio organico fra società e natura (28). Sulla scia dei lavori del chimico tedesco Justus von Liebig (29), fondatore della chimica agraria e precursore dell’ecologia, Marx coglie dunque, con un secolo di anticipo su Barry Commoner, la tendenza del capitalismo a provocare la rottura dei cicli ecologici.

Un tema molto significativo è quello delle condizioni degli ambienti di lavoro e delle conseguenze del sistema di fabbrica sulle condizioni psico-fisiche dei lavoratori. Già affrontato da Engels nello scritto sopra citato sulle condizioni della classe lavoratrice inglese, il tema torna ampiamente nel Capitale, in particolare nel capitolo ottavo del primo libro e nel capitolo quinto del terzo (30), con ampio ricorso alle fonti ufficiali (le relazioni degli ispettori di fabbrica, i dibattiti parlamentari, le statistiche sulla morbilità e la mortalità ecc.). Nel trarre il bilancio della disumanità del capitale verso gli esseri umani che sottomette a condizioni bestiali di sfruttamento per il proprio profitto, Marx osserva che il capitale non si curerebbe neppure della possibilità di estinzione dell’umanità, se non fosse spinto a farlo dalla società stessa (31)

“Il capitale, che ha così “buoni motivi” per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che lo circonda, nel suo effettivo movimento non viene influenzato dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di uno spopolamento infine incontenibile, né più né meno di quanto su di esso influisca la possibilità della caduta della terra sul sole. Ciascuno sa, in ogni imbroglio di speculazione sulle azioni, che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare ma ciascuno spera che il fulmine cada sulla testa del suo prossimo e non prima che egli abbia raccolto e portato al sicuro la pioggia d’oro. Aprés moi le déluge! [dopo di me il diluvio] è il motto di ogni capitalista. Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società.”

PRODUZIONE ED AMBIENTE NELLA CRITICA DEL’ECONOMIA POLITICA

Queste pagine non sono casuali, estemporanee, sono il risultato di un approccio organico al cui centro c’è la nozione di modo sociale di produzione.

La nozione di modo di produzione salda in una unità due aspetti diversi ma non contrapposti: il processo di produzione materiale (ossia i rapporti che si stabiliscono fra uomo e natura) e i rapporti sociali di produzione (ossia i rapporti che si stabiliscono fra gli uomini), entro i quali il processo di produzione materiale si attua, e che imprimono ad esso il loro marchio.

La produzione per un verso è appropriazione della natura da parte degli uomini per i loro bisogni, ossia scambio materiale con l’ambiente; per un altro verso è un processo sociale – fatto di scambi, cooperazione, sfruttamento, conflitti fra i gruppi umani ecc. – che dipende e dà forma ad un determinato modello di società, a determinati rapporti sociali di produzione (32):

“Ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società.”

Che cosa definisce la struttura del modo di produzione e ne determina la dinamica?

Non solo la dialettica fra forze e rapporti di produzione, come afferma uno schema piuttosto noto.

Sono invece tre elementi: le condizioni di produzione, i rapporti di produzione, le forze produttive.

Le condizioni di produzione sono le premesse obiettive senza le quali la produzione non può neppure aver luogo (33). La prima di tutte è la natura stessa, ovvero le “condizioni esterne” (34).

L’uomo stesso è natura. La natura è l’ambiente, il luogo in cui la produzione si attua, è dispensa di materie prime, è arsenale di strumenti, è fonte di forze produttive, fra cui della più importante, la forza-lavoro umana.

Per Marx, a differenza di quanto vale per l’economia politica borghese, la dipendenza dei processi economici dall’ambiente, dalla natura, è ben presente a livello teorico (35). A questo proposito c’è una pagina polemica particolarmente significativa. Si tratta di un passo della Critica al programma di Gotha, il commento steso da Karl Marx al programma del costituendo partito operaio (socialdemocratico) tedesco, del 1875. Di fronte all’affermazione che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, Marx insorge (36):

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana… E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi di ricchezza, in quanto l’uomo è fin dal principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene.”

Nel primo libro del Capitale, nel quinto capitolo dedicato al processo lavorativo, trattando della produzione in generale, Marx scrive:

“Nella sua produzione l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificando le forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.” (37)

“La terra (nella quale dal punto di vista economico è inclusa anche l’acqua), come originariamente provvede l’uomo di cibarie, di mezzi di sussistenza bell’e pronti, si trova ad essere, senza contributo dell’uomo, l’oggetto generale del lavoro umano. Tutte le cose che il lavoro non fa che sciogliere dal loro nesso immediato con l’orbe terracqueo sono oggetti di lavoro che l’uomo si trova davanti per natura.” (38)

“La terra è non solo la sua [dell’uomo] dispensa originaria, ma anche il suo arsenale originario di mezzi di lavoro.” (39)

“Oltre alle cose che trasmettono l’efficacia del lavoro al suo oggetto, e quindi in un modo o nell’altro servono come conduttori dell’attività, il processo lavorativo annovera fra i suoi mezzi, in un senso più ampio, anche tutte le condizioni oggettive che in genere sono richieste affinché esso abbia luogo. Queste condizioni non rientrano direttamente nel processo lavorativo, il quale però senza di esse, può non verificarsi affatto o si verifica solo incompletamente. Il mezzo universale di lavoro di questo tipo è ancora una volta la terra stessa, poiché essa dà al lavoratore il locus standi e al processo lavorativo dà il suo campo d’azione (field of employment).” (40)

“In quanto il suo mezzo e il suo oggetto stesso sono già prodotti, il lavoro consuma prodotti per creare prodotti, ossia utilizza prodotti come mezzi di produzione di prodotti. Ma come il processo lavorativo si svolge, originariamente, soltanto fra l’uomo e la terra che esiste già senza il suo contributo, in esso continuano ancora sempre a servire quei mezzi di produzione che esistono per natura, che non rappresentano nessuna combinazione di materiale naturale e di lavoro umano.” (41)

“Una macchina che non serve nel processo lavorativo è inutile e, inoltre, cade in preda alla forza distruttiva del ricambio organico naturale.” (42)

C’è qui la percezione dell’operare del principio di entropia. E ancora sulla importanza dell’energia (43):

“Nella storia dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla, appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante opere della mano umana.”

Fin qui il discorso ha considerato la produzione in generale.

Ma il modo di produzione capitalistico è una forma sociale determinata in cui si realizza l’unità del processo di produzione e del processo di valorizzazione (44).

Detto altrimenti: la produzione materiale, concreta, rivolta ai valori d’uso, è solo il mezzo per ottenere dei valori di scambio da portare al mercato e da vendere con profitto, incrementando così il capitale inizialmente investito nella produzione.

Non è dunque la soddisfazione dei bisogni oggettivi il fine della produzione, ma la soddisfazione della domanda pagante. Perciò, i valori d’uso (e fra questi la natura), nella misura in cui non si possono tradurre in valori di scambio da utilizzare per valorizzare il capitale, sono del tutto indifferenti (45).

Stimolato dal fine della valorizzazione, il processo economico si trasforma in produzione per la produzione. Con ciò prende avvio una crescita incontrollata e incontrollabile, in tendenza illimitata (46), anche perché il capitale non riconosce limiti davanti a sè se non nella misura in cui incontra l’opposizione della società o un aumento insostenibile dei costi (47).

5. UN IDEA EMBRIONALE DI SVILUPPO SOSTENIBILE

Torneremo più avanti sul giudizio che Marx esprime di questa dinamica espansiva del capitalismo. Qui voglio osservare che egli si pose il problema delle conseguenze sulla natura delle attività umane formulando in diverse occasioni delle prescrizioni ispirate a criteri che oggi diremmo di sviluppo sostenibile, cioè all’idea che occorre preservare le condizioni che assicurano la continuazione della vita sul pianeta e lo sviluppo delle generazioni future.

Nel terzo libro del Capitale, criticando la proprietà privata della terra, Marx rileva che essa è un’idea anacronistica destinata ad essere superata, come lo è stata quella di proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo (la schiavitù); non solo l’idea della proprietà privata, aggiunge, ma anche quella della proprietà di una nazione o di una generazione: in realtà noi possediamo il pianeta solo in “usufrutto” e siamo tenuti a tramandarlo alle future generazioni “migliorato” (48). C’è qui una indubbia assonanza con lo slogan degli ecologisti: “abbiamo ricevuto in prestito il pianeta dai nostri nipoti”.

Altrove, egli chiede che un’agricoltura razionale protegga “le permanenti condizioni di vita delle generazioni che si susseguono” (49); dichiara inoltre che l’umanità futura dovrà “regolare razionalmente il proprio ricambio organico con la natura” e “portarlo sotto il suo controllo”, allo scopo di “garantire le condizioni inalienabili di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano” (50).

Insomma, c’erano nel marxismo originario le premesse per un dialogo fecondo con l’ecologia…

6. UN BILANCIO CRITICO

Questioni aperte

Forze produttive e limiti allo sviluppo

Veniamo ora ad alcune questioni aperte oggi molto dibattute.

Il marxismo, secondo alcuni studiosi, in quanto conferisce un posto centrale al concetto di sviluppo delle forze produttive (e di dominio sulla natura), è con ciò in contraddizione con lo spirito dell’ecologia che invece richiama con forza alla coscienza del limite e alla esigenza di contenere le attività umane entro i confini di sostenibilità dell’ambiente, della biosfera.

In effetti, è vero che Marx ed Engels giudicavano in modo positivo lo sviluppo delle forze produttive e che non hanno (quasi) mai considerato esplicitamente il tema dei limiti ultimi dello sviluppo delle società umane (ed è anzi vero che essi danno l’impressione di credere nella possibilità di uno sviluppo illimitato).

Marx, ad esempio, sottolinea in vari contesti l’importanza dello sviluppo e dell’utilizzo delle forze naturali per soddisfare le finalità umane. Le pagine del Manifesto (1848) in cui è scritto che la borghesia ha realizzato ben altro che le piramidi possono a prima vista sembrare industrialiste, e così molte pagine dell’Ideologia tedesca o dei Grundrisse sulla esplorazione della natura e sulle potenzialità della tecnica e della scienza applicate alla produzione di sviluppare la ricchezza (51).

Ma l’approccio di Marx e di Engels non è mai meramente apologetico. Non viene mai meno la percezione degli effetti nefasti dello sviluppo capitalistico sulle condizione ambientali in cui vive l’uomo e sulla natura in quanto tale, anche se questo tema resta sullo sfondo, mentre in primo piano ci sono i problemi economico-sociali.

A questo proposito però occorre considerare due cose:

1. che il tema dei limiti è molto recente e anche le nozioni scientifiche che hanno consentito di metterlo a fuoco – la nozione di entropia, i concetti dell’ecologia – sono stati sviluppati soltanto in una fase successiva (52);

2. che il concetto di sviluppo delle forze produttive ha in Marx un contenuto che non è affatto assimilabile a quello di crescita dell’industria e di progresso tecnologico; essa ha un significato essenzialmente qualitativo (sviluppo dei mezzi e delle conoscenze che consentono di arricchire la vita umana, le sue possibilità di liberazione sociale e di controllo della natura), e si accompagna a un approccio critico di quello che è lo “sviluppo reale” nelle condizioni del capitalismo.

Anzi, l’insostenibilità sociale (e di passata anche ambientale) dello sviluppo capitalistico è illustrata in tutti i lavori scientifici di Marx e di Engels. Insomma, nessuna apologia acritica della tecnica e della crescita economica come tali, ma una ragionevole fiducia sulle loro potenzialità positive, una volta eliminate le distorsioni capitalistiche che ne fanno strumenti di sfruttamento e di oppressione.

Se posizioni apologetiche della tecnica e della crescita economica sono prevalse fra i marxisti, costoro hanno “sbagliato in proprio”, per così dire.

In quanto poi all’idea di un dominio umano sulla natura, questa è una formula che ricorre qualche volta in Marx e in Engels. Ma essa fa parte dell’epoca, è prima di tutto un portato della rivoluzione scientifica, della sua teorizzazione da parte di Bacone e dell’Illuminismo. In questo senso la posizione “antropocentrica” di Marx e di Engels non può essere messa in dubbio.

Ma ammettere che la natura debba essere esplorata e studiata dalle scienze perché siano sviluppate le sue potenzialità utili agli esseri umani non è la stessa cosa di una posizione che fa della tecnica il feticcio da cui ci si attende la soluzione a tutti i problemi umani (che è tuttora ideologia corrente, se non dominante).

Inoltre, la posizione di Marx e di Engels non si può neppure confondere con una filosofia antinaturalistica, con la arroganza antropocentrica di chi vede nella tecnica il mezzo per raggiungere una sorta di onnipotenza da impiegare per manipolare la natura secondo i disegni arbitrari dell’uomo.

Proprio perché materialisti, Marx e Engels sono naturalisti, cioè non elevano l’uomo su un piedistallo al di sopra e al di fuori del resto della natura, come facevano molti dei loro contemporanei sulla scia del cristianesimo o di una lettura antropocentrica dello stesso evoluzionismo darwiniano (53), ma lo vedono parte della natura. Di qui la critica esplicita alla tradizionale contrapposizione di uomo e natura ereditata dal cristianesimo (54) e dell’arroganza prometeica che proprio Engels formula in alcuni passi molto famosi della Dialettica della natura (55):

“A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato.”

Più in generale, a proposito della presenza di un elemento prometeico nel marxismo, non mi pare che l’aver sottolineato nel secolo scorso le potenzialità emancipatrici, sotto certe condizioni, dello sviluppo tecnologico sia contraddittorio col giudicare oggi prioritario orientare la tecnologia e la scienza ai fini di un nuovo equilibrio fra l’uomo e la natura.

7. PROGRESSO O CATASTROFE

Oggi è usuale mettere in discussione l’idea del “progresso” e questo coinvolge anche il marxismo, che viene spesso indicato come una delle “ideologie del progresso” di stampo illuministico.

Tuttavia non è sempre facile capire quale sia la contestazione che viene mossa all’idea del progresso. Una possibile contestazione di marca propriamente reazionaria verte sull’idea della assoluta identità della condizione umana nel corso della storia che sarebbe perciò vano, anzi temerario, pensare di modificare. Vi sono alcune interpretazioni ecologiche che vanno in questo senso: la condizione umana è un dato di natura, è vano cercare di forzare questo destino mediante la tecnica, la medicina, la cultura o, peggio, la rivoluzione sociale.

Questo tipo di critiche ha qualche volta il merito di riportarci con i piedi per terra riguardo ai nostri limiti biologici, ma per il resto sottovaluta la plasticità della specie umana e il suo potenziale di miglioramento materiale e morale.

Bene o male l’uomo ha già dimostrato di avere la capacità di modificare radicalmente le sue relazioni di dipendenza dalla natura. Pur con tutte le odierne malattie, la speranza di vita alla nascita è oggi circa tre volte quella del paleolitico.

Su un altro piano, pur con tutte le atrocità che tuttora vengono commesse, c’è stato indubbiamente un incivilimento dei costumi: il cannibalismo, la tortura, la pena di morte, lo stupro, la schiavitù, la stessa guerra ecc. sono oggi respinti dalla coscienza comune in una misura che non ha precedenti nel passato. Questo progresso morale, non c’è dubbio, è in relazione sia con bisogni umani profondi, sia con la possibilità pratica, oggi storicamente alla nostra portata, di realizzare forme di società in cui è possibile e generalmente avvertito come desiderabile fare a meno di queste forme di barbarie.

Una seconda contestazione del concetto di progresso rifiuta invece le “magnifiche sorti e progressive” non dell’umanità in quanto tale (anche se il fallimento dell’attuale civiltà rischia di segnare il destino dell’intera specie) ma di questa civiltà. Si tratta di una contestazione che si fa forte dei molti inquietanti sviluppi recenti, e in particolare degli emergenti problemi ambientali e del rischio di catastrofe che incombe sulle condizioni planetarie da cui dipende la vita umana.

Credo che il pensiero di Marx e di Engels sia in verità all’interno di questo filone critico, anzi ne è una delle espressioni più coerenti e mature. Essi condividono la critica alle sorti progressive di questa civiltà (56). Essi individuano ad esempio validi motivi per contestare la visione unilaterale del progresso che raffigura la società borghese come il migliore dei mondi possibili negli studi sulle popolazioni primitive ad opera delle nuove discipline etnologiche. Osserva Engels nello scritto sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (57):

“La civiltà ha compiuto cose che l’antica società gentilizia non era per nulla in grado di compire ma le ha compiute mettendo in moto, e sviluppando, a spese di tutte le loro disposizioni, le passioni e gli istinti più sordidi degli uomini… Perché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della società si muove in una contraddizione permanente. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un regresso della situazione della classe oppressa, cioè della grande maggioranza. Ogni beneficio per gli uni è necessariamente un danno per gli altri, ogni emancipazione di una classe è una nuova oppressione per un’altra classe. Ci offre la prova più evidente di ciò l’introduzione delle macchine, i cui effetti sono oggi noti in tutto il mondo.”

Questa consapevolezza critica non si ritrova in alcune versioni del marxismo “realmente esistito”, che su questo punto (come su tanti altri) ha contraddetto il pensiero di Marx e di Engels. La interpretazione storicistica del marxismo, ad esempio – sorta di filosofia della storia che vede uno sviluppo ininterrotto, ascendente e progressivo da un modo di produzione ad un altro, fino al capitalismo e, oltre il capitalismo, fino all’avvento del socialismo e del comunismo, interpretazione che in qualche misura ha caratterizzato la socialdemocrazia e per certi aspetti lo stalinismo – è contestabile se riferita a Marx e a Engels, ma anche agli esponenti più lucidi del marxismo rivoluzionario (in primo luogo Rosa Luxemburg, ma anche Lenin e Trotskij).

Piuttosto in Marx e Engels troviamo:

1. Una concezione dialettica dello sviluppo dell’industria, della tecnica e della scienza. Nel quadro capitalistico esse, mentre sviluppano le potenzialità di una liberazione dell’uomo dalla schiavitù del lavoro, in realtà si convertono in strumenti della sua oppressione, di crescente sfruttamento e minaccia per l’ambiente. Si vedano a questo proposito le osservazioni su John Stuart Mill (riprese nel capitolo sulle macchine del Capitale): è discutibile che lo sviluppo delle macchine sia servito ad alleviare la fatica di chi lavora; è servito piuttosto per ridurre il valore delle merci e il loro prezzo, cioè ad accorciare il tempo di lavoro necessario per produrle; ma ogni sviluppo della produttività in condizioni capitalistiche ha questo effetto: che questa riduzione del lavoro necessario si trasforma in incremento del lavoro non pagato e dello sfruttamento del lavoratore (58).

In questa luce, è estremamente significativo un passo dell’Ideologia tedesca nel quale si dice che, sotto determinate condizioni, lo sviluppo delle forze produttive si traduce in sviluppo di forze distruttive (59):

“Sotto il regime della proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tale forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione.”

2. Una concezione dialettica della storia in cui elementi di progresso e di regresso si intrecciano insieme. Già nella Sacra famiglia (1844), richiamandosi ai critici utopistici del capitalismo, Marx ed Engels avevano attaccato come “inconsistente” la categoria del progresso (60):

“Nonostante le pretese del progresso, si hanno continui regressi e movimenti circolari… la categoria “del progresso” è una categoria completamente inconsistente e astratta… Tutti gli scrittori socialisti e comunisti sono partiti dalla osservazione, da un lato, che anche le azioni splendide e più vantaggiose sembrano rimanere senza splendidi risultati e sembrano finire in banalità, dall’altro, che tutti i progressi dello spirito sono stati finora progressi contro la massa dell’umanità, la quale è stata cacciata in una situazione sempre più disumanata. Essi perciò hanno dichiarato “il progresso” una frase insufficiente, astratta (vedi Fourier), e hanno supposto l’esistenza di una tara fondamentale del mondo civile (vedi fra gli altri Owen); essi perciò hanno sottoposto i fondamenti reali della società moderna a una critica incisiva. A questa critica comunista è corrisposto subito, nella pratica, il movimento della grande massa in opposizione alla quale aveva avuto luogo lo sviluppo storico avvenuto finora.

Argomenti simili tornano trent’anni dopo nell’Anti-Dühring (dove compare anche il tema della fine dell’umanità): “Dove Fourier appare più grande è nella sua concezione della storia della società”, in cui svela il “circolo vizioso” delle contraddizioni della civiltà borghese, nella quale “la povertà sorge dalla stessa abbondanza” (61):

“Fourier, come si vede, maneggia la dialettica con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli, di fronte alle chiacchiere sulla infinita perfettibilità umana, mette in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente ma anche il suo ramo discendente e applica questo modo di vedere anche al futuro di tutta l’umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione dell’umanità.”

La complessità di motivi ispiratori della concezione marx-engelsiana della storia è stata messa in luce recentemente anche da Michael Löwy in alcuni scritti sulla dimensione romantica del marxismo (62).

Si tratta di un aspetto poco considerato eppure importante per comprendere l’atteggiamento di Marx nei riguardi della moderna società industriale. Secondo Löwy, il romanticismo si caratterizza come nostalgia per i valori sociali ed estetici precapitalistici, per la critica alla distruzione di questi valori da parte della progressiva mercificazione della vita e delle relazioni umane nella società moderna. Questo riferimento al passato non gli conferisce automaticamente una valenza regressiva: il romanticismo può presentarsi con un orientamento reazionario o viceversa con un orientamento rivoluzionario. Le due tendenze si possono simboleggiare rispettivamente con Edmund Burke, il critico implacabile della rivoluzione francese, e con Jean-Jacques Rousseau, il pensatore al quale si ispiravano invece alcuni dei leader rivoluzionari.

Secondo Löwy, i critici romantici della modernità (Thomas Carlyle, Simonde de Sismondi, Charles Fourier, John Ruskin) sono una fonte importante della critica anticapitalistica di Marx, come provano vari passi dei Manoscritti del 1844, ma alimenta anche le opere “scientifiche” della maturità. La dimensione romantica del marxismo si rivela pure nella attenzione per le società precapitalistiche e in particolare per le comunità primitive (63), nella critica dell’idea di progresso del positivismo, e soprattutto nella concezione della società comunista e del lavoro liberato dalla alienazione, in cui compaiono elementi ripresi da un pensatore utopistico come Fourier (64).

Vorrei per parte mia segnalare che la dimensione romantica è anche una componente importantissima, anzi essenziale, della nascita dell’ecologia scientifica (e non solo dell’ecologismo). Per limitarmi a qualche cenno, ricordo qui l’influenza del pensiero romantico (e della sua visione organicistica della natura) su alcune figure di primo piano delle scienze naturali e della nascente ecologia come il naturalista e geografo tedesco Alexander von Humboldt, il poeta americano Henry David Thoureau, l’autore di Man and Nature George Perkins Marsh, il maggiore ecologo dei primi anni di questo secolo lo statunitense Frederick Clements, Aldo Leopold, ecologo e conservazionista del periodo fra le due guerre, ecc.

Ancora più interessante può essere segnalare che i primi tentativi coscienti di protezione della natura si devono a seguaci di Rousseau (65). Si può scorgere, mi pare, una sorta di “affinità elettiva”, se non una vera e propria “affinità genetica”, tra il marxismo e l’ecologia, che i marxisti dovrebbero valorizzare nel momento in cui si lasciano alle spalle ogni ristretto economicismo e un certo scientismo acritico.

3. Una critica della interpretazione positivistica del darwinismo e della teoria evoluzionistica quali prove “scientifiche” della realtà del “progresso” nella natura e nella storia, il cui punto di arrivo sarebbe la società bianca, borghese, capitalistica: vedi l’evoluzionismo di Herbert Spencer. A proposito della teoria di Darwin della evoluzione mediante selezione naturale e sopravvivenza del più adatto, nella Dialettica della natura Engels rimprovera allo studioso inglese di mescolare due nozioni distinte: 1. la pressione selettiva della sovrappopolazione e 2. la pressione selettiva dell’ambiente. Ma al di là della dubbia pertinenza di questa critica, Engels svolge queste acute osservazioni sulla natura della evoluzione (66):

“1. Selezione per la pressione della sovrappopolazione, nel qual caso forse i più forti più facilmente sopravvivono, pur potendo essere sotto parecchi aspetti i più deboli.

“2. Selezione per la maggiore capacità d’adattamento a circostanze modificate, nel qual caso i sopravviventi sono più adatti a queste circostanze, ma tale adattamento da un punto di vista complessivo, può rappresentare tanto un progresso quanto un regresso (per es. adattamento alla vita parassitaria, sempre regresso).

“Punto fondamentale: che ogni progresso nell’evoluzione organica è nello stesso tempo un regresso, in quanto esso fissa una evoluzione unilaterale, preclude la possibilità di evoluzione in molte altre direzioni.

“Questa però è legge fondamentale.”

4. La possibilità della catastrofe nella storia. Soprattutto come catastrofe della civiltà legata alla guerra, alla incapacità del proletariato di prevalere sull’avversario di classe, e dunque al progressivo imbarbarimento dei rapporti sociali, alla caduta delle forze produttive, all’annientamento della umanità stessa. Lo storico Luigi Cortesi ha svolto in un suo saggio di qualche anno fa (67) una ricostruzione di questo aspetto del marxismo, da Marx ed Engels (in cui comunque prevale l’attesa di un futuro positivo) a Rosa Luxemburg e a Vladimir Lenin (sarebbe interessante completare la ricerca con Lev Trotskij e Walter Benjamin) che egli definisce del “sospetto sulla storia”.

Peraltro, la possibilità dell’involuzione non è assente neppure nello scritto di Marx e di Engels che più di altri presenta una visione ottimistica del futuro; nel Manifesto del partito comunista, infatti, si può leggere a proposito delle lotte di classe nella storia (68):

“Le classi condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.”

E’ dunque abusivo leggere il “marxismo di Marx” come una filosofia “progressista” della storia (anche se in effetti questa è stata una lettura frequente fra coloro che in seguito si sono richiamati a Marx (69)).

C’è un testo poco noto del vecchio Marx che contiene il rifiuto esplicito dello schema lineare del progresso e in generale di ogni filosofia della storia, e getta luce sul metodo e sulle idee di Marx in proposito. E’ la lettera (della fine del 1877) alla rivista russa “Otecestvennye Zapiski” in risposta a un critico (N. K. Michajlovskij) che, sulla base del Capitale, pretendeva di attribuire a Marx l’idea dell’inevitabilità del passaggio al capitalismo per tutti i paesi (70):

“Nel capitolo sull’accumulazione originaria, io pretendo unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Occidente europeo, l’ordine economico capitalistico uscì dal grembo dell’ordine economico feudale […]. Ecco tutto. Ma per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto.”

Marx prosegue tracciando un parallelo tra la sorte del proletariato moderno e quella della plebe proletarizzata dell’antica Roma e conclude:

“Dunque, eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto differenti.

“La chiave di questi fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamente uno per uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai col passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è d’essere soprastorica.”

Qualche anno più tardi Marx metterà alla prova questo metodo discutendo con la rivoluzionaria russa Vera Zasulic della possibilità che la comune rurale russa potesse essere la base per una transizione “diretta” al socialismo saltando la tappa dello sviluppo capitalistico (71).

8. COMUNISMO DELL’ ABBONDANZA?

Lo sviluppo delle forze produttive materiali è stato concepito tradizionalmente dal marxismo come la base per la liberazione dal bisogno e per la soppressione dello sfruttamento. In questo senso si pronunciano diversi passi degli scritti dei classici, dell’Ideologia tedesca, dei Grundrisse, del Capitale, della Critica al programma di Gotha.

Ora, però, una serie di sviluppi sembrano vanificare questa prospettiva: l’emergere del problema dei limiti biologici del pianeta, l’esaurimento delle risorse, la crescita demografica e così via sembrano allontanare la prospettiva dell’abbondanza materiale per tutti. Ciò compromette forse l’idea di una società in cui sia abolito lo sfruttamento e dove la libertà di tutti sia la condizione del libero sviluppo di ciascuno?

Una critica radicale in questo senso al marxismo è stata rivolta da Hans Jonas, filosofo americano di origine ebraico-tedesca, morto recentemente, in una delle sue ultime opere: Il principio responsabilità (72). L’incombente crisi ecologica, per Jonas, rende il comunismo, concepito come regno dell’abbondanza, un’utopia pericolosa e irrealizzabile.

C’è qui un problema reale: alcune promesse di abbondanza connesse alla concezione tradizionale del comunismo devono sicuramente essere ridimensionate, se vogliamo impedire il degrado del pianeta.

Credo, tuttavia, che la nozione di ricchezza che sta alla base dell’idea della società comunista come società “ricca”, non sia la generalizzazione del consumismo capitalistico – una fiera della quantità e dello spreco – ma piuttosto una nozione qualitativa: la liberazione dalla schiavitù delle costrizioni materiali e sociali, e in primo luogo dalla schiavitù del lavoro salariato, alienato, sfruttato. La ricchezza del comunismo è riduzione drastica del tempo di lavoro necessario per i bisogni materiali, possibilità di una attività creativa ed attraente, ampliamento della libera auto-determinazione individuale, ricchezza di relazioni sociali significative (73).

E’ possibile questa riduzione drastica dell’orario di lavoro? E’ possibile una società materialmente sobria ma ricca culturalmente e socialmente?

Certamente sì. Non vi sono dubbi in proposito per ciò che riguarda i paesi avanzati, dove il problema posto dalla ultima rivoluzione tecnologica è quello di ingenti aumenti di produttività del lavoro in un quadro di saturazione dei mercati che sta provocando ovunque la crescita della disoccupazione strutturale, non riassorbibile se non con una netta riduzione degli orari di lavoro.

Ma non ci sono neppure insormontabili difficoltà tecniche o ecologiche per garantire rapidi miglioramenti alla maggioranza dei popoli del cosiddetto Terzo mondo, qualora si eliminassero gli enormi sprechi umani, materiali e tecnologici oggi dilapidati per finalità distruttive (armamenti e guerre), parassitarie (il tenore di vita delle classi dominanti del nord e del sud del mondo) o di spreco (gli aspetti deteriori del consumismo). Le difficoltà, com’è evidente, sono in ogni parte del mondo essenzialmente di ordine politico e sociale.

Non va dimenticato, infine, che mettere lo stop alla crescita dei flussi materiali che le società umane scambiano con la biosfera (materie prime, energia, emissioni, rifiuti) non significa bloccare di per sé qualsiasi miglioramento delle condizioni materiali. Queste ultime possono ancora migliorare, a condizione di orientare la ricerca e la tecnologia in una nuova direzione, verso la messa a punto di cicli produttivi meno nocivi, verso il risparmio di materie prime, verso il riciclo dei materiali, verso la riduzione dei consumi energetici e così via. Tutto ciò può ancora rendere possibile – purché si stabilizzi rapidamente la popolazione mondiale – un certo miglioramento dei livelli di benessere materiale ancora per molto tempo.

D’altra parte, il concetto di crescita economica (che è una nozione solo quantitativa) non è equivalente a quello di sviluppo sociale e umano (che è una nozione eminentemente qualitativa). La prima è in contraddizione assoluta con un pianeta limitato. Il secondo non necessariamente: non è in contraddizione con il pianeta se è inteso come una evoluzione essenzialmente qualitativa nel rapporto fra l’uomo e la natura e fra l’individuo e il suo ambiente sociale (un recente rapporto dell’Onu, ad esempio, traduce la parola sviluppo con “ampliamento delle possibilità di scelta degli esseri umani”), la qual cosa non esclude, anzi rende necessario il conseguimento di crescenti livelli di efficienza nell’impiego delle risorse del pianeta per il soddisfacimento dei bisogni.

