(II) IL REGIME DI ASSAD E LA RIVOLUZIONE

Seconda parte della conversazione di Yusef Khalil per Jacobin con Yasser Munif.

Come dovremmo considerare il conflitto in Siria? È una rivoluzione? Alcuni la chiamano una guerra civile. Altri la chiamano una guerra internazionale per procura. Questo perché la rivoluzione siriana si concentra sul presidente Bashar al-Assad in particolare?

Inizierò col dire che ci sono due diverse dimensioni della crisi siriana. La prima è un conflitto estremamente complesso con molteplici ramificazioni, e la seconda è una semplice situazione. È necessario confrontarsi con queste due dimensioni allo stesso tempo.

L’aspetto più semplice della situazione siriana è che c’è stata una rivolta popolare che si opponeva al regime totalitario. Ciò è vero per tutta la regione araba. Questo è davvero il punto di partenza per capire cosa sta succedendo in Siria. E poi c’è ovviamente molta confusione e complessità, ma non si può davvero comprendere il conflitto siriano senza capire che l’origine della ribellione è nell’opposizione al presidente siriano e al regime.

Il regime siriano ovviamente, come tutti i regimi arabi, sapeva che non poteva opporsi ad un’insurrezione popolare pacifica molto a lungo. Doveva intorbidire le acque in modo da creare confusione. E lo ha fatto deliberatamente e fin dai primissimi tempi. E per questo che ha risposto alle proteste pacifiche con la forza. Se il regime siriano si fosse opposto la ribellione solo sulla base di proteste pacifiche e riforme e rivendicazioni, avrebbe perso la battaglia molto tempo fa, perciò ha impiegato diverse strategie per creare confusione.

Una di queste è stata la spinta verso la militarizzazione, che ha creato violenza in tutto il Paese. Lo ha fatto uccidendo per mesi e mesi manifestanti pacifici. Migliaia di manifestanti sono stati uccisi prima che ci fosse la militarizzazione dell’insurrezione. Ciò è molto importante. Il popolo non ha deciso di combattere il regime siriano con le armi.

In realtà, la maggior parte di chi appoggiava la rivoluzione era convinta che se si fosse trasformata in una rivolta armata avrebbero perso. Io ero uno di questi. Molti di noi hanno cambiato la loro posizione rendendosi conto che la militarizzazione non era facoltativa; era l’unico modo in cui la gente si poteva difendere contro la violenza del regime siriano che non era disposto a indietreggiare o ad accettare alcun tipo di riforma.

Il secondo strumento che ha utilizzato è stata l’islamizzazione dell’insurrezione e della rivolta, incarcerando i gruppi laici della rivolta, torturando e uccidendo molti di loro. Erano visti come la minaccia principale al regime siriano. Dall’altro lato, come è stato detto molto volte, il regime siriano ha rilasciato molti fondamentalisti islamici dalle sue prigioni nel 2011 e 2012. Molti di loro sono diventati i leader principali dei più grandi gruppi jihadisti, inclusi i leader di Ahrar Ash-sham e di Jaysh al-Islam e molti leader di Al-Qaeda. È ovvio che il regime siriano sia più a suo agio nel reprimere un’opposizione jihadista o islamista piuttosto che un’opposizione laica, popolare e nazionale.

Il terzo elemento è la divisione confessionale e settaria. Attaccando villaggi sunniti e sciiti e assicurandosi che non ci fossero assemblee o alleanze. Queste avevano luogo nei primi tempi ed erano ovviamente una minaccia. Per questo il regime si è impegnato molto per creare fratture tra sunniti, sciiti e cristiani e per far sì che non fosse possibile nessuna alleanza.

Anche gli alauiti sostenitori della rivolta sono stati presi di mira. Con molta violenza, con uccisioni e incarcerazioni. Alcuni di loro sono ancora in prigione a causa del loro sostegno alla rivolta siriana. Erano visti come una minaccia principale, perché il regime non voleva nessun tipo di opposizione all’interno della setta alauita.

