ELOGIO DELLA DERIVA

Di Michael Lowy.

La deriva, inventata dai surrealisti – le passeggiate di André Breton in “Nadja” – e sistematizzata dai situazionisti, è un modo di attraversare le strade di una città senza avere alcuno scopo particolare. In maniera giocosa e irriverente, la deriva rompe con i principi più sacrosanti della modernità capitalistica, rompe con le ferree leggi dell’utilitarismo e con le regole onnipresenti di quella che Max Weber chiamava la Zweckrationalität, la razionalità volta a raggiungere uno scopo.
L’abituale movimento degli individui per la strada, pur non essendo ferocemente regolamentato alla maniera in cui avviene per le formiche rosse, è orientato altrettanto rigidamente verso dei fini razionalmente determinati. Si va sempre “da qualche parte”, ci si dirige verso il lavoro o verso casa, si ha fretta di concludere un “affare”: non c’è niente di gratuito nel moto browniano della folla. Ora, la deriva è un’uscita gioiosa dai pesanti vincoli della Ragione strumentale. Si può trasformare, grazie alle magiche virtù di un simile atto di rottura, in una passeggiata incantata nel regno della Libertà, avendo come unica bussola il caso.
Sotto certi aspetti, la deriva può essere considerata come l’erede della “flânerie” del XIX secolo, in quanto, come osserva Walter Benjamin nel suo libro sui Passages parigini, “l’oziosità del flâneur è una protesta contro la divisione del lavoro”. Tuttavia, contrariamente al flâneur, il dériveur – questa parola ancora non esiste nel dizionario – non è più prigioniero del feticismo della merce, dell’imperativo consumistico; non è affatto ipnotizzato dal luccichio delle vetrine, ma spinge altrove il proprio sguardo.
Senza scopo e senza ragione, senza  Zweck e senza rationalität, ecco qui in due parole il profondo significato della deriva che reca il misterioso di restituirci, in un colpo solo, il senso della libertà. L’esperienza della libertà nel corso di una deriva produce una sorta di ubriachezza, un’esaltazione, un vero e proprio “stato di grazia”. Ci rivela una faccia nascosta della realtà – e della nostra stessa realtà. Le strade, gli oggetti, i passanti, improvvisamente alleggeriti della cappa di piombo del ragionevole, appaiono sotto un’altra luce, diventano strani, inquietanti –Unheimlich, direbbe Freud – perfino divertenti. Possono suscitare in noi angoscia, ma anche esultanza.

Della deriva, nel passato e nel presente, ci parlano due libri recenti, fra di loro assai diversi. Nel suo “Le Mouvement Situationniste.  Une histoire intellectuelle” (Paris, Editions L’Echappée, 2012), Patrick Marcolinidedica un capitolo all’esperienza delle derive di Guy Debord ed i suoi amici. Per loro, la deriva era assai più che una flânerie: ispirata dalla passeggiata surrealista, era “una forma di vita, ed una forma di vita poetica, impegnata a vivere immediatamente ed intensamente le situazioni che la poesia e l’arte rappresentano a distanza”. Secondo  Jean-Michel Mension, la sua origine risale alla sciopero generale dei trasporti pubblici dell’agosto del 1953. In quel contesto, osserva Marcolini, “tutte le abituali attività sociali vennero sospese e gli spostamenti dentro Parigi potevano quindi emanciparsi da ogni fine utilitaristico”. Guy Debord, teorizzando sulla deriva in un articolo sulla rivista surrealista belga “Les Lèvres nues” (n°9, novembre 1956), scriveva: coloro che praticano la deriva “rinunciano, per un tempo più o meno lungo, a muoversi e ad agire nei modi generalmente noti che sono loro propri, alle relazioni, al lavoro, al tempo libero, per abbandonarsi alle sollecitazioni del territorio ed agli incontri che gli corrispondono”. Questi incontri possono essere delle sorprese, dei colpi di fulmine, degli spaventi, insomma, tutto ciò che rende la vita avventurosa. Sono anche il risultato di quello che Ivan Chtcheglov (in un articolo su IS n°1 del 1958) chiamava la “geologia” delle città, grazie alla quale “non si possono fare tre passi senza che si incontrino dei fantasmi, armati di tutto il prestigio delle loro leggende”. Ci troviamo qui, beninteso, sul terreno di quello che può essere definito come il romanticismo situazionista – tema di uno capitoli più interessanti di questo libro.
Di conseguenza, aggiunge Marcolini, la deriva è in sé stessa una lotta contro la razionalizzazione delle traiettorie nello spazio urbano: il suo principio non è la linea retta, essa non cerca di economizzare il tempo. Il senso politico della deriva risiede perciò nel suo opporsi al condizionamento utilitario e al partizionamento borghese della città, alla canalizzazione delle traiettorie, in breve alla struttura omogenea e geometrizzata della città capitalista. Tra parentesi, sono molto più cauto riguardo quello che i situazionisti intitolavano “una nuova scienza, la psicogeografia”, la quale si proponeva, secondo Debord  (Les Lèvres nues n° 6,  septembre 1955), “lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico” – strana ingerenza positivista…

Il secondo libro di cui vorrei parlare è di tutt’altra natura: “Passage Public“, di Joël Gayraud (Montréal,  l’Oie de Cravan,  2012) è un affascinante racconto delle passeggiate e delle derive in alcune città francesi, della Navarra ed europee. Con legami sia al surrealismo che all’esperienza situazionista, Gayraud racconta, con rara intensità poetica, le sue derive, dal Pireo a Parigi. Perciò, osserva, per chi è capace della “più estrema disponibilità dello sguardo, le occasioni di incantamento (…) non si prosciugano mai”. L’essenziale è – come lui fa percorrendo su e giù la strana via Argyrokastro, nel grande porto greco – camminare “senza un itinerario fissato”; è a tale condizione che si possono fare degli incontri sorprendenti, carichi “di un’insolita quantità di umour, senza h – per usare l’ortografia ispirata di Jacques Vaché”.
Joël Gayraud non nasconde la sua ostilità viscerale nei confronti dell’incessante flusso di veicoli di ogni sorta, automobili, camion, scooter, che attraversano le strade delle nostre città – qui, viene citato come esempio, Napoli – un flusso che paragona alla “massa vischiosa ed inesorabile della lava del Vesuvio nelle ultime ore della sua eruzione” – tranne per il fatto che, mi affretto ad aggiungere, le grandi eruzioni del Vesuvio avvengono solamente a vari secoli l’una dall’altra, mentre la “massa vischiosa” dei veicoli non smette un solo secondo di scorrere, da quando l’infame Henry Ford ha reso popolare quest’arma letale. Gayraud detesta anche il silenzio che piomba su alcuni quartieri di Parigi, che si addormentano “alle nove nella pace dei televisori, pace più fatale di quella dei cimiteri”. Non smette di cercare, nelle strade e nelle piazze, “una breccia aperta nel fianco della nera certezza delle strade e della case”. E impreca, invocando una nuova rivoluzione che ripristini, nei nomi delle strade, i nomi poetici dei mesi inventati da Fabre d’Eglantine nel corso della Rivoluzione francese: Messidoro, Fruttidoro, Floreale, Pratile, Germinale, Brumaio, Vendemmiaio…

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