9. DIALETTICA MATERIALISTICA E OLISMO ECOLOGICO

Alcune obiezioni al marxismo insistono su una sua presunta dipendenza dai criteri ottocenteschi di scientificità, in particolare dal paradigma meccanicistico della fisica classica, da tempo messo in dubbio da nuovi approcci epistemologici.

Vengono contestate, in particolare da parte del cosiddetto “pensiero debole”, la pretesa di individuare le “leggi del movimento della storia”, che sarebbe invece radicalmente impredicibile, nonché l’idea di un soggetto storico forte, il proletariato, in grado di “realizzare” la storia stessa. La fisionomia delle società contemporanee, invece, tenderebbe a diventare sempre più complessa e articolata, indecifrabile a priori. Inoltre, di fronte alla crisi ecologica emergente, sembrerebbe assumere una importanza crescente una generale coscienza di specie piuttosto che una parziale coscienza di classe.

E’ vero, per alcuni aspetti, che il pensiero ecologico – che sottolinea concetti come evoluzione, irreversibilità, complessità, interazione, olismo e così via – ha introdotto forti elementi di critica nei riguardi dell’eredità scientifica ottocentesca, in specie delle tendenze riduzionistiche e meccanicistiche che hanno contraddistinto la rivoluzione scientifica e l’ideologia positivistica ad essa associata, cioè gli approcci culturali dominanti durante gli ultimi secoli.

Ma il marxismo è assimilabile alla tradizione meccanicistica e positivistica? Sono fondate le critiche che gli vengono rivolte? Esso è davvero una filosofia della storia fondata su una sorta di determinismo economico, o tecnologico, come a volte viene detto?

Anche su questo punto credo che il marxismo abbia le carte più in regola di quanto comunemente si creda.

La netta diversità dell’approccio filosofico del marxismo originario rispetto alle idee filosofiche correnti dell’epoca (e dunque l’irriducibilità del marxismo ai criteri e ai contenuti dell’ideologia borghese ottocentesca, nelle sue varie varianti) è un punto non sempre riconosciuto, anzi comunemente negato dagli ecologisti (74), benché questo punto abbia a che vedere con la nozione di scienza, con la concezione del rapporto uomo-natura-società, con la capacità di mettere in campo strumenti per comprendere i problemi ambientali, cioè con il cuore delle odierne controversie.

Perciò è il caso di tornare a ribadire alcune cose forse poco note. Marx ed Engels hanno elaborato le loro idee sulla scienza e sulla natura sotto l’influenza fortissima del pensiero hegeliano (75). Per ciò che riguarda la natura, poi, per il tramite di Hegel essi hanno subito anche l’influenza del pensiero di Schelling (76). La ricaduta di queste fonti nella loro riflessione è stata l’assimilazione critica di due elementi culturali di diverso valore: in primo luogo la dialettica hegeliana (quale pensiero della totalità in divenire, dell’unità degli opposti, della contraddizione come molla del movimento), e in secondo luogo la concezione unitaria della natura propria della Naturphilosophie, sorta di scienza naturale speculativa influenzata dal romanticismo che, nei primi anni del diciannovesimo secolo, in Germania, contrapponeva alla visione meccanicistica dei pensatori empiristi e razionalisti anglo-francesi una concezione della natura di tipo organicistico-vitalistico (77).

Queste influenze hanno messo al riparo il marxismo originario da una acritica adesione alla concezione meccanicistica della natura e al metodo riduzionistico che prevalevano nelle scienze naturali nella seconda metà dell’Ottocento. Tutto questo, d’altra parte, solo in misura inadeguata si è tradotto in una organica sistemazione teorica: soprattutto per opera di Marx per ciò che riguarda il “metodo dialettico” (in particolare nelle indagini di economia politica), e per opera di Engels per ciò che riguarda le scienze della natura, di cui è rimasta traccia soprattutto negli appunti postumi per la Dialettica della natura.

Con tutti i limiti che si possono ravvisare in questi tentativi eminentemente speculativi, non mi sembra casuale che molti biologici di fama dei nostri giorni (ad esempio il paleontologo Stephen Jay Gould, o il grande biologo Ernst Mayr nella sua ultima opera, Storia del pensiero biologico (78)) affermino di rintracciare forti analogie fra l’odierna biologia e la nozione che ne aveva Engels un secolo fa, o di trovare una certa affinità tra la loro visione del mondo e la dialettica materialistica del marxismo (troppo calunniata per colpe non sue, a causa del diamat staliniano).

Le caratteristiche del pensiero dialettico, in particolare, mostrano una stretta somiglianza con l’approccio olistico (79) rivendicato dalla ecologia scientifica, e con la visione della natura e dell’uomo e delle relazioni società-natura propria del pensiero ecologico più serio: una visione del vivente come processo evolutivo, unità nella diversità, complessità e interdipendenza, e dell’uomo come essere ad un tempo naturale e culturale, del sociale come “emergenza” (80), allo stesso tempo “dentro” e “fuori”, del naturale.

Quanto alla concezione della storia del marxismo e alla sua analisi del capitalismo, delle contraddizioni interne di questo modo sociale di produzione e delle dinamiche politico-sociali che lo caratterizzano, questi sono temi che richiederebbe di aprire un nuovo capitolo. In parte abbiamo già detto sopra. Qui basti aggiungere che, se è vero che le vicende del ventesimo secolo hanno liquidato la versione storicistica del marxismo che vedeva il superamento del capitalismo e l’avvento di un ordine sociale superiore come un evento necessario e quasi automatico, è altrettanto vero che ben diversa era l’impostazione marxiana (e del marxismo rivoluzionario) secondo cui sono sempre e solo gli uomini a fare, consapevolmente o meno, la storia, anche se in circostanze non scelte da loro, storia il cui esito non è prestabilito una volta per tutte ma che presenta da un’epoca all’altra delle potenzialità di sviluppo nel cui ambito si muovono i disegni e la prassi degli uomini.

Se oggi, sul finire del ventesimo secolo, stiamo assistendo al prevalere di una universale coscienza della specie che si avvia ad avere ragione degli interessi egoistici del capitale e di coloro che minacciano l’integrità della biosfera, o se invece solo la saldatura della tradizionale coscienza di classe con una nuova coscienza ecologica di massa possa schiudere una prospettiva di salvezza del pianeta e delle generazioni umane presenti e future contro i pericoli incombenti, è questione che lascio al lettore giudicare.

Per quel che mi riguarda, la risposta è evidente.

10.CHE COSA CI PUO’ DIRE OGGI IL MARXISMO?

Che cosa, in conclusione, oggi ci può dire ancora il marxismo sui temi della questione ambientale, che altri non dicono? In quale senso l’approccio teorico del marxismo rimane a tutt’oggi unico e imprescindibile?

In sintesi vedo questi quattro punti fondamentali, specifici del marxismo, prescindendo dai quali non vedo come si possa sperare di fare davvero i conti con la questione ambientale:

1. Per il marxismo i problemi ambientali sono in primo luogo problemi sociali e politici, e non solo e non tanto problemi culturali o etici. Solo il marxismo dà conto in modo adeguato delle radici economico-sociali della tendenza delle società contemporanee a degradare la natura e degli interessi di classe che sono in gioco nelle politiche ambientali. Ci fa comprendere dunque che non è possibile un ambientalismo davvero efficace, davvero radicale (nel senso letterale del termine) che non sia anche anticapitalistico.

2. Il marxismo ci offre, con la critica dell’economia politica, alcuni strumenti concettuali irrinunciabili per comprendere i modi del degrado ecologico: la nozione di modo sociale di produzione ci consente una analisi storicamente determinata della attuale crisi ambientale; la distinzione valore d’uso-valore di scambio consente di demistificare il feticismo delle categorie economico-monetarie dell’economia tradizionale; l’analisi del processo produttivo come processo di valorizzazione ne rivela la intrinseca contraddittorietà e mette a nudo l’origine della tendenza alla produzione per la produzione; la contraddizione fra l’obiettiva socializzazione delle condizioni di produzione, fra le quali hanno un posto fondamentale le condizioni naturali, per loro intrinseca natura “sociali”, cioè comuni a tutti gli abitanti del pianeta (81), e la loro appropriazione e sfruttamento privati, mette a nudo gli interessi che si oppongono alla protezione dell’ambiente e i limiti insuperabili del mercato, da un punto di vista ambientale, come regolatore supremo delle scelte economiche.

Il marxismo in altre parole ci dice che la salvezza del pianeta non è compatibile alla lunga con una economia come quella capitalistica la cui molla primaria sono gli interessi privati e in cui non c’è una regolazione sociale ex ante del processo e del modello di sviluppo; e che un futuro ecologicamente “sostenibile” è possibile soltanto con un nuovo sistema sociale ed economico che regoli consapevolmente il suo sviluppo e i suoi rapporti con la natura. In altre parole le relazioni fra l’uomo e la natura possono cambiare a condizione di cambiare anche i rapporti degli uomini fra loro.

3. Il marxismo ci dà strumenti insostituibili per comprendere le cause e la dinamica internazionale della crisi ecologica. Questo punto non è stato approfondito in questa relazione, perciò qui mi limito a un richiamo: la nozione di imperialismo, e la relativa teoria, che spiega la natura specifica dello sviluppo capitalistico dell’ultimo secolo, sono essenziali per capire i diversi modi in cui la crisi ambientale si articola e si intreccia fra il Nord e il Sud del mondo.

4. Infine, non meno importante, il marxismo ci soccorre nella individuazione del soggetto sociale che per la sua collocazione nella società presente può fronteggiare efficacemente il potere del capitale, opporsi al degrado ambientale e diventare portatore di un progetto di trasformazione radicale. Solo il marxismo, in altre parole, ci dà la chiave giusta per trasformare la coscienza ecologica in efficace azione ecologica.

(luglio 1993)

Note

1) Questo è un lavoro in fieri che rielabora appunti di precedenti esposizioni orali sui medesimi temi, in particolare la relazione tenuta il 4 maggio 1993 a Senago nell’ambito degli incontri su “Marx e l’ambiente” promossi dall’Associazione Culturale Punto Rosso di Paderno Dugnano, nonché precedenti conferenze tenute a Cuneo (7 dicembre 1990), Bologna (29 gennaio 1991), Carrara (28 marzo 1992) e Padova (4 giugno 1992). Debbo un ringraziamento a Loris Brioschi, Sergio Dal Masso, Fabrizio Billi, Giorgio Lindi, Ernesto Ligutti, Sergio Morra e agli altri organizzatori di questi incontri, nonché a coloro che in tali occasioni sono intervenuti con domande e proprie osservazioni, per avermi dato lo stimolo e fornito molti spunti per approfondire la ricerca e la riflessione su questi temi. Un ringraziamento particolare va a Luigi Cortesi che su questo argomento – i rapporti fra marxismo ed ecologia – mi ha sollecitato ad intervenire su “Giano” in relazione al saggio di Hans Jonas Il principio responsabilità(“Giano”, n. 8, 1991) e al “caso Podolinskij” (“Giano”, n. 10, 1992).

2) Oggi, il problema delle relazioni fra marxismo ed ecologia è molto dibattuto. Una chiara enunciazione dei termini in cui esso viene oggi tematizzato è quella di Fernando Mires, in El discurso de la naturaleza. Ecologìa y politica en America Latina, San José, Costa Rica, 1990 (trad. it.: Ecologia politica in America Latina, La Piccola Editrice, Celleno, 1992): “Può il marxismo essere ecologista senza negare se stesso? Le risposte sono contrastanti. Da un lato, i sostenitori della possibilità di un marxismo ecologico, ricorrono a Marx per dimostrare che nella formulazione originaria della teoria marxista già si trovano i presupposti per sviluppare una teoria marxista dell’ecologia, dato che il concetto di natura in Marx – rimosso dai marxisti posteriori – sembra giocare un ruolo fondamentale nella costruzione generale della teoria. Coloro che negano la possibilità di un marxismo ecologico affermano che, sebbene in Marx si incontrino sorprendenti ipotesi ecologiche, la struttura logica del discorso di Marx, ma soprattutto “il marxismo storico”, non lascino spazio per una critica ecologica della società.” (p. 56). Personalmente mi colloco senza esitazioni nel primo gruppo. Tra i primi scritti che hanno impostato la ricerca su marxismo e questione della natura ricordo qui il libro di Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari, 1969 (l’edizione originale in tedesco è del 1962). Merita ancora di essere ricordato un saggio risalente al lontano 1955 di un valente studioso italiano scomparso di recente: Cesare Luporini, Il rapporto uomo-natura alle origini del marxismo, “Rivista critica di storia della filosofia”, marzo-aprile 1955, pp. 142-147. Per le antologie segnalo: Marx-Engels, Lettres sur les sciences de la nature, a cura di Jean-Pierre Lefebvre, Editions sociales, Paris, 1974; e Marx and Engels on Ecology, a cura di Howard L. Parsons, Greenwood Press, Westport, 1977.

3) La storia del “marxismo storico” – delle correnti del movimento operaio che alle teorie di Marx si sono ispirate e delle prime esperienze socialiste – non può essere giudicata come la concretizzazione dell’“ideologia marxista”, comunque la si intenda, ma come il risultato di un complesso di fattori storici e materiali di cui le idee sono state la variabile dipendente più che quella determinante. Se si procede in questo modo – che è l’unico corretto – è facile comprendere che non ci sono molti rapporti fra il pensiero marxista e ciò che storicamente è stato fatto nel campo dei rapporti con l’ambiente dal movimento operaio e dai regimi del cosiddetto “socialismo reale”. Per un primo abbozzo di discussione di queste questioni si veda il nostro saggio Marxismo ed ecologia, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1989. Sia detto qui di passata: non esiste ancora un bilancio soddisfacente e documentato dell’esperienza sovietica, dall’Ottobre a Gorbaciov, in materia di ambiente. Fino agli anni settanta prevaleva la versione apologetica secondo la quale il “socialismo” aveva già risolto, o almeno aveva posto sotto controllo, i problemi ambientali. Con l’esplodere della crisi e il venire alla luce di una situazione affatto diversa, hanno cominciato a prevalere le opposte tesi demonizzanti: il socialismo è stato più disastroso del capitalismo nel modo di trattare l’ambiente. Entrambe queste semplificazioni sono incapaci di descrivere, e soprattutto di spiegare, un quadro che è in realtà molto più articolato e contraddittorio. Ho cercato di trattare questo argomento in un modo minimamente sistematico in un incontro a Padova nel giugno del 1992 promosso dal Cipec locale, al quale può essere chiesta la traccia della relazione. Sulle vicende dell’ecologia e della politica della conservazione nei primi quindici anni di storia sovietica, invece, esiste già un lavoro documentatissimo e prezioso dello storico statunitense Douglas R. Weiner, Models of Nature. Ecology, Conservation And Cultural Revolution in Soviet Russia, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1988. Un’ampia recensione di quest’opera si può leggere nel dossier sull’“Ecologia in Urss negli anni venti” da me curato su “Bandiera Rossa”, n. 11, febbraio 1991. Sullo stesso argomento anche il mio scritto La politica ecologica dei primi anni della rivoluzione russa (qui pubblicato).

4) Mi sono occupato per la prima volta di questi temi in un libro di quattro anni fa, Marxismo ed ecologia, Milano, aprile 1989, e poi in altri scritti, in particolare su “Giano”, n. 8, 1991, e n. 10, 1992; ad essi rimandiamo per ulteriori approfondimenti.

5) Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi, 1968, p. 172.

6) Ivi, p. 173.

7) Ivi, pp. 72 e 77.

8) Ivi, pp. 174 e 113 (anche pp. 167 e 171-173).

9) Ivi, p. 77 e pp. 80-83.

10) Ivi, p. 180 e p. 111.

12) Ivi, pp. 128-129.

12) Ivi, pp. 127-128.

13) Marx-Engels, Ideologia tedesca, in Marx-Engels, Opere, V, pp. 16-17. Dopo la prima proposizione c’è questa affermazione cancellata: “Il primo atto storico di questi individui, mediante il quale si distinguono dalle bestie, non è che essi pensano, ma che cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza”. Il medesimo concetto viene espresso in modo ancora più chiaro alla fine del passo appena citato: “Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.” (ivi, p. 17)

14) Idem, p. 28.

15) “Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.” K. Marx, Tesi su Feuerbach, In Marx-Engels, Opere, V, p. 4.

16) “Per esempio la questione importante dei rapporti degli uomini con la natura (o magari, come dice Bruno [Bauer] […], delle “antitesi della natura e della storia”, come se fossero due “cose” separate, e l’uomo non avesse sempre difronte a sé una natura storica e una storia naturale), dalla quale sono uscite tutte le “sublimi, incommensurabili opere” sulla “sostanza” e “l’autocoscienza”, finisce automaticamente nel nulla se ci si accorge che la celeberrima “unità dell’uomo con la natura” è sempre esistita nell’industria, e in ciascuna epoca è esistita in maniera diversa a seconda del maggiore o minore sviluppo dell’industria, così come la “lotta” dell’uomo con la natura esiste finché le sue forze produttive si sviluppino su una base adeguata.” Ideologia tedesca, Marx-Engels, Opere, V, p. 25. Nel seguito si spiega come l’“industria” umana (ovvero il lavoro) sia responsabile di grandi cambiamenti del modo in cui in ogni tempo la natura si manifesta (nonché dello sviluppo delle scienze naturali), e che senza di essa non esisterebbe l’umanità e quindi neppure la natura per essa. Ma si aggiunge: “E’ vero che la priorità della natura esterna rimane ferma, e che tutto questo non si può applicare agli uomini originari, prodotti di generatio aequivoca; ma questa distinzione ha senso solo in quanto si consideri l’uomo come distinto dalla natura. D’altronde questa natura che precede la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione, e che quindi non esiste neppure per Feuerbach.” (ivi, p. 26). Il brano vuol sottolineare l’origine nella prassi della coscienza umana. Si noti la chiave “evoluzionistica” dell’impostazione marx-engelsiana (l’opera di Darwin non sarebbe comparsa che una quindicina di anni dopo).

17) Un appunto interrotto dell’Ideologia tedesca così recita: “Finora abbiamo considerato principalmente un lato dell’attività umana, la elaborazione della natura da parte degli uomini. L’altro lato, la elaborazione degli uomini da parte degli uomini…” (p. 35). Sulla “produzione materiale della vita” come base della storia, più avanti si legge: “Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualcosa di prestorico, mentre quel che è storico appare come ciò che è separato dalla vita comune; come ciò che è extra o sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo fra natura e storia.” (ivi, p. 40). Più avanti si osserva che nel caso della produzione primitiva, nella quale si usano strumenti essenzialmente naturali, l’uomo dipende dalla natura, di cui l’individuo si appropria mediante la comunità cui appartiene (famiglia, tribù, fondo); a uno stadio più sviluppato della produzione, quando l’uso di strumenti prodotti dal lavoro ha assunto un ruolo determinante, gli individui appaiono indipendenti l’uno dall’altro e ciò che li unisce è lo scambio: “Nel primo caso lo scambio è essenzialmente scambio fra gli uomini e la natura, uno scambio nel quale il lavoro degli uni viene permutato contro i prodotti dell’altra; nel secondo caso esso è principalmente scambio tra gli uomini.” (ivi, p. 49).

18) “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita.” K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974, I, p. 211. “Il processo lavorativo […] è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana.” (ivi, p. 218). “L’uso e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, contraddistinguono il processo lavorativo specificamente umano; per questo il Franklin definisce l’uomo “a toolmaking animal”, un animale che fabbrica strumenti.” (ivi, p. 214). Si noti che i paleoantropologi hanno stabilito la distinzione tra Australopitecus e Homo proprio sulla base del rinvenimento in relazione ai resti del secondo di tracce inequivocabili dell’uso di strumenti (a questo primo Homo è stata non a caso assegnata la qualifica di abilis).

19) Un nome merita di essere citato a questo proposito, quello del naturalista olandese Jacob Moleschott, forse la fonte diretta di Marx, suo contemporaneo e come Marx fortemente influenzato dalla filosofia materialistica di Feuerbach; Moleschott era autore dell’opera Il ciclo della vita in cui si leggono passi come quello che segue, vera e propria anticipazione, ancorché grossolana, della teoria dell’ecosistema: “Ciò che l’uomo elimina, nutre la pianta. La pianta trasforma l’aria in elementi solidi e nutre l’animale. I carnivori si nutrono di erbivori, per divenire a loro volta preda della morte e diffondere nuova vita nel mondo delle piante. A questo scambio della materia si è dato il nome di ricambio organico.” (citato da Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari, 1969, p. 80). Peraltro l’idea dei “cicli misteriosi della vita” rimonta a Antoine Lavoisier e a Jean-Baptiste Dumas. In effetti, quello degli scambi di sostanze fra l’ambiente e gli esseri viventi (le piante in particolare) e di questi ultimi fra loro era già da decenni, a metà dell’Ottocento, un tema centrale di studio da parte degli studiosi di scienze naturali. Qualche nome: J. Ingenhousz, J. Priestley, J. Senebier, A. Lavoisier, C. Berthollet, A. Fourcroy, Th. de Saussure, J. Pelletier, J.B. Caventou, G. Ville, J. von Liebig, J.B. Boussingault, J.B. Dumas, J. Mayer, C. Bernard. Su questa materia si può consultare Jean-Paul Deléage, Histoire de l’écologie, La Découverte, 1991, pp. 50-56.

20) Ideologia tedesca, p. 18.

21) “Quando, dopo sforzi millenari, la differenziazione della mano dal piede e la stazione eretta furono definitivamente acquisite, allora l’uomo si distaccò nettamente dalla scimmia; allora furono poste le basi per lo sviluppo del linguaggio articolato e per quel poderoso perfezionamento del cervello che da allora in poi ha fatto divenire invalicabile l’abisso esistente fra l’uomo e la scimmia. La specializzazione della mano significa lo strumento: e strumento significa l’attività umana specifica, la reazione trasformatrice dell’uomo sulla natura, la produzione. Ci sono anche animali, in senso stretto, che possiedono strumenti, ma solo in quanto membra del loro corpo (la formica, l’ape, il castoro); anche degli animali che producono, ma l’influsso della loro produzione sull’ambiente naturale è praticamente nullo, rispetto a quest’ultimo. Solo l’uomo è riuscito ad imprimere il suo suggello sulla natura, non solo perché ha fatto mutare di luogo fauna e flora, ma perché ha modificato in tal modo l’aspetto, il clima, perfino gli animali e le piante della zona da lui abitata, che i risultati della sua attività potranno scomparire solo con l’estinzione generale di tutto il globo terrestre.” (Dialettica della natura, in Marx-Engels, Opere, XXV, p. 331).

22) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858) (d’ora in avanti Grundrisse), La Nuova Italia, Firenze, 1968-70, pp. 400-403.

23) Si vedano qui alcune delle considerazioni sviluppate in diverse occasioni da Marx e da Engels: “Tu sai meglio di me” scrive ad esempio Engels a Marx “a che punto arriviamo nello sperpero di provviste di energia, carbone, minerali, foreste, ecc.” (lettera del 19 dicembre 1882, in Marx-Engels, Carteggio, Edizioni Rinascita, 1953, VI, p. 417). Commentando uno scritto del botanico e agronomo tedesco Karl Fraas, Marx scrive ad Engels: “[Fraas] sostiene che con la coltivazione – e secondo il grado di questa – va perduta la “umidità” tanto cara ai contadini (per questa ragione le piante migrano dal sud al nord) e subentra infine la formazione di steppe. I primi effetti della coltivazione sono utili, ma infine devastanti a causa del disboscamento ecc. […] La conclusione è che la coltivazione, procedendo naturalmente e non dominata consapevolmente (a tanto non arriva naturalmente come borghese) lascia dietro di sé dei deserti. Persia, Mesopotamia, ecc., Grecia.” (lettera del 25 marzo 1868, in Marx-Engels,Opere, XLIII, p. 59). Engels si occupa del tema in uno scritto sulle origini dell’uomo oggi incluso nella Dialettica della natura: “L’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia Minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizitta” dell’uomo con la di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e i depositi dell’umidità. Gli italiani della regione alpina, nel consumare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord, non presentivano affatto che, così facendo, scavavano la fossa all’inustria pastorizia sul loro territorio; e ancor meno immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell’anno quell’acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l’epoca delle piogge. Coloro che diffusero in Europa la coltivazione della patata, non sapevano di diffondere la scrofola assieme al tubero farinoso […]”. “In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini, immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato.” (F. Engels, Dialettica della natura, in Marx-Engels, Opere, XXV, pp. 467-68 e 470). Sul rapporto fra civiltà e distruzione delle foreste Marx osserva nel Capitale: “Il lungo tempo di produzione (che include solo una durata relativamente breve del tempo di lavoro), e la lunghezza dei periodi di rotazione [del capitale investito, ndtb] che ne deriva, fa della silvicoltura un ramo di esercizio privato, e perciò capitalistico, svantaggiato; nell’essenza quest’ultimo è esercizio privato, anche se al posto del singolo capitalista compare il capitalista associato. Lo sviluppo della civiltà e dell’industria in generale si è mostrato così attivo nella distruzione dei boschi che, al paragone, tutto ciò che essa fa per la loro conservazione e produzione è una grandezza assolutamente infinitesimale.” (K. Marx, Il capitale, II; p. 255).

24) Lo scritto di Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra, (del novembre 1844 – marzo 1845) contiene decine di pagine di analisi del degrado delle condizioni urbane e abitative, sugli ambienti di lavoro, sulle malattie professionali nell’Inghilterra della rivoluzione industriale; si tratta di pagine insuperate di ecologia umana. Un passo: “L’atmosfera di Londra non potrà mai essere pura e ricca di ossigeno come quella di una zona rurale; due milioni e mezzo di polmoni e duecentocinquantamila camini ammassati in uno spazio di tre-quattro miglia quadrate consumano una enorme quantità di ossigeno, che si rinnova soltanto con difficoltà, poiché l’edilizia cittadina in sé e per sé rende difficile la circolazione d’aria. L’anidride carbonica prodotta dalla respirazione e dalla combustione grazie al suo peso specifico permane nelle strade, e la corrente d’aria principale passa sopra le case. I polmoni degli abitanti non ricevono l’intero quantitativo di ossigeno di cui avrebbero bisogno e ciò produce una prostrazione fisica e intellettuale e un abbassamento dell’energia vitale. Per questo motivo, gli abitanti delle grandi città sono sì meno esposti alle malattie acute, particolarmente infiammatorie, che gli abitanti delle campagne, i quali vivono in un’atmosfera libera e normale, ma in compenso soffrono molto di più di malanni cronici.” (in Marx-Engels, Opere, IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 329). Marx accenna alle conseguenze ambientali del fenomeno dell’urbanesimo in diversi passi del Capitale; un esempio: “Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale.” (Il capitale, I, p. 551). Ancora Engels nell’Anti-Dühring: “La città industriale trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo.” (in Marx-Engels, Opere, XXV, p. 285). Ma Engels formula anche una prospettiva a positivo: “La soppressione dell’antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie […] La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città una eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica. Ma esse debbono essere e saranno eliminate, anche se questa eliminazione sarà un processo molto laborioso.” (ivi, p. 286).

25) “Con il modo di produzione capitalistico si allargano le possibilità di utilizzo dei residui della produzione e del consumo. Per residui della produzione intendiamo gli scarti dell’industria e della agricoltura, per residui del consumo sia quelli derivati dal consumo fisiologico umano sia le forme che gli oggetti d’uso assumono dopo esser stati utilizzati. Sono quindi residui della produzione, nell’industria chimica, i prodotti accessori che vanno perduti per un’organizzazione produttiva di mole modesta; le limature che risultano nella produzione del ferro ecc. Residui del consumo sono le secrezioni naturali umane, i resti del vestiario in forma di stracci ecc. I residui del consumo sono di grandissima importanza per l’agricoltura. Ma nella loro utilizzazione si verificano, in regime di economia capitalistica, sprechi colossali, a Londra per es. dello sterco di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far di meglio che impiegarlo con enormi spese per appestare il Tamigi.” (Il capitale, III, p. 135).

26) “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggior quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per esempio gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Il capitale, I, pp. 552-553).

27) “Chimici agrari assolutamente conservatori, quali ad esempio Johnston, ammettono che un’agricoltura veramente razionale trova dappertutto delle barriere insormontabili nella proprietà privata. Lo stesso affermano alcuni scrittori, che sono difensori ex professo del monopolio della proprietà privata del globo terrestre; così ad esempio il signor Charles Comte […] nell’antagonismo fra la proprietà e un’economia razionale [essi] vedono soltanto la necessità di coltivare la terra di un paese come un tutto. Ma la dipendenza dalle oscillazioni dei prezzi di mercato, nella quale si trova la cultura dei particolari prodotti della terra, e la continua trasformazione di questa coltura in armonia con queste oscillazioni di prezzo, tutto lo spirito della produzione capitalistica, che è orientato verso il guadagno rapido e immediato, sono in opposizione con l’agricoltura, che deve tener presenti tutte le permanenti condizioni di vita delle generazioni che si susseguono; un esempio lampante è dato dalle foreste che soltanto talvolta vengono sfruttate in una certa misura secondo l’interesse generale, quando non costituiscono proprietà ma sono sottoposte all’amministrazione dello Stato.” (Il capitale, III, p. 716n).

“Il conflitto fra il prezzo della terra come elemento del prezzo di costo per il produttore e non-elemento del prezzo di produzione per il prodotto (perfino quando la rendita interviene in modo determinante nel prezzo del prodotto della terra, la rendita capitalizzata, che viene anticipata per venti o più anni, non vi entra in nessun caso in modo determinante) è soltanto una delle forme in cui si rappresenta in generale la contraddizione della proprietà privata della terra con una agricoltura razionale, con una normale utilizzazione sociale della terra […] Qui, nel caso della piccola coltura, il prezzo della terra, agisce come limite della produzione stessa. Nella grande agricoltura e nella grande proprietà fondiaria gestita in modo capitalistico, la proprietà agisce parimenti come limite, poiché limita gli investimenti produttivi di capitale dell’affittuario, investimenti che in ultima istanza vanno a vantaggio non suo, ma del proprietario fondiario. In ambedue le forme il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra (a prescindere dal fatto che lo sfruttamento viene fatto dipendere, non dal livello raggiunto dallo sviluppo sociale, ma dalle condizioni casuali e disuguali dei singoli produttori). Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dello arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario. In ambedue per la dipendenza del prezzo di mercato.” (ivi, p. 925).

28) “La piccola proprietà fondiaria presuppone che la grandissima maggioranza della popolazione sia agricola e che predomini non il lavoro sociale, ma quello isolato; perciò la ricchezza e lo sviluppo della riproduzione delle sue condizioni sia materiali che spirituali sono in tal caso esclusi, e sono quindi escluse anche le condizioni di una coltura razionale. D’altra parte la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig). Se la piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che è per metà al di fuori della società, che unisce tutta la rozzezza delle forme sociali primitive con tutti i dolori e tutta la misère dei paesi civilizzati, la grande proprietà fondiaria mina la forza-lavoro nell’ultima regione nella quale essa riversa la sua energia naturale e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della forza vitale delle nazioni, nella campagna stessa. La grande industria e la grande agricoltura gestite industrialmente operano in comune. Se esse originariamente si dividono per il fatto che la prima dilapida e rovina prevalentemente la forza-lavoro, e quindi la forza naturale dell’uomo, e la seconda la forza naturale della terra, più tardi invece esse si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai, e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra.” (Il capitale, III, p. 926).

