NOI NON DIMENTICHIAMO

di Domenico Quirico

Preparatevi. Questa è una storia macabra. Sì, perché macabro è stato il colonialismo belga, il più esplicito e predatore, quello delle frustate e delle mani mozze, della ipocrisia cattolica, del cuore di tenebre, degli affari d’oro della Union miniére, del buon re Leopoldo e del buonissimo re Baldovino. Di Mobutu, il più perfetto cleptocrate della Storia. Ma anche di Patrice Lumumba. Uno dei redentori dell’Africa. Di lui parliamo: una pallida ombra per noi, un mito eterno nel firmamento degli eroi di un’Africa ancora alla ricerca di una liberazione. E’ così vivo nella mente delle giovani generazioni come se lo avessero fissato su un quaderno e lo leggessero a se stessi.

Sartre lo incastonò in una definizione memorabile: un rivoluzionario senza rivoluzione. Che equivale a una condanna al martirio. Un profeta non è veramente un profeta se non dopo la morte e fino a quel momento non è un uomo facilmente frequentabile. Ogni uomo che arriva dalla sconfitta è come un romanzo con capitoli, pianti, torture, idilli, risa, solitudini. Ma quella che sbalordisce è questa storia di resti umani; anzi di reliquie perché c’è sempre l’impronta del sacro in ogni sacrificio come il suo.

Inizia il 17 gennaio 1961 all’aeroporto di Elisabethville, (ora si chiama Lubumbashi), la capitale del Katanga, provincia mineraria dell’est del Congo. Trasuda metalli come se fossero polvere, quella terra. La regione è in rivolta, un barattiere politico, senza scrupoli, istigato e finanziato dai belgi, Moise Ciombè, vuole il potere. Manovra un esercito di mercenari cui ha concesso la cittadinanza: così può esibire una armata ‘’nazionale’’. I mercenari, alcuni italiani, li paga duecentomila lire al mese.

Il capo dei caschi blu svedesi dell’Onu (sono in Congo per cercare di arginare i massacri tribali dopo la tumultuosa proclamazione della indipendenza, giusto sessanta anni fa) osserva l’atterraggio di un aereo con le insegne congolesi. E un sottoufficiale, Lindgren.  Il dc 4 si infila rullando nell’hangar della aviazione militare katanghese, fuori dal raggio di giurisdizione dell’onu. Jeep e camion di gendarmi katanghesi si avvicinano all’aereo e lo circondano.  Scendono tre uomini, barcollando, bendati e con le mani legate. I soldati, subito, li colpiscono ferocemente con i calci dei fucili e li gettano su una jeep. Che si allontana attraverso una breccia nel muro dell’aeroporto.

I soldati svedesi non fanno nulla se non registrare quanto è accaduto. Non fanno domande ai katanghesi. E’ una viltà, discrezione ipocrita che non solo in africa aggiungerà altri episodi nefasti, macchierà bandiere e carriere.

Gli uomini così brutalmente malmenati sono Patrice Lumumba, fragile primo ministro dell’indipendenza, e due suoi fedeli.  Per i belgi e per la Cia è un pericoloso comunista che rifiuta la indipendenza per finta munificamente concessa dalla ‘’Belgafrique’’ per mantenere tutto eguale e congiura per cedere le ricchezze minerarie a Mosca. Lumumba è invece un nazionalista, un africano che si è stancato di essere trattato come uno sporco animale, come un ladro e una bestia da lavoro. Per questo c’erano mille morti pronte per lui.

E’ il Belgio che ha programmato il caos, facile in quel centro dell’Africa, una estensione  troppo vasta di savane e di buie foreste, abissi antropofagi  dove la umidità notturna sembra aver lavato il mondo, e di terra butterata e sfatta  delle miniere di rame, cicatrici tondeggianti,  colme di pus  colore del fango; dove da una città all’altra corre la distanza che c’è tra  Palermo e Copenaghen; dove un fiume largo come il mare che sembra afflitto da un disordine patologico percorre quasi quattromila chilometri prima di sfociare nell’oceano con una forza che lo infanga per chilometri .  Il Congo: non è più una colonia ma non è una nazione. Tutta l’Africa cantava ‘’Indépendence cha cha’’, il motivo  dell’inventore dell’africa jazz il congolese Joseph Tsamala detto il Grand Kollé. Ma nel Paese si contavano in tutto 17 diplomati per l’insegnamento superiore.  Gli ospedali e i dispensari erano puliti e relativamente moderni ma i congolesi non hanno fornito loro che i malati.  Il primo medico, uno solo, arriverà nel 1962.