Infine, ha spinto verso l’internazionalizzazione, invitando l’Iran e la Russia ed altri ad avere un ruolo nel conflitto ed incoraggiando altri come l’Arabia Saudita e la Turchia a sostenere gruppi diversi all’opposizione. Da una parte il regime danneggia e elimina la protesta popolare, assicurandosi che diventi invisibile, mettendola a tacere, e dall’altra incoraggia diverse strategie, parte della controrivoluzione, volte a minare la rivolta. È una guerra fatta di diverse narrative, come suggerisce Gilbert Achcar. L’oratoria è un campo di battaglia e bisogna percepirla come tale. Non è semplicemente una rappresentazione di ciò che sta succedendo. Questo è il motivo per cui è importante incoraggiare la narrativa del movimento di base rivoluzionario, che è stata completamente messa a tacere, marginalizzata e considerata da molti come impensabile. Per questo bisogna evidenziare questa battaglia e far sì che la gente venga a sapere che esiste.

Come chi a sinistra ha detto che bisogna smettere di demonizzare Bashar-al Assad. Vorrei tornare alla domanda precedente, sul motivo per cui la rivoluzione siriana si focalizza così in particolare su Bashar-al Assad.

Il regime di Assad è costruito e ruota intorno al culto della personalità. La dittatura in Egitto è molto diversa da quella in Siria. La dittatura in Egitto è istituzionale. Come si è visto, dopo Abdel Nasser c’è stato Sadat e dopo ancora Mubarak e così via. È un’istituzione dittatoriale che non fa affidamento necessariamente su una famiglia o su un individuo o una setta, diversamente dalla Siria dove l’intero sistema è costruito intorno ad una setta, una famiglia o un individuo.

Come tale, Assad è diventato un simbolo essenziale contro cui i protestanti combattono. Non è chiaro perché parte della Sinistra non vuole comprendere l’anatomia del regime siriano, come per molti versi il regime siriano ruoti intorno a questa figura paterna, sul quale si basano molti degli slogan, delle ideologie e dei graffiti nelle strade.

È molto probabile che se Bashar al-Assad venisse rovesciato, il regime non sopravvivrebbe a lungo, poiché è costruito in modo da rendere quasi impossibile la separazione tra il capo e tutto il resto. Diversamente da altri Paesi, come per esempio in Egitto, dove ci sono delle istituzioni che permettono un ricambio all’interno della dittatura, come si è visto con al-Sissi che ha sostituito Mubarak e ha salvato l’intero regime. Non ritengo che tale scenario sia possibile in Siria. Per questo è molto difficile rimpiazzare Assad e mantenere la dittatura in Siria. Per questo la comunità internazionale e chiunque stia sponsorizzando Assad non è stato capace di trovare un sostituto per il regime di Assad.

Lei ha visitato le aree liberate in Siria e ha osservato personalmente l’auto-organizzazione di ordinari cittadini siriani. Ci può dire di più su come la gente si è organizzata durante le proteste iniziali e anche come si sono organizzati dopo che il regime è stato costretto a ritirare i suoi apparati di repressione da ampie fasce della Siria?

Si, ho passato diversi mesi in Siria, principalmente a Manbij, nel 2013 e 2014. Ero lì durante un periodo importante per Manbij. Era qualche mese dopo la liberazione della città. La città è stata liberata pacificamente, senza nessuna lotta intestina all’interno della città, ma le manifestazioni erano enormi, l’apparato di sicurezza, della polizia e dello Stato si sono sentiti minacciati e hanno abbandonato la città. E con loro anche molti impiegati pubblici. La città è stata lasciata senza risorse, senza personale competente.

Relativamente alla Siria, Manbij è una città piuttosto grande. Ha circa duecentomila abitanti, più altri duecentomila cittadini sfollati. Si parla di quasi mezzo milione di abitanti. A quel tempo, i rivoluzionari stavano cercando di creare istituzioni, politiche ed economiche, per rendere la città vivibile. Era una forma di politica decolonizzata. Si stavano decolonizzando gli spazi precedentemente occupati dal regime, oltre che la cultura, le istituzioni e le menti.

Questo è quello che ho osservato e capito in Siria. Era un processo di liberazione dalla vecchia cultura, di acquisizione di nuove politiche decolonizzate e di reinvenzione della politica, dell’attivismo e del modo di organizzarsi. La gente è stata in parte capace di creare nuovi spazi democratici. Non voglio dare l’impressione che fosse uno luogo ideale. C’erano problemi, naturalmente, ma per molti versi, quello che la gente è stata capace di realizzare, malgrado la mancanza di risorse, è piuttosto straordinario.