29) Così Marx scrive di lui nel Capitale: “La spiegazione del lato negativo dell’agricoltura moderna, dal punto di vista delle scienze naturali, è uno dei meriti immortali di Liebig” (Il capitale, I, p. 552).

30) “Il modo di produzione capitalistico, come da un lato promuove lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, dall’altro induce alla economia nell’impiego del capitale costante. Esso però non si limita a rendere reciprocamente estranei e indifferenti da una parte l’operaio, il rappresentante del lavoro vivente, dall’altra l’impiego economico, cioè razionale e dosato delle condizioni di lavoro. Conformemente alla sua natura contraddittoria, piena di contrasti, esso va oltre, fino ad annoverare fra i mezzi per economizzare il capitale costante, e quindi aumentare il saggio del profitto, lo sperpero della vita e della salute dell’operaio e il peggioramento delle sue stesse condizioni d’esistenza […] Siffatta economia giunge fino al sovraffollamento di operai in locali ristretti, malsani, ciò che si chiama in termini capitalistici risparmio di costruzioni; all’ammassamento di macchine pericolose negli stessi ambienti, senza adeguati mezzi di protezione contro questo pericolo; all’assenza di misure di precauzione nei processi produttivi che per il loro carattere siano perniciosi alla salute o importino rischi (come nelle miniere) ecc. Per non dire della mancanza di ogni previdenza volta ad umanizzare il processo produttivo, a renderlo gradevole o quanto meno sopportabile. Ciò sarebbe, dal punto di vista capitalistico, uno spreco senza scopo e insensato.” (Il capitale, III, p. 119).

Si veda anche il successivo paragrafo “Economia delle condizioni di lavoro a spese degli operai”, ivi, pp. 120-130. Qualche passo: “La produzione capitalistica […] è […] molto più di ogni altro modo di produzione, una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue ma pure di nervi e di cervelli. In realtà, è per mezzo del più mostruoso sacrificio dello sviluppo degli individui che soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell’umanità in quest’epoca storica che immediatamente precede la cosciente ricostituzione dell’umana società.” (ivi, p. 121).

“Fabbriche. Sotto questa voce va considerata la mancanza di ogni misura precauzionale per la sicurezza, comodità e salute degli operai anche nelle fabbriche propriamente dette. La maggior parte dei bollettini di guerra, che enumerano i feriti e i morti dell’esercito industriale (v. i rapporti annuali sulle fabbriche) ha ivi la sua fonte. Pure qui rientra la deficienza di spazio, di aereazione ecc.” (ivi, p. 122).

“E’ la combinazione degli operai e la loro cooperazione che consente l’impiego su larga scala del macchinario, la concentrazione dei mezzi di produzione e l’economia nel loro uso; ed è altresì questa cooperazione di masse in locali chiusi e in condizioni per cui non ha importanza la salute degli operai, ma la facilità di approntamento del prodotto, è una tale concentrazione compiuta su vaste proporzioni nello stesso stabilimento che, come è fonte da un lato del crescente profitto a pro del capitalista, è causa in pari tempo della rovina e della salute degli operai, quando non sia compensata da una riduzione dell’orario di lavoro o da speciali misure precauzionali.” (ivi, p. 124).

31) Ivi, p. 305.

32) Introduzione ai Grundrisse, 1857.

33) Il capitale, I, p. 214. Anche nei Grundrisse.

34) Le altre sono la forza-lavoro umana, ovvero le “condizioni personali”, e tutto quanto già realizzato dal lavoro sociale: le “condizioni comunitarie”.

35) Vedi sopra alla nota 18 e sotto alle note 37, 39, 40, 41 e 43.

36) Marx, Critica al programma di Gotha, Ed. Riuniti, Roma, 1976, p. 23.

37) K. Marx, Il capitale, I, p. 75.

38) Ivi, p. 212.

39) Ivi, p. 213.

40) Ivi, p. 214

41) Ivi, p. 218. Cioè – intende qui Marx – l’aria, l’acqua, il sole, ecc.

42) Ivi, p. 217.

43) Ivi, p. 561.

44) “Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è processo di produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, è processo di produzione capitalistico, forma capitalistica della produzione delle merci.” (ivi, p. 231).

45) “L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base alla appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto […] Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto.” (Il capitale, III, p. 312).

Vedi anche alla nota 23 il brano di Engels dalla Dialettica della natura sulla indifferenza del venditore per i risultati della sua merce.

46) Coglie bene i meriti di Marx nel considerare la tendenza dell’economia capitalistica alla crescita illimitata Vittorio Hösle, giovane filosofo tedesco che così illustra la cosa: “Come Marx ha giustamente compreso, nel capitalismo il valore di scambio di una merce finisce per prevalere sul suo valore d’uso; ma con ciò la specifica qualità di una merce perde la sua importanza di fronte al prezzo, che trova la sua espressione quantitativa nel denaro. Traducendo ogni merce, ogni prestazione in denaro, il capitalismo prosegue nella sfera economica il programma cartesiano della conversione delle qualità in quantità. Ma questa conversione […] prepara il terreno al principio infinitistico: “Certo, D è divenuto D + ∆D, cento sterline sono divenute sterline 100 + 10. Ma, considerate da un punto di vista semplicemente qualitativo, centodieci sterline sono la stessa cosa che cento sterline, cioè denaro. E, considerate quantitativamente, centodieci sterline sono una somma di valore limitata quanto cento sterline. […] Quindi il movimento del capitale è senza misura”. (Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Torino 1975, I, libro I, IV, par. I, pp. 183 sg). Con grande acume Marx oppone a questa mentalità quella antica e cita la contrapposizione aristotelica di economia e crematistica. Mentre Aristotele apprezza l’economia, che ha una sua misura interna, egli condanna la crematistica, che invece mira a moltiplicare all’infinito il denaro ed è priva di qualsiasi fine immanente.” (Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1992, pp. 64-65).

47) “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono muoversi unicamente la conservazione e la autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sulla espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere lo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa [qui sottolineature nostre], lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro.” (Il capitale, III, p. 303).

Un passo di grande rilievo per questo tema, in cui si delineano i nessi che collegano alla intrinseca dinamica espansiva del capitale le tendenze al “consumismo”, a sempre nuove forme di sfruttamento della natura, alla estensione universale del mercato, è il seguente: “All’interno del processo di produzione la valorizzazione si identifica completamente con la produzione di pluslavoro (con l’oggettivazione del tempo supplementare) e perciò senza altri limiti se non quelli in parte presupposti, in parte posti nell’ambito di questo stesso processo, ma che in esso lo sono sempre come ostacoli da superare […]”. “D’altra parte la produzione di plusvalore relativo, ossia la produzione di plusvalore basata sullo aumento delle forze produttive, esige la produzione di nuovi consumi; esige cioè che il circolo del consumo nell’ambito della circolazione si allarghi allo stesso modo in cui precedentemente si allargava il circolo della produzione. In primo luogo: un ampliamento quantitativo del consumo esistente; in secondo luogo: la creazione di nuovi bisogni mediante la propagazione di quelli esistenti in una sfera più ampia; in terzo luogo: la produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la creazione di nuovi valori d’uso. In altri termini, essa esige questo: che il plusvalore acquisito non rimanga un surplus meramente quantitativo, ma che al tempo stesso la sfera delle differenze qualitative del lavoro (e quindi del pluslavoro) sia costantemente ampliata, resa più varia e internamente più differenziata. Per es., se in seguito ad un aumento della produttività si può impiegare un capitale di 50 solamente invece che un capitale di 100 che occorreva precedentemente, in modo da liberare un capitale da 50 e il corrispondente lavoro necessario, per questo capitale e lavoro liberati occorre creare allora una nuova branca della produzione qualitativamente differente, che soddisfa e produce nuovo bisogno. Il valore della vecchia industria viene conservato creando il fund per una nuova, dove il rapporto tra capitale e lavoro si pone in forma nuova. Quindi la esplorazione sistematica della natura [nostra sottolineatura] per scoprire nuove proprietà utili delle cose; lo scambio universale dei prodotti di tutti i climi e di tutti i paesi; la nuova (artificiale) preparazione degli oggetti naturali, mediante la quale si conferiscono loro nuovi valori d’uso; la esplorazione completa della terra [nostra sottolineatura.] per scoprire sia oggetti utili nuovi, sia nuove proprietà utili dei vecchi, oppure le loro proprietà come materie prime ecc.; lo sviluppo delle scienze naturali fino ai massimi livelli cui esso può giungere; la scoperta, la creazione e la soddisfazione di nuovi bisogni derivanti dalla società stessa; la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua produzione come uomo per quanto possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e relazioni; ossia la sua produzione come prodotto per quanto è possibile totale e universale della società (giacché, per avere una vasta gamma di godimenti deve esserne capace, ossia essere colto ad un grado elevato): tutto ciò è anch’esso una condizioni della produzione basata sul capitale. E non è soltanto divisione del lavoro – questa creazione di nuove branche della produzione, ossia di tempo supplementare completamente nuovo; bensì una repulsione da se stessa della produzione limitata, in modo da creare un lavoro che ha un valore d’uso nuovo; è uno sviluppo di un sistema più ampio e globale di tipi di lavoro, di tipi di produzione, ai quali corrisponde un sistema più ampliato e ricco di bisogni. La produzione basata sul capitale dunque, come crea da una parte l’industria universale – ossia pluslavoro, lavoro che crea valore -, così d’altra parte crea un sistema di sfruttamento generale delle qualità naturali e umane, un sistema della utilità generale [nostra sottolineatura], il cui supporto è tanto la scienza quanto tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso, si presenta al di fuori di questo circolo della produzione e dello scambio sociali. Soltanto il capitale dunque crea la società borghese e l’universale appropriazione tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società. Di qui l’enorme influenza civilizzatrice del capitale; la sua creazione di un livello sociale rispetto a cui tutti quelli precedenti si presentano come sviluppi locali della umanità e come idolatria della natura. Soltanto col capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro oggetto d’utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione. In virtù di questa sua tendenza, il capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia la idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di tutto questo il capitale opera distruttivamente [nostra sottolineatura], attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito [nostra sottolineatura]. Ma dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come un ostacolo e perciò idealmente lo ha superato, non ne deriva affatto che esso lo abbia superato realmente, e poiché ciascuno di tali ostacoli contraddice la sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste. E c’è di più. L’universalità verso la quale esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che ad un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione attraverso esso stesso.” (Grundrisse, II, pp. 4 e 9-12).

Alcuni studiosi hanno interpretato le affermazioni di Marx come se egli pensasse che il capitalismo non ha limiti “esterni” (ad es. ecologici). Ritengo erronea questa valutazione. Essa travisa questi passi di Marx secondo il quale, semmai, lo sviluppo del capitale, non tanto non ha limiti naturali, quanto non è capace di riconoscerne la natura e la necessità: “Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare” afferma Marx (ivi, p. 9). Si vedano in proposito i numerosi passi citati in cui Marx afferma l’esigenza di rispettare (cosa che il capitale non fa) le “eterne” condizioni della fertilità della terra o del ricambio organico fra gli uomini e la natura. Sulla dialettica limiti naturali-limiti creati dal capitale si veda anche la riflessione di James O’Connor (si veda il nostro scritto Che cos’è l’ecomarxismo, qui pubblicato).

48) “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.” (Il capitale, III, p. 887).

49) Vedi il passo del Capitale citato alla nota 27.

50) Vedi le espressioni citate in Capitale, III, pp. 933 e 925.

51) Vedi ad es. i passi dei Grundrisse della nota 47, nei quali tuttavia è evidente che il giudizio di Marx sulla tendenza del capitalismo allo sviluppo illimitato non è acriticamente positivo…

52) Su questo tema si può vedere il nostro saggio su “Giano” (n. 10, aprile 1992) e la discussione sulla proposta teorica di Sergej Andreevic Podolinskij di considerare la produzione sotto l’aspetto fisico-energetico (anche in questo blog: qui).

53) Vedi ad esempio la teoria di Alfred Russel Wallace sulla natura soprannaturale delle capacità cerebrali dell’Homo sapiens.

54) “In effetti, comprendiamo ogni giorno più esattamente le sue [della natura] leggi e conosciamo ogni giorno di più quali sono gli effetti immediati e quelli remoti del nostro intervento nel corso abituale della natura. In particolare, dopo i poderosi progressi compiuti dalla scienza in questo secolo, siamo sempre più in condizione di conoscere, e quindi di imparare a dominare anche gli effetti naturali più remoti, perlomeno per quello che riguarda le nostre abituali attività produttive. Ma quanto più ciò accade tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile si farà il concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il crollo del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.” (F. Engels, Dialettica della natura, in Marx-Engels, Opere, XXV, p. 468).

In questo passo Engels anticipa in qualche modo la tesi esposta dallo storico Lynn White Jr. in un famoso saggio del 1967, in cui viene detto che “sia la moderna tecnologia che la scienza moderna sono distintamente occidentali”; che esse tuttavia rimontano più indietro della rivoluzione scientifica del XVII secolo o di quella industriale del XVIII; che le loro radici risalgono al Medioevo e al progressivo affermarsi in Europa di un atteggiamento di “sfruttamento” della natura (atteggiamento che porta all’abbattimento delle foreste e allo sviluppo di nuovi attrezzi per lavorare la terra e delle prime macchine per controllare le forze naturali) che discende dalla “rivoluzione psicologica” nel rapporto fra l’uomo e la natura indotto dal cristianesimo, “la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto”. Esso infatti ha abolito l’animismo, cioè lo spirito della natura, riducendola perciò a materia bruta, completamente alla mercé degli uomini. “Il monopolio effettivo dell’uomo sullo spirito si affermò in questo mondo e le vecchie inibizioni allo sfruttamento della natura si sbriciolarono.” (Lynn White Jr., Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica, in “Il Mulino”, n.226, marzo-aprile 1973, pp. 251-263). (Anche i nostri post: Commento del capo indiano Seattle al presidente degli Stati Uniti, e Conquista della natura e accumulazione originaria).

55) F. Engels, Dialettica della natura, in Marx-Engels, Opere, XXV, p. 468.

56) Agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso, Marx espresse la discutibile opinione che la penetrazione dell’Inghilterra in India e in Cina, rappresentasse comunque un progresso, utilizzando un argomento che riecheggia quello hegeliano sull’“astuzia della ragione”: “Può l’umanità adempiere il proprio destino senza che avvenga una rivoluzione fondamentale dei rapporti sociali in Asia? Se così non fosse, quali che siano i delitti commessi dall’Inghilterra, essa è stata lo strumento inconsapevole della storia nel suscitare questa rivoluzione.” (K. Marx, La dominazione britannica in India, articolo per la “New York Daily Tribune”, ora in K. Marx-F. Engels, India, Cina, Russia, Saggiatore, Milano, 1970, p. 77 (anche in Marx-Engels,Opere, XII, p. 135). Sulla medesima falsariga: “La società indiana non ha storia, o almeno non ha una storia conosciuta […]. L’Inghilterra deve assolvere una doppia missione in India, una distruttrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia.” (Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, art. per la “New York Daily Tribune”, K. Marx-F. Engels, India, Cina, Russia, p. 112). Tuttavia, proprio mentre sembra portare un argomento giustificativo del “progresso” occidentale, Marx lo bolla con parole di fuoco e ne svela l’intima natura (rimasta peraltro inalterata: la pagina che segue potrebbe in effetti riferirsi benissimo alle condizioni presenti di gran parte del cosiddetto “Terzo mondo”): “Gli effetti distruttivi dell’industria inglese, visti in rapporto all’India – un paese grande come tutta l’Europa – si toccano con mano, e sono tremendi. Ma non dimentichiamo ch’essi non sono che il risultato organico dell’intero sistema di produzione com’è costituito oggi. Questa produzione si fonda sul dominio assoluto del capitale. La centralizzazione del capitale è essenziale all’esistenza del capitale come potenza indipendente. L’effetto distruttivo di questa centralizzazione sui mercati del mondo non fa che rivelare, nella dimensione più gigantesca, le leggi interne dell’economia politica operanti in ogni città civile. Il periodo storico borghese ha creato le basi materiali del mondo nuovo – da un lato, lo scambio di tutti con tutti, basato sulla mutua dipendenza degli uomini, e i mezzi di questo scambio; dall’altro lo sviluppo delle forze produttive umane e la trasformazione della produzione materiale in un dominio scientifico sui fattori naturali. L’industria e il commercio borghesi creano queste condizioni materiali di un mondo nuovo alla stessa guisa che le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese – il mercato del mondo e le forze di produzione moderne – e le avrà assoggettate al controllo comune dei popoli più civili, solo allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orribile idolo pagano, che non voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi.” (idem, p. 117-118).

57) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp. 206-7 e 208.

58) Vedi K. Marx, Macchine. Impiego delle forze naturali e della scienza, in Manoscritti del 1861-1863.

59) Id. tedesca, in Marx-Engels, Opere, V, Ed. Riuniti, Roma, 1972, p. 51.

60) La sacra famiglia, in Marx-Engels, Opere, IV, pp. 92-93.

61) F. Engels, Anti-Dühring, in Marx-Engels, Opere, XXV, pp. 249-50.

62) Vedere M. Löwy, Marxismo tra romanticismo e modernità, in “CNS” n. 2, 1991, pp. 85-95; oppure M. Löwy, La dimensione romantica del marxismo, in “A sinistra”, n. 2, 1992.

63) Vedi sopra il passo citato alla nota 56.

64) Queste le conclusioni dell’analisi di Michael Löwy: “Sarebbe totalmente sbagliato dedurre da queste note che Marx fosse un romantico: egli deve molto di più alla filosofia dell’illuminismo e alla economia politica classica che ai critici romantici della civiltà moderna. Questi, tuttavia, l’aiutarono a comprenderne i limiti e le contraddizioni […]. Le idee di Marx stesso non erano né romantiche né utilitaristiche, ma un tentativo di Aufhebung [superamento] dialettica di entrambe, in una visione del mondo nuova, critica e rivoluzionaria. Né apologeta della modernità borghese, né cieco alle sue conquiste, Marx pensava ad una forma superiore di organizzazione sociale, che integrasse non soltanto le conquiste tecniche della società moderna, ma anche alcune della qualità umane delle comunità precapitalistiche – e soprattutto che aprisse un campo nuovo e illimitato allo sviluppo e all’arricchimento della vita umana.” (in “CNS”, n. 2, 1991, pp. 90-1).

65) Vedi l’articolo di Richard Grove, Le origini dell’ambientalismo occidentale, comparso su “Le Scienze” n. 289, settembre 1992, in cui si ricostruiscono le idee, le azioni e il contesto storico-culturale dei precursori settecenteschi e ottocenteschi degli odierni ambientalisti. Grove è attualmente responsabile della Global Environmental History Unit di Cambridge (Gran Bretagna).

66) In Marx-Engels, Opere, XXV, p. 584. Importanti anche i passi (ivi, pp. 583-6) in cui Engels contesta l’applicabilità delle leggi darwiniane della evoluzione e della lotta per l’esistenza alla società umana e rifiuta l’interpretazione “migliorista” e “gradualistica” della teoria evoluzionistica.

67) Vedi il capitolo “Socialismo o barbarie” in L. Cortesi, Storia e catastrofe. Considerazioni sul rischio nucleare, Liguori, 1984.

68) K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Mondadori, Milano 1978, p. 100.

69) Tra le ragioni per cui questo è accaduto non c’è posto solamente per il travisamento; occorre infatti comprendere le ragioni profonde per cui un certo travisamento diventa modo popolare di pensiero. In proposito ci sono alcune acute osservazioni di Antonio Gramsci sulla funzione del determinismo per motivare le masse all’azione che forniscono buona parte della spiegazione: “Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente. “Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare”. E’ un “atto di fede” nella razionalità della storia, che si traduce in un finalismo appassionato, che sostituisce la “predestinazione”, la “provvidenza” ecc… della religione.” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 1064).

70) Lettera alla redazione dell’“Otecestvennye Zapiski”, in India, Cina, Russia, pp. 301-302.

71) Nella lettera alla Zasulic Marx scrive: “[…] l’analisi data nel Capitale non fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale; ma lo studio apposito che ne ho fatto, e di cui ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia. Tuttavia, perché essa possa funzionare come tale, occorrerebbe prima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti, poi assicurarle condizioni normali di sviluppo organico.” (in India, Cina, Russia, p. 304). Particolarmente significative le bozze preparatorie della lettera, in cui si può apprezzare il metodo e lo scrupolo con cui Marx esamina la questione prima di formulare le conclusioni sopra riferite.

72) Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, 1990. In proposito si veda anche il nostro saggio Responsabilità per il futuro ed utopia, in “Giano”, n. 8, 1991, pp. 161-178.

73) “L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del suo processo di riproduzione non dipende quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito. Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità materiali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfanno questi bisogni; la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa.” (Il capitale, III, p. 933).

74) Vedi ad esempio Enzo Tiezzi che, in Tempi storici tempi biologici, Garzanti, 1984, rimprovera al marxismo e alla cultura della sinistra di ignorare la biologia (ad es. alle pp. 34, 62 e 79).

75) Sull’idea di scienza in Marx un saggio di estremo interesse è quello del filosofo spagnolo Manuel Sacristán, Il lavoro scientifico di Marx e la sua nozione di scienza, in Marx, marxismo, filosofia. Saggi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1988, pp. 631-675.

76) L’influenza sul pensiero del giovane Marx della filosofia della natura di Schelling è stata studiata dallo studioso tedesco Wolfdietrich Schmied-Kowarzik. Si veda l’articolo dello Schmied-Kowarzik, Il significato della critica marxiana per il padroneggiamento dei nostri attuali problemi ecologici, in “Marx 101”, n. 1-2, 1985, pp. 205-213. Qualche precisazione in merito anche in Hans Heinz Holz, Natura e storia in Marx, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga-Losurdo-Sichirollo, QuattroVenti, 1987, pp. 195-217.

77) Il valore di alternativa alla tradizione meccanicistica cartesiana della tradizione di pensiero Schelling-Hegel sulla natura e sul rapporto uomo-natura viene efficacemente illustrato da Vittorio Hösle: “I più importanti tentativi di elaborare una filosofia della natura anticartesiana, in cui la natura non sia dualisticamente contrapposta alla soggettività, e in cui le sia attribuita una sua dignità, anzi una finalità e un’indistinta forma di soggettività, sono collegati a un ricupero della fisica classica, e in special modo della dottrina teleologica di Aristotele: mi riferisco a Leibniz, Schelling, Hegel”. Nell’idealismo oggettivo di Schelling e Hegel, afferma Hösle, la natura è spirito in sé, un’entità la cui intima essenza e il cui fine è la soggettività, che emerge da un lungo processo. Essa, inoltre, come prodotto dell’Assoluto, ha una sua dignità che l’uomo deve riconoscere e apprezzare. Tuttavia, questa tradizione filosofica ha avuto successivamente scarsa influenza sugli scienziati; questa però è una ragione in più per recuperarne lo spirito utile per porre limiti al brutale soggiogamento a cui è stata condannata la natura, sia esterna sia interna all’uomo, dal riduzionismo cartesiano. D’altra parte questa tradizione “potrebbe fornire una dimostrazione concreta di come un comportamento avveduto, anzi premuroso nei confronti della natura non sia incompatibile con la moderna scienza della natura.” (Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, 1992, pp. 56-57).

78) “Un noto teorico sovietico del marxismo si è riferito ai miei scritti definendoli “puro materialismo dialettico”. Non sono marxista e non conosco la più recente definizione di materialismo dialettico, ma devo ammettere di condividere una parte delle posizioni antiriduzionistiche enunciate da Engels nell’Anti-Dühring, e che lo schema hegeliano di tesi-antitesi-sintesi esercita su di me un forte richiamo.” (Ernest Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 11).

79) “Olismo” (dal greco holos = tutto, intero) è un concetto introdotto da Jan Smuts nel 1926 nell’opera Holism and evolution, per indicare il concetto che il tutto è maggiore della somma delle parti componenti. Si oppone al metodo “riduzionistico” secondo il quale la conoscenza di qualcosa è sempre possibile mediante la conoscenza delle sue singole parte per cui, in generale, si tratta di scomporre ogni entità complessa negli elementi semplici che la costituiscono. A proposito dell’opposizione riduzionismo-olismo in biologia, Ernst Mayr afferma: “I biologi più acuti, fin dai tempi di Aristotele, non erano soddisfatti di un approccio puramente atomistico-riduzionista ai problemi della biologia. La maggior parte dei biologi ha semplicemente posto l’accento sulla interezza, cioè sull’integrazione dei sistemi; altri hanno evitato di dare una spiegazione scientifica invocando forze metafisiche. Il vitalismo fu la spiegazione favorita fino in pieno secolo XX. Quando Smuts (1926) introdusse convenientemente il termine “olismo” per esprimere l’idea che il tutto è maggiore della somma delle sue parti, egli lo combinò con idee vitalistiche che sfortunatamente inquinarono il termine “olismo”, in sé del tutto adeguato, fin dall’inizio. […] In contrasto con le prime proposte olistiche che solitamente erano più o meno vitalistiche, le nuove sono rigorosamente materialistiche. Esse pongono l’accento sul fatto che le unità ai livelli gerarchici superiori sono qualcosa di più della somma delle loro parti e, quindi, un’analisi delle parti lascia sempre un residuo irrisolto – in altre parole, la riduzione esplicativa non ha successo. Ciò che più conta, esse pongono l’accento sulle teorie e sui problemi autonomi di ogni livello e in ultima analisi sull’autonomia della biologia nella sua totalità.” (E. Mayr, Storia del pensiero biologico, pp. 65-66).

80) Scrive Ernst Mayr a proposito del concetto di “emergenza”, che ha un ruolo centrale nel moderno approccio “olistico” alla biologia e all’ecologia: “Il concetto di “emergenza” ha una lunga storia. Esso è stato sostenuto da materialisti come Marx e Engels […]. Engels considerava l’emergenza in natura di proprietà nuove e irriducibili come una manifestazione dell’autotrasformazione, fondamentalmente dialettica, della materia, e pertanto l’accettazione di tali proprietà non contrastava con il materialismo […].” (E. Mayr, Storia del pensiero biologico, p. 809).

81) L’atmosfera e gli oceani, a cui tutti gli ecosistemi sono collegati direttamente o indirettamente, sono sistemi unitari, interconnessi e indivisibili, unici per l’intero pianeta; ciò che succede in una regione della atmosfera o della idrosfera presto o tardi si ripercuote su tutto il resto del pianeta: il buco dell’ozono e l’effetto serra sono due prove eloquenti della natura obiettivamente “sociale”, ossia della natura di “bene comune”, della Biosfera!

 

MARX-ENGELS-PODOLINSKIJ: UNA TRACCIA TEORICA PERDUTA?

Sommario – Prendendo spunto dalle indicazioni fornite da Juan Martinez Alier inEcological Economics, l’autore affronta il tema del rapporto fra il marxismo e l’ecologia alla luce del carteggio intercorso nel 1880 fra Karl Marx e un giovane intellettuale socialista ucraino, Sergej Podolinskij. Quest’ultimo, partendo dai principi della termodinamica, in un saggio pubblicato in alcune riviste socialiste europee aveva proposto una revisione della teoria marxiana della produzione. Secondo l’autore, l’approccio di Podolinskij conteneva alcune idee anticipatrici circa la natura entropica dei processi economici e il duplice processo di accumulazione e di dissipazione dell’energia solare che si svolge sulla superficie terrestre, ad opera il primo delle piante e il secondo delle altre forme viventi. La fecondità delle idee di Podolinskij, tuttavia, non fu intesa adeguatamente; Engels si espresse in proposito in modo sostanzialmente (anche se non interamente) negativo in due lettere a Marx del dicembre 1882. Entrambi furono ostacolati nel giudizio per il fatto che non avevano ancora fatto approfonditamente i conti con il principio di entropia e le sue implicazioni. In effetti, l’elaborazione della “critica dell’economia politica” era avvenuta in una fase precedente a quella in cui essi cominciarono a riflettere sul secondo principio. Anche per questo, malgrado la presenza negli scritti e nel pensiero di Marx e di Engels di significativi temi “ecologici”, rimase nel marxismo una concezione inadeguata e ambivalente di “sviluppo delle forze produttive” e ciò ha in parte contribuito al “lungo divorzio” tra marxismo ed ecologia. Quell’insuficienza fu talvolta esasperata, come nella interpretazione “prometeica” che il marxismo ricevette in Unione Sovietica durante l’industrializzazione staliniana. Nell’ultima parte del suo saggio T. Bagarolo avanza l’ipotesi che alcuni spunti teorici proposti da Podolinskij e apparentemente dimenticati, possano invece aver ispirato negli anni venti-trenta alcuni studiosi di discipline ecologiche in Unione Sovietica e, per loro tramite, possano aver indirettamente influenzato la formulazione della teoria dell’ecosistema da parte dell’americano Lindeman.
L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze naturali esistono in lui come come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo e condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali…
“Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è oggetto del sole come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole.
Karl Marx, 1844

Nuove preoccupazioni sociali generano nuovi problemi intellettuali e storici. Inversamente, nuove interpretazioni del passato forniscono nuove prospettive sul presente e quindi il potere di modificarlo.
Carolyn Merchant, 1980

Scopo del presente articolo (1) è quello di ricostruire un episodio finora ignorato della storia del marxismo, certo non dei principali, ma ugualmente di grande significato alla luce degli attuali problemi ecologici e del dibattito, quanto mai aperto, sul rapporto tra il marxismo stesso e il pensiero ecologico.
Protagonista di questo capitolo inedito è Sergej Andreevic Podolinskij (2), un medico ed economista ucraino di idee socialiste, attivo tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso, che in alcuni scritti comparsi tra il 1880 e il 1883 sulla stampa socialista europea (3), propose un interessante approccio analitico – che potremmo definire, schematicamente, fisico-ecologico – al tema della produzione, e che su questo soggetto ebbe uno scambio epistolare con Marx nell’aprile del 1880. L’episodio si chiuse, apparentemente, con alcune valutazioni sulle idee di Podolinskij espresse da Engels in due lettere a Marx del dicembre del 1882. Pur avendo goduto al suo tempo di una certa notorietà negli ambienti socialisti europei (4), il nome di Podolinskij fu successivamente dimenticato, salvo, forse, in Ucraina, sua terra natale.
La “traccia teorica” (5) nuova, aperta allora da Podolinskij, sembra in seguito “perduta” (ma forse, lo vedremo alla fine del nostro articolo, non fu proprio così); resta il fatto che essa non ebbe un’eco nello sviluppo successivo del marxismo. La possibilità di un incontro, di una saldatura, fra il marxismo e la nascente ecologia (cioè tra il pensiero e la prassi dell’emancipazione sociale e il nuovo pensiero del rapporto uomo-natura, pensiero consapevole dei fili innumerevoli che legano la nostra specie alla fragile trama della vita planetaria) non ebbe seguito. Malgrado una storia di rapporti e di intrecci più ricca di quel che abitualmente si sospetti, restò “un lungo divorzio” (l’espressione è di Martinez-Alier) non solo tra marxismo ed ecologia, ma soprattutto tra movimento operaio (e sue espressioni politiche) e coloro (studiosi, movimenti) che avanzarono anche in seguito l’esigenza di rinnovare il rapporto fra uomo e natura, fra economia e ambiente, fra presente e futuro. Rimase a lungo ignorata, o marginalizzata, l’esigenza di fare i conti con un pensiero che andava mettendo in dubbio l’ideologia del dominio sulla natura, l’onnipotenza della tecnica, il mito del progresso, e richiedeva invece di prestare attenzione alla profonda solidarietà che la specie umana intrattiene, di fatto, col resto del mondo vivente e non vivente.
Il “caso Podolinskij”pone, dunque, questioni di grande rilievo storico e insieme di pressante attualità. Non abbiamo la pretesa di esaurirle in un articolo. Nello spazio di questo lavoro ci proponiamo di ricostruire dettagliatamente il solo “punto di partenza”nel suo contesto teorico-storico, con l’ambizione di fare cosa utile alla discussione su questi temi che speriamo si sviluppi tra quanti sono interessati a riflettere sul passato per meglio comprendere il presente nel quale ci troviamo ad agire.

