CILE: TRA REPRESSIONE E RESISTENZA

Cile. Sfiancare il popolo per riprendere la mano…

di Paolo Gilardi

A fine ottobre, l’apparizione dei carri armati nelle strade di Santiago in seguito alla promulgazione dello stato d’assedio da parte del governo Piñera aveva risvegliato tanti orribili ricordi. Perlomeno scomodo in termini di immagine e inefficace nei fatti, lo stato d’assedio é poi stato levato a metà dicembre in cambio di una pseudo apertura sulla riforma costituzionale. (1)

Ciononostante, la repressione continua ad abbattersi contro la popolazione cilena nell’intento di sfiancare un popolo che, dal 18 ottobre, é per le piazze ed ha stravolto il funzionamento della società..

Non é lo stadio di Santiago, certo…

Un rapporto dell’istituto nazionale cileno dei diritti umani, l’INDH, pubblicato lo scorso 18 febbraio stabilisce un bilancio provvisorio: 29 sarebbero i morti, 3.765 i feriti – fra i quali 445 avrebbero perso l’uso totale o parziale della vista -, 195 le vittime di violenze sessuali e 951 i casi di tortura che sono oggetto di una procedura giudiziaria. Inoltre, più di 25.000 sarebbero le persone arrestate mentre non si sa quante siano quelle che sono private di libertà in funzione del principio degli “arresti preventivi” iscritto nella Costituzione del 1984, quella di Pinochet.

Tali cifre però vanno prese con beneficio d’inventario nella misura in cui si tratta solamente dei casi più conosciuti e dichiarati. Sapendo l’obbligo fatto agli ospedali di denunciare alle forze dell’ordine chiunque si presentasse per farsi curare dopo esser stato ferito durante una manifestazione, é facile immaginare che tantissime siano state le persone che all’ospedale non ci sono andate e che non figurano quindi nelle statistiche del INDH.

Siamo, certo, ben lontani dalle 50.000 a 100.000 persone rinchiuse nei primi giorno successivi al golpe del 1973 nello stadio nazionale di Santiago e dal quale decine di migliaia uscirono senza vita. Però, il paragone non ha ragione di essere: si trattava allora di stroncare ogni tentativo di resistenza contro il golpe, di eliminare e massacrare quante e quanti potessero rappresentare un ostacolo all’assestamento del nuovo regime.

Oggi, é contro un’offensiva venuta dal basso, nata con i movimenti studenteschi e delle donne all’inizio dell’ultimo decennio e sfociata nell’immenso movimento popolare emerso il 18 ottobre, che l’apparato repressivo agisce con un margine di manovra ben più limitato di quanto ne avessero i generali del 1973.

Sebbene Piñera abbia all’inizio avuto ricorso a toni bellici a proposito della “sicurezza nazionale messa a male” ed abbia pure parlato di “guerra”, la natura massiccia della rivolta popolare e l’attuale rapporto di forza – insisto sulla nozione di rapporto di forza attuale – non l’autorizzano a scelte frontali quali, per esempio, la sospensione del Parlamento, la sospensione delle libertà democratiche o il coprifuoco.

Di media intensità… ma su larga scala

La strada scelta dal potere é stata quindi quella dell’accordo “per la pace e la nuova Costituzione”. In cambio della non applicazione dello stato d’assedio, la maggior parte delle forze di opposizione si sono impegnate in una logica che sposta l’attenzione dalle rivendicazioni della piazza verso gli ambiti istituzionali. E’ per l’appunto in questo contesto che una repressione di media intensità, ma largamente diffusa, gioca un suo ruolo particolare.

Come scrive l’universitario canadese Marcos Angelovici (2), che ha partecipato in gennaio ad una missione di osservazione dei diritti umani in Cile “per ogni persona arrestata, pestata, stuprata, torturata, quanti altri tremano?” (3)

E’ questo l’effetto insidioso della repressione in corso: sfiancare un popolo insorto, con la paura, le angherie ed i soprusi quotidiani ma cercando di assicurare le parvenze di un funzionamento democratico. A questo proposito, é stato sintomatico dell’attuale situazione l’iniziativa presa dal governo di incontrare le organizzatrici della manifestazione delle donne dell’otto marzo per stabilire con i carabinieri – la forza antisommossa – le modalità della giornata.

“La protesta é un diritto che non si negozia”

L’incontro, al quale avrebbero dovuto partecipare, a nome del governo, tre donne, la sottosegretaria alla condizione femminile, la sottosegretaria alla prevenzione dei delitti e Berta Robles, generale dei carabinieri, non c’é stato, semplicemente perché le forze femministe non ci sono andate.

