‘La primavera araba si è ora trasformata in un inverno’ di Gilbert Achcar

26 dicembre 2014

E’ iniziata il 18 dicembre 2010, come insurrezione popolare innescata dal suicidio di un venditore ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, che si è dato fuoco per protestare contro il  regime corrotto e tirannico del suo paese. Questa azione alla fine ha provocato una catena di insurrezioni rivoluzionarie in tutto il Medio Oriente e in Nordafrica (MENA – Middle East North Africa), che ha fatto cadere i governi dittatoriali di Tunisia, Libia, Egitto e Yemen. Comunemente nota come “Primavera Araba”, il movimento da allora è sceso nel caos, in cui le forze fondamentaliste islamiche stanno acquistando potere. Nell’intervista concessa via Skype, il Professore della Scuola di Studi Orientali e Africani (SOAS) dell’Università di Londra, ha detto che la speranza non è  ancora perduta per quella regione. 

Fino dalle insurrezioni del 2010-2011, tranne che in Tunisia, il modello di democrazia liberale non è decollato nei paesi del MENA. C’è ancora speranza o lei considera anche la democrazia “elettorale” liberale come una risposta alla crisi in corso nella regione? Abbiamo visto, per esempio, come, malgrado le elezioni svoltesi nel giugno di quest’anno, il dittatore Bashar al-Assad del Partito Ba’ath sia rimasto al potere in Siria….

Il problema della democrazia nella regione del MENA non può essere ridotto a un problema di democrazia liberale come avviene prevalentemente in Occidente. Anche se si considera il liberalismo  soltanto nel suo significato politico, i paesi arabi sono lungi dall’averlo attuato e questo vale  anche per la Tunisia dove al momento in carica c’è un governo formalmente democratico. La regione del MENA sta soffrendo di una profondissima crisi sociale ed economica che è alla radice del generale subbuglio e sconvolgimento. Per risolvere la crisi in corso, ci deve essere un allontanamento dal modello socio-economico neo-liberale nella regione che ha provocato la crisi. Il vero  ostacolo  è la combinazione di uno “stato nello stato” pesantemente repressivo e corrotto con il capitalismo clientelare  del peggior tipo.  Questa combinazione non è stata smantellata in nessuno degli stati della regione, compresa la Tunisia. In Siria, dove la dittatura Ba’ath è radicata nel potere da mezzo secolo, le elezioni non hanno avuto alcuna legittimità democratica. Per ottenere una reale democratizzazione, quello che è necessario è un radicale smantellamento dello “stato nello stato” che continua a mantenere l’ordine socio-politico esistente nella regione.

L’ondata iniziale di speranza per la librazione dei popoli arabi dai regimi autocratici sembra essere stata infranta. Quando il movimento è iniziato nel 2010, c’era molta euforia, ora non più. Dove è diretto il movimento, secondo la sua analisi?

L’euforia, quando è iniziato il movimento, era basata su illusioni, ma era giustificata dal fatto che i popoli della regione hanno cominciato a scendere in massa nelle piazze volendo imporre la propria volontà

Tuttavia, il fatto che siano scesi nelle strade non è stato di per sé sufficiente per raggiungere i risultati cui aspiravano. C’è stata un’eccezionale insurrezione popolare nella regione del MENA, ma soltanto con forze progressiste  deboli e/o disorientate. Anche in un paese come la Tunisia dove c’è una forte organizzazione progressista sotto forma di movimento sindacale dominato dalla sinistra, quest’ultima soffre di mancanza di una strategia appropriata. Sono caduti nella trappola della bipolarità tra due forze ugualmente reazionarie – da una parte i vecchi regimi, e dall’altra le forze dell’ opposizione islamica fondamentalista.

Le forze progressiste hanno spostato la loro alleanza dall’uno all’altro di questi due poli controrivoluzionari. Attualmente è la lotta interna tra i due poli contro-rivoluzionari che è dominante in nazioni come la Siria, lo Yemen, la Libia, e, in una certa misura, anche l’Egitto. Questo è il motivo fondamentale per cui tutto lo slancio che aveva il movimento ai suoi inizi è andato perduto. Le forze fanatiche fondamentaliste islamiche sono cresciute in tutta la regione; la forza più impressionante è quella che si è auto-proclamata “Stato Islamico” e califfato. Quello che avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio è diventato ovvio adesso: il cambiamento radicale di regime può essere soltanto violento a causa dell’estrema brutalità del vecchio regime. Però anche concludere che quel regime ha vinto sarebbe molto avventato. I paesi del MENA hanno percentuali record di disoccupazione. Fino a quando questo problema cruciale non sarà risolto, il subbuglio continuerà. Lo dico dal 2011. E’ il motivo per cui ho sostenuto che quella che è iniziata allora non è una “primavera”, che denota una stagione, ma un processo rivoluzionario a lungo termine che andrà avanti per vari anni e decenni prima che la regione raggiunga una stabilità duratura.