“Armonizzare pluslavoro e teorie fisiche”

Scrivendo a Marx l’8 aprile 1880 per chiedergli, per la seconda volta, un parere sulle proprie idee, Sergej Podolinskij presenta il proprio punto di vista come un “tentativo di armonizzare il pluslavoro con le attuali teorie fisiche” (6). Mi pare che questa formula – nel contesto di reciproca cortesia che si intuisce nello scambio epistolare fra il giovane medico ucraino esule a Montpellier e l’anziano economista tedesco che vive a Londra – racchiuda tanto un riconoscimento della validità della categoria del pluslavoro (uno dei fondamenti della teoria marxiana), quanto una riserva critica, alla luce degli ultimi risultati della termodinamica, sul modo in cui essa viene “fondata”da Marx. In effetti, come sappiamo dagli articoli da lui pubblicati sull’argomento, il senso delle idee che Podolinskij sottopone al giudizio di Marx è quello di una proposta di revisione, di una riformulazione della teoria della produzione in termini energetici: Podolinskij propone infatti di considerare i processi economici sotto l’aspetto delle trasformazioni operate sul flusso di energia solare captato dalla superficie terrestre dall’intervento del lavoro umano. E in assoluto la prima volta che viene affacciata questa problematica. Oggi, soprattutto dopo i lavori di Georgescu-Roegen (7), un punto di vista che ha una stretta parentela con quello proposto oltre un secolo fa da Podolinskij ci è più familiare ed è oggetto di discussione fra coloro che si occupano del nesso economia-ambiente (per quanto resti marginale, se non proprio ignorato, proprio nelle facoltà e negli insegnamenti economici).

Ma quale impressione può aver fatto su Marx, nel 1880?
Ci è impossibile dirlo con certezza perché non è stata trovata traccia di una sua reazione. Possiamo tuttavia ragionevolmente supporre che le idee di Podolinskij apparissero a Marx inusuali, se non astruse, forse anche ostiche da comprendere, ma in qualche modo intriganti. I principi scientifici dai quali Podolinskij muoveva nel suo ragionamento – gli studi di fisiologia vegetale e di fisiologia del lavoro muscolare, il principio di conservazione dell’energia e quello di entropia – non erano sconosciuti all’autore del Capitale, ma erano piuttosto recenti e lui ed Engels non avevano avuto il tempo di “assimilarli”a pieno e di integrarli nell’elaborazione teorica sul capitalismo (la “critica dell’economia politica”) le cui linee di fondo erano state sviluppate in un periodo precedente, tra il 1857 e il 1867 (8). Sulle implicazioni più generali dei nuovi principi della termodinamica, e segnatamente del principio di entropia (9), essi stavano ancora discutendo (come gran parte degli studiosi dell’epoca), ed erano quindi impreparati a formulare un giudizio netto così, a stretto giro di posta.
Non deve stupire, quindi, che dopo una prima risposta evasiva, Marx non si affretti a rispondere al giovane studioso che attende dall’altra parte della Manica. Forse intervenne anche qualche altro fattore a distrarre l’attenzione di Marx. Fatto sta che, forse troppo preso da altre urgenze e dai molti affanni personali e familiari (10), Marx non tornò sopra alla “faccenda Podolinskij”che alla fine del 1882, negli ultimi mesi di vita, mentre si trovava a Ventnor, nell’isola di Wight. Qualcosa, che non siamo in condizione di stabilire con certezza, richiamò la sua attenzione sulla storia di due anni prima (11). Ne fece cenno a Engels il quale, da Londra, gli mandò il suo parere in due lettere successive, datate 19 e 22 dicembre 1882 (12).
Engels non liquida l’idea suggerita da Podolinskij di esprimere il pluslavoro anche in termini di eccedenza dell’energia resa disponibile dal lavoro rispetto all’energia spesa per la sussistenza della forza-lavoro, ma ne dà comunque un giudizio fortemente riduttivo; la giudica un’idea poco interessante, se non fuorviante. Duramente critico è, in particolare, verso la confusione che gli sembra di scorgere tra approccio in termini fisici e categorie economiche. Ma c’è l’impressione che egli non abbia meditato a pieno sulle implicazioni del punto di vista che propone Podolinskij. Così gli sfugge la novità di ciò che si trova davanti e anche una certa affinità fra il tema affrontato da Podolinskij e questioni teoriche che fanno parte delle problematiche del pensiero di Marx e anche sue.
“La reazione di Engels all’articolo di Podolinskij fu certo una cruciale occasione perduta nel dialogo tra marxismo ed ecologia” ha scritto Juan Martinez-Alier (Martinez-Alier, 1991, p. 300), non del tutto a torto, ma forze sopravvalutando il significato di questo episodio e della sua influenza successiva. In fondo, non va trascurato il fatto che, malgrado il giudizio vergato da Engels nelle due lettere del dicembre 1882, una versione dell’articolo di Podolinskij vide la luce pochi mesi dopo (numeri di marzo e aprile 1883) nella rivista teorica del partito socialdemocratico “Die Neue Zeit”; rivista diretta, è vero, da Karl Kautsky, ma sulla quale non mancava di esercitare una sorta di “supervisione”editoriale lo stesso Engels, per cui appare molto improbabile che la pubblicazione vi sia stata decisa contro il suo parere, o anche senza di esso. Quanto alle lettere di Engels a Marx, esse non furono pubblicate che negli anni venti del nostro secolo (13), quando il nome di Podolinskij era già stato dimenticato ovunque in Europa (con eccezione dell’Ucraina). Se esse dunque contribuirono a formare l’opinione dei marxisti, lo fecero rafforzando convinzioni già consolidatesi in modo autonomo, piuttosto che determinandole ex novo.
Resta il fatto, comunque, che l’incomprensione di Engels, che non seppe in seguito far buon uso delle idee anticipatrici di Podolinskij, insieme con la malattia che colpì quest’ultimo nel 1881 sottraendogli la possibilità di procedere oltre nella riflessione che aveva appena abbozzato, segnò in qualche modo la sorte non solo del nome di Podolinskij o del suo lavoro anticipatore (caduti nell’oblio per circa un secolo), ma soprattutto di una linea di pensiero e di un intero ambito di problematiche teoriche e pratiche. Su questo punto dovremo tornare.
Ma prima di procedere oltre, occorre soffermarsi più a fondo sulla proposta teorica di Podolinskij e sugli argomenti della replica di Engels.

Lavoro umano e flussi di energia

Senza riassumere per esteso il punto di vista di Podolinskij, richiamiamo qui, per comodità del lettore, i punti notevoli del suo ragionamento e alcuni risultati particolarmente “attuali”. Tre sono le principali novità che noi vi scorgiamo: 1. l’analisi dei processi economici da un punto di vista termodinamico, 2. la visione del metabolismo della natura in termini di accumulazione e di dissipazione dell’energia solare, 3. l’istituzione di una correlazione fra energia e “forme di società”.
Podolinskij si diffonde soprattutto sul primo e sul secondo tema, sul terzo è più sommario. L’insieme non manca di qualche pecca. Su alcune di esse dovremo spendere qualche parola perché, a nostro avviso, alcune insufficienze e alcune approssimazioni del discorso di Podolinskij hanno avuto certamente una qualche responsabilità nel fraintendimento di Engels.
Ma vediamo per ordine la materia.

1. La produzione dal punto di vista termodinamico. Ammesso il principio di conservazione dell’energia (14), il lavoro umano, osserva Podolinskij, non può essere concepito come capace di creare qualcosa dal nulla, ma solo di modificare i flussi di energia esistenti in natura così da adattarli alla soddisfazione dei bisogni umani. La tesi che gli preme dimostrare è che il lavoro umano ha la facoltà di accumulare più energia di quanta non venga spesa per la sopravvivenza, e che questa è la base dello sviluppo di ogni società. Citando Clausius (15) e il principio di entropia (16), Podolinskij spiega che ogni forma di energia dell’universo è soggetta, nel corso delle sue trasformazioni, ad una tendenza verso la dissipazione, cioè verso una irreversibile degradazione qualitativa verso un equilibrio finale sotto forma di calore che esclude ogni ulteriore possibilità di utilizzo per compiere un lavoro (17). Naturalmente, questa tendenza opera anche sulla superficie terrestre, dove il flusso di energia proveniente dal Sole si manifesta in forme molteplici: riscaldamento dell’aria e suoi spostamenti, evaporazione e susseguenti precipitazioni e scorrimento delle acque, energia biochimica fissata dall’accrescimento della vegetazione, energia muscolare animale e umana, lavoro delle macchine che sfruttano in modo diretto o mediato la radiazione solare. Alla fine del ciclo delle sue trasformazioni, la radiazione luminosa assorbita dal pianeta è in ogni caso di nuovo irradiata verso lo spazio cosmico sotto forma di calore, secondo quanto prescritto dal principio di Kirchhof (18). E però nelle possibilità del lavoro umano, e nei suoi fini, di influenzare questi processi, nel senso di accrescere la quantità di energia accumulata sulla superficie terrestre e quindi disponibile per l’umanità:

L’uomo, mediante determinate azioni intenzionali, può accrescere la quantità di energia accumulata nei vegetali e ridurre quella dissipata dagli animali. (Podolinskij, 1883, p. 420)

Ciò può avvenire, suggerisce Podolinskij, in due modi: incrementando la conversione dell’energia solare (come nel lavoro di coltivazione dei campi), oppure contrastando la dissipazione dell’energia accumulata, conservandola più a lungo nelle forme utili a soddisfare i bisogni umani (e a questo tende il lavoro extra-agricolo). Egli, pertanto, definisce la nozione di lavoro utile:

E un impiego dell’energia meccanica e mentale dell’organismo tale che ha per effetto di accrescere il bilancio complessivo dell’energia sulla superficie terrestre. (Podolinskij, 1883, p. 422)

Insieme a questa intuizione originale (sviluppata, bisogna dire, non senza ingenuità e imprecisioni comprensibili per l’epoca), vanno segnalati anche alcuni passaggi del ragionamento e alcuni risultati di dettaglio. Per dimostrare l’assunto che il lavoro umano ha la facoltà di accumulare l’energia solare, Podolinskij ricorre al confronto fra la produttività energetica delle foreste, dei pascoli naturali, delle colture foraggiere e di quelle cerealicole della Francia del suo tempo, derivando i dati dalle statistiche ufficiali e le stime sui contenuti calorici degli input e degli output dagli studi contemporanei di fisiologia vegetale e animale e simili. Insomma, applica per la prima volta la metodologia che oggi si definisce “analisi dell’energia”(19).
Analizzando poi le prestazioni lavorative dell’organismo umano, utilizza i risultati già stabiliti da Hirn (20), Helmholtz (22) e Clausius, ma in nuovo contesto, e richiama le nozioni di rendimento (“coefficiente economico”, nella sua terminologia) e di produttività dell’organismo umano considerato come “macchina termica”. Una “macchina termica perfetta” nel senso di Sadi Carnot (22), osserva Podolinskij, in quanto il lavoro umano è in grado di effettuare quello che appare come un “ciclo operativo completo”, giacché essa converte il lavoro in calore e in altre forze necessarie alla sua sussistenza, in un certo senso facendo “ritornare al suo focolare il calore prodotto col suo lavoro” (Podolinskij, 1881, 4, p. 12).
Da sottolineare, infine, l’insistenza non casuale sull’energia del flusso solare (significativamente la definizione di lavoro utile fa perno su di essa). Egli sa perfettamente che ci sono sulla Terra altre fonti di energia che non derivano dal Sole (descrive ad es. quella delle maree e quelle endogene: vulcanesimo, geotermia, ecc.), ma queste gli appaiono quantitativamente trascurabili su scala globale (ma non locale); oppure che derivano dal Sole ma che, a differenza del flusso di quest’ultimo costantemente disponibile, rappresentano piuttosto degli stock di energia già accumulata il cui utilizzo si risolve in una de-accumulazione netta, in una dissipazione; e cita a questo proposito il carbon fossile:

Lo scopo principale del lavoro deve essere […] l’aumento assoluto della quantità di energia solare accumulata sulla Terra, molto più che la semplice trasformazione in lavoro d’una più grande quantità di calore o di altre forme di energia già accumulate sulla Terra. Imperocchè quest’ultima trasformazione, l’elevamento dell’energia, per esempio la produzione del lavoro mediante la combustione del carbon fossile, è tanto [più] accompagnata da perdite inevitabili per la dispersione nello spazio, [quanto più] si giunge ad uno per cento più elevato di calore o di altra forza fisica trasformata in lavoro. (Podolinskij, 1881, 4, p. 13)

2. L’energia e il ciclo della vita. L’analisi dei processi economici sotto l’aspetto termodinamico porta Podolinskij a metterne in luce, da un lato, la dimensione entropica (l’unidirezionalità del flusso energetico dal Sole alla dissipazione e all’irradiazione verso lo spazio cosmico); da un altro, la connessione con l’intero sistema della vita planetaria, a sua volta dipendente dalla radiazione solare. Ovviamente la dipendenza dell’uomo dalle altre forme di vita e in ultima analisi dalla luce del Sole non è una novità teorica nel 1880; essa, per un verso, affonda nella coscienza mitica dell’umanità; per l’aspetto propriamente scientifico, invece, risale alla fine del diciottesimo secolo e alle osservazioni di Ingenhousz (23) sul processo di accrescimento delle piante e di scambio gassoso con l’atmosfera in presenza della luce. La novità che si fa strada nello scritto di Podolinskij è un’altra: spinto dalla logica della sua argomentazione, Podolinskij ipotizza una relazione quantitativa, una sorta d’equilibrio, fra due processi di segno opposto di cui sono agenti gli essere viventi. Da un lato, un processo di accumulazione (ad opera della vegetazione); dall’altro, un processo di dissipazione (da parte degli animali e dei processi di demolizione della materia vivente) dell’energia solare assorbita e accumulata dal sistema della vita:

Ci troviamo qui dinnanzi a due processi paralleli, che insieme formano il cosiddetto ciclo della vita [Kreislauf des Lebens]. Le piante possiedono la facoltà di accumulare energia solare, mentre gli animali, nutrendosi di sostanze vegetali, convertono parte di tale energia accumulata in lavoro meccanico, e quindi la dissipano nello spazio. Qualora la quantità di energia accumulata dai vegetali risultasse maggiore di quella dissipata dagli animali, si verificherebbe una sorta di accantonamento di energia – ad es. nel periodo di formazione del carbon fossile, in cui evidentemente la vita vegetale era nettamente preponderante su quella animale. Se, al contrario, la vita animale prendesse il sopravvento, ben presto le scorte di energia verrebbero dissipate e la stessa vita vegetale dovrebbe regredire entro i limiti fissati dal regno vegetale. Si stabilirebbe così un certo equilibrio tra accumulazione e dissipazione dell’energia: il bilancio energetico della superficie terrestre verrebbe a costituire una grandezza più o meno stabile, ma l’accumulazione netta di energia scenderebbe a zero, o comunque molto più in basso che nell’epoca della preponderanza della vita vegetale. (Podolinskij, 1983, p. 420)

L’idea del “ciclo della vita”, già presente nelle scienze naturali alla metà dell’Ottocento, si era venuta precisando attraverso gli studi sulle basi fisico-chimiche degli esseri viventi. Podolinskij, qui sta la novità, rilegge questa nozione in termini di energia, abbozzando l’approccio che guiderà, qualche decennio più tardi, la costruzione della teoria dell’ecosistema come unità definita e strutturata dalle relazioni trofiche (24).

3. Energia e società. Le nozioni di “coefficiente economico”(efficienza, rendimento) e di “produttività”del lavoro umano vengono considerati da Podolinskij nella loro dimensione essenzialmente storica e sociale (il loro valore risulta variabile da un’epoca all’altra e da una società all’altra della stessa epoca). Combinati insieme, poi, definiscono quella che si potrebbe chiamare la “condizione di vitalità” di una determinata comunità umana:

L’esistenza e la possibilità di lavorare della macchina umana sono garantite fino a quando il lavoro di questa macchina viene convertito in un accumulo di energia per il soddisfacimento dei nostri bisogni di tante volte maggiore della somma del lavoro umano di quante volte il denominatore del coefficiente economico supera il numeratore.
Ogni volta che la produttività del lavoro umano è minore dell’inverso del coefficiente economico ci sarà penuria e forse una diminuzione della popolazione. Quando, al contrario, l’utilità del lavoro sarà maggiore di tale numero, ci possiamo aspettare un incremento del benessere e forse un aumento della popolazione. (Podolinskij, 1883, p. 454)

Qui siamo oltre il determinismo (preteso “naturale”) del principio di popolazione maltusiano, pur nel riconoscimento – in termini corretti – del vincolo ecologico cui sottostà, in ogni caso, la dinamica economico-demografica di qualsiasi comunità umana (25).
Podolinskij traccia, poi, sulla base dei concetti appena definiti, un rapido schizzo del progresso umano attraverso le varie forme sociali (stato selvaggio, schiavitù, feudalesimo, capitalismo) e discute poi le possibilità del socialismo. Egli istituisce una duplice relazione dialettica fra energia e società: da un lato, la disponibilità di energia scandisce le tappe dello sviluppo sociale; dall’altro, le relazioni sociali condizionano a loro volta il modo e l’efficacia degli impieghi dell’energia. Il socialismo, ai suoi occhi, è la forma sociale che deve superare gli sprechi e l’imprevidenza delle forme precedenti, che può trarre il massimo vantaggio dai rapporti sociali di cooperazione (e non di conflitto) e dalle nuove conoscenze scientifiche, e che saprà far valere l’educazione come leva potente per promuovere una amministrazione razionale delle risorse del pianeta finalizzata al soddisfacimento dei veri bisogni.

Vecchio e nuovo. Accanto a queste novità anticipatrici, che collocano Sergej Podolinskij fra coloro che aprono la strada ad alcune delle più importanti scoperte del ventesimo secolo e fra i pionieri dell’ecologia, destano perplessità alcune formule e alcuni concetti che riflettono, invece, l’epoca e l’ambiente in cui vennero formulate. In generale, si può osservare che Podolinskij non fuoriesce ancora da una prospettiva fondamentalmente fiduciosa nel “progresso” e nello sviluppo delle forze produttive, anche se temperata da un inizio di consapevolezza del problema dei limiti naturali certamente nuova per l’epoca. Su due altri punti, invece, sembra ancora prigioniero di posizioni diffuse negli ambienti socialisti dell’epoca ma già criticate – a mio parere a ragione – da Marx e da Engels.

Il primo punto è il modo di considerare il lavoro. Nella distinzione che Podolinskij traccia fra lavoro intellettuale e lavoro “muscolare”(e nell’equiparazione fra lavoro muscolare umano e animale) si intuisce una confusione fra categoria termodinamica e categoria economica di lavoro, da un lato; e il permanere, dall’altro, di un’idea di lavoro fisico, manuale (tipica dell’idealizzazione socialista del lavoratore “del braccio”) dotato di una qualche facoltà miracolosa di produrre ricchezza, contro cui Marx aveva già polemizzato, ad es., nella Critica al programma di Gotha(26).

Il secondo punto è il collegamento che Podolinskij stabilisce tra lavoro prestato (e valore-lavoro dei prodotti, anzi “valore-energia”nel suo approccio) e “giusta”distribuzione sociale dei beni. Anche queste idee erano già state oggetto della polemica di Marx contro i socialisti utopisti e contro Lassalle e, nel 1875, di un serie di rilievi critici alla bozza di testo programmatico del partito socialdemocratico tedesco (27).

Queste incongruenze non ci devono stupire più di tanto. Nella scienza, così come in ogni altra forma di pensiero, capita spesso che il nuovo si fa strada attraverso il vecchio e ciò che è valido si afferma non solo in mezzo ma spesso anche per mezzo di ciò che è superato e tuttavia ancora sopravvive. Non si dimentichi, però, che quello di Podolinskij è sostanzialmente un abbozzo, probabilmente sviluppato in solitudine, che egli purtroppo non ebbe la possibilità di correggere e riformulare in modo più soddisfacente sulla base di un confronto e di una discussione con altri.

La replica di Engels, ovvero l’occasione perduta

Forse, furono questi dettagli piuttosto discutibili che fecero su Engels un’impressione negativa portandolo a travisare e a sottovalutare gli aspetti innovativi, positivi, della proposta di Podolinskij (28). E tuttavia, il senso del suo giudizio è tutt’altro che una liquidazione sbrigativa. Scrive egli a Marx:

La faccenda Podolinski me 1’immagino così. La sua scoperta è questa: il lavoro umano è capace di trattenere sulla superficie della terra e di far agire l’energia solare più a lungo di quanto accadrebbe senza di esso. Tutte le deduzioni economiche che egli ne trae sono errate. (Marx-Engels, 1953, VI, p. 414)

E chiudendo la prima lettera:

Dopo la sua scoperta assai preziosa [sic!] Podolinski ha smarrito la via giusta, perché voleva trovare nel campo delle scienze naturali una nuova prova della giustezza del socialismo e ha mischiato quindi cose della fisica con cose d’economia. (Marx-Engels, 1953, VI, p. 416)

A ben vedere, Engels muove due ordini di obiezioni a Podolinskij, che è utile esaminare separatamente. Per un verso egli mostra di non credere alla possibilità, e neppure all’utilità, di fare un’analisi dei processi economici in termini di energia. Per un altro verso, rimprovera Podolinskij di voler trarre deduzioni economiche direttamente dalla fisica, e questo non gli sembra ammissibile.

Riguardo al primo argomento, Engels non è molto coerente, in verità. Proprio mente si esprime con scetticismo sulla possibilità di effettuare una attendibile contabilità energetica della produzione, suggerisce alcuni criteri corretti per farla: ad es. includendo i fertilizzanti, il combustile e così via nella contabilità del settore agricolo. Dà a vedere, inoltre, di avere una certa percezione della natura entropica dei processi produttivi perché, spiega, a parte il settore-agricolo, gli altri settori hanno un bilancio energetico negativo, non fanno che degradare l’energia solare tanto “presente”, quanto, soprattutto “passata”:

Tu sai meglio di me – scrive egli a Marx – a che punto arriviamo nello sperpero di provviste di energia, carbone. minerali, foreste, ecc. (Marx-Engels, 1953. VI, p. 417)

Ammette anche che “il vecchio dato di fatto economico che tutti i produttori industriali vivono dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame, della caccia e pesca, può essere tradotto anche, volendo, nella fisica”, ma poi dà scarso valore a questa intuizione concludendo: “dal che per altro non risulta davvero gran cosa” (Marx Engels, 1953, VI, p. 417).

La seconda obiezione, invece, può appoggiarsi a qualche formula confusa o equivoca dello stesso Podolinskij, l’abbiamo visto. Si tratta di una questione sulla quale l’attenzione di Engels è molto vigile. Sappiamo da altri scritti che egli rifiutava il procedimento disinvolto di trasferire una categoria da un ambito disciplinare ad un altro, dove assume un significato diverso, spesso per derivarne corollari politico ideologici abusivi.

Egli si era già occupato nei suoi appunti per la Dialettica della natura di alcuni di questi pasticci teorici. In particolare aveva criticato la pretesa di alcuni di trasferire alle società umane il concetto vago di “lotta per la vita”propria dell’interpretazione darwiniana della storia naturale e della vita animale (29).

In altre due occasioni, nel 1875 e nel 1880-81, aveva rifiutato l’identificazione della nozione di lavoro in senso economico con quelle proprie della termodinamica e della fisiologia (30), ed è proprio questo tipo di critica che riecheggia nelle lettere a Marx su Podolinskij.
Ma, al di là del problema se Podolinskij incorra o no nell’errore che Engels gli attribuisce, resta il fatto che neppure Engels nega in linea di principio l’ammissibilità di fare una analisi in termini di energia dei processi economici o di quelli vitali, e che anch’egli riconosce il nesso tra processi economici e ambiente (31).

D’altra parte è facile documentare che anche Marx nel Capitale considera rilevante l’analisi dei processi produttivi non solo in quanto processi sociali ma anche sotto l’aspetto materiale, cioè in quanto processi che si svolgono fra l’uomo e la natura, in cui l’uomo opera utilizzando i materiali e le forze presenti in natura, soggetti alle leggi naturali, nei quali l’input energetico svolge una funzione determinante (32). E questa una realtà profonda del rapporto fra l’uomo e la natura che non può essere soppressa da alcun prodigioso sviluppo tecnico-scientifico. Non solo. Si può anche documentare uno straordinario parallelismo fra gli argomenti di Podolinskij e un passaggio del Capitale, là dove Marx definisce la “base naturale” (l’espressione è di Marx) del pluslavoro e del plusvalore (33).
Insomma, non mancavano le premesse perché la reazione di Marx e di Engels fosse diversa, perché il contributo di Podolinskij catturasse la loro attenzione, perché il loro giudizio fosse più positivo, perché, in una parola, questa fosse l’occasione per avviare una riflessione sui problemi posti da Podolinskij e per approfondire il tema del nesso tra produzione e ambiente naturale. Perché la nuova “traccia teorica”fosse meglio esplorata.
Ma ciò non avvenne:

E’ possibile affermare che Engels capiva, se non i principi dell’energetica industriale, quelli dell’energetica agraria; inoltre, vedeva chiaramente la differenza tra spendere lo stock di carbone e usare il flusso di energia solare, ed era di gran lunga in anticipo su molti economisti, sociologi e storici successivi per conoscenza e interessi scientifici. Ma è un fatto che Marx ed Engels ebbero l’opportunità di leggere uno dei primi tentativi di marxismo ecologico e non ne ricavarono alcun profitto. (Martinez-Alier, 1991, pp. 302-3)

Insomma, si trattò di un’occasione perduta. Ci dobbiamo chiedere perché.

Marx, Engels e l’ecologia. Potenzialità e limiti

Martinez-Alier indica in una inadeguata concezione delle “forze produttive” e nella visione di un “comunismo dell’abbondanza” (che potrebbe fondarsi solo sulla base di un grande sviluppo delle forze produttive) i due ostacoli teorici che avrebbero annebbiato il giudizio di Engels (e di Marx) e, soprattutto, compromesso in seguito la possibilità di un incontro tra la tradizione di pensiero marxista e quella dell’ecologia. Non è una tesi nuova, e credo vada presa in seria considerazione. Tuttavia essa sarebbe vera, comunque, solo in parte: la vicenda successiva dei rapporti tra marxismo ed ecologia non può esser letta, prescindendo da altri fattori del contesto (ideologici, sociali e politici), come mero svolgimento di storia delle idee (34).

Per cominciare col piede giusto la riflessione su un tema così impegnativo come quello del rapporto intercorso tra marxismo ed ecologia, è bene partire cercando di definire meriti e limiti della “coscienza ecologica” di Marx ed Engels, considerata ovviamente nel contesto storico.
A questo proposito occorre subito osservare che, a rigore, è improprio parlare di ecologia per l’epoca di cui ci stiamo occupando. Benché il termine fosse stato introdotto da Ernst Haeckel già nel 1866 (35), esso non divenne di uso comune che negli ultimi anni del secolo e, quel che più conta, l’ecologia – in quanto disciplina scientifica “cosciente di se stessa” (36), di un suo proprio campo unitario di studi e di specifici strumenti di indagine – non venne a formarsi che in epoca ancor più recente, tra gli anni venti e gli anni quaranta di questo secolo (37). Quella che attualmente consideriamo sensibilità ecologica, per l’epoca che stiamo considerando dobbiamo dunque cercarla in altri ambiti: nel modo di intendere il posto dell’uomo nella natura da parte del pensiero filosofico e scientifico, nell’immagine della natura che si fa strada nelle scienze naturali, nel modo in cui gli economisti definiscono il rapporto fra sviluppo e risorse, nelle opere di quei precursori che richiamano l’attenzione dei contemporanei sui fenomeni di degrado dell’ambiente naturale indotti dalle attività antropiche. E’ con questi sviluppi che dobbiamo confrontare i tratti di coscienza ecologica che troviamo in Marx e in Engels, ed è sulla base di questo confronto che possiamo formulare un giudizio storicamente fondato; altrimenti corriamo il rischio di commettere l’anacronismo di rimproverare Marx ed Engels – che mai pretesero di essere autorità in materia di biologia o di termodinamica – di non essere stati migliori ecologi degli ecologi del loro tempo (38).
In effetti, paragonando le loro posizioni a quelle prevalenti fra gli studiosi della loro epoca, Marx ed Engels rivelano una sensibilità piuttosto avanzata e gli strumenti teorici da essi elaborati dimostrano una grande modernità e una grande apertura anche nei confronti delle emergenti problematiche ecologiche.

Schematizzando drasticamente (per ovvie ragioni di spazio) penso che si possa riassumere in questi punti il pensiero marx-engelsiano in questo campo: 1. una concezione proto-ecologica del rapporto uomo natura, 2. un abbozzo di critica ecologica dello sviluppo capitalistico, 3. un embrione di programma ecologico ispirato al criterio della “sostenibilità” e della responsabilità verso le generazioni future.
Restano, nel contempo, dei limiti e delle ambivalenze legate alla definizione dei concetti di forze produttive e di progresso, che si sarebbero aggravati nell’interpretazione dei marxisti successivi, fino a rendere tale “marxismo” (soprattutto nel caso dell’ideologia staliniana) una apologia dell’industrialismo e della pretesa umana di “trasformare la natura” (che nel programma staliniano degli anni trenta diventa addirittura la pretesa di rimodellare la stessa natura per renderla base adeguata della nuova società socialista) (39).
Vediamo brevemente questa materia, anche mediante qualche esemplificazione.