Ai tempi della dittatura, tale incontro non sarebbe nemmeno stato immaginato e la manifestazione dell’otto marzo semplicemente proibita. Invece, qui si trattava, per riprendere i termini di Berta Robles di “trovare un equilibrio tra il diritto di quanti manifestano e quello di quanti vogliono beneficiare della libertà di spostamento e della loro tranquillità”. (4) Il fatto dà la piena misura della differenza di situazione: il Cile di oggi non é quello dell’indomani dell’11 settembre 1973, al di là della demagogia e dell’assurdo paragone tra il diritto di manifestare dei più e l’aspirazione di alcuni alla “tranquillità”.

D’altronde, é proprio considerando che “la protesta é un diritto che non si negozia con il governo”  (5) che le organizzazioni femministe a quell’incontro non ci sono andate. Ed é proprio quel giorno, lo scorso 26 febbraio, che é stata stata messa in rete una video diventata rapidamente virale, di distaccamenti dell’esercito impegnati in esercizi di scontri con dei manifestanti, impegnati cioè in compiti di ordine pubblico che, costituzionalmente, non rientrano nelle prerogative dell’esercito nazionale.

Il governo ha dovuto ammettere che l’esercizio c’era stato per davvero, il giorno prima, ma si é permesso di pretendere, contro l’evidenza delle immagini, che la VI Divisione stava esercitandosi alla “protezione di istallazioni militari”. Di nuovo, non é ai tempi di Pinochet che il governo si sarebbe scomodato per escludere che l’esercito si prepara ad intervenire contro i manifestanti.

Collaudi in situazioni reali

Ciò che invece non cambia dai tempi della dittatura é il nome di chi gli strumenti di repressione e la formazione ad utilizzarli li fornisce, Israele!

La collaborazione militare e securitaria con lo stato sionista, iniziata immediatamente dopo il colpo di Stato, aveva conosciuto un incremento particolare dal 1976 quando, di fronte alla riprovazione dell’opinione pubblica statunitense, il presidente Carter si era auto-imposto un embargo sulle esportazioni d’armi verso il Cile. Al contempo, agenti della polizia politica, la DINA, erano formati in Israele dal Mossad. (6)

La collaborazione militare é continuata dopo la fine della dittatura nella misura in cui i vari governi succedutisi dal 1990 in qua mai hanno abolito le leggi anti-terroriste del 1984 quelle che autorizzano gli arresti preventivi, forme di privazione della libertà comparabili alle detenzioni amministrative imposte da Israele a decine di migliaia di Palestinesi.

Sono queste leggi del 1984 che il governo cileno applica in particolare contro le popolazioni Mapuche e che necessitano di un materiale e di tecnologie di sorveglianza che Israele ha già sperimentate in situazioni reali.

E’ così che, nel 2018, un nuovo accordo di cooperazione in materia di formazione militare, di comando e di metodi di sorveglianza é stato firmato dal generale israeliano Yaacov Barak e da un suo omologo cileno, Ricardo Martinez. Durante la sua visita poi, Yaakov Barak ha passato in rassegna le truppe della brigata Lautaro, in carica delle cosiddette operazioni speciali ed il cui comandante, Javier Iturriaga, era stato investito di larghi poteri da Piñera al momento dell’instaurazione dello stato d’assedio a fine ottobre.

Ci si può anche chiedere se, dopo aver verificato le armi sul terreno a Gaza o in Cisgiordania, Israele non abbia fatto del Cile il nuovo poligono di collaudo su scala reale delle nuove armi, quelle da utilizzare poi nei territori palestinesi…

Una ragione di più…

E’ una ragione di più perché le sinistre europee, nord e sud-americane rimettano al centro i compiti di solidarietà contro la repressione perché, al di là della farsa della riscrittura della Costituzione, é la capacità di resistere del popolo cileno che il potere sta cercando di sfiancare.

Per il momento, sembrerebbe che questa repressione di media intensità sia lungi dal raggiungere le scopo. In ogni caso, la moltiplicazione delle violenze contro le donne – stupri, pestaggi, diffamazione – ha funto più da stimolante che da fattore dissuasivo della mobilitazione, come lo dimostra l’imponente manifestazione dell’otto marzo alla quale hanno partecipato, a Santiago, quasi due milioni di persone, in maggioranza donne.

Per Piñera, ancora una manche persa perché, per l’appunto, l’obiettivo suo é quello di ribaltare l’attuale rapporto di forza.

9 marzo 2020

NOTE

1) Vedasi il mio articolo «Non tutto é oro quel che luccica», Rproject.it
2) Titolare della “Cattedra di ricerca del Canada in sociologia dei conflitti sociali” all’UQAM di Montréal
3) https://ledevoir.com/opinion/idees/572102/amerique-du-su-l-onde-de-choc-de-la-repression-au-chili
4) Resumen latinoamericano, 26.02.20, «De cara al 8M: Organizaciones feministas rechazaron asistir a reunion de coordinacion con el gobierno»
5) Ibid.
6) https://orienxxi.info/magazine/le-chili-terrain-d-experimentation-pour-les-ares-israeliennes,3440

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