UNA NUOVA CATASTROFE

di Cinzia Nachira

Se oggi qualcuno si sta meravigliando dell’attacco turco contro il movimento curdo nel nord est della Siria, dovrebbe ricevere un premio.

L’uscita improvvida di Donald Trump – sulle cui ragioni rinviamo all’articolo di Gilbert Achcar (1) – è un boomerang che le sortite grottesche del presidente statunitense non rendono meno grave. Anzi, semmai queste “battute” (“i curdi che non hanno aiutato gli Stati Uniti in Normandia”, “gli USA possono star tranquilli perché i militanti ISIS detenuti dai curdi andranno sicuramente in Europa”…) pongono delle domande inquietanti su dove stiamo arrivando in termini di analfabetismo di ritorno su scala mondiale. Perché malgrado tutto questo personaggio, che dovrebbe suscitare orrore e timore, è ritenuto credibile ed è osannato da una parte consistente del suo elettorato, mentre le tensioni che le sue decisioni hanno scatenato anche tra i suoi stessi più stretti collaboratori, ormai da mesi, vengono derubricate come “affari di palazzo”.

Inquieta il fatto che questa deriva non riguardi solo gli Stati Uniti, ma sia ormai moneta corrente a livello internazionale. Se poi, come in questo caso, all’ignoranza si assomma l’ipocrisia allora lo scenario per un verso si semplifica e per un altro verso diventa più drammatico.

Di questo ne è un esempio evidente il coro quasi unanime dei governi europei che ora criticano Erdogan.  Il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dall’alto delle sue competenze accademiche, ha sostenuto senza tema del ridicolo che l’offensiva turca nel nord est della Siria mette a rischio la “stabilità della regione”. È, quindi, probabile che il vocabolario del presidente del Consiglio sia diverso da quello italiano, perché la domanda immediata è: per lui, cosa significa “stabilità”?

Quella a cui fa riferimento Giuseppe Conte, come d’altronde tutto il governo, è la regione mediorientale dove dalla Palestina allo Yemen, restando con i piedi in Siria, ci sono almeno due guerre civili che straziano da anni popolazioni inermi, ridotte alla fame e alla morte per malattia, in assedi di medievale memoria. Ci sono almeno tre Paesi – Iraq, Siria e Yemen – dove la distruzione è generalizzata. Quella è la regione dove si stanno combattendo guerre civili e per procura tra grandi potenze internazionali e regionali che causano centinaia di migliaia di vittime, milioni di profughi e sfollati. Se questa è la “stabilità” per Conte e il governo italiano, allora parliamo lingue diverse.

È evidente che nel ginepraio delle componenti politiche e religiose che si contrappongono nella guerra civile siriana i curdi siriani rappresentino per molti aspetti fondamentali quella più avanzata e progressista almeno nella regione del nord est siriano.

Da molti esaltata, fino ad essere mitizzata in alcuni casi, evidentemente l’esperienza del Rojava non dà fastidio solo alla Turchia, ma anche alle altre potenze che in quello sventurato Paese che è la Siria hanno puntato sulla divisione etnica, nazionale e religiosa per poter salvare il regime di Bashar al Assad che è all’origine di tutto. Quest’ultimo passo in avanti verso l’abisso ne è la conferma. Infatti, pugnalati alle spalle da alleati non certo affidabili, la direzione politica curda delle YPG, del PYD, come quella della SDF, vengono ora invitate da Assad, dalla Russia e dall’Iran, a fidarsi dell’altro campo. Purtroppo, la trappola è drammatica e probabilmente senza via d’uscita. Per altro, questa “offerta di aiuto” non è certo gratuita, perché chiaramente, seppure parziale, l’anomalia curda è un problema anche per la Russia, l’Iran (che ha sterminato i “suoi” curdi decenni fa), come per gli Hezbollah libanesi. In questo contesto, il fatto che in passato la leadership curdo-siriana abbia scelto delle alleanze “a geometria variabile”, cioè a seconda della regione del Paese, può rivelarsi un boomerang perché, ovviamente, nel nord e nel nord est siriano (Rojava) il ruolo predominante curdo ora viene messo in discussione.