Sono stati in grado di creare un consiglio rivoluzionario ed una corte rivoluzionaria. Hanno creato uno dei primi sindacati dei lavoratori del Paese, un sindacato libero e indipendente, con circa un migliaio di iscritti. Si stava ricostruendo la città da cima a fondo, perché molti di loro non avevano necessariamente le competenze adatte. Molti degli impiegati pubblici hanno lasciato la città perché si sentivano minacciati. Alcuni sono rimasti, ma molti se ne sono andati con le competenze necessarie per gestire la compagnia dell’acqua, i silos per il grano e così via. Perciò è stato necessario creare o ricreare tutti questi ambiti.

Tutto questo accadeva in un contesto di violenza di massa. Il regime siriano stava bombardando quelle zone frequentemente per indebolire l’emergere di qualsiasi alternativa, perché il regime siriano pensa che la comparsa di un’alternativa in Siria, una Siria democratica, post-Assad, manderebbe il messaggio sbagliato a chi ancora lo sostiene, sarebbe l’inizio della fine. Il regime siriano si sente più minacciato da queste alternative democratiche che dalla dimensione militare della rivoluzione. Per molti versi, quelle esperienze e quegli esperimenti nelle aree liberate stavano rendendo possibile la rivoluzione. Erano la colonna portante della rivoluzione siriana.

C’erano laboratori dove la gente faceva esperimenti di ogni tipo, dove si creavano nuovi media, nuove culture, nuove dialettiche, nuovi modi di organizzazione, perché si stavano organizzando in un contesto molto diverso. Alcuni di loro che stavano facendo ricerca avevano trovato informazioni provenienti dall’Europa ed altri posti, che non erano molto utili nel contesto siriano e per questo dovettero reinventarsi strategie e tattiche da utilizzare in Siria, in un contesto di guerra, di instabilità, di tortura, di scambio di informazioni rischiando la propria vita, portando di nascosto merci e medicinali in zone assediate. I medici rischiavano molto, a volte attraversando dieci, quindici checkpoint per far arrivare quelle attrezzature e medicinali nelle zone assediate. Se un medico viene fermato con quel tipo di attrezzature o medicinali, è molto probabile che venga torturato e ucciso.

Ancora oggi la gente sta rischiando e sostenendo la rivoluzione in molti modi, ma per molti versi, queste voci sono invisibili. Non sono necessariamente visibili ad un pubblico occidentale, perché parlano una lingua che non è semplicemente araba, ma è una lingua di organizzazione, che non è facilmente comprensibile per un pubblico abituato alle politiche e agli spazi occidentali. Anche questo crea confusione. La gente non è capace di scorgere, di riconoscere questi incredibili progetti dei movimenti di base che stanno avvenendo in Siria tuttora per via di questa spaccatura, per colpa di uno scontro di culture o di incomprensioni.

La gente in Siria deve fare questo tipo di traduzione per il pubblico straniero, il pubblico internazionale e occidentale, ma anche gli occidentali devono educarsi e cercare di andare oltre la narrativa semplicistica e orientalista sui musulmani e sull’essere religiosi o laici, perché molte di queste concezioni binarie non hanno lo stesso significato in Siria.

In Siria la maggior parte della popolazione è musulmana osservante, perciò chiedere alla popolazione di essere laica nello stesso modo in cui lo sono alcuni Paesi occidentali non è realistico, non è ciò che sta accadendo in Siria.

Fino a che la gente non è disposta ad andare oltre queste concezioni binarie orientaliste e fare uno sforzo per capire questi processi, non riuscirà mai a comprendere la grandezza e l’importanza della rivoluzione siriana.

Cosa rimane di quelle strutture di auto-organizzazione oggi a Manbij o in altre parti della Siria?

