ARTICOLI DI CINZIA NACHIRA

UNA NUOVA GUERRA DI RELIGIONE?
novembre 2014
ARIEL SHARON E’ MORTO
gennaio 2014
IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE
dicembre 2012
AGGRESSIONE A GAZA
novembre 2012
LA CATTURA E L’UCCISIONE DI MUAMMAR GHEDDAFI
novembre 2011
VENDOLA E ISRAELE
maggio 2011
L’ASSASSINIO DI VITTORIO ARRIGONI
aprile 2011
JULIANO MER-KHAMIS
aprile 2011
CAMBIA IL VOLTO DEL MEDIO ORIENTE:HOSNI MUBARAK SI E’ DIMESSO
febbraio 2011
LETTERA APERTA SULL’ANTISEMITISMO E SUL MACHISMO DI BERLUSCONI
ottobre 2010
ISRAELE STATO TERRORISTICO
giugno 2010
PALESTINA: DALLA CRISI USA-ISRAELE AD UNA NUOVA INTIFADA?
aprile 2010
BOMBE SU GAZA
dicembre 2008

UNA NUOVA GUERRA DI RELIGIONE

In questi drammatici giorni i commenti su ciò che accade in Palestina sono quasi un coro unanime nel sostenere la tesi che l’escalation di violenza che vede come epicentro Gerusalemme Est sia effettivamente una “nuova” guerra di religione. Questo perché due cugini palestinesi di Gerusalemme Est hanno compiuto un attacco nella sinagoga Har Nof, a Gerusalemme Ovest, uccidendo quattro rabbini (non uno solo di essi era israeliano) ed un poliziotto e restando uccisi dalla reazione delle guardie armate. Come spesso è accaduto, ora da tutte le parti si invoca la condanna dell’attacco, soprattutto perché è avvenuto contro un luogo sacro. E la condanna di questo attacco è scontata. Soprattutto perché cadere nella spirale della “guerra di religione” è un danno terribile al popolo palestinese.

Quando si parla di Israele è difficile mantenere, sembra, la dovuta e necessaria lucidità. Oggi, Benjamin Netanyahu, il primo ministro del governo più oltranzista nella storia di Israele, accusa con elegante leggerezza (propria degli incoscienti) i palestinesi, nessuno escluso, di essere fautori di una guerra religiosa, in nome del fanatico Islam. E come spesso è avvenuto nella storia recente, gli israeliani cercano di sfruttare al massimo le vicende regionali ed internazionali per “dimostrare” che ogni loro azione è giustificata. È esercizio assai facile smentire questo argomento, perché anche quest’ultimo attentato ha delle spiegazioni che hanno a che fare con l’aumento esponenziale della violenza messa in atto dagli israeliani. Nelle ultime settimane gli attacchi sia a Gerusalemme Est che al resto della Cisgiordania da parte dei coloni e dell’esercito sono stati numerosissimi e sono culminati con l’ingresso scenografico di un gruppo di coloni ebrei ortodossi nella Spianata delle Moschee (che per altro hanno contravvenuto ad un’imposizione rabbinica che lo vieta) e gli atti vandalici all’interno della Moschea di Al Aqsa e la morte di un autista palestinese di autobus. Yusuf Hasan al-Ramouni, un giovane di 32 anni, è stato trovato impiccato nell’automezzo che conduceva a Har Hotzvim. Yusuf Hasan al-Ramouni risiedeva a Al Tur, un quartiere di Gerusalemme Est. Le autorità israeliane sostengono che si tratta di un suicidio mentre i membri della famiglia ritengono che si tratta di un omicidio.  Questo episodio ha innescato molti scontri a Gerusalemme Est ed è stato anche il motivo per cui sembra che due cugini palestinesi, Ghassan e Odai Abu Jamal, abbiano compiuto l’attentato alla sinagoga. Ma anche questa è una spiegazione parziale, perché la frustrazione accumulata dai palestinesi in questi ultimi sei mesi non poteva che raggiungere il punto di non ritorno.

All’aumento esponenziale della violenza messa in atto dal governo israeliano occorre, però, anche aggiungere l’incapacità delle leadership palestinesi di dare risposte credibili a questa disperazione. Eppure il popolo palestinese, per l’ennesima volta, aveva tentato nei mesi scorsi – prima della feroce aggressione contro la Striscia di Gaza – di indicare quale fosse la strada da percorrere. Oggi quasi più nessuno ricorda (neppure i più fervidi sostenitori dei palestinesi) che in seguito agli attacchi brutali dei coloni e dell’esercito nel giugno scorso le piazze e le strade di Gerusalemme Est e delle città cisgiordane si erano nuovamente riempite di migliaia di persone che rimettevano in discussione tutto. Soprattutto dopo il barbaro assassinio di un ragazzo diciassettenne di Gerusalemme bruciato vivo per vendicare l’uccisione di tre giovani coloni vicino ad Hebron. Le manifestazioni massicce seguite all’assassinio di Mohammad Abu Khdeir e la riprovazione internazionale per quell’atto misero in grande difficoltà il governo israeliano e in quel momento era ancora possibile che la frustrazione si trasformasse in azione politica.

Ma l’occasione è stata ignorata, da tutti, ed oggi è necessario fare i conti con atti individuali o di piccoli gruppi. Era ovvio, era già accaduto più volte, che il governo israeliano costruisse deliberatamente le condizioni perché si arrivasse a tutto questo. Apparentemente il copione era sempre uguale. Ma era solo un’apparenza e per cercare di non essere travolti dal circolo vizioso sarebbe stato necessario non cadere nella trappola dell’interpretazione degli eventi come se fossero sempre degli stessi cliché. Oggi da molte parti si cercano con affanno i segnali della “terza Intifada”, soprattutto dopo che Marwan Barghouti, dal carcere in cui è rinchiuso dal 2002, ha rilanciato la resistenza armata. Ma a cosa si riferiva Marwan Barghouti? È abbastanza chiaro che il leader palestinese si riferiva agli attacchi individuali per cercare di dar loro un senso politico. Nello stesso senso andava la rivendicazione dell’attacco alla sinagoga da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina [1].

Per potersi orientare sarebbe necessario smettere di dare lo stesso nome a cose assai diverse. In molti tendono a pensare che le diverse fasi della lotta di liberazione del popolo palestinese si distinguono sostanzialmente per le modalità messe in atto. In altri termini: dalle pietre della prima Intifada alle armi leggere della seconda ai coltelli e le auto usate come proiettili di quella che potrebbe essere la terza. Questa lettura però è assai superficiale e non vede la sostanza delle differenze. Pur rischiando l’accusa di essere nostalgici, sembra necessario sottolineare che la prima Intifada del 1987 è stato il momento in cui la lotta del popolo palestinese consisteva nel coinvolgimento capillare di tutta la società – non era un caso se una delle forme privilegiate di lotta era lo sciopero generale. Il vero punto di rottura era di avere un progetto politico di sviluppo contemporaneamente della battaglia sul terreno contro l’occupazione e di costruzione della società. Questo progetto nasceva da un lavoro durato molti anni durante i quali le organizzazioni politiche palestinesi presenti nei Territori Occupati si erano, in modo non esplicito, contrapposte alla direzione dell’OLP in esilio. Tanto questa differenza era gravida di conseguenze sulle scelte politiche che anche la direzione politica palestinese, installata in quegli anni in Tunisia, fu colta alla sprovvista quando nel dicembre 1987 iniziò a delinearsi una lotta di lungo periodo.