1. Uomo-natura-società. C’è spesso la tendenza (40), parlando della posizione del marxismo verso la natura e i problemi ecologici, a dimenticare che il primo significato del “materialismo” marx-engelsiano (prima ancora del suo essere “storico”) è quello di essere l’affermazione del fatto che l’uomo è parte integrante della natura, natura esso stesso a tutti gli effetti, essere naturale “condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante”, per riprendere le parole del passo deiManoscritti del ‘44 che abbiamo scelto come epigrafe per questo nostro articolo. Non è banale sottolineare questo primo tratto, fondamentale, del pensiero marxista, perché esso è lo sfondo costantemente presente di tutti gli sviluppi successivi. Le pagine illuminanti del giovane Marx in cui egli abbozza il suo “naturalismo” in contrapposizione all’idealismo hegeliano (41), la riflessione comune dell’Ideologia tedesca in cui viene definito il materialismo storico anche a partire dall’idea della società umana come fenomeno emergente dalla natura, e della storia come dialettica ad un tempo del rapporto fra uomo e uomo e fra umanità e natura (42); l’elaborazione del rapporto fra produzione, rapporti di produzione, natura nell’Introduzione del ’57 (43); il tema del metabolismo (Stoffwechsel) fra società e natura centrale nel Capitale (44); per finire con i suggestivi passi engelsiani della Dialettica della natura in cui si discute il posto dell’uomo nella natura alla luce del darwinismo, del successo del Prometeo borghese, ma anche di una netta coscienza di alcuni suoi aspetti negativi per l’ambiente naturale (45): c’è in tutti questi momenti un filo ininterrotto, via via precisato, un approccio originario, che non ha perso di attualità alla luce delle problematiche ecologiche dell’ultimo secolo.
Per Marx ed Engels l’umanità è dunque parte integrante della natura che l’ha generata e della cui vita complessiva partecipa. Ma l’homo sapiens è anche specie molto particolare. Tramite il lavoro – attività consapevole e finalistica – questa specie agisce sulla natura, modifica l’ambiente in cui vive, trasforma le condizioni originarie di questo rapporto e di questa dipendenza. Così ha inizio la storia, una evoluzione molto particolare che oltrepassa la dimensione del mero “naturale” e crea la nuova dimensione tipicamente umana del “sociale” (del “culturale”, se si vuole), irriducibile al mero dato biologico. Di questa unità dialettica del naturale e del sociale occorre tener conto quando si esamina la relazione uomo-natura. Infatti, il rapporto in cui l’umanità si trova con la natura, con il suo ambiente, non è dato una volta per tutte, ma cambia di epoca in epoca, è storicamente determinato; cambia soprattutto da una forma di società ad un altra, è socialmente condizionato.
L’uomo che lavora, l’homo faber, è anche un uomo che costruisce strumenti; a toolmaking animal, dice con Benjamin Franklin il Capitale; un animale che espande i suoi organi esosomatici, diremmo oggi con la terminologia di Alfred Lotka. Questa caratteristica gli ha conferito col tempo un potere enorme di intervenire e di modificare l’ambiente, la natura che lo ospita (46). Così la specie umana arriva a compromettere l’ambiente in cui vive; e Marx e Engels più volte segnalano le testimonianze di questa realtà incontrate nelle loro letture (47). Ciò accade perché manca la conoscenza degli effetti ultimi delle azioni umane sulla natura; ma anche e soprattutto per il prevalere di comportamenti, socialmente condizionati, di miope sfruttamento ispirati dalla molla del tornaconto individuale e immediato (48).

2. Ecologia politica dello sviluppo capitalistico. Negli scritti di Marx ed Engels, in effetti, troviamo decine di pagine in cui si fa cenno o si esaminano estesamente le conseguenze dannose per l’ambiente delle attività condotte dall’uomo, in modo particolare nell’ambito dello sviluppo capitalistico. Si tratta in effetti delle prime pagine di “ecologia politica” dello sviluppo capitalistico in cui la denuncia si salda con l’analisi dei concreti meccanismi sociali e produttivi del degrado.
Un tema che ritorna molte volte, ad es., è quello degli effetti negativi dell’urbanizzazione collegata all’espansione industriale; viene osservato che questi processi, per i modi e la scala in cui avvengono, provocano l’avvelenamento dei fiumi e dell’aria, compromettono la salute e la vivibilità urbana, sconvolgono il necessario ricambio organico fra l’umanità e la natura, depauperano la fertilità dei suoli e degradano le condizioni di vita dei lavoratori (49).
Altro tema ricorrente è quello delle conseguenze distruttive dell’agricoltura chimica su vasta scala, che “mina le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”, scrive Marx nel Capitale (Marx, 1867, I, pp. 551-3). La dipendenza dal mercato, più in generale, viene individuata come incompatibile con una gestione razionale dell’agricoltura e delle risorse forestali, perché la logica del profitto a breve termine non può che scontrarsi con quella della riproducibilità in tempi lunghi delle risorse naturali (50).
Questi “spunti ecologici” non sono osservazioni occasionali ed estemporanee, hanno radici nel corpus centrale del pensiero marxiano, in quella critica dell’economia politica il cui modello interpretativo del capitalismo conserva una straordinaria capacità esplicativa anche sul tema economia-ambiente, sul quale invece ha mostrato la corda l’approccio economico tradizionale.
Ricordiamo qui per titoli alcuni degli strumenti concettuali della critica dell’economia politica che si rivelano oggi particolarmente utili:
a) In primo luogo la definizione coerente – nel concetto di modo di produzione (di modo di produzione capitalistico) – delle coordinate teoriche fondamentali entro le quali vanno considerate le modalità concrete del metabolismo fra l’uomo e la natura; modalità che sono storiche e sociali (e non naturali ed eterne), ma che nel contempo sono caratterizzate da una interna necessità sistemica (per quanto dialetticamente contraddittoria e dinamica) che non si lascia scalfire dalla mera intenzionalità etica degli agenti sociali che operano all’interno delle “regole del gioco” date. E’ vano dunque pensare di modificare la logica di sviluppo del sistema se non si giunge a metterne in discussione gli elementi strutturali che ne garantiscono la riproduzione. In particolare, la nozione di modo di produzione collega fra loro in unità dialettica gli elementi “astratti” della riproduzione materiale (le condizioni soggettive ed oggettive della produzione, le forze produttive) e della riproduzione sociale (i rapporti di produzione). Ciò consente di condurre una analisi concreta dell’interazione dialettica delle determinanti sociali e delle determinanti naturali sia della riproduzione materiale sia di quella sociale dell’organismo sociale storicamente dato.
b) Il carattere feticistico delle categorie economiche mercantili e monetarie, che velano la natura sociale della produzione, del lavoro e della ricchezza, il suo aspetto concreto (il valore di scambio prevale sul valore d’uso); fenomeno che oggi si accentua per la divaricazione crescente tra contabilità finanziaria e monetaria della ricchezza e sua consistenza reale in termini di risorse distrutte e di ambiente degradato.
c) L’inversione tra i fini e i mezzi nel processo economico capitalistico: innanzitutto il carattere alienato del lavoro, che da attività per la propria realizzazione vitale è invece ridotto ad attività al servizio di un meccanismo economico cieco e impersonale che domina ed espropria il lavoratore; ma l’alienazione e l’inversione mezzi-fini coinvolge anche altri ambiti dell’economia capitalistica: i valori d’uso (fra i quali la natura nei suoi molteplici aspetti) diventano nel tutto indifferenti nella misura in cui non sono anche valori di scambio che entrano nel ciclo di valorizzazione del capitale; i bisogni reali non sono più il fine della produzione: la creazione di bisogni artificiali diventa il mezzo per realizzare il plusvalore e perpetuare il ciclo della valorizzazione.
d) Il fine della valorizzazione sconvolge la natura del processo economico, lo trasforma in produzione per la produzione, con ciò dando avvio alla crescita incontrollata, incontrollabile e illimitata dei processi di trasformazione materiale (51), i quali non riconoscono più davanti a sé limiti quantitativi o qualitativi (52), se non nella misura in cui incontrano una coercizione sociale o una barriera economica (aumento dei costi).

3. Eco-comunismo. Anche il tema della responsabilità verso la natura e verso le generazioni future, venuto alla ribalta nella riflessione ecologica e filosofica degli ultimi anni (53), è già presente nella riflessione di Marx e di Engels. In alcuni passi dei loro scritti troviamo espressa una chiara consapevolezza, affine a quella che guida la proposta recente che va sotto il nome di “sviluppo sostenibile”, che le attività umane debbono essere condotte in modo da preservare gli equilibri naturali (in particolare la fertilità della terra) da cui dipendono le possibilità di vita delle generazioni a venire (54). Più nello specifico, è un motivo insistente l’esigenza di una ricomposizione della contraddizione fra città e campagna, al quale si affianca il tema della necessità di un’agricoltura condotta razionalmente in modo da garantire la perpetuazione della fertilità del suolo, in luogo dell’agricoltura di spoliazione sviluppatasi con i rapporti di produzione capitalistici, l’industria, l’urbanizzazione e il commercio internazionale (55). Sono tutti elementi embrionali che segnalano l’attenzione per la qualità dello sviluppo e per i suoi riflessi sull’ambiente, che si ricollegano al tema filosofico, già avanzato nei Manoscritti economico-filosofici, della “riconciliazione” fra uomo e natura, ma anche ad una sensibilità umana ed estetica attenta ai valori non meramente utilitaristici della natura, sensibilità testimoniata nella corrispondenza e dai contemporanei (56).

C’erano dunque nel marxismo originario le premesse per un dialogo fecondo con le scienze della natura e con l’ecologia, c’era la potenzialità di un’evoluzione, per mezzo di questo dialogo, verso un punto di vista più adeguato – “ecologico” – tanto per ciò che riguarda gli strumenti teorici con cui considerare la storia e il legame con la natura della società umana, quanto per ciò che riguarda le preoccupazioni pratiche che formano l’oggetto della strategia rivoluzionaria e che definiscono i compiti all’ordine del giorno prima e dopo la rivoluzione socialista.
Ma c’erano anche dei limiti, non di second’ordine (anche se non decisivi di per se stessi), che hanno contributo a inibire e a disperdere le potenzialità di cui abbiamo appena parlato.
E’ su questi limiti che dobbiamo adesso soffermarci.

Forze produttive, un concetto ambivalente

La visione ecologica delle condizioni dell’esistenza umana poteva essere facilmente collegata al marxismo attraverso una definizione adeguata [del concetto] di forze produttive. Ciò è quanto Marx non fece. (Martinez-Alier, 1991, p. 26).

Martinez-Alier non ha torto. Ci si può chiedere, però se Marx era nelle condizioni, negli ultimi travagliatissimi anni, di assumersi questo compito. Ne dubitiamo. Dubitiamo in realtà che lo stesso Engels, che pure ebbe oltre un decennio a disposizione, fosse allora nelle condizioni soggettive e oggettive di portare a termine quest’opera di riformulazione delle fondamenta fisico-ecologiche della teoria marxiana (57). In realtà, è ai marxisti successivi che andrebbe chiesto di render conto di non aver saputo o voluto farsi carico di questa riformulazione, di aver preferito la ripetizione scolastica delle formule testuali allo studio concreto, empirico e teorico, della configurazione effettiva delle forze produttive.

Ma dove era il limite, dove stava l’ostacolo teorico difficile da rimuovere?
Il tema delle forze produttive, in realtà, è da tempo una vexata quaestio tra i marxisti, e credo che oggi esso presenti almeno due diversi aspetti problematici, l’uno e l’altro rilevanti per la nostra discussione: 1. quale sia il contenuto concreto di questa categoria e quindi quale significato vada attribuito al concetto di “sviluppo delle forze produttive”; 2. come si debba intendere il nesso tra forze produttive e rapporti sociali di produzione, e quindi quale sia il significato della nota formula marxiana che “la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione”è il motore della dialettica storica.
Andiamo per ordine.

1. Forze produttive, energia, entropia. Chi scrive si è fatto l’opinione che la categoria di “forze produttive” sia una delle più citate ma anche delle più travisate del marxismo, ma non solo per colpa degli interpreti. Se si compie una ricerca nei testi si scoprirà che non c’è un luogo in cui si dia una definizione generale soddisfacente del concetto: in genere si trova un uso di questa categoria in termini generali, cui fa riscontro un contenuto generico e non ben definito; oppure, all’opposto indicazioni molto precise ma non generali né facilmente generalizzabili (si definisce questa o quella forza produttiva). Se si riuniscono insieme queste indicazioni diverse, comincia allora a delinearsi un concetto piuttosto articolato che non corrisponde a molte semplificazioni correnti (58); e forse si comincia ad intravvedere in che direzione occorre riformularlo per integrarvi le successive acquisizioni della termodinamica e dell’ecologia.
Ma, restando ancora al suo significato di un secolo fa, un primo orientamento ci viene dall’analogia (non casuale), tra Produktivkräfte (forze produttive) e Kraft(forza, energia). In prima approssimazione, sono forze produttive tutti quegli elementi che svolgono un ruolo attivo nel processo produttivo e che contribuiscono ad accrescerlo, tutti quegli elementi che mettono in movimento la produzione e moltiplicano l’efficacia del lavoro umano (che è la “prima” forza produttiva); detto altrimenti: le forze produttive sono gli “agenti” viventi e non viventi dei processi di produzione.
In questo plurale rientra a pieno titolo la natura (59), in particolare nel suo aspetto energetico (benché Marx non approfondisca abbastanza il carattere specifico di quest’ultimo). Un passo particolarmente significativo:

Nella storia dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla, appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante opere della mano umana. (Marx, 1867, I, p. 561)

Marx parla a volte delle forze naturali come degli “agenti inanimati” della produzione. Questa terminologia traduce quello che oggi chiameremmo gli input energetici dei processi produttivi. Si tratta indubbiamente di una nozione inadeguata, primitiva, soprattutto pre-entropica. Non include l’idea della degradazione entropica, cioè la nozione che ogni risultato ottenuto ha per contropartita una perdita nell’ambiente circostante, e una perdita irrevocabile (60). Al contrario, in Marx, il concetto di sviluppo delle forze produttive (materiali) evoca l’idea di un processo cumulativo e incrementale, in cui l’elemento successivo si aggiunge a quelli precedenti nello stesso tempo in cui questi realizzano e conservano il proprio potenziale. In qualche modo, benché si tratti di cose diverse, tra il concetto di accumulazione del capitale e quello di sviluppo delle forze produttive c’è una sorta di omologia logica, un medesimo modello concettuale.
Molti hanno sostenuto la tesi che il marxismo ignora l’esistenza di limiti ecologici allo sviluppo. Alla lettera questa affermazione non è vera (61), ma non c’è dubbio che esso abbia ignorato il “problema” dei limiti (come il 99% del pensiero ottocentesco, direi). Ciò significa, non tanto che il progresso delle forze produttive e della società umana può essere illimitato, quanto che, per Marx ed Engels nel secolo scorso, l’esistenza dei limiti si poneva in un orizzonte remoto e nell’immediato prevaleva la capacità autoespansiva del progresso scientifico e tecnologico che andava costantemente “abolendo” i precedenti limiti imposti dalla natura alle possibilità umane. Era questa, d’altra parte, la prospettiva con cui due intellettuali tedeschi (cioè di un paese che appariva allora arretrato rispetto all’Inghilterra “avanzata”) guardavano alla rivoluzione industriale promossa dai nuovi rapporti di produzione, e alla dinamica complessiva (tecnica, sociale, politica, scientifica) che essa portava con sé.
In effetti, l’idea di forze produttive propria del Capitale non recepisce facilmente la nozione di un limite assoluto allo sviluppo; limite che non sta soltanto nell’orizzonte lontano della finitezza del globo terrestre ma, in modo molto pregnante, in modo molto più vincolante, è intrinseco ad ogni processo vitale e ad ogni processo economico, in quanto l’uno e l’altro operano “in perdita”, degradano energia e incrementano il disordine: tanto la vita che i processi economici si sostentano in quanto, e fino a quando, possono contare su un flusso di energia costantemente rinnovato; i limiti di questo flusso sono anche il limite assoluto di questi processi.
In realtà il limite reale è molto più ristretto, perché non conta soltanto l’ammontare dell’energia potenzialmente disponibile, ma soprattutto l’efficienza con cui viene assorbita e metabolizzata; la vegetazione, ad es., non sfrutta per la fotosintesi che una frazione di un punto percentuale o poco più dell’energia solare; l’efficienza con cui un consumatore (che può essere l’uomo) assimila l’energia alimentare così accumulata, non supera il 10%; il nostro sistema industriale, poi, spreca sotto forma termica senza utilità più del 50% dell’energia che consuma, e il 50% dell’energia utilizzata è impiegata in modo inefficiente sotto forma di calore a meno di 200°, così che non più del 10-20% della spesa energetica è davvero giustificata dai fini per cui è compiuta (Grinevald, 1990, p. 26).
Non solo: non basta ipotizzare un incremento a piacere del flusso energetico per rendere possibile la crescita illimitata (62), perché gli equilibri ecologici terrestri e i cicli globali della Biosfera sono “dimensionati” su una determinata (da una lunga evoluzione) “portata” dei flussi energetici e non su una qualsiasi, e non possono tollerare incrementi di origine antropica oltre una certa soglia. Le conseguenze, quando non teniamo conto di ciò, oggi cominciamo a misurarle come deterioramento della stabilità degli ecosistemi e della Biosfera (63).

Ecco dunque perché, pur giustificato e condivisibile entro un determinato quadro storico ed entro precisi limiti di validità, il paradigma marxiano dello sviluppo delle forze produttive rivela una valenza antiecologica e diventa un ostacolo per la presa di coscienza dei limiti entro cui opera e può operare l’umanità. Interpretato come onnipotenza prometeica dell’homo technologicus che persegue un disegno di dominio sulla natura, non può che finire per giustificare le peggiori scelte del capitale (ad es. la scelta nucleare), o risolversi nei rovinosi risultati dell’industrializzazione staliniana, che non a caso fu accompagnata da propositi deliranti di “trasformazione della natura” così da farne una “nuova” base per la società socialista.

E tuttavia, questa interpretazione non è affatto necessaria. Il senso complessivo della posizione marx-engelsiana va in un’altra direzione, come lasciano intendere esplicitamente alcuni passi particolarmente penetranti e suggestivi di Engels che criticano la nozione imperialistica di “dominio sulla natura” e ne propongono invece una versione prudente, direi “cooperativa” (64).
In effetti, e qui riprendiamo quello che abbiamo accennato all’inizio di questo punto dedicato a discutere il concetto di forze produttive, la traccia che emerge riunendo tutte le indicazioni sparse nei testi marxiani non è riducibile né all’equivalenza “forze produttive = industria-e-tecnologia”, né all’identificazione “forze produttive = energia”, né alla somma di entrambe; l’aspetto che tende ad assumere maggior rilievo è un altro (non esclusivo): la principale forza produttiva è, per dirla con un termine d’oggi, “cultura”, nel senso di “sapere” e “saper fare” degli individui, ma soprattutto di “cooperazione” e di “sapere cooperativo” a livello del corpo sociale (65).
Un’indicazione molto attuale, mi pare. Intanto perché sottolinea un aspetto delle forze produttive che ha una relativa autonomia dalle forze produttive materiali (che sono solo una componente dell’insieme) e che quindi è suscettibile di un sviluppo slegato dalla crescita dei flussi fisici. In secondo luogo, perché l’informazione (connessa con i saperi e con la cooperazione sociale) è propriamente l’aspetto neghentropico (capace cioè di contrastare le tendenze entropiche, di costruire ordine e di far diminuire il disordine) che opera nelle strutture viventi e in quelle sociali, quello cioè che consente di ottimizzare l’utilizzo delle risorse date per il soddisfacimento dei bisogni.

2. Forze produttive/rapporti di produzione. Fino a questo momento abbiamo parlato del concetto di forze produttive dal punto di vista della “produzione in generale” (66), cioè del loro significato per il metabolismo fra l’umanità e la natura, indipendentemente dalla forma sociale determinata in cui esso si svolge. Un punto di vista legittimo, a patto di sapere che è anche un punto di vista “astratto”, che non parla cioè di alcuna realtà concreta ma di un aspetto unilaterale che può caratterizzare diverse o tutte le forme sociali, ma che non sussiste di per sé. In altre parole: non si possono incontrare forze produttive “astratte” dal loro contesto sociale; si danno soltanto forze produttive embedded (per usare l’espressione pregnante introdotta da Karl Polanyi), cioè “incorporate”, “incluse”, in rapporti sociali determinati, con i quali fanno un tutt’uno e “agiscono insieme” (67).
Con quest’avvertenza, il punto di vista precedente può esser visto anche in un secondo modo: come un procedimento per esplorare un insieme di potenzialità di sviluppo (umane e tecnologiche), ben sapendo che l’unico sviluppo concreto è quello che si realizza sempre dentro un contesto sociale determinato.
Questo approccio dialettico è quello stesso che sottostà all’approccio marx-engelsiano che nella Ideologia tedesca, per fare un esempio, arriva alla conclusione:

Sotto il regime della proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione. (Marx-Engels, 1846, p. 51)

Quella della conversione di forze potenzialmente produttive in forze effettivamente distruttive mi sembra una formula, soprattutto riguardo alle questioni ambientali, più appropriata e significativa dello schema ben noto della “contraddizione” tra forze produttive (dinamiche) e rapporti di produzione (che le incatenano).
D’altro canto, consente di dare fondamento ad un approccio critico e non apologetico allo sviluppo economico, tecnologico, scientifico (68), e perciò di elaborare un concetto “differenziato” (69) di progresso: non c’è alcun progresso automatico, lineare, garantito nella storia umana (70), non c’è nessuna assicurazione riguardo al futuro, né da parte dello sviluppo tecnico-scientifico, né da parte di un soggetto storico o extrastorico provvidenziale. C’è solo lo spazio, per gli uomini, per tentare di agire consapevolmente (almeno in una certa misura) e per determinare in questo modo alcuni esiti invece di altri; e quindi per cercare di far prevalere assetti più favorevoli al libero sviluppo collettivo e individuale (di individui sociali, non di atomi ostili l’uno all’altro secondo il modello dell’individualismo proprietario borghese) e di smantellare quelli che ne sono di ostacolo.

L’eredità di Podolinskij

Il saggio di Podolinskij, così anticipatore, comparve inizialmente nel 1880, nello stesso anno della corrispondenza con Marx. Già l’anno successivo il suo autore si ammalava gravemente. Due anni più tardi, pochi mesi dopo aver ripreso in mano la materia, Marx moriva (14 marzo 1883). Engels sarebbe vissuto ancora dodici anni (si spense il 5 agosto 1895), ma non sarebbe più tornato sull’argomento. Nessuno di loro, dunque, ebbe la possibilità, o la capacità, di andare a fondo al nodo di problemi che era stato posto. Il quale, per lungo tempo, non fu più ripreso né tanto meno approfondito dagli studiosi marxisti in Occidente o dagli studiosi sovietici (71).
Sembrerebbe, dunque, che il seme gettato da Podolinskij non abbia dato frutti, che la sua eredità sia andata dispersa. In realtà altri, dopo di lui e in altri contesti, affrontarono temi simili, in genere condividendo la sua stessa sorte di indifferenza presso gli ambienti economici ufficiali (72), fino a quando il vecchio punto di vista – riscoperto in modo indipendente – tornò a galla nel nuovo clima degli anni Settanta, anni di crisi energetica ed ecologica.
Dei tre aspetti di novità individuabili nell’approccio di Podolinskij che abbiamo indicato all’inizio, ce n’è uno, però, che pare aver avuto in seguito una sorte migliori degli altri, e vale la pena, in conclusione, di parlarne. Si tratta di ciò che, con linguaggio odierno, potremmo chiamare l’energetica ecologica. Abbiamo già detto che esso anticipava sviluppi futuri del pensiero ecologico che sarebbero intervenuti tra gli anni Venti e gli anni Quaranta di questo secolo. In effetti, abbiamo più di un indizio che il lavoro di Podolinskij non sia stato del tutto estraneo a questi sviluppi, ancorché per una strada indiretta.
L’idea di un duplice processo termodinamico, di accumulazione di energia solare, e di dissipazione, come elemento centrale della definizione della struttura di una comunità ecologica, si fa strada tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del nostro secolo, principalmente per opera dell’ecologo-matematico americano Alfred Lotka (1880-1949) (73) e del geochimico russo Vladimir Ivanovic Vernadskij (1863-1945) (74) in una prima fase, e del giovanissimo studioso americano Raymond Laurel Lindeman (1916-42) in un secondo momento. All’articolo di Lindeman pubblicato nel 1942 dalla rivista “Ecology”, poco dopo la prematura scomparsa del suo autore (75), si fa tradizionalmente risalire la formulazione compiuta di questo approccio che sta alla base della teoria dell’ecosistema.
Proprio in quest’ambito c’è forse un filo che unisce la “traccia” lasciata da Podolinskij alla “via maestra” del moderno paradigma ecologico. E una storia che si dipana tra l’Urss e gli Stati Uniti nel periodo tra le guerre mondiali.
Vladimir Vernadskij, l’autore del moderno concetto di Biosfera, nel suo libro in francese pubblicato nel 1924, La Géochimie, in cui per la prima volta espone l’analisi del ruolo della materia vivente nei cicli che animano la superficie terrestre e che costituiscono un insieme di interrelazioni strettissime, fa esplicitamente il nome di Sergej Podolinskij tra i precursori delle sue idee (76). Vernadskij, la cui figura e il cui lavoro pionieristico nei confronti dell’attuale ecologia globale si sta scoprendo solo in quest’ultimo decennio in Occidente, è a sua volta la fonte da cui trae ispirazione il più brillante teorico della scuola russa di ecologia tra le due guerre, l’ucraino Vladimir Vladimirovic Stanchinskij (1882-1942) (77). Anche la sua figura, il suo nome, per non dire del suo lavoro, sono quasi del tutto sconosciuti in Occidente, benché egli possa vantare il merito di aver formulato con un decennio di anticipo le linee fondamentali della teoria dell’ecosistema.
Stanchinskij presenta il suo punto di vista in alcuni saggi pubblicati in Urss tra il 1929 e il 1931; esso “rappresenta, almeno inizialmente, un tentativo di ridurre i fenomeni biologici a un denominatore comune di natura fisica: l’energia” (Weiner, 1988, p. 80). Il suo punto di partenza è la premessa che “la quantità della materia vivente nella biosfera è direttamente dipendente dall’ammontare di energia solare convertita dalle piante autotrofe”; gli autotrofi sono “la base economica del mondo vivente”; la biosfera consiste di sottosistemi – le biocenosi – ciascuna delle quali è costituita di una sua specifica “base economica” e di una altrettanto specifica “sovrastruttura” costituita dagli organismi che prelevano la loro sussistenza dai produttori primari alla base della scala trofica. L’“equilibrio dinamico” che si può constatare in ogni biocenosi ha la sua chiave di spiegazione nell’esistenza “tra le componenti autotrofe ed eterotrofe della biocenosi, tra gli erbivori e i carnivori, tra ospiti e parassiti ecc., … di relazioni definite, proporzionali” le quali, osserva Stanchinskij, non sono state “fino ad oggi studiate da nessuno” (V.V.Stanchinskij,O nekotorykh osnovnykh poniatiiakh zoologii v svete sovremennoi ekologii, 1929; citato da Weiner, 1988, p. 81). Successivamente, in un articolo del 1931, Stanchinskij presenta un vero e proprio modello matematico descrivente il bilancio energetico annuo di una biocenosi teorica: “era la prima volta che una tale formulazione veniva tentata” (Weiner, 1988, p. 81).
Ma il lavoro promettente di Stanchinskij viene stroncato nel 1933 dall’affermarsi dello stalinismo anche nel mondo scientifico. Era iniziato il periodo buio nel quale si sarebbe preteso di uniformare la ricerca scientifica a un modello ideologico prestabilito e sanzionato per decreto del Cremlino. Vittima della persecuzione oscurantista promossa contro di lui e contro il suo approccio da Isai Prezent e da Trofim Lysenko (che dopo la liquidazione dell’ecologia sarebbero passati ad attaccare Nikolaj Vavilov e la genetica mendeliana), Stanchinskij viene rimosso dai suoi incarichi e incarcerato, e le sue idee vengono messe al bando per una ventina d’anni dalle università dell’Unione Sovietica (78).
Malgrado questo destino oscuro del suo ispiratore, Douglas Weiner (lo studioso americano al quale si deve il primo studio complessivo sull’ecologia sovietica negli anni Venti) segnala l’esistenza di un contatto, di un rapporto tra studiosi russi della scuola di Stanchinskij e studiosi americani dell’università di Yale, dove operava George Evelyn Hutchinson uno studioso che avrebbe svolto una funzione di primo piano nel promuovere gli studi ecologici e il nuovo paradigma ecosistemico nei decenni successivi.
Il lavoro di Victor Ivlev, un idrobiologo russo influenzato dalle idee di Stanchinskij, che esamina i consumi e l’efficienza energetica dei vermi oligoceti del litorale del Mar Caspio, viene utilizzato da Raymond Lindeman (sotto la supervisione di George Evelyn Hutchinson) nel suo sviluppo indipendente della teoria dell’ecosistema all’inizio degli anni Quaranta negli Stati Uniti (Weiner, 1988, p. 222) (79).
Confessiamo che non ci dispiace l’idea che quel saggio dimenticato del 1880, che un giovane esule si affannava a sottoporre all’attenzione delle più prestigiose menti della sua epoca ricevendone scarsa considerazione, possa esser stato, per una strada lunga e tortuosa, all’origine di alcune delle idee scientifiche più importanti della nostra epoca. (Fine)

Note

(1) Il presente lavoro, per quanto frutto anche di ricerche personali, è fortemente debitore nei confronti di Juan Martinez-Alier, il cui libro Economia ecologica, pubblicato nel maggio 1991 in italiano, ha portato l’autore di queste note e, credo, la stragrande maggioranza dei lettori, a conoscenza dell’esistenza di un “caso” Podolinskij. Alcune idee di questo scritto, in una forma meno elaborata e più divulgativa, sono già state esposte in un articolo sul “Calendario del popolo” (Bagarolo, 1991-b).