Manbij è stata occupata dall’ISIS poco dopo che me andassi all’inizio del 2014, ma anche durante quel periodo di occupazione la gente ha continuato ad organizzarsi e a protestare. L’ISIS in realtà temeva quelle proteste e si sentiva minacciato dalla popolazione. Durante quel periodo la gente è riuscita a organizzare un grande sciopero. Ora la città è stata liberata. È sotto il controllo del Partito dell’Unione Democratica (PYD),  ma anche nelle aree ISIS o in quelle controllate dal regime siriano, la gente si continua ad organizzare. Fanno ogni tipo di cose. Parte di questi coordinamenti avvengono sotto terra. Ci sono ospedali sotto terra. Ci sono scuole. Ci sono persino dei parchi giochi. Si organizzano attività per bambini come per esempio la pittura. Naturalmente nessuno vuole più mandare i bambini a giocare nei parchi e perciò vengono creati questi spazi sotterranei. C’è un’intera vita sotto terra.

Il consiglio rivoluzionario e i consigli locali esistono ancora. Ce ne sono più di trecento. Ce n’è di tutti i tipi. Alcuni sono laici, altri sono molto vicini ad alcuni gruppi jihadisti, alcuni sono indipendenti, altri molto meno. Alcuni hanno molti fondi, altri sono molto poveri, ma ci sono ancora. Questi consigli rivoluzionari si sono formati agli inizi del 2012.

La teoria iniziale è opera di Omar Aziz, uno degli importanti intellettuali siriani che fu torturato e che morì in prigione nel 2013. È uno di coloro che ha ispirato l’idea di un’organizzazione locale, perché in molti casi queste aree non sono collegate tra loro. Spesso si preferisce parlare di villaggi-repubbliche, perché, per molti versi, si devono organizzare da soli per operare a livello locale e provvedere alla popolazione, per far fronte a un assedio o alla difficoltà di trasportare merci da una zona all’altra.

Le micro politiche, o il modo in cui le micro politiche operano, devono affrontare spesso questo tipo di sfide: come si può operare su più larga scala quando ci sono gruppi diversi che controllano diverse zone? Certamente ci sono stati conflitti in passato, ma la gente sta imparando sempre di più ad armonizzarsi e a collaborare e ad operare insieme, anche se l’ostacolo non è indifferente.

Quando si ha un potere centralizzato nel Paese, è molto semplice gestire le diverse regioni. Quando non si ha questo potere centralizzato, da una parte è positivo, ma dall’altra ha anche delle ripercussioni. Una di queste è la mancanza di scambio o cooperazione tra le diverse regioni. La gente comunque è ancora molto attiva e operativa. Sono state create numerose stazioni radio, giornali e riviste che pubblicano notizie sulla situazione in Siria, teatri di strada. E poi c’è quello che sta succedendo nei campi siriani, che sono un’estensione della rivolta…

Non dobbiamo pensare alla rivoluzione siriana come qualcosa che sta accadendo soltanto all’interno della Siria come nazione-Stato. È più utile guardare anche a quello che succede nei campi profughi e nelle diverse comunità diasporiche siriane disseminate ovunque. Anche quelli sono spazi dove la gente ha creato diversi modi di sostenere la rivoluzione, facendo raccolte fondi, sensibilizzando l’opinione pubblica, comunicando informazioni, facendo pressione sui governi e così via.

C’è chi afferma che sia l’opposizione sia la gente nelle zone liberate siano terroristi e jihadisti. Come risponde a questa descrizione?

Credo che sia un’affermazione molto imprecisa. I jihadisti hanno strumenti per amplificare le loro posizioni e si fanno sentire. Sono sui diversi social media e hanno un largo seguito, per cui la loro voce si sente. Questo è molto diverso dalla situazione sul territorio dove c’è tutta una gamma di diverse forze che vanno da quelle più laiche e progressiste fino a quelle jihadiste.

Allo stesso tempo, c’è da fare una distinzione importante. Ci sono parecchi gruppi differenti. Ci sono i jihadisti internazionali, che includono ISIS e Al Qaeda. Questi jihadisti internazionali non sono necessariamente interessati a rovesciare il regime siriano, ma piuttosto a stabilire il proprio Stato, il califfato. I loro obiettivi trascendono dalla nazione siriana.

Poi ci sono i jihadisti nazionali. Anche di questi ne esistono diversi tipi. Alcuni sono più settari e più jihadisti di altri. Molti di loro, e anche quelli più radicali, inclusi Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham, hanno dichiarato chiaramente più volte che sostengono una transizione nazionale democratica in cui la gente abbia la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Il loro obiettivo è di rovesciare il regime siriano. Dopodiché, sono disposti ad entrare nell’arena politica. Questo è molto diverso dai gruppi stranieri che hanno contatti e obiettivi che trascendono dalla Siria.