Nel suo libro lei classifica i paesi arabi come stati “redditieri”, dato che ricavano la maggior parte delle loro entrate dal petrolio e dal gas. Il recente crollo dei prezzi del petrolio in tutto il mondo ha danneggiato le economie di questi paesi. Quale tipo di trasformazione socio-economica è necessaria per risolvere la crisi  in corso nella regione?

In effetti, la regione del MENA è stata molto dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, i cui prezzi vengono fissati dal mercato mondiale.  Sono prezzi estremamente instabili e quindi i paesi della regione affrontano il rischio  di  improvvisi  alti e bassi economici. Tuttavia, non tutti i paesi del MENA ne risentono in maniera simile: alcuni di loro sono importatori di petrolio, altri sono piccoli produttori e altri massicci esportatori. Nel complesso, però,  il petrolio domina l’economia regionale. Un aspetto importante del cambiamento radicale necessario nella regione, è perciò la diversificazione delle economie – sviluppare una vera base industriale  e ridurre la dipendenza dalle esportazioni di petrolio greggio e di gas. La regione non manca di risorse naturali, di capitale e di forza lavoro. Tuttavia, gran parte delle risorse naturali e di capitale accumulato grazie alle loro esportazioni, sono sotto il controllo occidentale. Tutti i maggiori esportatori d’olio delle ragione – i membri del Consiglio di Cooperazione  del Golfo, che comprende i più ricchi stati arabi – dipendono dagli Stati Uniti  per la loro esistenza e sicurezza. Il regno saudita è dietro al calo dei prezzi del petrolio e fa questo a spese sue per motivi strategici che vanno a vantaggio degli Stati Uniti. Il grosso del denaro saudita all’estero viene investito in buoni del tesoro statunitensi a lungo termine nelle banche degli Stati Uniti. Tutto questo è una pura perdita per l’intera regione. L’imperialismo occidentale ha creato il sistema regionale delle monarchie del Golfo Persico allo scopo di garantire il suo sfruttamento delle loro risorse e le cose potrebbero restare così fino a quando l’ultima goccia di petrolio sarà stata succhiata dalla regione. Un altro aspetto del cambiamento radicale che è necessario se la regione deve uscire dalla sua situazione disastrosa è realizzare il sogno come quello dell’ex leader dell’Egitto, il presidente Gamal Abdel Nasser che voleva unificare i paesi arabi  in una repubblica federale o in un’unione di repubbliche. Abbiamo colà un gruppo di nazioni che parlano la stessa lingua e condividono la stessa cultura, ma che sono suddivise in due dozzine di stati per servire gli interessi delle forze  imperiali precedenti che sono entusiaste di perpetuare questa divisione. Questo è un tempo in cui l’Europa, con la sua diversità di culture molto più elevata, è andata costruendo la sua propria unione.

Lei appoggia l’intervento internazionale nei paesi arabi, come la Siria, che sono pieni di conflitti civili? Nel suo libro non ha preso una posizione categorica al riguardo…

L’imperialismo occidentale è una parte importante del problema della regione del MENA, e assolutamente non parte della soluzione. Tuttavia questo non mi porta ad avere un atteggiamento impulsivo di opposizione a qualsiasi forma di intervento in qualsiasi circostanza. Quando ci sono situazioni come quella in cui un’intera città o una popolazione sono minacciate da un massacro su larga scala – come è accaduto a Bengasi in Libia o nella città di Kobanê, nella parte siriana del Kurdistan – e il pericolo è imminente, nell’assenza di un’alternativa, non ci si può opporre agli attacchi militari dal cielo, nella misura in cui contribuiscono a rimuover la minaccia diretta. Non appena, però, la minaccia viene allontanata, allora ci si dovrebbe opporre alla continuazione di questo intervento occidentale diretto. Gli Stati Uniti che conducono tali interventi, tentano sempre di appropriarsi dei processi in corso, indirizzandoli verso i loro propri interessi. Questo è il motivo per cui in generale sono contrario all’intervento militare occidentale. Sostengo, tuttavia, la richiesta di spedizioni di armi fatta dagli insorti libici nel 2011 o dall’opposizione democratica siriana fin dal 2012 o dalle forze curde di sinistra nel 2014. Hanno bisogno di armi per contrattaccare le forze che sono molto più pesantemente armate di loro. Tuttavia gli Stati Uniti, o in Libia nel 2011 o in Siria da allora, si rifiutano di fornire alle opposizioni democratiche le armi che queste richiedono. Questo mi porta a considerare che gli Stati Uniti hanno una grossa parte di responsabilità nell’enorme massacro inflitto al popolo siriano e nella distruzione del loro paese. Se l’opposizione siriana avesse ricevuto le armi di difesa che aveva richiesto dall’inizio, in particolare le armi anti-aeree, il regime siriano non sarebbe stato in grado di usare la sua aeronautica militare con la quale ha compiuto la maggior parte della distruzione e dei massacri causati nel corso della guerra civile in quella nazione.