(2) Originario di una famiglia benestante (il padre era un importante funzionario dell’amministrazione postale russa), Sergej Podolinskij [Сергі́й Подоли́нський in ucraino,Сергей Андреевич Подолинский in russo, Serghij Podolynskyi in tedesco, Sergei Podolinsky nei testi in francese e in inglese] (1850-1891) entrò nell’orbita del movimento populista ucraino negli anni in cui frequentava a Kiev gli studi superiori di scienze naturali. Durante un viaggio in Europa occidentale con Ziber (1844-88), uno tra i primi economisti ad aderire alle idee marxiste, ebbe modo di incontrare Marx ed Engels a Londra, nell’estate 1972, presentato la Pëtr Lavrov (1823-1900). Nel settembre dello stesso anno assistette da osservatore al congresso dell’Aia della I Internazionale, simpatizzando per gli anarchici. Successivamente collaborò alla rivista degli esuli russi raccolti attorno a Lavrov, “Vpered”. Contemporaneamente frequentava a Zurigo medicina con l’importante fisiologo Ludimar Hermann (1838-1914). Dopo un breve rientro in patria nel corso del quale ebbe modo di partecipare alla’“andata al popolo” dei narodniki, nel 1876 prese la laurea in medicina a Breslavia, con Rudolf Peter Heinrich Heidenhain (1834-97), studioso di istologia, già collaboratore di Emil Du-Bois Reymond (1818-96) e in rapporti con Hermann a Zurigo. Due anni dopo – nel frattempo si era sposato a Kiev con la figlia di un proprietario terriero – dovette rifugiarsi nuovamente all’estero per sfuggire al giro di vite repressivo del governo zarista. Da Montpellier, in Francia, dove si era stabilito, continuò a partecipare attivamente alla vita del movimento ucraino, in contatto con Michail Dragomanov (1841-95), col quale fece uscire a Ginevra la rivista “Hromada” (Comune). Nello stesso tempo era attivo nei circoli socialisti europei: redattore della rivista francese di Benoît Malon (1841-93) “Revue Socialiste”, scrisse anche per la stampa di altri paesi. Fu anche in rapporto con Andrea Costa e la rivista milanese di Enrico Bignami “La Plebe”. Nel periodo 1878-1881 pubblicò vari lavori su temi diversi (uno sull’industria e un altro sull’agricoltura e la proprietà fondiaria in Ucraina, uno studio sulle condizioni sanitarie delle popolazioni ucraine, un articolo contro il darwinismo sociale). Del 1880 è il saggio su energia e produzione di cui ci stiamo occupando. Purtroppo, nel 1881 fu colpito da una malattia psichica che gli impedì quasi subito ogni capacità di lavoro e lo condusse, dieci anni dopo, alla morte. Per questi dati biografici, si veda Juan Martinez-Alier, 1991, soprattutto il paragrafo “Un narodnik” (pp. 86-98) scritto in collaborazione con Klaus Schlupmann; e Mauro Borromeo, 1991, pp. 131-7. Maggiori cenni biografici in questa nota.
(3) Podolinskij presentò le sue idee in versioni diverse ma simili in russo (Trud cheloveka i ego otnoshenie kraspredeleniiu energii, in “Slovo”, n. 4/5, 1880, San Pietroburgo); in francese (Le socialisme et l’unité des forces physiques, in “Revue Socialiste”, n. 8, 1880, Parigi); in italiano (Il socialismo e l’unità delle forze fisiche, in “La Plebe” nuova serie, nn. 3 e 4, 1881, Milano; ripubblicato recentemente da Mauro Borromeo in “Quaderni di storia ecologica”, n. 1, dicembre 1991, Milano); e in tedesco (Der Sozialismus und die Einhe der physichen Kräft, in “Arbeiter-wochen-chronik”, nn. 32-33 e 37, 1881, Budapest; eMenschliche Arbeit und Einheit der Kraft, in “Die Neue Zeit”, I, 1883, Stoccarda, pp. 413-24 e 449-457). Abbiamo potuto consultare per il nostro articolo le versioni pubblicate sulla “Plebe”, sulla “Revue Socialiste” e sulla “Neue Zeit” (abbiamo anche preparato, con l’aiuto di Fernando Visentin, la traduzione in italiano della versione tedesca comparsa sulla “Neue Zeit”, che speriamo di poter presto pubblicare insieme con una versione ampliata di questo nostro saggio). Dal confronto sinottico tra le tre versioni, si ricava una sostanziale unità tra di esse, pur con qualche differenza. La versione francese è la più stringata delle tre; quella italiana ne è una traduzione con qualche aggiunta; quella tedesca, invece, da un lato appare censurata (spariscono i riferimenti a Marx e al socialismo: va ricordato che dal 1878 erano in vigore in Germania le leggi antisocialiste), dall’altro appare significativamente accresciuta nella mole (circa il doppio di quella francese) e negli argomenti. In particolare vengono diffusamente trattati i temi (assenti nelle altre due versioni) delle fonti energetiche terrestri, del “ciclo della vita”, della determinazione sperimentale dell’efficienza lavorativa dell’organismo umano, della definizione del lavoro utile con riferimento all’opinione degli economisti (vengono citati A. Smith, F. Quesnay, J-B. Say, S. de Sismondi e J. Steuart). Purtroppo non abbiamo potuto estendere il controllo al testo russo (forse la versione originaria da cui P. ha ricavato le altre) la quale secondo quanto mi ha comunicato Martinez-Alier (colloquio personale a Milano, 3 dicembre 1991), è di gran lunga la più ampia di tutte (una settantina di pagine).

(4) Eduard Bernstein, ad es., ne aveva lodato in una lettera a Lavrov l’articolo contro il darwinismo sociale (Martinez-Alier, 1991, p. 94). In Italia. in uno scritto del 1886 dedicato alla formazione di un gruppo di giovani militanti, Filippo Turati fa il nome di Podolinskij accanto a quelli di Marx, Engels, Cernysevskij, Bakunin, Kropotkin, Malon, Guesde, Lassalle, Kautsky e alcuni altri, come maestri su cui si sono formati “i socialisti nostri” (italiani); si veda Turati, 1886; ora in Cortesi, 1 962, p. 310.

(5) L’espressione, riferita proprio alle idee di Podolinskij (e di Patrick Geddes), è impiegata da Jean-Paul Deléage; si veda Deléage, 1991-b, p. 70.

(6) Lo scambio epistolare con Podolinskij era sfuggito, fino a pochi anni fa, ai biografi e agli studiosi di Marx, forse perché di questa corrispondenza non sono state trovate tracce nelle carte dell’autore del Capitale. La vicenda di questo contatto è stata brevemente ricostruita da Juan Martinez-Alier e Klaus Schlupmann (in Martinez-Alier, 1991, pp. 95-6), ai quali si deve anche la pubblicazione delle due lettere di Podolinskij a Marx. Le lettere che si trovano attualmente presso l’Istituto di storia sociale di Amsterdam – sono in tedesco. La prima porta la data del 30 marzo 1880: “Illustrissimo Signore [Hochgeeherter Herr]” scrive Podolinskij a Marx. “E’ per me motivo di particolare piacere essere in grado di inviarvi un breve scritto, cui diede il primo stimolo la vostra opera “Da Kapital””. Dopo aver ricordato il precedente incontro a Londra nell’estate del 1872. Podolinskij annuncia la pubblicazione dell’articolo nella “Revue Socialiste” e l’intenzione di scrivere un lavoro più ampio, in francese o in tedesco (è questo, forse, un preannuncio del saggio che comparirà tre anni più tardi nella “Neue Zeit”). La seconda lettera porta la data dell’8 aprile 1880 e fa riferimento ad una risposta di Marx che non ci è nota, in cui venivano espresse delle preoccupazioni per la salute dell’interlocutore (ciò potrebbe significare che Marx conosceva, almeno indirettamente, l’intellettuale ucraino in esilio a Montpellier e, inoltre, che i problemi di salute di quest’ultimo si erano già manifestati). Podolinskij rassicurava Marx a questo proposito, e concludeva con la frase che abbiamo citato sopra: “Con particolare impazienza sono in attesa del vostro parere sul mio tentativo di armonizzare il pluslavoro [Mehrarbeit] con le attuali teorie fisiche”. Ci corre l’obbligo di ringraziare qui Andrea Panaccione, della redazione di “Giano”, che ci ha procurato queste lettere, e l’Istituto di storia sociale di Amsterdam che ha gentilmente consentito di prenderne visione. Contiamo di pubblicarle prossimamente assieme alla traduzione del saggio della “Neue Zeit”.

(7) Di origine rumena (è nato nel 1906 a Costanza), Nicholas Georgescu-Roegen ha studiato negli anni Trenta statistica alla Sorbona ed economia con Schumpeter negli Stati Uniti. Dal 1946 definitivamente in America, divenne ordinario di economia alla Vanderbilt University (Georgia) dove lavora attualmente come Professore Emerito. Autore di una acuta critica epistemologica della teoria del consumatore negli anni Trenta, nel dopoguerra si è occupato dei fondamenti e dei metodi della teoria economica. Dalla metà degli anni Sessanta ha sviluppato, in questo ambito, una critica radicale dell’approccio economico tradizionale (“economia standard” secondo la sua definizione) in quanto incapace di integrare il principio di entropia e quindi di rappresentarsi correttamente i fenomeni fisico-biologici dei quali anche i processi economici fanno parte. Ha così sviluppato nei suoi scritti (Georgescu Roegen, 1971, 1973 e 1982) un nuovo approccio che egli chiama “bioeconomico”. L’idea centrale che lo ispira è quella che la produzione è un processo che trasforma materia-energia in condizioni di bassa entropia in materia-energia caratterizzate da alta entropia.

(8) Gli scritti fondamentali di Marx in cui prende forma in modo definitivo quella che egli definisce a la “critica dell’economia politica’’ si collocano tutti (tralasciando qui di considerare opere importanti ancora precedenti come i Manoscritti economico-filosofici, laMiseria della filosofia, ecc.) fra il 1857 (anno della famosa Einleitung, introduzione, che delinea il metodo d’indagine e il programma di ricerca di Marx) e il 1867, anno di pubblicazione del primo libro del Capitale. In questo intervallo di tempo si situa la stesura dei Grundrisse(1857-58), dell’opera che anticipa la prima sezione del primo libro del Capitale, e cioè Per la critica dell’economia politica (pubblicata nel 1859), e di altri voluminosi manoscritti dai quali saranno tratti, dopo la morte di Marx, il secondo (1885) e il terzo libro (1894) del Capitale, pubblicati da Engels; le Teorie sul plusvalore, pubblicate da Kautsky nel 1905-10 a partire da manoscritti del 1862-63; e, recentemente, i Manoscritti del 1861-63 sulla tecnologia e le macchine. Sul rapporto tra studio delle scienze naturali ed elaborazione della critica dell’economia politica, decisive testimonianze si ricavano dalla corrispondenza di Marx ed Engels. Sappiamo da queste fonti che Marx dava grande importanza ai recenti sviluppi scientifici nel campo della chimica agraria (ma non solo) che egli riteneva “più importanti che tutti gli economisti presi insieme” per quel che riguarda la rendita (lettera di Marx ad Engels del 13 febbraio 1866). Altri documenti importanti: lettere di Marx ad Engels del 20 febbraio 1866, del 3 gennaio 1868 e del 25 marzo 1868.

[Oggi sappiamo che il lavoro di Podolinskij suscitò l’interesse di Marx il quale lo lesse e lo commentò. Sappiamo dai suoi estratti che probabilmente Marx ebbe per le mani un abbozzo incompleto del testo che Podolinskij avrebbe pubblicato in quello stesso anno sulla “Revue Socialiste”. Questi commenti saranno pubblicati in un prossimo volume delle MEGA (l’edizione storico-critica delle Opere complete di Marx ed Engels). Una valutazione delle note di Marx a Podolinskij è disponibile nel saggio di John Bellamy Foster e Paul BurkettEcological Economics and Classical Marxism: The “Podolinsky Business” Reconsidered, in “Organization & Environment” marzo 2004. Nota di t.b., luglio 2010].
(9) La corrispondenza di Marx ed Engels, gli appunti del secondo per la Dialettica della Natura e per l’Anti-Dühring, e la cronologia degli estratti (purtroppo ancora inediti) di Marx dalle opere di scienze naturali che andava leggendo (Colmam 1931) ci consentono di avere un’idea del momento in cui essi vennero a conoscenza, o discussero, di alcuni dei risultati scientifici più notevoli della loro epoca, e delle conoscenze che essi avevano in questi campi. Ci consentono anche di farci un’idea della viva attenzione, partecipe ma tutt’altro che acritica, con cui seguirono gli sviluppi delle scienze della natura in un periodo, fra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta del secolo scorso, di risultati rivoluzionari. Purtroppo non tutti i materiali esistenti sono disponibili: mancano le opere scientifiche annotate e sottolineate da Marx ed Engels, i numerosi quaderni di estratti frutto delle loro letture, una parte della loro stessa corrispondenza (ad es. quella di Engels con Schorlemmer) (Lefebvre, 1974, p. 7-8). Manca pure un esauriente lavoro di ricostruzione dei rapporti tra lo sviluppo del pensiero marx-engelsiano e la storia delle scienze naturali e della filosofia della natura. Due pregevoli tentativi di cominciare a colmare questo vuoto vanno qui ricordati: Vidoni, 1982 e 1985.
Con tutto ciò, diamo qui alcuni riferimenti cronologici del momento in cui Marx ed Engels si confrontarono con alcuni dei risultati scientifici più rilevanti per la nostra indagine, cioè gli studi sul metabolismo vegetale e animale, quelli di fisiologia del lavoro, e i principi della termodinamica.
Fisiologia e chimica agraria. Marx si occupa di queste materia fin dagli anni Cinquanta: Sessanta sulle opere del naturalista Jacob Moleschott (1822-93), del fisiologo materialista Ludwig Buchner (1824-99), dei naturalisti Theodor Schwann (1810-82), Jacob Mathias Schleiden (1804-81) e di altri (Lefebvre, 1974, pp. 29-3). In merito alla chimica agraria legge nello stesso periodo Justus von Liebig (1803-73), Christian Friederich Schömbein (1799-1868), Karl Nikolaus Fraas (1810-75) e James Finlay Weir Johnston (1796-1855). Marx torna su questi temi negli anni 1876-77, nel corso della rielaborazione della sezione dedicata alla rendita del terzo libro del Capitale. Nel 1876-78 legge anche alcuni lavori dei fisiologi Adolf Fick (1829-1901) Johannes Ranke (1836-1916) ed Emil Du Bois-Reymond. Nello stesso periodo Engels segue con continuità la rivista “Nature” e discute di questi temi con l’amico Karl Schorlemmer (1834-92), già allievo di Liebig, insegnante di chimica organica in Inghilterra (Colman, 1931, e Lefebvre, 1974).
Termodinamica. Il primo cenno al principio di conservazione dell’energia e dell’equivalenza fra le diverse forme di energia si trova in una lettera di Engels a Marx del 14 luglio 1858, in cui fra l’altro si legge questa osservazione: “Certo è che studiando fisiologia comparata si arriva a uno sdegnoso disprezzo per la concezione idealistica che pone l’uomo al di sopra degli altri animali”. A metà degli anni Sessanta Marx legge alcuni lavori dei fisici William Grove (1811-96) e di John Tyndall (1820-93). II primo riferimento all’entropia compare in una lettera di Engels a Marx del 21 marzo 1869, nella quale si definisce “altamente insulsa” la teoria che prevede la fine dell’universo per raffreddamento e che presuppone, di conseguenza uno stato iniziale caldo opera divina. Il giudizio sembra formulato sulla base di una conoscenza di seconda mano. Solo negli anni Settanta Engels legge direttamente le opere di William Thomson (1824-1907), Peter Tait (1831-1901), Robert Mayer (1814-78), Herman von Helmholtz (1821-94) e Clerk Maxwell (1831-79). Le perplessità sul secondo principio della termodinamica sono ribadite in un appunto del 1875 della Dialettica della natura (Engels, 1873-86, p. 563-4), ma già nella bozza di introduzione per l’Anti-Dühring, del 1875-76, le riserve sembrano superate (“Tutto ciò che nasce è degno di perire” scrive Engels, citando Hegel, con riferimento all’universo) con l’accoglimento dell’ipotesi dell’astronomo italiano Angelo Secchi (1818-78) che ipotizza l’esistenza di forze naturali capaci di restituire l’universo al suo stato iniziale, escludendo così interpretazioni “creazioniste”. Da segnalare infine che in una lettera a Danielson del 15 ottobre 1888 Engels afferma che il diciannovesimo secolo è “il secolo di Darwin, Mayer, Joule e Clausius”, dichiarazione significativa dell’importanza che egli attribuiva alle scienze naturali e ai principi scientifici fondamentali da esse stabiliti.

(10) Perché Marx non prende in considerazione (così sembra) lo scritto di Podolinskij prima del dicembre 1882? Impossibile rispondere sulla base dei dati biografici conosciuti. Non furono anni facili per Marx, travagliati da seri problemi di salute che interrompevano spesso il suo lavoro, dalla grave malattia della moglie e dai lutti familiari (la moglie di Marx, Jenny von Westphalen, muore il 2 dicembre 1881; la figlia maggiore Jenny muore a sua volta l’11gennaio 1883). Tuttavia Marx restò intellettualmente attivo almeno fino all’estate del 1881. Nella primavera-estate del 1880 Marx si occupò del nascente partito operaio francese preparando anche un questionario per gli operai pubblicato in giugno sulla “Revue Socialiste”; nell’inverno 1880-81 stese gli appunti sull’opera dell’etnologo americano Henry Lewis Morgan (1818-81); nel febbraio-marzo 1881 ebbe la corrispondenza con la rivoluzionaria russa Vera Zasulic (1851 1919); ancora nel 1882 scrisse l’introduzione alla seconda edizione russa del Manifesto del partito comunista. Dalla fine di ottobre del 1882 Marx risiedeva a Ventnor, nell’isola di Wight, per cercare di alleviare i malanni polmonari, e si teneva in costante contatto epistolare con Engels a Londra. Per questi dati biografici: MacLellan, 1976.

(11) Dalla corrispondenza sappiamo che Marx ebbe per le mani a Ventnor alcuni numeri della “Plebe” (lettera a Engels del 4 dicembre 1882; si veda anche Bosio, 1972, pp. 226-27), e che in quei mesi frequentava la casa di Engels a Londra un giovane narodnik russo, Lev Nikolajevic Hartmann (1850-1908), appassionato di elettricità, passione commentata con indulgenza da Engels (Marx-Engels, 1953, VI, pp. 398-413).

(12) Che Engels risponda ad una richiesta di Marx si ricava come impressione dalle lettere del primo (in Marx-Engels, 1953, VI, pp. 414-18). Segnaliamo che si collega al “caso” Podolinskij anche la richiesta di Marx alla figlia Eleanor (lettera del 23 dicembre 1882) di fargli avere il libro del fisiologo tedesco Johannes Ranke Grundzüge der Physiologie des Menschen (Lefebvre, 1974, p. 112), del quale Marx aveva già fatto degli estratti nel 1876 (Colman, 1931).

(13) Le lettere di Engels su Podolinskij furono pubblicate per prima prima volta da A. Bebel e E. Bernstein nel 1919; quindi dall’austromarxista Otto Jenssen nel 1925; negli anni Trenta esse furono pubblicate anche in inglese. Furono pure citate dal “dialettico” I.K. Luppol nella rivista “Sotto le bandiere del marxismo” negli anni Venti in Urss (Martinez-Alier, 1991).

(14) Il principio di conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica) afferma che nelle trasformazioni da una forma all’altra la quantità totale di energia si conserva. Esso è stato enunciato inizialmente da Robert Mayer nel 1842 come equivalenza fra lavoro e calore.

(15) Rudolf Julius Emanuel Clausius (1822-88), fisico tedesco, enunciò nel 1850 il secondo principio della termodinamica rielaborato nel 1865 nel concetto di entropia.

(16) La nozione di entropia può essere definita in modi diversi; ad es. come indice dell’energia degradata (cioè non più utilizzabile per compiere un lavoro) in un processo termodinamico. In questo senso, ogni trasformazione energetica irreversibile in un sistema fisico isolato (che non riceve energia dall’esterno) provoca un aumento di entropia.

(17) L’energia è generalmente definita come la capacità di compiere un lavoro. In termini più rigorosi è la funzione di stato di un sistema fisico isolato che si mantiene costante nel corso delle trasformazioni del sistema stesso.

(18) Robert Gustav Kirchhoff (1824-87), fisico tedesco, inventore dello spettroscopio. La legge di Kirchhoff definisce il rapporto tra energia assorbita ed irradiata da un qualsiasi corpo. Sul bilancio termico terrestre, sulle trasformazioni del flusso solare sulla superficie terrestre, si veda Conti, 1988 e Nebbia, 1991.

(19) Col termine “analisi dell’energia” si intende la contabilità dei flussi energetici nei sistemi naturali, sociali e tecnologici, utilizzata in genere per conoscere i costi energetici dei processi produttivi o la produttività energetica degli ecosistemi.

(20) Gustav-Adolphe Hirn (1815-90), fisico tedesco, formulò indipendentemente da Mayer e da Joule l’equivalente meccanico del calore nel 1846; fu autore di importanti ricerche sperimentali.

(21) Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-94), scienziato tedesco, fisiologo e fisico. Diede sistematizzazione teorica al primo principio della termodinamica nel 1847.

(22) Una macchina termica è un dispositivo per trasformare l’energia termica di un fluido (il vapore, ad es.) in lavoro meccanico. Esempio tipico, la macchina a vapore. Dagli studi per perfezionare le macchine a vapore sorse nella prima metà dell’Ottocento la termodinamica. Sadi-Nicolas-Léonard Carnot (1796-1832), fisico francese, svolse un ruolo chiave in questo sviluppo, soprattutto con la sua memoria del 1824, Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, in cui si preannunciava il secondo principio, nell’asserzione che non è possibile produrre lavoro dal calore senza perdite (cioè è impossibile un ciclo calore-lavoro meccanico-calore completamente reversibile, ovvero è impossibile la macchina termica perfetta).

(23) Jan Ingenhousz (1730-99), naturalista olandese, scopritore del meccanismo della fotosintesi (1779-1796).

(24) Kreislauf des Lebens è anche il titolo di uno scritto del 1852 del naturalista olandese Jacob Moleschott dal quale Marx trasse il termine Stoffwechsel (ricambio organico, metabolismo). Così vi si presentava la “circolazione della materia”: “Ciò che l’uomo elimina, nutre la pianta. La pianta trasforma l’aria in elementi solidi e nutre l’animale. I carnivori si nutrono di erbivori, per diventare a loro volta preda della morte e diffondere nuova vita nel mondo delle piante. A questo scambio della materia si è dato il nome di ricambio organico (Stoffwechsel).” (Schmidt, 1973, p. 80). Questa immagine della natura era emersa dagli studi dei chimici e dei fisiologi dalla fine del diciottesimo alla metà del diciannovesimo secolo lungo la linea Priestley, Ingenhousz, Th. de Saussure, Lavoisier. Claude Bernard, Dumas, Boussingault, Liebig (si veda su questo Deléage 1991-b, pp. 50-6). Per la teoria dell’ecosistema si rimanda all’ultima parte dell’articolo.

(25) Robert Thomas Malthus (1766-1834), economista inglese, autore nel 1798 del famosoSaggio sul principio di popolazione in cui si enuncia la “legge” secondo cui la popolazione tende a crescere sempre oltre le risorse disponibili. Malthus aveva voluto vedere in questa “legge” la dimostrazione che povertà e ricchezza sono conseguenza di una legge di natura, che quindi è vano cercare di porvi rimedio, che i poveri sono tali in ultima analisi per colpa propria che i tentativi di migliorare le condizioni sociali combattendo la povertà sfociano in risultati perversi. A suo tempo Marx aveva criticato soprattutto la pretesa “naturalità” della legge della popolazione, non l’esistenza in astratto di limiti naturali. Anche il tema dell’energia fornì argomenti per rimettere in auge il punto di vista maltusiano, interpretando l’enunciato del fisico tedesco Ludwig Boltzman (1844-1906): “la lotta per la vita è principalmente una competizione per l’energia disponibile” (del 1886), che riguarda essenzialmente la competizione interspecifica, come principio di competizione intraspecifica applicato alla specie umana. Un punto di vista simile è ricomparso negli anni Sessanta (ad es. nell’“etica della scialuppa di salvataggio” di Garrett Hardin) e di fatto ispira oggi le ideologie razziste e le stesse politiche imperialistiche più o meno discriminatorie.

(26) Già nel Capitale Marx aveva ad es. affermato che alla produttività del lavoro “non si deve connettere nessuna idea mistica”, ma che essa dipende, fatta astrazione dei fattori sociali, dalla struttura fisiologica dell’organismo umano e dalle risorse ambientali (Marx, 1867 I, p. 558-9). Nella Critica al programma di Gotha (1875), all’affermazione del testo programmatico del nuovo partito socialdemocratico che “il lavoro è la fonte di ogni ricchezza”, Marx ribatte che non il lavoro ma “la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questo consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro umana.” (Marx, 1875, p. 23).

(27) Marx, è noto, criticava le formule, di origine utopistica e lassalliana, “reddito integrale del lavoro” e “giusta ripartizione”, perché prive di base scientifica. Su tutto questo, Marx, 1875. pp. 27-33.

(28) Engels formula il suo parere sullo scritto di Podolinskij senza averlo davanti: “Non ho fra le mani la cosa, ma l’ho letta l’altro giorno in italiano sulla “Plebe””, afferma nella lettera a Marx del 19 dicembre 1882.

(29) “L’animale arriva al massimo a raccogliere, l’uomo produce (…) Ciò impedisce di trasferire, così, senz’altro, le leggi di vita delle società animali alla società umana”, ecc. (Engels, 1873-86, pp. 584-6). Questo appunto è del 1875, contemporaneo alla lettera a Lavrov (12 dicembre 1875) di analogo contenuto (Lefebvre, 1974, pp. 83-7).

(30) Un passo del 1875 ha diretta attinenza con i tempi discussi nelle lettere a Marx della fine del 1882: si veda Engels, 1873-86, pp. 587-8.

(31) In un scritto del 1886 Engels afferma esplicitamente (si sta parlando della convertibilità di tutte le forme di energia): “Noi possiamo ugualmente misurare il consumo di energia e gli apporti di energia di un organismo vivente, ed esprimerli in una unità scelta a piacere, ad es. in calorie. L’unità di ogni movimento nella natura non è più una affermazione filosofica, ma un fatto scientifico.” (Engels, 1873-86, p. 484).

(32) “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media regola e controlla il ricambio organico (Stoffwechsel) fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita”. (Marx, 1867, I, p. 211).
“Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. (…) Nella sua produzione l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificare le forme dei materiali [sottolineature di Marx]. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce della ricchezza materiale. Come dice William Petty il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.” (Marx, 1867, I, p. 75).

(33) “Se il lavoratore ha bisogno di tutto il suo tempo per produrre i mezzi di sussistenza necessari alla conservazione di se stesso e della sua specie non gli rimane tempo per lavorare gratuitamente per terze persone. Senza un certo grado di produttività del lavoro, niente tempo disponibile di quel tipo per il lavoratore, senza tempo eccedente niente pluslavoro e quindi niente capitalisti, ma anche niente padroni di schiavi, niente baroni feudali: in una parola niente classe dei grandi proprietari.” (Marx. 1867, I, p. 558). Significativo anche quel che segue: “Così si può parlare di una base naturale del plusvalore, ma solo nel senso generalissimo che nessun ostacolo naturale assoluto può trattenere una persona dal rimuovere da sé e dal caricare su di un’altra il lavoro necessario per la propria esistenza (…). A questa produttività naturale e spontanea del lavoro non si deve connettere nessuna idea mistica, come è accaduto talvolta.” Marx spiega che, fatta astrazione del grado di sviluppo tecnico di una determinata società, questa produttività naturale è in stretta relazione con la struttura fisiologica dell’uomo e con le risorse disponibili nell’ambiente circostante (Marx, 1867, I, pp. 558-9).

(34) Credo inoltre che si debba ammettere, almeno come ipotesi di ricerca, che l’incomprensione iniziale di Engels e l’atteggiamento dei marxisti successivi non abbiano necessariamente la stessa spiegazione. E che il problema non sia riducibile, pertanto, alla ricerca di un presunto “peccato originale” antiecologico del marxismo che spiegherebbe tutto quanto è seguito. La sordità verso Podolinskij sarebbe così emblematica dell’incapacità dei marxisti di fare i conti con l’ambientalismo, dell’ideologia produttivistica prevalsa nel movimento operaio, dei disastri ambientali della staliniana “costruzione del socialismo”, della scelta filonucleare del Pcf e del Pci, della difesa del posto di lavoro nel caso delle fabbriche che inquinano e così via. Credo invece che ognuno di questi momenti richieda una analisi concreta della situazione determinata capace di ricostruire caso per caso la costellazione di fattori che hanno prodotto un certo esito e non un altro. Non abbiamo qui lo spazio per fare questo lavoro. Qui ci limitiamo a considerare il “punto di partenza”: la “coscienza ecologica” di Marx ed Engels.

(35) Ernst Haeckel (1834-1919), naturalista tedesco, divulgatore del darwinismo, coniò il termine “ecologia” (dal greco oikos = casa, e logos = discorso, scienza) nel 1866 definendola come l’economia dei viventi, la scienza del rapporto degli organismi col loro ambiente (nell’opera Generelle Morphologie der Organismen) (Acot, 1989, p. 42-3).

(36) L’espressione è di Deléage (Deléage, 1991 b, p. 5).

(37) Si veda a questo proposito Acot, 1989; Deléage, 1991-b.

(38) Un ruolo importante nella formazione della “coscienza ecologica” dell’impatto umano sugli ambienti naturali è giocato nell’Ottocento da discipline come la botanica e la geografia. Non c’è, a quel che so, un’opera in italiano che ricostruisce questi sviluppi. Un primo approccio molto interessante è costituito dalla bella introduzione di Fabienne Vallino allo splendido volume della riedizione anastatica di George Perkins Marsh, L’uomo e la natura, comparso inizialmente in inglese nel 1964. Nell’ambito del nostro discorso la figura di G.P. Marsh (1801-82) merita un’attenzione particolare, in quanto egli espresse forse il punto più avanzato della “coscienza ecologica” del diciannovesimo secolo, e sarebbe estremamente interessante (e forse sorprendente) tracciare un parallelo tra il suo pensiero e alcune riflessioni engelsiane sul rapporto uomo-natura. Marsh, originario di una famiglia dell’aristocrazia del New England, fu studioso di molteplici interessi teorici e pratici (fu tra l’altro ambasciatore degli Stati Uniti presso il Regno d’Italia dal 1861 alla morte). Il pensiero diMan and nature è all’origine del conservazionismo americano (che porta nel 1872 alla nascita del primo parco nazionale, Yellowstone) ed ebbe vasta risonanza anche altrove (ad es. in Russia, vedi Weiner, 1988, p. 8, dove fu tradotto nel 1866). La miglior sintesi che si possa farne è la dichiarazione con cui si apre la prefazione dell’edizione originale: “Lo scopo del presente libro è quello d’indicare la natura e, approssimativamente, l’estensione dei cambiamenti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisiche del globo che abitiamo; mostrare i pericoli che può produrre l’imprudenza, e la necessità di precauzioni in tutte quelle opere che, in grandi proporzioni, s’interpongono nelle disposizioni spontanee del mondo organico od inorganico; suggerire la possibilità e l’importanza del ristabilimento delle armonie perturbate, e il miglioramento materiale di regioni rovinate ed esaurite; e illustrare incidentalmente il principio che l’uomo è, tanto nel genere quanto nel grado, una potenza di un ordine più elevato non sia qualunque altra forma di vita animata che al pari di lui si nutre alla mensa della generosa natura”.

(39) Piani di “trasformazione della natura” cominciano a vedere la luce in Urss nei primi anni Trenta, durante il primo piano quinquennale. “Grande trasformatore della natura” era il titolo onorifico attribuito a Lysenko (“grande trasformatore della storia” era invece Stalin, naturalmente…). Su tutta questa materia, Weiner 1988.

(40) Soprattutto in Italia, dove anche tra i marxisti ha avuto in passato una brutta considerazione il materialismo scientifico; osservazioni interessanti in proposito in Minazzi-Timpanaro, 1991.

(41) Sono moltissime, nei Manoscritti parigini, le suggestioni “ecologiche”: l’unità uomo-natura (Marx, 1844, pp. 76-77), l’uomo come essere naturale caratterizzato da bisogni e facoltà (pp. 171-3), la nascita dell’umanità dalla natura come processo storico, ad opera del lavoro (p. 121), l’unità tra scienza della natura e scienza dell’uomo (p.122), l’alienazione dei bisogni nella società mercantile (p. 127), il degrado della condizione dei lavoratori nella città industriali (p. 129) ecc.

(42) Particolarmente significativo un passo che è quasi la fondazione dl un’antropologia ecologica: “Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalla modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini.” (Marx-Engels, 1846, p. 8).

(43) “Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società.” (Marx, 1857, p. 175) Discorso metodologico irrinunciabile.

(44) Si veda alla nota 32; più in generale è l’intero capitolo quinto del primo libro che merita una rilettura attenta.

(45) In particolare nello scritto Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia (Engels, 1873-86, soprattutto pp. 446-70).

(46) Cfr. Marx, 1867, I, p. 214; Engels, 1873-86, p. 463 e 467.

(47) Ad es. lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868, i passi già citati della Dialettica della natura, le stesse lettere di Engels su Podolinskij ecc.

(48) Cfr. Engels, 1873-86, pp. 466-70. Anche Marx nel Capitale (vedi alle note successive).