Gli accordi di Oslo che cinque anni dopo, nel 1993, chiusero quella fase, a parte gli aspetti spettacolari che li contrassegnarono, erano il risultato per un verso di quell’atto di coraggio del popolo palestinese – che pagò un prezzo tremendo per la repressione – e, per un altro verso, del fallimento di quella rivolta. Di fatto, tutto ciò che si è sviluppato dopo è stato possibile solo grazie a questo paradosso apparente.

È stato giustamente osservato che se le rivolte arabe scoppiate nel 2011 hanno avuto delle ricadute assai relative in Palestina, tuttavia le prime fasi, queste invece, sono state molto influenzate dalla prima Intifada. E questo non è un dettaglio.

Oggi la situazione è assai più complessa e pericolosa perché, al contrario di una vulgata assai diffusa, non è vero che la Palestina è un caso a sé. Innanzitutto, questo è falso perché nonostante i molti tratti comuni ogni Paese ha una propria dinamica: anche se è più facile ridurre tutto ad uno scontro essenzialmente tra due forze – l’integralismo islamico e le forze che tentano di far risorgere dalle loro ceneri i vecchi regimi – è evidente che così non è. Infatti, dalle vicende che sono accadute negli ultimi mesi, è Israele che ne trae più profitto. E ciò avviene soprattutto perché l’emergere del Califfato – autoproclamato su una parte della Siria e dell’Iraq nel giugno scorso – riduce  tutta la vicenda alla guerra di religione: una situazione ideale per Israele. Per giustificare l’aggressione, la quarta, contro la Striscia di Gaza scatenata l’8 luglio scorso non a caso il governo israeliano ha paragonato Hamas all’ISIS. Sei mesi dopo, Israele porta alle estreme conseguenze tutto questo con un voto a maggioranza del governo che dichiara “Israele lo Stato degli ebrei”. Questa decisione viene adottata non a caso nel momento in cui la leadership palestinese, in tutte le sue componenti, è debolissima e la disperazione e l’esasperazione prevalgono sulla costruzione di un’alternativa politica credibile. D’altronde, è altrettanto evidente che l’Occidente, malgrado le apparenze, negli ultimi mesi ha sviluppato un’insofferenza crescente rispetto all’aggressività delle politiche israeliane. Ciò, ovviamente, non significa sostenere che siamo di fronte ad una svolta epocale dei rapporti che hanno caratterizzato le alleanze strategiche tra i Paesi europei e gli Stati Uniti con Israele. Tuttavia, come già avvenuto in passato, oggi l’oltranzismo di Israele rischia di complicare moltissimo l’intera situazione. Non è un caso se in questi mesi alcuni Paesi europei, malgrado tutto, sono giunti ad accogliere la richiesta dell’ANP di riconoscere lo Stato di Palestina. Questi atti, del tutto simbolici e privi di qualunque implicazione  pratica, tentano di indurre Israele a moderare i suoi atteggiamenti. Di questo cambiamento è testimone anche l’atteggiamento della grande stampa italiana. Un esempio per tutti è un articolo di Alberto Negri pubblicato il 20 novembre da Il Sole 24 ore, La polveriera Medio Oriente e l’assenza dell’Europa [2]:

Questo vale anche per l’atteggiamento da assumere sulla questione mediorientale: perché di questo si tratta quando si affronta la crisi più profonda alle nostre porte insieme all’Ucraina, che promette tragici sviluppi come l’ex Jugoslavia. Possiamo spingere Putin a restituire la Crimea quando non osiamo chiedere a Israele di liberare i territori occupati nel ’67 e acconsentire a uno stato palestinese? Evidentemente no. Se non lo faremo lasceremo sempre più spazio al terrore, alla propaganda dell’Islam radicale di Hamas e della Jihad, abbandonando all’insicurezza perpetua arabi ed ebrei.

Per quanto rivelino una dose notevole di opportunismo ed ipocrisia le parole di Alberto Negri sono emblematiche e indicano in quale direzione si sta muovendo la politica occidentale: quella di avere la moglie ubriaca e la botte piena. D’altronde nello stesso articolo, si sostiene:

Adesso chiediamo ad Assad di andarsene, come vorrebbero Arabia Saudita, Turchia e Qatar, appoggiati da una Casa Bianca sempre più altalenante e insicura: ma abbiamo oggi in Siria un’alternativa migliore al Califfato o a Jabat al Nusra? Gli esempi dell’Iraq e della Libia, sprofondati nel caos, sono sotto i nostri occhi. Dobbiamo fare scelte dure ma realistiche. Prima la Svezia ufficialmente e poi i parlamenti britannico, irlandese e spagnolo hanno appoggiato la soluzione dei due stati in Palestina. E noi che abbiamo Lady Pesc cosa aspettiamo? L’Unione deve farsi carico di una questione che la riguarda direttamente per ragioni storiche, morali ma anche economiche. Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, ha imputato le previsioni al ribasso della crescita ai «rischi geopolitici» in Medio Oriente e Ucraina.

Questo invito ad affrontare i problemi che lo stesso Occidente ha creato in Medioriente guardando ai suoi interessi è tutt’altro che nuovo: anzi possiamo, senza tema di smentita, dire che questo è stato sempre il faro della politica occidentale. Altrettanto non è una novità la tesi secondo cui se un cambiamento non soddisfa meglio sarebbe tornare al passato: meglio tornare ad appoggiare Bashar Assad. Questo desiderio, è necessario dirlo, non è peculiare né di Alberto Negri, né della grande stampa italiana, ma è condiviso anche da moltissimi di coloro che all’inizio appoggiavano le rivolte arabe.  Ma ciò che qui interessa osservare è che ancora una volta le illusioni ottiche rischiano di sostituirsi ad una corretta lettura della realtà. Soprattutto quando i responsabili dei disastri sembrano rinsavire.

La stessa legge voluta da Benjamin Netanyahu sulla ebraicità dello Stato di Israele è essenzialmente una risposta a quei riconoscimenti. E vista l’incapacità dei governi e dei parlamenti occidentali di vedere oltre il proprio naso, ora regna sovrano il silenzio. Quasi a voler dire ai palestinesi che se chiedono il riconoscimento del loro Stato, allora gli israeliani possono definire Israele “Stato ebraico”. Sicuramente, però, sia il primo ministro israeliano, i settori più oltranzisti del governo e della società israeliana, sanno bene ciò che fanno. Infatti, nella stessa legge è contenuta un’altra aberrazione: la legalizzazione della demolizione delle case dei palestinesi, compresi quelli residenti a Gerusalemme, come punizione collettiva per coloro che sono ritenuti responsabili di “atti di terrorismo”. Quindi, ancora una volta, quegli stessi governi e parlamenti occidentali che recentemente hanno criticato Israele per questa pratica barbarica non si rendono conto che tacere equivale a rendersi complici delle escalation di violenza regolate “per legge”.