Come altre volte è stato sottolineato, l’integralismo islamico sciita non è diverso, quanto a fanatismo, da quello sunnita e questo non fa ben sperare per l’esperienza del Rojava, che al di là delle mitizzazioni, non potrà continuare a sopravvivere se si dovesse ritrovare ad essere “difesa” dalla Turchia dall’Iran, dagli Hezbollah e dalla Russia. Il Rojava è come un orto biologico circondato da campi coltivati con i pesticidi usati a man bassa, i suoi prodotti malgrado l’impegno del coltivatore e delle sue intenzioni non possono non essere avvelenati.

L’offensiva turca, inoltre, non può non essere stata concordata sia con la Russia e l’Iran che con gli stessi Stati Uniti. Il paradosso è solo apparente, infatti seppure lo staff della Casa Bianca, in primis Mike Pompeo, sia all’opera per smentire che sia stato dato il via libera a Erdogan ed esponenti repubblicani e democratici stiano cercando un’intesa per decidere delle sanzioni contro la Turchia, alle Nazioni Unite Stati Uniti e Russia hanno bloccato una risoluzione di condanna dell’invasione. Dal canto suo Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, invita Erdogan alla “moderazione” e a “rispettare gli obiettivi previsti”. (2)

Ora che l’accordo tra il PYD e il regime di Bashar al Assad è diventato realtà, con la mediazione russa, non tutto è chiarito. Innanzitutto nulla sembra in grado di fermare l’offensiva turca. Neanche il beau geste di alcuni Paesi europei – in primis alcuni Paesi del Nord Europa seguiti da Germania e Francia – di annunciare a offensiva ormai iniziata l’embargo sulla vendita di armi alla Turchia che, ovviamente, non metterà in difficoltà l’invasore perché i suoi arsenali sono ben riforniti e perché, a meno di non arrivare ad uno scontro diretto con l’esercito di Assad foraggiato dalla Russia, la sproporzione fra i due campi ora in lotta è tale da poter far dire a Erdogan: non c’è problema.

Ciò non toglie che l’embargo sulla vendita di armi vada fatto, anzi anche in questo caso il governo italiano brilla per l’assenza e la sua ipocrisia di aspettare che “l’Europa parli con una voce sola”, cosa che evidentemente è tutto tranne che scontata, visti gli interessi assai diversi tra i diversi Paesi europei che non di rado arrivano ad essere in concorrenza tra loro.

La minaccia ISIS

Ma certamente, ciò che più ogni altra cosa – sicuramente più delle vittime civili di questa offensiva – preoccupa l’Occidente (e lo stesso Donald Trump deve essersene reso conto) è il destino delle migliaia di prigionieri fino al 5 ottobre in custodia dei curdi dell’ex Stato Islamico, insieme alle loro famiglie e a decine, se non centinaia, di combattenti europei e statunitensi e soprattutto ceceni, che avevano, al suo apogeo, raggiunto le fila ISIS. Insomma, la Turchia, dopo aver avuto un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti dell’ISIS, ora corre il rischio, volontariamente o meno, di offrire un’occasione d’oro di rinascita a quest’organizzazione. Questo, però, riguarda anche il regime di Bashar Al Assad, che non a caso all’inizio della rivolta nel 2011 svuotò le carceri degli integralisti che vi erano dentro e le riempì di oppositori laici.

Da questo punto di vista pensare che oggi i curdi possano essere difesi con sincerità dalle truppe di Assad è solo un pio desiderio degli ingenui oppure l’uso spregiudicato e cinico a fini di propaganda da parte di molti dell’esperienza curda nel nord est della Siria per demonizzare la rivolta siriana. Cosa che avviene da otto anni impunemente e la sua conclusione odierna, disgustosa e disperante insieme, oggi vede fianco a fianco Salvini e Meloni e coloro che da sinistra per anni hanno attuato una “solidarietà selettiva”.

In questo contesto caotico, è semplicemente disonesto non aggiungere le attuali centinaia di vittime curde agli ottocentomila morti che già conta la tragedia siriana. Come altrettanto ingiusto è non aggiungere le centinaia di migliaia di sfollati che sta causando l’avanzata turca ai nove milioni causati dall’attacco concentrico del regime, della Russia, dell’Iran e degli Hezbollah.