(49) Lo scritto di Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra (del novembre 1844 marzo 1845) contiene decine di pagine di analisi del degrado delle condizioni urbane, igieniche e abitative, sugli ambienti di lavoro, sulle malattie e sugli infortuni professionali nell’Inghilterra della rivoluzione industriale: pagine insuperate di ecologia umana. Un passaggio: “L’atmosfera di Londra non potrà mai essere pura e ricca di ossigeno come quella di una zona rurale; due milioni e mezzo di polmoni e duecentocinquanta mila camini ammassati in uno spazio di tre-quattro miglia quadrate consumano un’enorme quantità di ossigeno, che si rinnova soltanto con difficoltà, poiché l’edilizia cittadina in sé e per sé rende difficile la circolazione d’aria. L’anidride carbonica prodotta dalla respirazione e dalla combustione grazie al suo peso specifico permane nelle strade, e la corrente d’aria principale passa sopra le case. I polmoni degli abitanti non ricevono l’intero quantitativo di ossigeno di cui avrebbero bisogno e ciò produce una prostrazione fisica e intellettuale e un abbassamento dell’energia vitale. Per questo motivo, gli abitanti delle grandi città sono sì meno esposti alle malattie acute, particolarmente infiammatorie, che non gli abitanti delle campagne, i quali vivono in un’atmosfera libera e normale, ma in compenso soffrono molto di più di mal anni cronici.” (Engels,1845, p. 329) La critica dell’urbanizzazione torna nel Capitale (ad es., I, p. 551 e III, p. 135) e nell’Anti-Dühring (Engels, 1878, p. 285): “La città industriale trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo.”

(50) Cfr. Marx, 1867, I, p. 552-3; III, p. 716 (nota), p. 719, pp. 925-6.

(51) Processi che consistono nel prelievo dall’ambiente di risorse materiali ed energetiche pregiate e nella loro restituzione come scarti, rifiuti, emissioni (liquide o gassose) incontrollate e inquinanti; nella congestione di spazi fisicamente limitati; nel degrado degli ecosistemi i cui meccanismi di autoregolazione sono vulnerabili alla scala di impatto dell’uomo tecnologico; nell’alterazione dei cicli biogeochimici della Biosfera dai quali dipendono la stabilità dell’ambiente globale e le condizioni della vita umana stessa sul pianeta.

(52) Si pensi al brevetto sui “prodotti” dell’ingegneria genetica (specie transgeniche, ecc.) e il fenomeno in espansione degli “uteri in affitto”.

(53) Abbiamo svolto sul n. 8 di “Giano” una riflessione su uno dei più notevoli, ma anche più discutibili, contributi a questa riflessione, Hans Jonas, Il principio responsabilità (Bagarolo, 1991-a)

(54) “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.” (Marx, 1867, III, p. 887).

(55) “La soppressione dell’antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie.” (Engels, 1878, p. 286).

(56) Ad es. le lettere di Engels a Bernstein del I Marzo 1883 (in Lefebvre, 1974, p. 113-4) sulle possibilità aperte dall’elettricità nel campo del superamento della contraddizione città-campagna; quella dell’11 aprile 1893 al geologo inglese George Lamplugh (Lefebvre, 1974, p. 124-5) o la testimonianza di William Liebknecht sulle passeggiate domenicali sui prati e le colline fuori Londra della famiglia Marx (Parsons, 1977, p. 41).

(57) Gli ultimi mesi di Marx (muore il 14 marzo 1883) furono tristissimi: gli muore nel gennaio la figlia maggiore Jenny, a febbraio è preda di una nuova fase acuta dei suoi disturbi polmonari. Engels invece continuò più a lungo a lavorare attivamente, interessandosi in vari momenti di argomenti che potevano intersecarsi con quelli sollevati da Podolinskij: ad es. la stesura del libro sull’Origine della famiglia, sulla base degli appunti di Marx e dell’opera di Lewis Morgan Ancient Society. Morgan propone, infatti, e Engels accoglie, uno schema evolutivo dell’umanità (fondato sulle tre grandi tappe dello stato selvaggio, della barbarie e della civiltà) formulato a partire dall’incremento della produttività del lavoro nel procurare i beni di sussistenza essenziali; schema nel quale sono tappe fondamentali le rivoluzioni “energetiche” del controllo del fuoco, della pastorizia e dell’agricoltura, che si prestavano ad essere reinterpretate alla luce dello scritto di Podolinskij.

(58) Le semplificazioni del tipo forze produttive = tecnologia, oppure forze produttive = sviluppo economico, da cui segue sviluppo delle forze produttive = crescita economica, comportano il risultato di omologare il pensiero marxista all’approccio dell’“economia standard”, rendendolo ben poco utile per una “critica dell’economia politica” capace di fare i conti con le problematiche ecologiche.

(59) Mi pare eccessiva e infondata l’affermazione di Jean-Paul Deléage che Marx abbia del tutto tralasciato l’analisi del ruolo della natura nei processi economici concentrandosi sulla relazione tra lavoro e capitale (Deléage, 1991-a, p. 81). Ingiustificata anche l’affermazione che per Marx il capitalismo avrebbe solo “limiti interni” (Debeir-Deléage-Hemery, 1987, pp. 17-8), che travisa, a mio modo di vedere, i passi di Marx a cui fa riferimento. Per Marx il capitale è non tanto in grado di superare i limiti naturali, quanto incapace di riconoscerli (nozione ben diversa!). In generale, va ribadito (contro affermazioni in contrario piuttosto frequenti) che per Marx la natura non è mero sfondo inerte, non è solo arsenale di strumenti o magazzino di materiali, ma è anche forza attiva (dalla parte degli input) e natura degradata, “sfruttata”, depauperata, inquinata (dal lato degli output) nel processo di produzione e ciò si ripercuote sul ruolo di “forza produttiva” della ricchezza della natura stessa. E’ essenziale distinguere la natura come agente di produzione della ricchezza come valore d’uso (in cui essa entra), dalla ricchezza come valore di scambio (nella quale essa non viene computata dal processo sociale che determina il valore).

(60) Dal punto di vista termodinamico, il processo produttivo è sempre una perdita netta, una distruzione: rappresenta la degradazione disordinata di un certo flusso energetico e di un certo ammontare di materiali. Anche quando apparentemente avviene il contrario (in effetti, ogni attività produttiva conferisce un ordine maggiore ad un insieme di materia-energia: costruire un’auto a partire dal minerale di ferro, dal petrolio, ecc. significa costituire un sistema fisico più ordinato di quello iniziale), ciò avviene al prezzo inevitabile di un accrescimento dell’entropia ambientale (nel nostro esempio, tutta la spesa energetica dissipata e tutti i materiali scartati tra i quali, alla fine, i rottami della stessa automobile). Podolinskij l’aveva intuito. Sorge ovviamente una domanda: ma allora chi “paga” questo “prezzo”? Podolinskij dava correttamente la risposta: il Sole, questa sorta di enorme centrale termonucleare posta ad una distanza di relativa sicurezza dal nostro pianeta. Ciò significa, però, che il flusso solare è anche la nostra unica vera ricchezza permanente, mentre i combustibili fossili sono fonti esauribili e finite: una volta bruciati, un barile di petrolio o una tonnellata di carbone, sono irrevocabilmente perduti e l’energia chimica da essi liberata, esaurito un certo numero di conversioni più o meno efficienti, viene irrimediabilmente perduta per sempre (va anzi ad accrescere l’effetto serra).

(61) Il tema andrebbe approfondito. Su uno dei “punti caldi” di questo problema, quello dei rendimenti in agricoltura, si può documentare che esiste in Marx una linea di ragionamento più complessa della semplice affermazione che il lavoro umano aumenta i rendimenti agricoli. Egli distingue due componenti della forza produttiva del lavoro, una naturale (per analizzare la quale sarebbe stato utilissimo l’approccio di Podolinskij!) legata alla fertilità naturale del terreno (cioè a fattori intrinseci alla costituzione della natura) e una sociale, legata ai fattori sociali (rapporti sociali, scienza, ecc.). Ora, Marx formula l’ipotesi che in agricoltura ci possa essere un movimento di queste due componenti in direzione opposta, e che, oltre un certo limite, la componente sociale (la tecnologia, ecc.) non sia più in grado di compensare la tendenza alla diminuzione della forza produttiva naturale. L’analogia con l’analisi contemporanea in termini di energia è lampante (si veda Marx, III, p. 875).

(62) Ad es., sperando nella scoperta della “lampada di Aladino’’ rappresentata dalla fusione termonucleare controllata…

(63) Ad es., il rapido degrado degli ecosistemi agricoli in seguito al crescente uso di fertilizzanti (degrado che si diffonde come inquinamento alle acque superficiali e sotterranee e ai mari come eutrofizzazione); i drammatici fenomeni dell’assottigliamento dello strato protettivo dell’ozono atmosferico e dell’incremento di origine umana dell’effetto serra dell’atmosfera.

(64) “A ogni passo ci viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato.” (Engels, 1873-86, p. 468).

(65) I riferimenti per questa interpretazione sono numerosi, e si possono trovare soprattutto nei Grundrisse e nel Capitolo VI inedito, oltre che nel Capitale; non diamo qui tutti i riferimenti d’altra parle abbastanza noti; ci accontentiamo di un passo tra i più significativi che si conclude con: “La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dall’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso e della società sono passati sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.” (Marx, 1858-59, pp. 400-3).

(66) “Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato stadio dello sviluppo sociale, si parla della produzione di individui sociali (…) Ma tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione.” (Marx, 1857, pp. 172-3).

(67) L’intreccio dialettico fra determinanti naturali e determinanti sociali è illustrato in concreto nel passo che segue quello che abbiamo citato sopra sulla “base naturale” del pluslavoro (Marx, 1867, 1, pp. 561-3). Karl Polanyi (1866-1964), economista ed antropologo americano di origine ungherese, autore dell’opera La grande trasformazione (1944), ha analizzato l’emergere dell’economia capitalistica e del mercato autoregolato, e degli effetti distruttivi sull’uomo e sulla natura di questo processo, determinati dal venir meno del controllo delle norme tradizionali entro le quali i processi economici erano in precedenza “incorporati”.

(68) Anche le forze produttive non materiali (conoscenza scientifica, informatica, ecc.) vanno considerate nella loro forma concreta, “incorporala” nei rapporti sociali esistenti. In quest’ambito, non c’è da stupirsi se esse esplicano una funzione di moltiplicazione delle “forze distruttive” piuttosto che il contrario (funzionano dunque da “acceleratori di entropia”…). Un esempio clamoroso che non ha bisogno di commenti: il ruolo giocato dall’aspetto tecnologico-informatico nella Guerra del Golfo…

(69) L’esigenza di fare riferimento a un concetto di progresso “differenziato” rispetto a quello unilineare prevalso nella tradizione positivistica borghese-imperialistica è affermato da Ernst Bloch (si veda Bloch, 1990).

(70) Anche Marx ed Engels, benché nutrissero una certa fiducia sulle possibilità della specie umana e sulla realizzabilità di una nuova fase della civiltà, superiore a quella che conoscevano, erano tutt’altro che ingenui adoratori del “progresso” (cfr. Bagarolo, 1989, e anche 1991-a). Di più: “Un ripensamento della storia del socialismo e del marxismo rivela una problematica insospettata o non approfondita dalla scolastica del progresso certo e rettilineo e del comunismo trionfante”: è la problematica che Cortesi definisce del “sospetto sulla storia”, che considera costantemente la possibilità dell’involuzione e della catastrofe (si veda il capitolo “Socialismo o barbarie” in Cortesi, 1984). Tutta la storia del ventesimo secolo, oltre che la minaccia ambientale, rendono questa problematica particolarmente attuale.

(71) Influenzata dall’energetica di Ostwald, la corrente “empiriomonista’’ del marxismo russo (Bogdanov ecc.) accolse precocemente il tema dell’energia (la sua importanza cruciale come forza produttiva) ma in una chiave più tecnocratica che ecologica (entropica). Così Bucharin, nel 1921, può mettere l’energia al centro degli scambi società-natura (Bucharin, 1977a) e nel 1931 citare Vernadskij (Bucharin, 1977-b), ma continuare ad ignorare gli aspetti propriamente ecologici di questa problematica.

(72) Il libro più volte citato di Martinez-Alier ricostruisce questi episodi. Storia quanto mai interessante ed istruttiva, che suscita domande alle quali non è semplice rispondere. Da una parte infatti, sfila una serie di studiosi, in genere dotati di titoli accademici di prim’ordine, che hanno richiamato l’attenzione sui nessi fra processi economici e ambiente: dall’altro, c’è la sordità o il rifiuto degli economisti ufficiali (e anche di quelli di orientamento marxista). Significativo che una incomprensione simile a quella che toccò a Podolinskij con Engels sia capitata anche ad altri due studiosi, Patrick Geddes (1854-1932) e Frederick Soddy (1877-1956), che per parte loro si erano rivolti a due altri “padri fondatori” dell’approccio economico tradizionale, e cioè rispettivamente a Leon Walras (1834-1910), uno dei fondatori della scuola marginalista dell’equilibrio economico generale, e a John Maynard Keynes (1883-1946), “riformatore” della politica economica di questa stessa scuola negli anni Trenta del ventesimo secolo.
Le critiche di Geddes e Soddy all’approccio tradizionale sono quanto mai perspicue ed acute: ciò non tolse che il clima ideologico e sociale le rendesse “irrilevanti” (d’altra parte esse sono ignorate ancora adesso nei santuari dell’economia ufficiale: si veda a questo proposito l’indagine di Carla Ravioli Il pianeta degli economisti, ecc.).

(73) Alfred Lotka, formatosi in Europa, compì la sua carriera accademica negli Stati Uniti. Influenzato da Wilhelm Ostwald (1853-1932), vide nell’energia la chiave di volta del sistema della natura e dello sviluppo della società umana. Fondamentale il suo teso del 1975 Elements of Phisical Biology. A Lotka si deve la distinzione, ormai classica, tra organi endosomatici (propri di tutti i viventi) e organi esosomatici (gli strumenti che si costruisce la specie umana), cui corrisponde la distinzione tra usi endosomatici (biologici) e usi esosomatici (tecnologici) dell’energia (Martinez-Alier 1991, Deléage 1991-h).

(74) Vladimir Ivanovic Vernadskij è forse lo scienziato russo e sovietico più famoso della prima metà del ventesimo secolo. Mineralogista e geochimico, erede della tradizione russa di Dokuchaev (fondatore della pedologia, la scienza del suolo) e in contatto con i massimi studiosi occidentali, accettò di collaborare col nuovo regime malgrado le riserve che nutriva verso di esso. Svolse un ruolo fondamentale nell’organizzare le istituzioni sovietiche di ricerca scientifica. Proprio negli anni della guerra e della rivoluzione avviò lo studio sulla “materia vivente” e sul suo ruolo sulla superficie terrestre che sfocia nella riformulazione della nozione di Biosfera (nello scritto La Géochimie pubblicato in francese nel 1924, e soprattutto inBiosfera, pubblicato in russo nel 1926, e tradotto in francese tre anni dopo).

Sulla sua figura si veda Grinevald, 1990 e Deléage, 1991-b.

(75) Sulla nozione di ecosistema in Lindeman: “L’ecosistema, per Lindeman, e attraversato da un flusso di energia di provenienza solare che tramite gli organismi autotrofi, le piante dotate di clorofilla, trasforma il supporto inorganico in organico, il biotopo in biocenosi. Le reti trofiche, in questa corale a più voci, distribuiscono l’energia celeste tra gli organismi eterotrofi, piante parassite e animali, mentre, a latere, i cosiddetti demolitori riportano gli organismi all’inorganico, riconvertendo la biocenosi nel biotopo…” (Celli, 1990) Forse vale la pena di menzionare qui, sotto la rubrica “disavventure dei precursori”, che il citato articolo di Lindeman era stato in un primo tempo respinto dalla rivista, in base al giudizio espresso da due affermati limnologici ai quali esso era stato sottoposto per un parere dal direttore editoriale (Cook 1977). Esso non ebbe inoltre alcuna eco immediata. Solo negli anni Cinquanta, dopo l’opera di sistematizzazione dei fratelli Eugene e Howard Odum,Foundamentals of Ecology (1953), la nuova impostazione (che unifica il campo disciplinare dell’ecologia, fino a quel momento suddiviso in ambiti diversi dalla diversità di metodi e approcci concettuali) viene universalmente riconosciuta (Acot, 1989, p. 113).

(76) L’energia assume un carattere speciale m rapporto alla vita, scrive Vernadskij nel paragrafo dedicato a “énergie de la matiére vivante et le principe de Carnot”; ciò è stato intuito dai fondatori della termodinamica, Mayer, Thomson, Helmholtz, ma solo “uno studioso ucraino morto giovane, S. Podolinskij, ha compreso a pieno la portata di queste idee e ha cercato di applicarle allo studio dei fenomeni economici.” (Vernadskij 1924, pp. 334-5).

(77) Douglas Weiner, lo studioso americano a cui dobbiamo un interessantissimo libro sull’ecologia sovietica negli anni Venti, così lo presenta: “Il brillante ma ora quasi dimenticato ecologo del periodo precedente la seconda guerra mondiale, che aprì l’intero campo dell’energetica ecologica.” (Weiner 1988, p. 71) Laureatosi a Heidelberg nel 1906, durante la guerra civile Stanchinskij si dedicò a organizzare l’università di Smolensk e a promuovere gli studi di zoologia. Divenne nel 1929 direttore scientifico di Askania-Nova, riserva naturalistica dell’Ucraina meridionale, che cercò di trasformare in un centro di ricerca teorica e pratica sull’ecologia della steppa e in un centro di protezione dell’ambiente naturale. Nello stesso periodo ricopriva importanti incarichi accademici presso l’università di Kharkov, era animatore dell’associazione pansovietica di protezione della natura e, dal 1931, direttore con l’amico Daniil Nikolaevic Kashkarov della prima rivista sovietica di ecologia teorica, “Zhurnal ekologii i biotsenologii” (giornale di ecologia e biocenotica). Egli ricopriva insomma un ruolo di punta sia in campo teorico sia in campo pratico. Anche per questo, dopo il 1931 e le direttive di Stalin sulla “bolscevizzazione” delle scienze e della cultura, Stanchinskij fu tra i primi ad essere preso di mira dagli uomini di fiducia dell’apparato nel settore biologico, in primo luogo Isai Prezent (tutore e alleato dell’emergente Trofim Denisovic Lysenko). Attaccato pretestuosamente, Stanchinskij fu dapprima estromesso dai suoi incarichi accademici (1933), quindi arrestato. Ricomparve in una posizione del tutto marginale nel 1938. Morì nel 1942, oscuramente, mentre incombeva l’invasione nazista. Di grande valore la sua produzione scientifica. Secondo Weiner, Stanchinskij anticipò il concetto di ecosistema fondato sulle relazioni trofiche, del quale, per primo, propose una modellizzazione matematica e al quale ispirò un lavoro di ricerca comparativa sulla produttività biologica di colture diverse. Inoltre cercò anche di integrare insieme approccio genetico evoluzionistico e approccio ecologico anche anticipando il lavoro in questo senso di G.E. Hutchinson e Robert MacArthur negli anni Sessanta (Weiner, 1988, pp. 80-2 e 285).
(78) Il lavoro di Weiner smentisce il luogo comune della sordità del comunismo verso i problemi ambientali e ci restituisce un quadro più articolato e per certi aspetti sorprendente dell’operato della rivoluzione russa in questo campo. Ad una prima fase caratterizzata da decisioni positive nel campo della protezione ambientale e dall’apertura verso una fiorentissima scuola ecologica (fase il cui merito è interamente ascrivibile alla sensibilità di una parte del gruppo dirigente comunista, di Lenin e del commissario del popolo all’istruzione Anatolij Vasilevic Lunacharskij, innanzi tutto), subentrò una svolta drammatica nei primi anni Trenta, allorché il potere stalinista decise che nulla e nessuno doveva ostacolare l’industrializzazione a tappe forzate o scalfire le motivazioni ufficiali di quella politica. Per questo, la prestigiosa scuola di ecologia – che cominciava a farsi apprezzare fuori dall’Urss con i lavori di G.F. Gauze, di D.N. Kashkarov, di V. Bukovskij, di L.G. Ramenskij, di V.N. Sukachev e di altri – doveva essere messa in riga e i recalcitranti stroncati.

(79) Lindeman, in ogni caso, conosceva il lavoro di Vernadskij, che cita nel suo articolo: “Il punto di vista trofico-dinamico, adottato in questo scritto, [è] strettamente imparentato con l’approccio biogeochimico di Vernadsky.” (The Trophic-Dynamic Aspect of Ecology, in Kormondy, 1965, p. 179). Il lavoro di Vladimir Vernadskij era conosciuto a Yale (dove insegnava Hutchinson e lavorò Lindeman nel 1941-2) forse attraverso il figlio, George Vernadsky, che vi insegnava storia russa (Martinez-Alier, 1991, p. 311-12).

Riferimenti bibliografici

Avvertenza. L’indicazione cronologica dei testi è fatta sulla base della data dell’edizione che è stata consultata. Nel caso di testi stranieri tradotti vengono riportati anche il titolo e la data dell’edizione originale. Si è fatto eccezione a questi criteri per le sole opere di Marx e di Engels, per le quali si è preferito elencarle nell’ordine cronologico di composizione (fanno eccezione all’eccezione le lettere e le selezioni tematiche: queste ultime sono riportate sotto il nome del curatore).

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– (1982) Ruolo delle scienze naturali nel pensiero marxiano, in A. Guerraggio F. Vidoni, Nel laboratorio di Marx: scienze naturali e matematica, Franco Angeli, Milano, 1982.
– (1985) Natura e Storia. Marx ed Engels interpreti del darwinismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1985.

Weiner, Douglas Robert
– (1988) Models of Nature. Ecology, Conservation and Cultural Revolution in Soviet Russia, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1988.

 

ECOLOGIA E MARXISMO

Questo è il testo rivisto di una relazione svolta nell’ambito della festa di“Liberazione” a Savona, il 6 agosto 1993. Vi sono riassunti e presentati in forma discorsiva molti dei temi di cui mi sono occupato per molti anni e di cui conto di occuparmi ancora. Pur se sono trascorsi sedici anni, nell’insieme questo scritto mi sembra tuttora valido. Per questo l’ho scelto per aprire il blog.

Nella esposizione che segue tratterò per grandi linee quattro punti:
1. il marxismo e la questione ecologica,
2. il movimento operaio e l’ambiente,
3. la natura e la portata delle politiche ambientali capitalistiche,
4. alcune proposte programmatiche dei comunisti.

1. Il marxismo e la questione ecologica

La prima è una questione essenzialmente teorica. Potremmo inquadrarla a partire da questa domanda: “è in grado il pensiero marxista di fare i conti con la sfida della questione ecologica, oppure è un ferro vecchio da buttare?”
La mia risposta è ovviamente che no, che il marxismo non è un ferro vecchio: non solo non è da buttare ma anzi ci offre alcuni attrezzi importanti, essenziali per capire la crisi ecologica.
Darò conto di questa affermazione perentoria prendendo in esame tre questioni:
1.1 – che cosa c’era già nel marxismo di tutt’ora valido e attuale;
1.2 – che cosa invece non era ancora chiaro, o non è più valido;
1.3 – come fa i conti oggi il marxismo con la questione ecologica.

1.1 – Che cosa c’era già nel marxismo di tutt’ora valido e attuale?

Provo a rispondere per punti estremamente generali.

(a) C’era già una concezione proto-ecologica dell’uomo come parte della natura, natura esso stesso. Per un verso l’uomo dipende dalla natura (cioè dal suo ambiente), per un altro egli è in grado di modificare questa sua dipendenza col lavoro (cioè di trasformare il suo ambiente). Qui sta anche il carattere specifico dell’uomo che lo pone su un piano diverso dagli altri animali. A differenza degli animali, che non hanno una vera “storia”, l’uomo in effetti ha modificato nel tempo il suo rapporto di dipendenza dalla natura (dal suo ambiente), soprattutto mediante lo sviluppo dei mezzi di produzione, fino ai vertici della rivoluzione industriale. Questa straordinaria facoltà prometeica della specie umana, tuttavia, non deve alimentare l’illusione che sia possibile un dominio assoluto sulla natura: in realtà, l’uomo può controllare e sottomettere alle sue esigenze le forze naturali solo mediante la conoscenza della natura e il rispetto delle sue leggi, cioè entro limiti che essa stessa ci impone; in caso diverso l’uomo va incontro alla sua “vendetta” (Engels).

(b) C’era già la consapevolezza che il rapporto dell’uomo con la natura non è, tuttavia, un mero dato naturale (oggi si direbbe “biologico”), codificato deterministicamente nella nostra natura come in quella dei salmoni è codificato che essi devono risalire i fiumi per recarsi a deporre le uova. Il rapporto fra l’uomo e la natura è invece un rapporto condizionato fortemente dalle forme sociali soggette nel corso della storia a cambiare. Il rapporto dell’uomo con la natura è dunque un rapporto storico mediato dalla società. La storia dell’umanità si sviluppa come dialettica di due momenti: (1) il rapporto con la natura, che si modifica via via che l’uomo colonizza il globo, cambia le tecniche di produzione, accresce le conoscenze del mondo naturale ecc.; (2) i rapporti degli uomini fra loro, cioè fra i gruppi, le nazioni, le classi ecc. dentro alla società. Due aspetti intrecciati fra loro. Il fatto ad esempio che delle condizioni e dei mezzi necessari alla produzione (di cui fra i più importanti c’è in ogni epoca la natura stessa nei suoi molteplici aspetti di terra coltivabile, riserve di caccia e di pesca, fonti di energia, risorse minerarie ecc.) si impadronisca una classe sociale rende questa parte della società la classe dominante, la quale può assoggettare la parte rimanente, esclusa dal possesso, e costringerla a compiere un pluslavoro a suo vantaggio. C’è dunque un intreccio fra dominio sulla natura e dominio sugli esseri umani, fra sfruttamento della natura e sfruttamento degli esseri umani.

(c) C’era già una attenzione non marginale alla contraddizione fra capitalismo e ambiente, ai modi in cui lo sviluppo capitalistico degrada la natura. Sotto il capitalismo la natura – come d’altra parte il lavoro – viene progressivamente mercificata, ridotta a merce. Solo in questa forma, in quanto “valore di scambio”, essa viene presa in considerazione nella produzione borghese. Non per quello che è in se stessa, e per la sua propria logica, ma in quanto è suscettibile di diventare fonte di profitto da sfruttare anche fino all’esaurimento: “dopo di me il diluvio!” è infatti la logica di ogni capitalista. In Marx e in Engels troviamo già esaminati diversi casi di degrado della natura indotto dalla logica del capitale: quelli dell’agricoltura, delle foreste, della città, dei rifiuti ecc. Non solo. Marx ci dà anche una spiegazione della dinamica intrinseca del capitale che lo porta alla “produzione per la produzione”, che da un lato promuove uno sviluppo prodigioso delle scienza e della tecnica e da un altro trasforma questo sviluppo in degrado del lavoratore e della natura.

(d) C’era già, dunque, una valutazione critica della dialettica sviluppo di forze produttive-sviluppo di forze distruttive che è propria del capitale. Non c’è in Marx una esaltazione unilaterale del progresso tecnico-scientifico e dell’industria. C’è sempre la sottolineatura della sua ambivalenza: sviluppo di potenzialità di liberazione dell’uomo dal bisogno e dallo sfruttamento, e nello stesso tempo conversione di queste potenzialità in nuovo bisogno e in nuovi mezzi di sfruttamento. Ciò riguarda anche il rapporto con la natura: mentre gli sviluppi scientifici e tecnologici allargano le possibilità di controllo razionale del “ricambio organico fra l’uomo e la natura” in vista del benessere della società presente e della preservazione del pianeta per le generazioni future, la logica del capitale li trasforma in distruzione delle fonti della ricchezza, la natura e l’uomo stesso, fino al punto di mettere oggi a repentaglio l’esistenza stessa dell’umanità.

(e) C’era già un’altra idea di grande attualità: l’idea che lo sviluppo capitalistico tende a costituire un unico sistema planetario di relazioni economiche e sociali, a socializzare (socializzare = mettere in comune) su larga scala, e su una scala crescente, le forze produttive e la natura; l’idea cioè di una progressiva “interdipendenza generale” fra tutte le parti del mondo. E’ quanto è avvenuto nell’ultimo secolo e tuttora avviene costantemente. Ma questa socializzazione sotto il segno del capitale, in forme via via cambiate negli ultimi secoli (espansione coloniale, creazione del mercato mondiale, nascita dei gruppi multinazionali, istituzione di organismi mondiali come il Fmi, la Banca mondiale, la Cee, Il Gatt e così via) comporta la riproduzione su scala planetaria delle contraddizioni capitalistiche. Gli organismi succitati costituiscono i modi in cui si struttura il comando capitalistico nel tentativo di tenere sotto controllo le contraddizioni e di regolare l’economia-mondo in funzione dei suoi interessi, o meglio degli interessi dei gruppi dominanti spalleggiati dalle istituzioni statali delle grandi potenze imperialiste: gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e gli altri paesi europei…
Sotto il capitale, il processo di socializzazione delle forze produttive avviene sulla base della logica del profitto e del mercato, dunque su base privata, in modo contraddittorio e anarchico, attraverso crisi e gravi conflitti, stimolando le contrapposizioni nazionali e le tendenze alla guerra. Alle contraddizioni della socializzazione capitalistica il marxismo ha contrapposto (con l’idea del comunismo come ordinamento sociale che supera la contraddizione fra oggettiva socializzazione delle forze produttive e loro appropriazione privata) l’esigenza e il progetto di ricondurre questo processo sotto il controllo dei produttori associati, cioè della società nel suo insieme, organizzata su scala sovranazionale (il comunismo è anche la realizzazione di un nuovo ordine fra le nazioni). Il superamento del capitalismo si presenta come la condizione per abolire lo sfruttamento, gli egoismi nazionali, l’anarchia del mercato mondiale e le crisi di sovrapproduzione, per sottoporre a un controllo razionale il “ricambio organico” fra l’uomo e la natura, e per finalizzare lo sviluppo delle forze produttive alla soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi e alla liberazione del lavoro e delle energie creative degli individui sociali.
Credo che le esigenze che un secolo e mezzo fa venivano colte da coloro che si interrogavano sul futuro del modo di produzione basato sul capitale (che già allora dimostrava la sua enorme dinamicità) siano divenute tanto più attuali oggi nel momento in cui le tendenze che allora erano allo stadio iniziale si sono pienamente dispiegate. Le conferenze mondiali che, come quella del giugno dello scorso anno a Rio sull’ambiente e lo sviluppo, si concludono spesso con dichiarazioni di principio e proclamazioni di buone intenzioni che restano sulla carta, sono la prova clamorosa della validità del pensiero marxista; la prova che il capitalismo non è in grado di superare le sue contraddizioni interne e avviare a soluzione i problemi enormi che crea: elevare le condizioni di tutta la società, sopprimere la povertà, le crisi e la disoccupazione, vincere il sottosviluppo di intere regioni del pianeta e prevenire il degrado dell’ambiente che giunge a compromettere gli equilibri planetari (buco dell’ozono, riscaldamento del clima) e la vita dell’uomo sulla Terra.

1.2 – Che cosa invece non era ancora chiaro, o non è più valido?