E poi c’è Lumumba. E’ un uomo che ha la magia nelle parole, sangue nelle sillabe, che fa sognare.

L’odio dei belgi verso di lui risale al giorno della indipendenza. E’ presente a Leopodville re Baldovino, paterno, condiscendente, prelatizio nella sua divisa candida. dopo il te deum a santa Anna il re rende omaggio ‘’all’opera e al genio di re Leopoldo’’. L’antenato che amministrava il Congo come una proprietà privata, che collezionava le mani mozzate dei neri che fuggivano dalle piantagioni di caucciù.

Lumumba risponde, con furore:  ‘’noi non dimentichiamo le ironie gli insulti le botte che abbiamo subito mattino pomeriggio e sera perché eravamo dei negri. Questa indipendenza è solo nostra’’.

Baldovino ascolta livido. Firma la dichiarazione di indipendenza ma la morte di Lumumba ha inizio allora.

Un anno dopo, per salvarsi, è in fuga verso le zone controllate dai suoi seguaci. Individuano il convoglio con un elicottero. E’ preso, portato in un campo militare. i suoi sostenitori non lo vedranno mai più. L’ultimo ricordo è quello di un padre preoccupato per i suoi figli piccoli:  ‘’vorrei che studiassero e imparassero l’inglese.  avrei voluto stare di più con loro ma non ho mai avuto il tempo di amarli davvero’’.

Dalla cella scrive ancora alla moglie: ‘’ La storia dirà un giorno la sua parola, non la storia che si insegnerà a Bruxelles  Parigi Washington o alle nazioni unite  ma quella che si insegnerà nei paesi africani affrancati dal colonialismo.  E dai suoi fantocci. Sarà l’Africa a scrivere la sua storia e sarà a nord e a sud del Sahara  un storia di dignità e di gloria.  Non piangere, mia compagna…’’.

Lo hanno trascinato nella foresta: le voci dei gendarmi, ubriachi di birra e di sangue, che alternano cantilene gutturali e grida squillanti di vendetta. Gli passano davanti, lo colpiscono. C’è odore pungente come di frutta in fermento, come di un carbone infuocato. L’odore della pelle dell’Africa: calore? Terra? Vegetazione?  Forse è l’odore del sangue antico. Ad ucciderlo con un colpo di baionetta sarebbe stato un ministro del katanga, Mugongo, a cui Lumumba lancia l’insulto: ‘’ ti sei venduto ai belgi’’. Secondo altri lo uccise un mercenario belga promosso da Ciombè colonnello. Erano presenti altri due ufficiali belgi e un mercenario inglese Robert Chalmers, seguace del nazista Mosley, che diede il colpo di grazia.  Il cadavere è fatto a pezzi con una sega, poi seppellito nella foresta. Ma ai belgi non basta: chiedono sia dissepolto e sciolto nell’acido. Meglio non lasciare tracce.

Il commissario di polizia belga Gérard Soete chiede gli conservino alcuni denti e una falange. Come di una bestia abbattuta, un feroce souvenir coloniale.  I katanghesi per settimane mantengono il silenzio, replicano alle richieste dell’Onu assicurando che Lumumba sta bene. Poi imbastiranno una storia banale: un tentativo di evasione finito male, lo hanno ammazzato, dicono, imbestialiti, gli abitanti di un villaggio senza nome nella foresta. Munongo ironizza: “Mentirei se dicessi che la morte di Lumumba mi rattrista, era un criminale… dite che noi l’abbiamo assassinato. Rispondo: provatelo’’.

Aveva ragione. dopo sessanta anni la denuncia portata dalla famiglia di Lumumba è bloccata, dieci belgi sono indagati, quattro sono già morti di vecchiaia. La proposta di dedicare uno spiazzo a Lumumba nel quartiere congolese di Bruxelles, Matonge, è stata respinta a lungo dal consiglio comunale, formato da liberali e socialisti: una personalità controversa, hanno spiegato.

Restano le reliquie. La figlia di Lumumba ha scritto a re Filippo la restituzione per seppellirle degnamente nel suo paese. La Figlia di Soete ogni tanto mostrava un dente d’oro di Lumumba, anche a un giornalista inorridito. Lui Soete diceva di essersi pentito e di averle gettate in mare.

Tratto da: www.lastampa.it

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