Ma, d’altronde, anche appoggiare senza riserve la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina, nelle attuali condizioni equivale ad un suicidio politico. Come è noto, nessuna delle risoluzioni internazionali che riguardano Israele ha visto applicazione e non solo a causa dei veti statunitensi. La domanda che ci si dovrebbe porre è: cosa cambierebbe in realtà? Si è detto che la differenza consisterebbe nel fatto che dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina non si potrebbe più parlare di uno Stato (Israele) che occupa dei Territori, ma un altro Stato (Palestina). Peccato, però, che questo Stato occupato non ha né confini, né esiste. Ciò che invece si rischia, accettando questa logica, è di essere complici della legalizzazione a livello internazionale della colonizzazione, del Muro di separazione unilaterale e di molto altro contro cui ci si è sempre battuti. Quindi, in altre parole, di rendere legale ciò che fino ad oggi si riteneva inaccettabile. Ciò in che definitiva  sostiene gli inviti a “scelte dure, ma realistiche” di Alberto Negri. Accontentarsi di gesti simbolici, già di per sé un atteggiamento di un’ipocrisia insopportabile, nell’attuale situazione porterà drammi terribili nel futuro. Perché questi sono gesti simbolici per i palestinesi, ma concretissimi, invece, per Israele. Favorendo, inoltre, lo scivolamento sempre più a destra della opinione pubblica israeliana e la discesa agli inferi della disperazione di quella palestinese. Non è un caso se il generale Al Sissi, prima di venire in Italia per essere accolto con tutti gli onori da Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e Papa Bergoglio (per il quale evidentemente la promessa di un golpista di salvaguardare “la sicurezza delle minoranze religiose, cristiani in testa”, è una garanzia sufficiente e tale da dimenticare le stragi di cui è responsabile…con buona pace dei poveri e gli oppressi del mondo), in un’intervista rilasciata a Franco Venturini e Ferruccio De Bortoli, ha affermato:

[…] noi siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe [3].

Certo non è una novità che l’Egitto abbia buoni rapporti con Israele, ma questa dichiarazione va oltre quanto visto dall’insediamento di Anwar al Sadat in poi e chiarisce molto i termini di ciò che oggi potrebbe valere quanto il riconoscimento di uno Stato palestinese (inesistente).

Ma, purtroppo, in tempi di crisi politica, sociale, economica ed etica come quelli che stiamo vivendo è facile cadere in trappole di retorica. Tuttavia la situazione è cruciale e da parte di tutti è necessaria un’assunzione di responsabilità. Se, giustamente, si intravvede nella rinascita della lotta dei curdi di Siria una possibile alternativa ad uno scontro binario da cui sembrava impossibile uscire, è possibile scorgere una via d’uscita percorribile per il popolo palestinese? Evidentemente, l’ottimismo, in questo caso, è fuori luogo e perfino offensivo. Non abbiamo una risposta univoca, però pensiamo, che, a dispetto dei detrattori vecchi e nuovi delle altrui lotte per la libertà e l’uguaglianza, abbia del tutto ragione Azmi Bishara quando ci avverte che la partita non è chiusa e ci dice:

Tuttavia, il più grande punto di forza della democrazia in questa battaglia è che la Nuova Era Araba non è un miraggio che scompare quando ci si avvicina. Rimane un’intera generazione di giovani che ha urlato e mostrato la propria solidarietà, che ha prodotto i propri martiri e feriti, che ha scoperto la propria voce e il proprio sangue ed è stata sopraffatta dal corso degli eventi.

Questa è una generazione che ha risvegliato i sogni dimenticati delle generazioni precedenti, ha ispirato l’immaginazione delle proprie società e ha affascinato il mondo intero. Essa ha scioccato gli opportunisti e terrificato le forze reazionarie, stati e regimi, persone di destra e persone i cui soli attributi di sinistra sono i loro nomi e il loro sciovinismo.

I reazionari hanno serrato i ranghi contro la Nuova Era Araba, ma nessun membro del vecchio establishment osa prendersi gioco di essa, eccetto i pazzi. I suoi fantasmi attraversano l’intera nazione araba e ciò è ancora presente nel linguaggio, gli sguardi e i toni .[4]

28.11.2014


[2]              Alberto Negri, La polveriera Medio Oriente e l’assenza dell’Europa, http://argomenti.ilsole24ore.com/alberto-negri.html

[3]           Franco Venturini, Truppe egiziane per la Palestina, intervista pubblicata da Il corriere della sera, 23 novembre 2014 http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_23/al-sisi-fattah-truppe-egiziane-la-palestina-2feddb18-72eb-11e4-9964-9b0d57bdf835.shtml

[4]           Azmi Bishara, Chi sono i nuovi arabi?, in al-Arabi al-Jabeed, 5 novembre 2014, tradotto da Saverio Leopardi e pubblicato da Il lavoro culturale, 21 novembre 2014. http://www.lavoroculturale.org/i-arabi/

 

ARIEL SHARON E’ MORTO

Ariel Sharon è morto e la notizia non giunge inattesa, dopo otto anni di coma. Nel 2006 un ictus sprofondò nell’oblio questo personaggio che, ora che è morto, pochi in Occidente riescono a definire per quel che è stato: un criminale di guerra. Delle sue gesta oggi si preferisce calcare la mano su quel piano di “razionalizzazione della colonizzazione” che fu il ridispiegamento nel 2005 delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e il conseguente svuotamento delle colonie. Sicuramente, la sua figura non può, però, essere lavata del tutto da una responsabilità che internazionalmente gli è stata riconosciuta, quella dei massacri di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut tra il 16 e il 18 settembre 1982. In quell’occasione Ariel Sharon ministro della difesa israeliano diresse in prima persona i massacri dalla terrazza di un albergo che dominava i due campi profughi. I bengala sparati dall’esercito israeliano, che occupava il Libano e Beirut, illuminarono a giorno la notte più atroce della popolazione civile palestinese ammassata in quei campi rendendo più facile il compito delle Falangi libanesi scatenate ad ammazzare chiunque. Le vittime di quei massacri non si sono mai potute contare. L’esercito israeliano che presidiava gli ingressi di Sabra e Chatila impedì a chiunque – stampa internazionale, Croce Rossa internazionale e Mezza Luna Rossa libanese – di entrare. Per quaranta ore la popolazione civile palestinese e libanese (in quei campi, infatti, vivevano anche migliaia di libanesi poveri) rimase alla mercé di orde scatenate e mentre il massacro si compiva le uniche cose che entravano nei campi erano i pasti per rifocillare i massacratori e i bulldozer dell’esercito israeliano che avevano il compito di “rastrellare” i cumuli di cadaveri e gettarli in fosse comuni. Nessuno poté entrare durante quelle quaranta ore, ma tutti poterono assistere dai bordi di quei campi, tutti sentirono le urla disperate e corali delle persone inermi che cercavano inutilmente di sfuggire alla morte. In moltissimi casi coloro che riuscirono a scampare si salvarono perché coperti da altri cadaveri.
Tale fu lo shock per quel massacro che anche in Israele, per la prima volta dalla sua fondazione nel 1948, vi fu una massiccia manifestazione contro la guerra e contro quei massacri. I dirigenti israeliani rendendosi conto che l’accaduto poteva innescare una crisi interna che rischiava di diventare incontrollabile decisero di “sacrificare” Ariel Sharon, ossia ammettere una parte di verità. Per non essere travolto il governo israeliano, guidato da Menachen Begin, si affrettò a istituire una commissione d’inchiesta che fu presieduta dal Presidente della Corte Suprema israeliana Yitzhak Kahan e dopo sei mesi, l’8 febbraio 1983, fu resa pubblica la sua relazione finale. Il Rapporto Kahan, pur ricostruendo interamente e dettagliatamente i rapporti che intercorrevano tra Israele e il Libano (en passant, ammettendo anche la responsabilità israeliana nel fomentare la guerra civile libanese scoppiata nel 1975), ritenne responsabili dei massacri le truppe delle Falangi Libanesi e il loro capo Bashir Gemayel, indirettamente responsabili le truppe israeliane e direttamente responsabile, in qualità di ministro della difesa, Ariel Sharon. Nessun altro membro del governo israeliano fu ritenuto minimamente responsabile. L’obiettivo di salvare la leadership politica israeliana dalla catastrofe fu, quindi, raggiunto.
Nel pieno della guerra del Libano del 1982, il 7 e l’8 agosto, prima delle stragi di Sabra e Chatila, Maxime Rodinson, in una conversazione a tutto campo sulla situazione mediorientale fatta con Rossana Rossanda, alla domanda sulla paura degli israeliani di essere distrutti, pronunciò parole profetiche:

[…] Malgrado tutte le specificità sentono di essersi stabiliti su una terra che non è la loro come dice un libro recente: «Sotto Israele c’è la Palestina come sotto il selciato c’è la sabbia». Questa è una paura che non li abbandona mai, ed è questa del resto che ha distrutto la sinistra israeliana, umanista, socialisteggiante, consegnando il Paese alla maggioranza silenziosa. La destra.

Per quanto l’invasione del Libano e soprattutto le stragi di Sabra e Chatila avessero creato una spaccatura politica, sociale e culturale nella società israeliana, l’analisi di Maxime Rodinson si è rivelata esatta. Lo stesso Ariel Sharon poté agevolmente sopravvivere a quell’inchiesta. Il prezzo che pagò fu irrisorio, il trasferimento dal dicastero della difesa a quello dell’agricoltura. Il suo curriculum militare e politico nel suo complesso non fu mai messo in discussione. Perché Sabra e Chatila non erano né le prime né le ultime stragi di cui egli si era reso responsabile. Nel 1953, su ordine dell’allora primo ministro David Ben Gurion, fondò l’ “Unità 101”, incaricata di distruggere i villaggi palestinesi e nell’ottobre dello stesso anno sessantanove residenti palestinesi, tutti civili inermi, furono trucidati nelle loro case a Qibya. Nel 1955 fu accusato dai suoi stessi superiori di aver dato supporto ai coloni israeliani che si vendicavano sui beduini nel Negev con violenze generalizzate e nel 1956, durante la guerra contro l’Egitto, i soldati ai suoi ordini lo accusarono apertamente di essere inviati inutilmente a compiere azioni pericolose solo per la propria gloria personale. Questa “macchia” la poté lavare nel 1973 durante la guerra del Kippur, quando con le sue azioni, anche non autorizzate, inferse perdite pesanti al nemico, contribuendo a ribaltare le sorti di quella guerra che Israele stava rischiando di perdere nonostante il ponte aereo organizzato in poche ore dagli Stati Uniti per rifornire di armi pesanti l’esercito israeliano.
Queste battaglie condotte da Ariel Sharon nel 1973 furono ben presto ammantate da un alone di mitologia e gli valsero la “riabilitazione” agli occhi dell’esercito ed anche della società israeliana. Ma dopo il 1982 la sua figura per quanto non fosse in discussione la sua “lealtà” al progetto coloniale sionista (invasione del Libano compresa) divenne piuttosto difficile da gestire e rimase ai margini della vita politica israeliana per lungo tempo.
Il ritorno sulla scena politica israeliana di Ariel Sharon da trionfatore avvenne nel 2001. Nel febbraio di quell’anno egli vinse le elezioni e divenne Primo ministro, questa vittoria fu il risultato di due fattori: per un verso, la debolezza intrinseca alla sinistra israeliana individuata ed analizzata da Maxime Rodinson ed esemplificata dalla famosa “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme fatta da Ariel Sharon nel settembre 2000, sotto i riflettori di tutto il mondo. Questa provocazione deliberata ed appoggiata, evidentemente, dall’allora Primo ministro israeliano il laburista Ehud Barak, innescò una nuova fase di rivolta generalizzata fra i palestinesi e fu chiamata, malgrado le forti differenze con la prima del 1987, la “seconda Intifada”; per altro verso, il cocente fallimento, già all’epoca ormai chiaro, degli accordi di Oslo, stipulati fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin nel 1993. Di tutto questo approfittò Ariel Sharon. A questo proposito è stato giustamente osservato:

L’ascesa di Sharon è stata anche il risultato dell’impasse cui era giunto il «processo di Oslo»: l’incompatibilità da un lato dell’interpretazione [israeliana] del quadro di Oslo […] con quella, d’altro lato dell’AP (Autorità Palestinese) che mirava a ricoprire l’insieme, o quasi, degli stessi Territori, visto che in mancanza di questo sapeva avrebbe perso ciò che le restava dell’influenza presso la popolazione palestinese.
La vittoria elettorale del criminale di guerra Sharon, nel febbraio 2001 – un evento altrettanto «scioccante» che la vittoria di Hamas, se non di più – ha inevitabilmente rafforzato il movimento integralista islamico, il contrappeso della radicalizzazione delle posizioni sul fondo del compromesso storico nato morto. Tutto questo è stato molto accentuato, ben inteso, dall’arrivo alla presidenza degli Stati Uniti di George W. Bush, seguita all’esplosione delle ambizioni imperiali più feroci dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.