I Fratelli Musulmani (Muslim Brotherhood – MB) hanno tratto vantaggi significativi  dalle insurrezioni della Primavera Araba, con le vittorie elettorali in Tunisia e in Egitto e svolgendo un ruolo importante nelle insurrezioni in Siria, Libia e Yemen. Però, con la caduta  del governo di Mohamed Morsi avvenuta lo scorso anno in Egitto, le loro prospettive sembrano destinate a fallire. Possiamo concludere che il fondamentalismo islamico non può essere la risposta alle richieste delle masse in questi paesi? Lo chiedo perché tutta la Primavera Araba e il periodo successivo a questa è stato analizzato principalmente dal punto di vista dei movimenti islamici, e questo sta guidando il discorso occidentale sull’intervento in questi paesi….

Non soltanto il fondamentalismo islamico non è la risposta, ma l’Islamismo stesso non è la risposta, e non è il problema. L’insurrezione del 2011 non è un’insurrezione che ha a che vedere con la religione. E’ un culmine della crisi economica-sociale e della oppressione politica che esiste nella regione. Il fallimento dei Fratelli Musulmani è soprattutto dovuto alla loro mancanza di una politica economica e sociale diversa da quella perseguita dai vecchi regimi. In Tunisia e in Egitto non sono riusciti a risolvere le crisi sociali. Quello a cui assistiamo realmente proprio ora è il declino dei Fratelli Musulmani accompagnato dall’ascesa delle forze fondamentaliste che sono molto peggiori – Al-Qaida e IS. La mancanza di una dirigenza progressista è il motivo fondamentale del fatto che le svariate forze del fondamentalismo islamico sono in grado di  sfruttare la rabbia popolare nella regione. Per capire questo da un punto di vista storico, si deve soltanto ripensare all’ondata di fondamentalismo che è iniziata negli anni ’70. Nella maggior parte dei paesi a maggioranza musulmana, il fondamentalismo islamico è stato emarginato negli anni ’60 quando il nazionalismo di sinistra era in crescita, rappresentato soprattutto da Nasser. E’ stato soltanto quando questo ha cominciato a declinare fin dagli anni ’70, che abbiamo visto l’inizio dell’ascesa delle forze islamiche fondamentaliste.

Durante la Primavera Araba è stato enfatizzato il ruolo dei media nell’insurrezione e quello dei media sociali per aiutare l’organizzazione concreta del movimento. Dopo quattro anni, lei pensa che questo ruolo può ancora influenzare l’organizzazione del movimento e i suoi risultati? 

Naturalmente il ruolo svolto dai media moderni e dai media sociali non può essere ribaltato. C’è stato un profondo cambiamento in tutto l’ambito tecnologico dell’umanità. La televisione satellitare ha avuto un ruolo primario nella recente insurrezione e lo sta ancora svolgendo, anche se ridotto rispetto al picco raggiunto nel 2011. D’altra parte, il ruolo dei media sociali continua ad aumentare. Quando l’insurrezione araba nel 2011 è stata definita una “Rivoluzione da Facebook”, questa era un’esagerazione, sicuramente, ma non senza un granello di verità. Facebook, Twitter, TouTube, tutti questi media sono diventati strumenti primari per diffondere messaggi e video, in tutto lo spettro politico, dalle forze progressiste alle forze dell’estrema destra, come l’IS che usa intensamente Internet.

Il suo consiglio per le forze che mirano a una rivoluzione che abbia successo? 

Le forze progressiste devono essere sufficientemente audaci da tentare di lottare e da tentare di vincere. Se il cambiamento radicale non arriverà attraverso loro, avremo soltanto quello che ho chiamato uno “scontro di barbarie”. La Siria è l’esempio più chiaro di questo, attualmente, con il regime siriano da una parte e l’IS e Al-Qaida dall’altra. L’insurrezione non è però ancora finita. La “primavera” araba si è ora trasformata in un “inverno”, ma ci saranno altre stagioni in futuro.

 

Fonte: http://zcomm.org/arab-spring-has-now-turned-into-a-winter

Originale: The Hindu

Traduzione di Maria Chiara Starace

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