Queste considerazioni non sono solo di carattere etico, per quanto questo piano per noi sia prioritario, perché una delle maggiori motivazioni dell’offensiva turca riguarda esattamente i tre milioni e seicentomila profughi siriani presenti nel Paese e che Erdogan vuol “riportare” in patria, in una sorta di deportazione “umanitaria” che però non è ben vista dal regime di Assad. E questo potrebbe rappresentare il vero punto di scontro tra il regime di Damasco e quello di Ankara. Bashar al Assad non vuol rischiare di ritrovarsi milioni di rifugiati rientrati a forza e che sicuramente non sono disposti a farsi schiacciare ancora dal suo esercito e dai suoi apparati repressivi.

       […] perfino i russi hanno iniziato a riconoscere come il ritorno dei profughi sia osteggiato dal regime stesso, il quale teme possano diventare la base di una nuova insorgenza nei prossimi anni. La presenza dei siriani sta diventando un fattore di sempre maggior malcontento in Turchia ed è usato abilmente dall’opposizione anti-Erdogan. Una possibile soluzione a cui le parti potrebbero giungere potrebbe effettivamente essere il più o meno forzato ricollocamento di queste persone in una fascia territoriale lungo il confine, verosimilmente gestita dalle autorità turche. Ma anche altre soluzioni sono possibili, a cominciare dalla riapertura dei flussi verso l’Europa, lo scenario più temuto dalle cancellerie nostrane. Infine, l’ultimo nodo da risolvere è il ritiro americano, il quale, pur sembrando ormai inevitabile, potrebbe avere modi e tempi assai variabili. Trump, che per lasciare via libera alla Turchia si è scontrato con la maggioranza dell’establishment militare e con quello del suo stesso partito, potrebbe trovare un compromesso in un ritiro condizionato alla concessione da parte di Assad di garanzie e autonomie significative al PYD curdo. Difficilmente però una tale prospettiva potrebbe essere accettata dalla Turchia. Al contrario, essa potrebbe mettere in pericolo il piano russo per riproposizione del trattato di Adana. (3)

Questa sintesi efficace di Eugenio Dacrema sembra al momento confermata da ciò che si sta verificando sul terreno. L’accordo di Adana, cui si riferisce l’articolo di Dacrema, risale al 1998 e consisteva nell’impegno del regime di Damasco a impedire che i curdi siriani “infastidissero” la Turchia dando man forte al PKK. D’altronde, a coloro che oggi, giustamente, denunciano il regime turco, conviene ricordare che il 20 gennaio 2018 la conquista di Afrin e la sconfitta dei curdi fu resa possibile dal ritiro dei soldati russi dalla base in quella città e dalla concessione ad Ankara dell’uso dello spazio aereo. All’epoca, oltre alle solite romantiche note sulla resistenza curda, nessuno scese in piazza contro l’imperialismo russo di Putin. 

Quindi pur restando indispensabile la solidarietà con i curdi siriani oggi sotto attacco, non ci si può, né ci si deve fare illusioni sulle intenzioni di Bashar al Assad e sulle prospettive dell’accordo tra il PYD, le YPG e il FDS e il suo regime.

Perché per Assad questo accordo significa solo ed esclusivamente approfittare del caos, arte in cui sono maestri, per riprendere il controllo dell’intero Paese.

Per i curdi siriani questo accordo è dover accettare qualunque condizione per potersi salvare dalla catastrofe. Esattamente come avvenne con l’accordo con gli Stati Uniti quando erano sotto attacco dell’ISIS. Ma gli accordi fatti col fucile puntato alla nuca non sono negoziati alla pari e dunque ancora una volta ci troviamo di fronte a popolazioni civili intrappolate che pagheranno un prezzo altissimo perché vittime innanzitutto di alleanze ambigue e pericolose concluse con coloro che sono, da tutti i fronti, responsabili della tragedia siriana.

Cinzia Nachira

14 ottobre 2019

(1) Gilbert Achcar: Una pugnalata alle spalle. www.rproject.it

(2) intervista a Jens Stoltenberg pubblicata l’11 ottobre 2019 sul Corriere della Sera

(3) Eugenio Dacrema, Siria: come l’intervento turco trasformerà il conflitto, www.ispionline.it

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