Con l’arrivo di Ariel Sharon al governo in Israele nel 2001 e di George W. Bush alla Casa Bianca gli interessi statunitensi e quelli israeliani nella regione mediorientale coincidevano quasi totalmente. In quel momento cruciale, Israele poteva contare sul fatto che dagli Stati Uniti non sarebbe arrivato nessun tipo di freno nella politica di aggressione e di colonizzazione verso i palestinesi. Neanche ipocriti “vertici” di facciata, come quello che condusse Bill Clinton nel luglio 2000 a Camp David, dove si cercò per l’ennesima volta di spingere Yasser Arafat alla resa incondizionata. Il campo per Ariel Sharon era totalmente libero. Ed in questo contesto, per quanto possa apparire paradossale, gli interessi strategici della destra oltranzista israeliana prevedevano anche, se non soprattutto, il predominio sulla scena politica palestinese dell’integralismo islamico. Ciò perché un rafforzamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (in cui predominava Al Fatah e il vecchio apparato burocratico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ufficialmente sciolta nel 1994) anche solo parziale avrebbe indebolito Israele e inficiato le sue mire espansionistiche, perfettamente personificate da Ariel Sharon.
In questo senso, la militarizzazione generalizzata della seconda Intifada offrì a Sharon il pretesto perfetto per reprimere la rivolta palestinese usando l’intero apparato militare israeliano: l’esercito, l’aviazione e la marina militare. A partire dall’ottobre 2000 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza vennero bombardate sistematicamente e rioccupate militarmente da Israele, mentre dal lato palestinese la polizia palestinese non disponeva che di armi leggere e gruppi di guerriglieri di diversa affiliazione che cercavano di contrapporsi ai soldati israeliani. Nell’aprile del 2002, due anni dopo lo scoppio della “seconda Intifada” il campo profughi che lambisce la città di Jenin nel nord della Cisgiordania subì una sorte simile a quella dei campi profughi di Sabra e Chatila esattamente venti anni prima. In questo campo, esteso per poco più di un chilometro quadrato vivevano circa 14.500 persone, alla fine del marzo 2002 un’azione di guerriglia condotta da un gruppo armato legato a Fatah, in particolare a Marwan Barghouti, provocò la morte di 23 soldati israeliani il ferimento di altri sessanta. La vendetta delle truppe agli ordini di Ben Eliezer e del primo ministro Ariel Sharon iniziò all’alba del 3 aprile – il campo di Jenin fu chiuso a chiunque (Croce Rossa Internazionale, Mezza Luna Palestinese, stampa israeliana e straniera) – alla sua riapertura il 13 aprile ciò che si stendeva di fronte agli occhi di chi vi entrò era un chilometro quadrato di macerie e corpi senza vita. Ancora una volta il coraggio e l’onestà di Amnon Kapeliouk fece conoscere al mondo, come venti anni prima, le dimensioni del massacro:

Le rovine a cielo aperto di Jenin sono la testimonianza di una volontà distruttrice. Ma qual è il numero delle vittime? Il campo annoverava 14.500 abitanti. Circa mille persone sono fuggite dirigendosi verso i villaggi limitrofi, alla vigilia dell’assalto israeliano. Il secondo giorno, dopo l’ingresso dei blindati, i megafoni dell’esercito [israeliano] hanno sollecitato i palestinesi ad abbandonare il campo. Per facilitare la loro partenza, è stato anche interrotto il coprifuoco decretato all’inizio delle operazioni. Nello stesso giorno e nei giorni successivi, alcune migliaia di persone si sono messe in marcia verso sette piccoli villaggi della regione: 4.000 sono rimaste rintanate nelle loro case in condizioni spaventose, senza acqua né cibo né elettricità, senza poter andare in ospedale, in un inferno di spari, esplosioni e bombardamenti continui, giorno e notte.

La rioccupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza si protrasse per anni e la diffusione di una forma di resistenza tra le più disperate ed estreme, gli attacchi suicidi di decine di giovani palestinesi, offrì il pretesto per parlare di “guerra”, come vi fossero due campi che si contrapponevano ad armi pari, o quasi. Mentre, Yasser Arafat dal 2001, fino alla sua partenza per Parigi (ormai definitivamente ammalato), al 2004 venne rinchiuso e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Questa scelta di Ariel Sharon, la reclusione forzata di Yasser Arafat nella Muqata, però al contrario delle sue speranze e dei suoi piani, non portò al suo completo discredito, anzi al contrario permise al leader palestinese di sfruttare al massimo il suo prestigio storico. In realtà, la popolarità di Yasser Arafat era giunta al suo minimo storico proprio prima della sua reclusione, perché gli accordi di Oslo e quelli successivi, come si è detto prima, portarono tutto tranne che al miglioramento anche minimo nelle condizioni di vita dei palestinesi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Per cui, l’assedio da parte di Ariel Sharon della leadership palestinese legata a al Fatah, consentì a Yasser Arafat di usare, una volta di più, la demonizzazione di cui era vittima per glissare le critiche e recuperare il consenso perso.
Il cambiamento radicale del clima internazionale, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, consentì ad Israele di poter condurre senza alcun freno una repressione feroce. Ariel Sharon ed il suo governo nel 2002, pur avendo rotto un accordo in modo flagrante e compiuto la rioccupazione militare di intere zone “autonome” con migliaia di morti, decine di migliaia di feriti ed arresti indiscriminati, non dovette tremare neanche quel tanto come all’epoca di Sabra e Chatila toccò al governo di Menachem Begin.
La coppia Ariel Sharon-George W. Bush fu quella che come mai prima si spinse in Medio Oriente nella politica dell’apprendista stregone, di cui poi nove anni dopo i loro eredi dovevano pagare il prezzo. Questa politica applicata allo scenario palestinese si è concretizzata nell’impedire, tra il 2001 e il 2004, lo svolgimento di elezioni, libere e credibili, che lo stesso Yasser Arafat continuò a chiedere fino alla fine. L’obiettivo del diniego israeliano-statunitense, al di là degli alibi sulla richiesta di una «democratizzazione dell’Autorità Nazionale Palestinese», era quello di impedire alle forze politiche palestinesi legate all’ANP di poter sfruttare a pieno il prestigio di Yasser Arafat, ben sapendo che i suoi eredi (salvo Marwan Barghouti che è rinchiuso nelle carceri israeliane dall’aprile del 2003) mai avrebbero vinto nessuna elezione, se non truccata, e favorire così l’ascesa di Hamas, che Ariel Sharon – sbagliando le sue previsioni – pensava potesse essere l’organizzazione con cui si sarebbe potuto intendere, per le comuni “affinità oltranziste”. Per un altro verso, Ariel Sharon fece un semplice calcolo: una vittoria di Hamas sull’ANP e sulle forze politiche palestinesi gli avrebbe consentito di creare le condizioni perché si realizzassero due presupposti fondamentali nella sua visione.

Ariel Sharon ha giocato abilmente con la dialettica tra se stesso ed il suo vero omologo palestinese, Hamas. Il suo calcolo è stato semplice: per condurre a buon fine, in modo unilaterale, la propria versione più dura dell’interpretazione del sionismo di un regolamento con i palestinesi, aveva bisogno di coniugare due condizioni:
ridurre al minimo la pressione internazionale che poteva essere esercitata su di lui – in particolare quella degli Stati Uniti, la sola che abbia importanza in Israele;
dimostrare che non esiste alcuna direzione palestinese con la quale Israele possa trattare.