Procedendo sempre schematicamente per punti:

(a) Innanzitutto, in Marx e in Engels non troviamo la premonizione della dimensione globale che i problemi ecologici avrebbero assunto. Ma questo è diventato chiaro solo nell’ultimo mezzo secolo, dopo l’invenzione della bomba atomica e l’emergere della crisi ecologica che sta progressivamente alterando le condizioni di vivibilità della biosfera. Va detto che Marx e Engels non si aspettavano che il capitalismo sopravvivesse così a lungo nei paesi in cui si era sviluppato un forte movimento operaio già all’epoca loro. Erano convinti che la riorganizzazione della società umana secondo principi più razionali non avrebbe tardato molto e che ciò avrebbe consentito un più elevato livello di civiltà e, fra le altre cose, anche un controllo sociale razionale del ricambio organico con la natura.

(b) Pertanto non era chiara l’importanza che avrebbe assunto in seguito la contraddizione capitale-ambiente (la cosiddetta seconda contraddizione del capitalismo, secondo la formula di O’Connor, la prima essendo quella capitale-lavoro). Tanto meno che in capo a un secolo questa contraddizione sarebbe arrivata al punto di costituire una questione di vita o di morte per l’umanità. Anche per questo la presenza dei problemi ambientali negli scritti marxengelsiani resta complessivamente in secondo piano rispetto ad altri aspetti e ad altre contraddizioni del capitalismo. Non c’è inoltre In Marx e in Engels una analisi dei conflitti ambientali e dei soggetti sociali che la questione ambientale avrebbe attivato (che non sono solo gli operai o i lavoratori in genere, ma potenzialmente tutti i cittadini vittime del degrado dell’ambiente).

(c) In Marx e in Engels non troviamo ancora la percezione e dunque l’analisi del problema dei “limiti dello sviluppo” (tranne che in cenni isolati e troppo sommari). Un problema che, malgrado Malthus, non appariva concretamente all’orizzonte nel secolo scorso. Ma un problema che si sarebbe comunque posto in un pianeta limitato. Infatti, l’impetuosa crescita materiale avviata dal capitalismo industriale non poteva durare all’infinito pena, ad un certo punto, suscitare un conflitto fra la società umana e il pianeta che la ospita, indipendentemente dalla forma sociale entro la quale si fosse realizzata. Non si possono infatti aumentare all’infinito le quantità dei materiali e di energia prelevate dall’ambiente, i rifiuti e gli inquinanti scaricati in esso, il numero di esseri umani che ci vivono (e inoltre fare tutto ciò in modo dissennato, senza badare a sprechi e senza curarsi delle devastazioni) senza dover fare i conti, prima o poi, con l’esaurimento delle risorse, il degrado degli ecosistemi agricoli forestali e marini, la perdita di fertilità del suolo, la devastazione del territorio, il problema dei rifiuti e così via.
Oggi, in effetti, siamo più o meno a questo punto, cioè all’inizio della resa dei conti.

1.3 – Il marxismo sa fare i conti con la questione ecologica e come?

Ragionando in termini generali, dal punto di vista dell’umanità nel suo complesso, è chiaro che oggi abbiamo di fronte il compito di invertire la rotta, di diventare più sobri nello sfruttamento e nel consumo delle risorse ambientali e più intelligenti e più saggi nella gestione del pianeta. Dovremmo ad esempio imparare dalla natura a praticare il riciclo degli elementi materiali che utilizziamo, a non sprecare risorse preziose come l’energia, l’acqua, il suolo, a non degradare i luoghi in cui viviamo e a salvaguardare un bene fragile come la diversità biologica, irrecuperabile una volta distrutta.
Tuttavia – e qui sta il punto critico – i meccanismi sociali che ci hanno condotti a questo punto sono sempre all’opera, funzionano a pieno ritmo, e ostacolano l’inversione di rotta di cui c’è bisogno. Questi meccanismi sono quelli del modo di produzione fondato sul capitale.
Purtroppo, dopo la grave crisi che ha portato al crollo dell’Urss e del sistema di paesi del cosiddetto “socialismo reale” (aprendo fra l’altro la strada a selvaggi processi di restaurazione capitalistica che stanno avendo pesanti ripercussioni sull’ambiente) sembrerebbe che il capitalismo possa contare oggi come oggi sul fatto di non avere più validi antagonisti a contestarlo. In verità, però, il vero antagonista del capitalismo non è, e non è mai stato, quello “esterno” (non lo erano più da molto tempo i paesi del cosiddetto “blocco socialista” il quale, fin dagli anni cinquanta, aveva scelto la “coesistenza pacifica”).
Il vero antagonista è sempre stato e può essere solo quello “interno”. Questo antagonista – di cui il movimento operaio costituisce la spina dorsale, ma che è costituito anche dei movimenti di resistenza e di lotta che si sviluppano in ragione delle molteplici contraddizioni del capitalismo fra le quali si conta, oggi con un peso crescente, quella ambientale – attraversa oggi una fase di difficoltà e di sconfitte. Ma esso resta pur sempre una enorme forza sociale potenziale, in grado di mutare, anche in breve tempo, con le sue lotte i rapporti di forza e di riaprire una prospettiva di cambiamento, purché agisca in modo autonomo, senza farsi condizionare dal capitale e dal suo comitato d’affari (il governo). E’ sul rilancio di questa grande forza potenziale che, come comunisti, dobbiamo continuare a puntare con ragionevole fiducia.
C’è bisogno tuttavia di orientare l’azione di questa forza in modo cosciente e coerente.
Per questo c’è però un ritardo di elaborazione teorica e politica e di proposta programmatica da recuperare.
Un primo terreno importante è quello dell’aggiornamento del marxismo rispetto ai nuovi problemi, per avere adeguati strumenti di analisi e di proposta per l’azione. Non si tratta di liquidare il marxismo, dunque. Si tratta di andare avanti con il marxismo.
La questione ambientale è anche una delle sfide del nostro progetto di rifondazione comunista. Dobbiamo esserne coscienti. Dobbiamo studiare, elaborare, discutere, sperimentare nella pratica le nostre idee e le nostre proposte, con l’obiettivo di formulare una proposta comunista all’altezza dei problemi del nostro tempo.
Per fortuna, in questi ultimi anni è cresciuta un po’ dovunque nel mondo una grande attenzione su questi temi nelle forze di sinistra e anticapitalistiche e fra gli intellettuali legati a queste forze.
Ci sono anche nuovi interessanti tentativi di elaborazione teorica. Uno dei più significativi è noto col nome di “ecomarxismo” e si deve a uno studioso americano, James O’Connor, il quale è anche animatore di una rete di riviste che escono in California, in Spagna, in Francia e in Italia (quella italiana si denomina, similmente a quella americana, “Capitalismo Natura Socialismo”).

Quali “novità” ha introdotto O’Connor?

(a) O’Connor ha un primo merito: di aver richiamato l’attenzione sulla nozione delle “condizioni di produzione” (che sono umane, sociali e ambientali). In genere le condizioni di produzione non sono prodotte e non sono producibili come “merci”, ma il capitale le tratta come fossero tali. E’ il caso sia della forza lavoro umana, sia dell’ambiente naturale. Non si può produrre a piacimento un essere umano da mettere a lavorare né un secondo pianeta dove andare ad abitare. Quella che O’Connor chiama la “capitalizzazione” della natura ha in molti casi effetti distruttivi sulle condizioni di produzione stesse e, al di là di esse, sull’ambiente.

(b) La tendenza a degradare le condizione di produzione configura quella che O’Connor chiama la “seconda contraddizione del capitalismo”: oltre alla contraddizione fra capitale e lavoro c’è la contraddizione fra capitale e ambiente, che si manifesta in molti modi: il degrado ambientale, l’incapacità di rispettare i limiti ecologici, l’esaurimento delle risorse, il declino della qualità della vita sociale e così via.

(c) O’Connor evidenzia inoltre il ruolo dello Stato nella gestione capitalistica delle condizioni di produzione. E’ lo Stato che si interpone fra il capitale e la natura, che consente al primo l’appropriazione delle condizioni di produzione, che si incarica della loro regolazione. Di qui l’importanza “politica” delle questioni ambientali (la definizione delle norme contro l’inquinamento e il degrado, la programmazione urbana, la politica sanitaria, quella dei controlli ambientali ecc.).

(d) A questa seconda contraddizione – che non si manifesta in forme necessariamente economiche, come accade con i conflitti salariali o le crisi di sovrapproduzione, ma che ha spesso ricadute economiche nella forma di un aumento dei costi di riproduzione del capitale – corrisponde la nascita di nuovi soggetti e movimenti sociali, molto compositi, spesso di natura localistica in quanto legati a questioni specificamente locali, che pongono in generale una domanda di democrazia e di controllo sull’operato dello Stato e delle imprese e sui modi della socializzazione delle condizioni di produzione.

(e) O’Connor ha sviluppato anche una interessante riflessione critica sulle strategie dei movimenti ambientalisti e verdi che si riassume nello slogan “pensare globalmente, agire localmente”. In questo modo, osserva O’Connor, non si esce dal localismo, mentre il capitale agisce su scala planetaria, e in questo modo elude i vincoli che gli vengono imposti dalle lotte ambientaliste. Si consideri un caso rivelatore, quello delle produzioni inquinanti e dei rifiuti tossici e nocivi. La conquista di una normativa anti-inquinamento più seria nei paesi avanzati spinge il capitale a spostare nei paesi del cosiddetto Terzo mondo le lavorazioni più nocive e a scaricarvi i veleni che residuano dai cicli produttivi. In tal modo il problema non è risolto ma solo spostato. Il capitale inoltre si attrezza per gestire globalmente i suoi affari e per tentare di controllare le contraddizioni economiche e ambientali (tramite il Fmi, La Bm, la Cee ecc.).
Occorre dunque non solo pensare, ma anche agire su scala globale, secondo la formula “pensare e agire localmente e globalmente”. Di conseguenza O’Connor avanza la proposta a tutti i settori “rossi” (classisti) e “verdi” (ambientalisti) di lavorare insieme a costruire una nuova internazionale in cui riunire le forze anticapitalistiche.
Almeno a livello di enunciazione del problema, O’Connor ha pienamente ragione. La dimensione internazionale dell’azione contro il capitalismo, anche sul terreno ambientale, e dunque della costruzione di una nuova internazionale (che chiamerei comunista, o ecocomunista) è un problema che si pone innanzitutto ai comunisti.

2. Movimento operaio ambiente

Le ultime osservazioni sollevano una nuova questione, quella del ruolo del movimento operaio nella lotta per la difesa dell’ambiente. E’ in qualche misura una questione storica (perché il movimento operaio si è dimostrato fino ad ora così poco sensibile a questi problemi), ma è soprattutto una questione strategica (si può far conto sul movimento operaio in questa battaglia?).
Molti ambientalisti, e la maggioranza assoluta dei verdi, pongono sotto accusa il movimento operaio: indifferenza all’ambiente, corresponsabilità nell’ideologia industrialista prevalsa nei decenni passati, complicità con il capitale nella difesa delle produzioni che compromettono la salute e l’ambiente ecc. L’argomento decisivo tuttavia è un altro: il fallimento ecologico del cosiddetto “socialismo reale”.
Che cosa possiamo rispondere a questi rilievi piuttosto pesanti?
Purtroppo non ho qui lo spazio per considerare in modo adeguato le due questioni di fondo:
(a) il bilancio storico del “socialismo reale” e
(b) gli orientamenti dei lavoratori sui temi ambientali.
Mi devo limitare a qualche considerazione sommaria. Sulla base delle ricerche che ho condotto in questi anni, mi sento di dire questo.

(a) La Rivoluzione d’Ottobre, in verità, per tutta una fase (fino alla fine degli anni Venti), dimostrò grandi aperture e potenzialità anche per ciò che riguarda la questione ambientale, e tale esperienza è tuttora da meditare e da rivalutare. Una parte dei nuovi dirigenti rivoluzionari (fra i quali Lenin in persona), si dimostrò consapevole dell’esigenza di conciliare lo sviluppo economico con la preservazione delle sue basi naturali e pertanto favorì il progresso degli studi ecologici, il dialogo con gli studiosi, la nascita di un movimento conservazionistico indipendente e l’avvio di importanti iniziative di tutela della natura. La svolta negativa intervenne all’inizio degli anni Trenta. Il consolidamento del potere di Stalin portò anche, fra le altre conseguenze, alla liquidazione del movimento conservazionistico e alla soppressione dei fermenti critici presenti fra gli ecologi. Ciò compromise un inizio promettente e portò alla cancellazione per qualche decennio di ogni possibilità per l’ecologia di far sentire la sua voce sui modi in cui veniva attuata l’industrializzazione del paese. Ma più in generale, la soppressione di ogni dialettica politica ad opera di un potere burocratico e dispotico cancellò la possibilità del controllo sociale e della nascita di un movimento ambientalista indipendente che avrebbe potuto porre per tempo l’esigenza di orientare diversamente la traiettoria dello sviluppo incentrata sull’industria pesante e su quella degli armamenti.

(b) Anche la storia del movimento operaio è ricca di episodi e di momenti in cui viene alla luce la sensibilità dei lavoratori e delle forze classiste per le questioni dell’ambiente.
Osservava uno storico tedesco qualche anno fa che nei pressi di Amburgo c’è una fabbrica chimica che inquina da oltre un secolo e contro cui si sono spesso mobilitati i lavoratori e i cittadini ottenendo promesse di risanamento e misure parziali che non hanno mai risolto il problema (sembra un altro caso Acna di Cengio). Gli unici che hanno avuto in coraggio di avanzare una proposta radicale – la completa chiusura delle produzioni sotto accusa – sono stati i comunisti negli anni Venti. Quando qualche anno fa si è formata la prima giunta socialdemocratici-verdi, con un verde al ministero dell’industria, quest’ultimo si è accontentato di una soluzione di compromesso: ha prorogato l’autorizzazione alle produzioni inquinanti, che dunque continuano a inquinare, in cambio della ennesima promessa di investimenti di risanamento. Una storia in sé significativa.
Anche il primo critico della civiltà dell’automobile, è stato negli anni Trenta un comunista, lo scienziato e filosofo Otto Neurath, autore fra l’altro di una proposta di “contabilità naturale” dei processi economici volta a gestire razionalmente il consumo delle risorse e dell’energia.
Nel corso della rivoluzione russa, nell’estate del 1917, il soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Kronstadt, approvò una mozione indirizzata al governo provvisorio in cui si chiedeva un intervento d’urgenza per salvare l’importante riserva naturalistica di Askania-Nova, nell’Ucraina meridionale, minacciata dalla guerra civile.
Per venire a momenti più vicini a noi, ricordo che in Italia, nel corso degli anni Settanta, nel pieno delle lotte operaie, in alcune grandi fabbriche (Montedison di Castellanza, petrolchimico di Marghera ecc.) si ebbero delle esperienze significative che videro il movimento operaio all’avanguardia sulle questioni dell’ambiente. Nacquero comitati di lavoratori e di tecnici che animavano le lotte contro la nocività e l’inquinamento e si battevano per il controllo dei cicli produttivi, suscitando interesse anche fuori delle fabbriche e coinvolgendo studiosi legati al movimento operaio del calibro di Giulio Maccacaro, di Laura Conti e così via, e aprendo in anticipo una riflessione sulla natura della scienza e sul rapporto fra “addetti ai lavori” e soggetti “esterni” che oggi è quanto mai vivo.
Sono tutti episodi estremamente significativi.
Il fatto è che, quando non lotta, quando subisce l’ideologia padronale (magari con la mediazione delle burocrazie sindacali collaborazioniste e corrotte), quando si adatta al regime esistente, la classe operaia è una classe “dipendente”. Lo è materialmente e finisce per essere dipendente dalla borghesia anche culturalmente.
E’ importantissimo che i lavoratori si emancipino culturalmente dalla borghesia. Per emanciparsi culturalmente devono emanciparsi innanzitutto politicamente. Come? Con la lotta, con l’organizzazione di classe indipendente. La lotta e l’organizzazione aiutano a maturare nuovi livelli di consapevolezza, ad assimilare gli elementi di cultura critica che circolano nella società. La lotta e l’organizzazione servono anche a instaurare rapporti di unità e di scambio con settori di tecnici, scienziati e intellettuali, come per certi versi è accaduto in Italia dopo il ’68.
Ma l’ostacolo non sono i lavoratori. Sono le politiche concrete di volta in volta praticate dai partiti e dai sindacati del movimento operaio. La politica di collaborazione di classe è per sua natura subalterna politicamente e culturalmente all’avversario di classe.
Nella fase positiva di sviluppo economico questa subalternità si esprimeva anche nell’idea che non bisognava ostacolare la crescita con rivendicazioni troppo radicali perché, finché la torta cresce, è più facile strappare aumenti salariali senza intaccare i profitti e dunque senza bisogno di uno scontro frontale con il padrone. Ovvio che non si andasse troppo per il sottile sui “modi” della crescita economica: gli apparati sindacali non solo non si preoccupavano del degrado della natura, ma neppure si preoccupavano troppo della salute dei lavoratori.
Oggi, in una fase recessiva, questa logica porta ad accettare lo smantellamento pezzo per pezzo di tutti i diritti dei lavoratori: la scala mobile, lo stato sociale, la certezza del posto di lavoro ecc. In questo clima è difficile parlare di ambiente con i lavoratori. L’aumento dello sfruttamento e il peggioramento delle condizioni di lavoro hanno fatto crescere a dismisura negli ultimi anni gli incidenti e gli omicidi bianchi, al punto che gravi e ripetuti episodi non fanno quasi più notizia sui mass-media.
In queste condizioni, non è immaginabile di chiedere ai lavoratori di riconoscersi in proposte che non leghino insieme strettamente la difesa dell’ambiente e la difesa dell’occupazione. Non si può chieder loro di pagare per la irresponsabilità padronale e per l’inefficienza e le complicità dello Stato.
Siamo così giunti alle ultime due questioni: è possibile qualche specie di ecocapitalismo? e in ogni caso: quali proposte, quale programma devono avanzare i comunisti?

3. E’ possibile l’ecocapitalismo?

Negli ultimi vent’anni, da quando è esplosa la crisi ambientale, abbiamo assistito a tutta una serie di tentativi di politiche ambientali capitalistiche. A quale logica ubbidiscono e che risultati hanno conseguito?
Il fine cui mirano non è la soluzione della crisi ambientale ma più prosaicamente tenere sotto controllo le conseguenze economiche e le contraddizioni politiche e sociali determinate dall’insorgere dei problemi ecologici.
I mezzi di queste politiche sono quelli tradizionali del capitale: l’intervento dello Stato per socializzare le perdite, il ricorso al mercato quando c’è da profittare (l’ecobusiness, cioè il settore dei servizi ambientali, è un classico settore privato che vive foraggiato dai bilanci pubblici).
Se ci chiediamo “chi decide? chi paga? chi controlla?” nei campi di interesse ambientale, è facile rispondere.
Le decisioni che contano (l’adozione delle tecnologie, i grandi assi dello sviluppo, la programmazione territoriale, ecc.) restano sottratte alla verifica collettiva e quando teoricamente spettano ad organismi elettivi in realtà sono monopolio dei “comitati d’affari” in cui, dietro la facciata della democrazia rappresentativa, operano le diverse componenti che si dividono la gestione del potere nella società del capitale: gli uomini del capitale in senso proprio, avventurieri e malavitosi vari, il ceto politico del regime, i boiardi degli enti di Stato, gli alti papaveri della pubblica amministrazione, ecc. E’ la lezione di Tangentopoli.
A pagare sono naturalmente i contribuenti, cioè in primo luogo i lavoratori (dipendenti) per opere la cui utilità è in proporzione inversa delle tangenti che sono state pagate.
I controlli poi sono quasi inesistenti, spesso vige il sistema di fare controllori i controllati stessi. E in ogni caso, è noto, le cose si possono sempre “aggiustare”.
I risultati?
Il risultato principale delle politiche ambientali di questi anni è la nascita di un nuovo settore di attività e di mercato (il settore dei servizi ambientali) che in ogni paese capitalistico sviluppato assorbe una quota crescente di risorse (tra l’1 e il 2% del prodotto lordo). Un settore che partecipa dunque alla valorizzazione del capitale, che dà cioè profitti (garantiti, come abbiamo visto, dalle commesse pubbliche), ma che per l’economia nel suo complesso va calcolato in realtà come un costo: il costo della riparazione dei danni ambientali.
Perché, e qui sta il problema, il capitalismo non interviene a monte della produzione dove nascono i problemi, per convertire i cicli produttivi, eliminare le lavorazioni inquinanti, modificare i modelli di consumo, modificare le scelte sbagliate (i pesticidi in agricoltura ad esempio). Il capitalismo interviene a valle, dopo che i problemi sono stati creati, e crea un settore aggiuntivo, ad esempio per smaltire i rifiuti, depurare le acque, abbattere i fumi, ripristinare il degrado ecc. Con una mano inquina, con l’altra disinquina. Il risultato è che si fanno profitti due volte, ma la situazione continua a peggiorare.
La cosa è tanto più evidente se si prende in considerazione il quadro mondiale, e non solo i paesi avanzati. Ma anche qui, molte norme introdotte negli ultimi anni sotto la pressione dei movimenti ambientalisti si rivelano sempre più risultati parziali. Il controllo degli inquinanti che avvelenano l’aria delle città, ad esempio, per quanto ancora insufficiente, ha migliorato il quadro rispetto a vent’anni fa. Questi miglioramenti, però, appaiono destinati ad essere rapidamente vanificati dalla crescita inarrestabile del numero delle auto in circolazione: più auto, anche se singolarmente meno inquinanti, significa alla lunga più inquinamento.
Di fronte a questi limiti comprovati dell’ecocapitalismo finora conosciuto, chi crede alla possibilità di una autoriforma del sistema, o di una riforma sotto la pressione della società, propone in genere politiche pubbliche più attive e coordinate in funzione della cosiddetta “riconversione ecologica dell’economia”, ovvero della realizzazione di un modello di sviluppo “sostenibile”.
A questo scopo, gli strumenti su cui si insiste maggiormente sono sia la politica degli standard di qualità ambientale (stabilire per legge limiti inderogabili di inquinamento), sia la leva fiscale, ossia un insieme di tasse e di sussidi che modifichino il “sistema di convenienze” degli operatori privati manipolando il mercato e i prezzi che si formano su di esso. In tal modo si conta di orientare gli investimenti delle imprese, gli acquisti dei consumatori, la ricerca tecnologica ecc. in direzione della compatibilità con l’ambiente.
Personalmente credo che molte di queste proposte siano intelligenti e alcune anche fattibili. Credo però che sia impensabile di imporle nel loro insieme e di realizzare in tal modo una sorta di tigre con le briglie che si comporta come un gattino d’appartamento cioè un capitalismo che continua ad essere tale ma che nel contempo rispetta i vincoli sociali e ambientali che la società gli fissa dall’esterno. A mio parere, nelle condizioni di un capitalismo “normale” (in cui comandano i padroni e lo Stato è il loro comitato d’affari), la riconversione ecologica dell’economia è un’illusione.
Essa significherebbe aver soppresso le leggi fondamentali che lo governano, il profitto e la concorrenza fra i capitali. Aver posto a principio regolatore delle attività produttive la considerazione dei bisogni sociali e il rispetto dei vincoli ambientali. Illudersi che sia possibile un capitalismo siffatto, che sia possibile riconvertire l’economia “tirando per la giacchetta” il padrone illuminato di turno (ieri era Gardini…) è l’errore che, a mio avviso, ha spesso commesso il riformismo verde in questi anni.
Il riformismo verde ha dei meriti. Ha presentato proposte, spesso condivisibili, su come intervenire ad esempio sul settore dei trasporti per incentivare gli spostamenti su rotaia invece che su gomma, sull’agricoltura per ridurre la dipendenza dai pesticidi e proteggere il suolo, sul regime dei suoli per combattere la rendita urbana, sul sistema fiscale per incentivare i settori puliti e scoraggiare le pratiche insostenibili, e così via. Ma si è illuso che la “ragionevolezza” delle proposte – che sulla carta mettono d’accordo nel medio-lungo periodo salvaguardia dell’ambiente e salvaguardia del profitto – bastasse a convincere governo, ministri (Ruffolo, Ripa di Meana…), o rappresentanti del capitale ad adottare i suoi suggerimenti.
Abbandonare dunque ogni proposta di riconversione del “modello di sviluppo” e di risanamento delle industrie, allora?
No di certo, ma non farsi illusioni.
E cercare di perseguirli non “tirando per la giacchetta” i padroni e il governo ma mettendo in piedi un movimento antagonista. Sapere che non sono realizzabili per gentile concessione del padrone.
Dunque, neppure correre dietro agli argomenti propagandistici del padrone; ad esempio alla retorica del “mercato efficiente” e delle privatizzazioni.
Al contrario, i comunisti devono rilanciare l’esigenza di una vera politica, socialmente controllata, di intervento pubblico di pianificazione per orientare, gestire, controllare lo sviluppo economico in modo da soddisfare i bisogni essenziali, individuali e collettivi, nel rispetto delle compatibilità ambientali, combattendo il degrado e valorizzando le risorse ambientali di pregio. L’ambiente infatti non è solo una fonte di problemi; saggiamente amministrato è prima di tutto una fonte di ricchezza.
A questo viene in genere obiettato che l’espansione dell’intervento pubblico comporta il rischio di riprodurre i carrozzoni clientelari dell’Italia democristiana. A questo argomento occorre replicare avanzando proposte di altro segno in merito alla gestione, imperniate sul principio della trasparenza e del controllo operaio e sociale. C’è solo un modo per escludere rischi di carrozzoni burocratici: la lotta dei lavoratori, la partecipazione dei cittadini, estese forme di controllo da parte dei lavoratori e della società.
Questa è anche la base, in condizioni politiche radicalmente cambiate, per costruire una economia di tipo diverso: non più capitalistica, ma ugualmente efficiente; non più regolata dal profitto ma non per questo irrazionale; funzionante secondo un piano centrale ma non per questo dispotica, perché sottoposta a tutti i livelli a forme di autogestione e soprattutto al controllo dei lavoratori e dei cittadini. In una parola, una economia in trasformazione in senso “socialista”, o meglio “ecosocialista”, intendendo sottolineare con il prefisso “eco” che il corretto rapporto con l’ambiente è condizione essenziale del nuovo modo di organizzare la produzione e i servizi della società umana, quanto la proprietà sociale delle condizioni e delle forze produttive, la priorità del valore d’uso sul valore di scambio, la regolazione cosciente e razionale al posto delle cieche leggi del mercato, la soddisfazione dei bisogni umani invece della valorizzazione del capitale.

4. Quali proposte programmatiche?

Ma oggi non siamo ancora al socialismo, prospettiva che sembra anzi piuttosto lontana, mentre noi abbiamo bisogno di risposte, anche parziali, ma minimamente concrete, per l’oggi. Anche perché i padroni usano il pretesto dell’ambiente per ridurre l’occupazione, per chiudere stabilimenti, o per spillare soldi allo Stato.
Non c’è tuttavia contraddizione tra le proposte di prospettiva e quelle per l’oggi. Quelle per l’oggi sono spesso parziali, dunque meno generali e coerenti, e di per sé non cambiano il sistema come tale, ma solo spostano in avanti qui e là lo scontro con il padrone conquistando dei punti a favore dei lavoratori e della società. Nel formularle, dovrebbe essere preoccupazione dei comunisti da un lato che si tratti di proposte che danno risposte vere ai problemi, e non palliativi; dall’altro che si tratti di rivendicazioni che aiutano a creare condizioni più favorevoli per sviluppare la lotta per un cambiamento più complessivo, per costruire un ponte tra la coscienza data delle masse e la comprensione da parte loro della necessità di rompere il quadro delle compatibilità e di porre il problema del potere.
In questa logica, vedo due questioni di fondo, due assi, che dovrebbero caratterizzare l’iniziativa e la proposta politica dei comunisti sulla questione ambientale:
(a) la lotta per affermare il principio della piena responsabilità oggettiva riguardo alle conseguenze sociali e ambientali delle attività di impresa, principio che riguarda questioni di fondo quali il “chi deve pagare” il ripristino dell’ambiente o la riconversione ecologica dell’apparato industriale e la difesa dell’occupazione;
(b) la lotta per il controllo operaio e sociale sulle attività produttive e sull’ambiente, e per gli strumenti anche istituzionali per esercitarlo praticamente in ogni occasione.

(a) Occorre sostituire al principio “chi inquina paga” quello della piena responsabilità oggettiva delle conseguenze sociali e ambientali delle attività d’impresa, che è qualcosa di più ampio e di qualitativamente diverso. Più ampio perché include i costi sociali così come percepiti dalla collettività (ad esempio la perdita dei posti di lavoro). Qualitativamente superiore perché rifiuta la monetizzazione diretta o indiretta del danno ambientale, afferma il diritto della società di stabilire i vincoli all’attività economica, rifiuta di subordinare l’imputazione di un onore all’imprenditore a una sua violazione dolosa o colposa delle leggi vigenti, sia perché queste ultime sono in genere lacunose proprio per mirate “interferenze” padronali nella loro definizione sia perché solo la sicurezza di dover pagare comunque obbliga i capitalisti a una certa prudenza “preventiva”.
Un referendum proposto da Dp qualche anno fa andava in questa direzione. Occorre affermare che i lavoratori e la collettività non devono pagare l’irresponsabilità del padronato. Non solo chi ha devastato deve ripristinare: chi ha tratto profitti da attività inquinanti non può pensare di chiudere e basta, quando la ribellione della gente non gli consente più di continuare.
Perciò:
– no assoluto ai licenziamenti; obbligo di riconversione;
– quando la riconversione sia impossibile, deve essere garantita la ricollocazione produttiva dei lavoratori, nella stessa zona, a spese del padrone;
– per i padroni che cercano di sottrarsi a queste responsabilità licenziando o chiudendo, esproprio delle attività come forma di risarcimento sociale e per consentire di salvare l’occupazione.

(b) La battaglia per il controllo operaio e sociale sull’ambiente va sviluppata ogni volta che sia possibile mediante la pratica dell’obiettivo. Tuttavia è utile puntare a ottenere anche norme “di sostegno” nella logica all’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori che, per quanto da tempo dimenticato, consentirebbe agli organismi dei lavoratori forme autonome di controllo in materia di salute e di nocività in fabbrica. Occorre rivendicare:
– il diritto di controllo per le organizzazioni dei lavoratori e dei cittadini su tutte le attività produttive o di altro genere, pubbliche e private, suscettibili di danneggiare l’ambiente naturale e storico;
– il diritto di accesso a tutte le informazioni in possesso di soggetti pubblici e privati che possono riguardare la prevenzione di danni alla salute pubblica e all’ambiente;
– la facoltà di ricorso d’urgenza per le organizzazioni dei lavoratori, i comitati di cittadini, le associazioni ambientaliste ecc., e correlativo obbligo d’azione in tempi certi dell’autorità preposta (insomma un meccanismo del tipo di quello previsto dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori per la repressione dell’attività antisindacale), allo scopo di attivare tempestivamente l’intervento pubblico di prevenzione, tutela e repressione delle attività che minacciano la salute e l’ambiente, con ampi poteri per gli organismi titolari della responsabilità della tutela ambientale (sindaci, autorità di bacino, futura agenzia dell’ambiente ecc.) di emanare ordinanze con valore immediatamente vincolante, anche per i soggetti privati, in materia di controllo delle tecnologie e di adozione di misure di sicurezza e di prevenzione dei danni ambientali.

 

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