Poi ci sono molti eserciti siriani liberi. L’Esercito Siriano Libero è un termine onnicomprensivo ed eterogeneo che include numerosi sottogruppi con diverse ideologie. Molti di loro hanno politiche molto più moderate o laiche di altri.

Molti siriani sostengono l’Esercito Siriano Libero. In molti casi esso è diventato quasi uno slogan che la gente usa contro i jihadisti. In certe regioni è possibile vedere una protesta contro Al-Nusra, per esempio, in cui la gente ripete slogan sull’Esercito Siriano Libero, anche se non esistono in quella regione. Questo è il sentimento popolare nella maggior parte delle regioni siriane.

Sappiamo che c’è un’enorme opposizione all’ISIS. La gente ha combattuto l’ISIS fin dal primo giorno, fin dalla sua comparsa nel 2013, in tanti modi. C’è una cultura osservante in Siria, e la gente è più o meno osservante. Ed è la stessa cultura che c’è in questa regione. I partiti di sinistra sono stati completamente decimati da Assad e dai dittatori arabi in generale.

Gli spazi politici sono stati distrutti e sono scomparsi. In molti casi, le moschee e l’Islam politico sono l’unica arena in cui esprimere qualsiasi forma di discorso politico o per esprimere il malcontento. È per questo che molti esprimono la loro ribellione e opposizione al regime siriano usando questo tipo di discorso musulmano o islamico. Ciò non significa che sia un tipo di discorso settario o che voglia sterminare il prossimo. In molti casi è un discorso inclusivo che non è contro nessuna minoranza, ma chi partecipa è più o meno osservante. Hanno dimostrato in molti casi che la loro intenzione è di opporsi alla violenza e al dominio autoritario dei gruppi jihadisti, siano essi Al-Qaeda, Ahrar al-Sham, Jaysh al-Islam o ISIS.

Se non siamo capaci di trascendere quel tipo di discorso orientalista che percepisce ogni forma di linguaggio islamico come jihadista, allora non riusciremo mai a comprendere la situazione in Siria. La gente esprime le proprie ideologie politiche usando l’Islam perché fa parte del loro linguaggio e della loro cultura. Non significa che siano ideologie settarie o totalitarie. Bisogna trascendere i discorsi orientalisti per comprendere la profondità e la geografia dell’opposizione in Siria.

Lei ha parlato di consigli civili e di gruppi armati. Che relazione c’è tra loro? All’inizio c’erano state richieste da parte di Darayya di coordinare il lavoro dei gruppi civili e dei bracci armati del movimento. Quanto successo hanno avuto questi tentativi?

Questo dipende dal contesto, da che regione si parla. Alcuni gruppi ci sono riusciti più di altri. Dipende anche da quanto rilevanti erano ISIS o Al-Qaeda in certe regioni o se già ne avevano il controllo. In molti casi, se c’è un braccio armato forte, spesso il consiglio perde la propria indipendenza. Diventa semplicemente un ausiliario o un’estensione del braccio armato.

Se sono presenti solo piccoli bracci armati nella regione, la relazione tra il consiglio civile e i bracci armati sono molto più simbiotici. Si completano. E spesso il consiglio civile chiede al braccio armato di stare fuori dalla città e operare al fronte, per evitare qualsiasi attività all’interno della città.

Bisogna guardare ai casi specifici per valutare veramente la situazione. In alcune regioni i bracci armati proteggevano il consiglio civile ed erano in qualche modo dipendenti dal consiglio. Da altre parti erano oppressivi, egemonici e soggiogavano i consigli civili.

Come ho detto ci sono più di trecento consigli civili o rivoluzionari. In molti casi c’è un tipo di rapporto molto sano e collaborativo. In altri casi è un fallimento, il consiglio civile o il consiglio locale è completamente dipendente o non ha nessuna autonomia.

(2. Continua  Siria,Curdi,interventi esterni”)
(Torna alla prima parte  La Siria e la sinistra”)

Intervista di Yusef Khalil per Jacobin con Yasser Munif

Traduzione di Valentina Benivegna

Tratto da: https://www.jacobinmag.com/2017/01/syria-war-crisis-refugees-assad-dictatorship-arab-spring-intervention-russia/

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