In questo scenario strategico il cosiddetto “ritiro da Gaza” si inseriva tanto nella realizzazione di questi due presupposti, quanto nell’abbandonare quella Striscia di Gaza che ormai era diventata solo un peso per Israele, anche, se non soprattutto, perché Hamas aveva già all’epoca un fortissimo consenso e seguito nella Striscia e ciò significava dover impegnare centinaia di soldati a salvaguardia di poche colonie, abitate per altro da fanatici irrefrenabili. La popolazione israeliana era sempre più stanca di quei “pazzi scatenati” come venivano definiti a Tel Aviv i coloni di Gaza, per cui il piano di ridispiegamento da Gaza fu accolto dalla maggioranza degli israeliani come il gesto coraggioso di “un guerriero che sa quanto costa la pace”.
Ariel Sharon poté con quell’inganno rifarsi l’immagine sia in Israele che all’estero: i morti assassinati durante le sue “gesta” a Qibya, a Sabra e Chatila, a Jenin, scomparvero come d’incanto dal suo curriculum vitae, senza lasciare traccia. Tanto più che il vero obiettivo di Ariel Sharon, come dei suoi predecessori (di destra o di “sinistra” che fossero) e dei suoi successori, è stato sempre quello di arrivare a poter controllare la maggior parte della Cisgiordania e la “ebraicizzazione” della parte orientale di Gerusalemme, cacciarne la gran parte degli abitanti palestinesi e poter continuare indisturbati nella politica di apartheid che colpisce i cittadini palestinesi di Israele. Lo scopo era, in sostanza, dare ai palestinesi l’illusione di “grandi concessioni”, mettendoli tuttavia in un cul de sac da cui ancora non sono riusciti a venire fuori. Inoltre, pochi mesi prima di cadere in coma, Ariel Sharon fece la sua ultima mossa che doveva garantirgli gli omaggi generalizzati: abbandonò il Likud, che aveva contribuito a fondare riunendo le varie anime della destra e dell’estrema destra israeliana, e fondò Kadima, un partito che a torto si è detto che fosse meno oltranzista ed estremista del Likud. Semplicemente, Ariel Sharon fondando Kadima si sbarazzò dell’area più fanatica che non capiva il perché fosse necessario dare l’impressione di essere moderati per poter al contrario raggiungere gli obiettivi più oltranzistici e con i metodi più brutali, senza pagare il prezzo delle proprie scelte.
Da questo punto di vista, indubbiamente, Ariel Sharon è stato un “buon maestro”, visto che già pochi mesi dopo essere caduto in coma, nel luglio 2006 il suo discepolo e successore Ehud Olmert, alla guida di un governo di coalizione con il partito laburista, scatenò un’offensiva in Libano che durò 33 giorni, provocò oltre 1000 vittime civili, la distruzione pressoché totale delle infrastrutture del Paese. E se anche quella guerra, per tante ragioni che qui non possono essere elencate, di fatto fu un fiasco politico e militare, la ferocia di quell’aggressione unilaterale non determinò alcun problema al governo dello “sharoniano” Ehud Olmert, né all’interno di Israele, né all’estero. Il prezzo fu sì pagato con le dimissioni ma non perché quel governo aveva scatenato quell’ennesima aggressione, ma per come aveva perso la guerra.
Questo era un segnale fortissimo di quanto l’opinione pubblica israeliana si fosse spostata su posizioni oltranzistiche. Infatti, quando nel dicembre 2008, Olmert, prima di essere travolto dagli scandali, tentò di recuperare il consenso con quell’atroce aggressione che fu Piombo Fuso e che in poco meno di un mese – dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 – provocò circa 1.500 morti e circa 5.000 feriti e la distruzione quasi totale della Striscia di Gaza, con l’alibi ridicolo della risposta ai lanci dei razzi Qassam, l’opinione pubblica israeliana nella sua grande maggioranza appoggiò il governo e le forze armate.
Questo scenario è sicuramente la dimostrazione che se per un verso Ariel Sharon aveva sbagliato nel dare per scontato che, una volta vinto sull’ANP, Hamas sarebbe stato disponibile ad accordarsi con Israele, per un altro verso egli ha invece saputo sfruttare fino in fondo il risultato di decenni di politiche aggressive in Medioriente, portando fino alle estreme conseguenze la previsione fatta da Maxime Rodinson nel lontano 1982.
Coloro che oggi si scandalizzano del coro pressoché unanime di capi di Stato che rendono omaggio ad un criminale di guerra incallito quale è stato Ariel Sharon peccano di ingenuità. Né ci sembra lecito parlare di “chiusura di un’epoca” nella politica israeliana con la morte del generale Sharon. La politica portata avanti dai diversi governi israeliani dopo l’uscita di scena di Ariel Sharon è perfettamente coerente con i suoi progetti: dal muro di separazione unilaterale all’embargo contro la striscia di Gaza in vigore dal 2007, alla sistematica colonizzazione di parti sempre più importanti della Cisgiordania. Questa coincidenza di progetti è stata solo in parte scalfita dalle rivolte arabe che dall’inizio del 2011 hanno spazzato almeno due amici “sinceri” di Israele: Hosni Mubarak e Zinedine Ben Ali. La precarietà del quadro regionale con lo scoppio delle rivolte arabe a cavallo tra il 2010 e il 2011 ed il fatto che decenni di dittature e di politiche occidentali di sostegno a queste hanno favorito le uniche forze politiche di opposizione che hanno potuto, malgrado tutto, organizzarsi, quelle islamiche (sostenute per altro dai Paesi del Golfo, in prima linea Qatar ed Arabia Saudita) è la dimostrazione più concreta dell’errore di Ariel Sharon nel non comprendere che Hamas non aveva alcun interesse ad intendersi con Israele. Non come è avvenuto con l’OLP dominata da al Fatah e diretta per quattro decenni da Yasser Arafat, pronta ad ogni sorta di compromesso. Mentre, la situazione interna ad Israele dimostra come i decenni durante i quali la politica propugnata da Ariel Sharon ha potuto predominare hanno lasciato una pesantissima eredità di chiusura e di grandissimi passi indietro rispetto agli anni in cui la popolazione israeliana sembrava voler trarre tutte le conseguenze della lezione di Sabra e Chatila. L’assenza quasi totale di reazione all’eccidio di Piombo Fuso dimostra tutto questo in modo assai pericoloso. Oggi in Israele vi sono molti più eredi di Ariel Sharon di quanti si voglia ammettere.
Altra cosa sarà la possibilità che questi avranno di poter mettere in atto i loro progetti. Sicuramente la divisione del popolo palestinese e la debolezza estrema delle due leadership in campo, quella di Hamas nella Striscia di Gaza e quella dell’ANP in Cisgiordania favorirà gli eredi di Sharon sprofondando Israele in una situazione assai rischiosa.
Ariel Sharon è morto senza dover dare conto di nessuno dei crimini che ha commesso ed in questo, purtroppo, è in ottima compagnia di personaggi ancora oggi presenti sulla scena politica mondiale. Le numerosissime vittime che avevano il diritto sacrosanto di volergli dire in faccia ciò che pensavano di lui, possibilmente seduto dietro il banco degli imputati di un tribunale internazionale, hanno perso definitivamente l’occasione. Ma questo non significa che dimenticheranno e noi occidentali non potremmo compiere errore più grande di quello di voler dimenticare quali e quante responsabilità abbiamo avuto nei crimini commessi da Ariel Sharon. Ma questi crimini non potevano che restare impuniti perché diversamente si sarebbe dovuta “processare” la politica occidentale in Medio Oriente ed in molte altre parti del mondo degli ultimi cinquanta anni.
Ciò che potrebbe, solo in parte però, alleviare le sofferenze dei popoli che hanno avuto la sciagura di incontrare sulla propria strada Ariel Sharon, i suoi accoliti, i suoi amici e i suoi complici sarà la nostra capacità di non farci ingannare dal coro degli ipocriti che oggi lo celebrano, pensando che i colpi di spugna sulle responsabilità che con lui condividono aprano la via ad un ritorno allo statu quo ante.
I popoli arabi, compreso quello palestinese, vivono un paradosso che è stato descritto in modo molto efficace:

Le aggressioni coloniali e post-coloniali che i paesi arabi hanno subìto, assieme all’oppressione politica ed economica che ne è seguita, hanno introdotto una profonda divisione entro la maggior parte delle istituzioni intellettuali, educative, politiche ed economiche del mondo arabo-islamico. L’assoluta superiorità degli invasori, in materia di scienza, tecnica, organizzazione politica e normazione giuridica, ha costretto i musulmani a imparare dai loro nemici e a seguirne le regole. Ciò li ha posti in una situazione paradossale: resistere con tutti i mezzi alle potenze coloniali e nello stesso tempo imitarle per tentare di dare efficacia alla resistenza e di sconfiggerle.

Ariel Sharon sarà sconfitto il giorno in cui questo paradosso sarà risolto a loro vantaggio dai popoli che lo hanno vissuto.

note
Sulle stragi di Sabra e Chatila è di particolare valore un testo che ricostruisce dettagliatamente non solo i due giorni del massacro (ora per ora) ma anche gli avvenimenti dei giorni precedenti, a partire dal 14 settembre 1982, giorno in cui un attentato dinamitardo a Beirut-Est uccise Bashir Gemayel, capo delle “Forze libanesi” le falangi cristiano-maronite libanesi, eletto poco tempo prima alla presidenza della Repubblica libanese. Questa elezione rappresentava un’indubbia vittoria per Ariel Sharon che in quel modo assicurava ad Israele un Libano guidato da un alleato sicuro e un giurato nemico del popolo palestinese. Questo testo è l’inchiesta giornalistica condotta sul campo poche ore dopo i massacri di Amnon Kapeliouk, un giornalista del più diffuso giornale israeliano Yediot Aharonot e inviato speciale di Le monde diplomatique: Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila-Inchiesta su un massacro, edizioni Corrispondenza Internazionale, 1983, Roma. Ben sapendo che, malgrado l’orrore suscitato dalle stragi, Israele difficilmente sarebbe stato messo di fronte alle proprie responsabilità, Amnon Kapeliouk sentì il bisogno di scrivere una nota di avvertenza all’edizione francese, pubblicata dalle edizioni Seuil nel dicembre 1982, con la quale spiegava il metodo usato nell’analisi del materiale raccolto. In questa nota diceva: “L’inchiesta presentata qui è il prodotto di un lavoro cominciato il giorno successivo al massacro di Sabra e Chatila. È basata sulle testimonianze di decine di israeliani, civili e militari, di palestinesi, di libanesi e di giornalisti stranieri. Ho fatto largo uso della stampa israeliana, libanese e internazionale, delle deposizioni dinanzi alla commissione d’inchiesta giudiziaria israeliana, dei verbali della Knesset (Parlamento israeliano), dei servizi d’ascolto delle radio del Vicino-Oriente, dei dispacci d’agenzia di stampa internazionali e dei documenti di origine israeliana, palestinese e libanese. Ho analizzato e confrontato le informazioni così raccolte scartando volontariamente tutte quelle per le quali non potevo ottenere dei riscontri certi” [A.K., op.cit., Avvertenza dell’autore].
Un altro testo importante è Israele nel Libano-Testimonianze di un genocidio, a cura di Livia Rokach, FLM (Federazione lavoratori metalmeccanici) sezione di Milano, quaderni di dibattito sindacale, giugno 1983, pp.115.
Rapport Khahane, Texte intégral et commentaires critiques, Le Sycomore, Paris, 1983, pp. 177
Maxime Rodinson, Il labirinto del Medioriente prima dell’islamismo radicale, in Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande – Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento, edizioni Einaudi, Torino, 2013, p. 129
Gilbert Achcar, Prime riflessioni sulla vittoria elettorale di Hamas, in l’Oriente incandescente – Il Medioriente allo specchio marxista, edizioni Shahrazad, Roma, 2009, p. 300.
Per un’analisi dettagliata di questa vicenda, cfr, A. Moscato- C. Nachira, Israele sull’orlo dell’abisso, edizioni Sapere 2000, Roma, 2002, in particolare si veda il paragrafo, Beirut 1982-Jenin 2002: il massacro senza fine, pp. 147-153.
Amnon Kapeliouk, Jenin, inchiesta su un crimine di guerra, in Le monde diplomatique-Il Manifesto, maggio 2002, pp. 12-13.
Pur essendo vero che la democrazia non è mai stata la caratteristica predominante dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’argomento all’epoca, diventava ridicolo visto chi erano coloro che ne chiedevano la democratizzazione.
Gilbert Achcar, op. cit., pp. 300-301
Sull’aggressione del Libano del luglio/agosto 2006 si veda: Gilbert Achcar, Michel Warschawski, La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano, edizioni Alegre, Roma 2007, pp. 99.
Non è qui possibile analizzare questo aspetto in modo dettagliato. Ma è necessario segnalare che per quanto dall’agosto del 2013 in Egitto si sia insediata una nuova giunta militare, con a capo il generale al-Sissi, ed anche se questo colpo di Stato sicuramente tranquillizza Israele, la dinamica delle rivolte arabe dovrebbe aver insegnato che dare gli attuali assetti come definitivi segnali di chiusura di queste è del tutto sbagliato. A questo proposito si vedano: Gilbert Achcar, Le peuple veut – une exploration radicale du soulèvement arabe, Acte Sud, Paris, 2013, pp. 432 e Domenico Quirico, La primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp. 217.
Danilo Zolo, Presentazione dell’edizione italiana del testo di Abdullahi Ahmed An-Na’im, Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell’Islam contemporaneo, p. XX, edizioni Laterza, Bari, 2011

IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE

Il Medioriente nelle ultime settimane è tornato alla ribalta dell’attenzione internazionale. Ormai da molti mesi l’interesse in Occidente per le rivolte che stanno cambiando il volto del Medioriente e del Maghreb è diminuito perché gli eventi in corso non soddisfano le attese occidentali, deludendo tutti coloro che si aspettavano un percorso lineare. In realtà in Occidente sono stati sottovalutati due fattori. Per un verso alcuni  paesi coinvolti erano succubi di dittature ultra decennali e per questo ogni forma di espressione culturale, politica, sociale o sindacale è stata repressa e conseguentemente molti dei leader che oggi sono protagonisti della scena politica sono tornati dopo lunghi periodi di esilio in Occidente, dove avevano trovato rifugio. Per un altro verso, l’elemento che oggi desta più smarrimento in Occidente è il ruolo di primo piano svolto dalle organizzazioni politiche islamiche che all’inizio delle rivolte nel dicembre 2010 sembravano essere marginali. Ma, come spesso succede, la realtà è ben più complessa di ciò che si desidera e quindi ci si trova ad un bivio: cercare di comprendere ciò che avviene, districandosi fra la complessità dei dati sul terreno, oppure ignorare la realtà adattandola ai propri desideri.
   Inoltre, molti paesi della regione negli anni scorsi sono stati teatro di gravi crisi interne, soprattutto legate all’impoverimento generalizzato delle popolazioni, fin dagli anni ’90 del XX secolo. Ma ciò che due anni fa ha reso  diverse dalle precedenti le rivolte che sono  scoppiate è stato il prevalere del loro carattere politico e del loro coraggio. Questo elemento, più degli altri, è diventato la miccia che non  si è ancora spenta. 
   Per quanto il mondo arabo rappresenti da diversi punti di vista un insieme organico è anche vero che ognuno dei paesi mediorientali hanno vissuto vicende specifiche che oggi li influenzano. Sottolineare questo aspetto è necessario anche per non commettere l’errore di porre tutto sullo stesso piano. Questo rischio è particolarmente presente e da alcuni anni si intrecciano due elementi: per un verso la sconfitta dei partiti laici che dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso avevano tentato di imporsi sulla scena politica e, per un altro verso, come conseguenza, l’affermarsi delle organizzazioni politiche islamiche. Spesso si è stati tentati, e lo si è tutt’ora, di risolvere questo enigma annullando le differenze. 


   
L’Occidente cambia tattica
Una cosa è certa: nessuno si aspettava che dalla Tunisia nel dicembre 2010 si estendesse un movimento di massa di grandi proporzioni. Le potenze Occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, hanno tentato all’inizio di rinnovare il loro appoggio ai dittatori che fino a poche ore prima erano dei loro alleati e clienti di vecchia data e di consolidata lealtà. Ma quando è diventato chiaro che la dinamica era irreversibile, perché le piazze non si svuotavano malgrado la repressione brutale, il loro atteggiamento è cambiato. Il quesito che si poneva sia agli Stati Uniti che all’Europa era semplice: per garantire i propri interessi nella regione conveniva sostenere o abbandonare i vecchi alleati? Evidentemente, nel decidere la risposta venivano presi in considerazione una serie di diversi elementi, fra cui anche il fallimento delle politiche che dal 2001 fino al 2009 avevano avuto come risultato principale quello di impantanare l’Occidente nelle due guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq. Era molto più difficile uscire da queste guerre di quanto non fosse stato scatenarle. 
   Inoltre, le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan avevano avuto anche il “risultato” di radicalizzare tutti i movimenti di opposizione nel mondo arabo, per cui scegliere dei nuovi alleati per l’Occidente era un’operazione tutt’altro che facile. In questo contesto, l’unica soluzione era quella di modificare le alleanze, per non intaccare i rapporti, strategicamente importanti, con Israele e  i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Gli stessi paesi del Golfo erano tutt’altro che esenti dal “contagio” delle rivolte: dall’Arabia Saudita al Bahrein, passando per il Qatar. Anche in questi paesi l’opposizione riprendeva vigore e le manifestazioni popolari mettevano in pericolo i paesi ricchi di petrolio. Questi per l’Occidente non solo rappresentavano interessi legati al petrolio ma erano anche importanti sedi di basi militari statunitensi organizzate all’epoca della guerra del Golfo nel 1991. Tutto questo andava preservato e in questo senso gli interessi statunitensi ed europei andavano coincidendo in modo sempre più evidente con quelli delle monarchie petrolifere. Fino ad oggi queste monarchie hanno saputo intrecciare i metodi più classici di “contenimento” delle rivolte interne attraverso una fortissima repressione. Grazie alle loro immense ricchezze hanno potuto sostenere le forze politiche islamiche nei diversi paesi in rivolta (in Tunisia hanno largamente finanziato Ennhda). In questo modo i partiti islamici hanno potuto facilmente riorganizzarsi e vincere le elezioni. Ovviamente, l’influenza dei paesi del Golfo è stata molto apprezzata dagli Stati Uniti che alla fine hanno stabilito buoni rapporti con le forze politiche islamiche che fino al novembre 2010 erano considerate terroristiche e destabilizzanti. 
  
In questo modo, pur non avendo giocato un ruolo di promotori delle rivolte, i partiti islamici hanno potuto accreditarsi nella regione come i nuovi interlocutori dell’Occidente. Nel gennaio 2011 l’amministrazione statunitense auspicava “una transizione nell’ordine” e questa sembrava essersi realizzata. Questo elemento, inoltre, si era rivelato un punto importantissimo di forza anche nell’orientare l’atteggiamento occidentale verso i paesi nei quali le rivolte erano sfociate in guerre aperte: in Libia e in Siria. È qui possibile solo un accenno, ma è essenziale sottolineare il fatto che tanto il regime di Gheddafi quanto quello degli Assad, pur avendo una facciata “antimperialista”, soprattutto dal 1991, intrattenevano stretti rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’Europa. Il ruolo diverso della Libia e della Siria nella regione ha determinato il diverso approccio occidentale. 
  
Ancora una volta, però, la realtà ha smentito coloro che pretendevano che le “primavere arabe”, come sono state definite in Occidente, fossero un argomento chiuso, dopo la vittoria elettorale dei partiti islamici in numerosi paesi (dal Marocco all’Egitto). Soprattutto in Tunisia e in Egitto, pur avendo i partiti islamici vinto le elezioni e prevalendo nelle assemblee costituenti dei due paesi, le manifestazioni contro il nuovo assetto non sono in realtà mai terminate.

Per gli interessi occidentali nella regione, in particolare l’Egitto oggi riveste un’importanza fondamentale. È ormai chiaro che gli Stati Uniti e l’Europa hanno scelto come interlocutore privilegiato il presidente Mohamed Morsy. Ma, al contrario del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani devono preoccuparsi di non perdere né il consenso popolare e neppure gli equilibri ereditati dal vecchio regime che essi hanno l’interesse a preservare. Questi equilibri riguardano soprattutto l’esercito che in Egitto è una parte essenziale del potere economico, visto che gestisce direttamente una quota importante degli aiuti militari statunitensi ed è nello stesso tempo formato da una base sociale popolare. Con il decreto presidenziale Morsy si concedeva dei poteri che ponevano le sue decisioni al di sopra di qualunque tipo di controllo ed estendevano contemporaneamente i poteri dell’esercito tentando di neutralizzare gli appetiti dei generali. Fin dalla presa del potere di Nasser tutti i presidenti egiziani provenivano dall’esercito, anche se poi svestivano la divisa a favore degli abiti civili, e questo dà l’idea del rilievo dell’esercito nella società egiziana. 
   Morsy, il primo presidente non militare, aveva quindi la necessità sia di accreditarsi come interlocutore affidabile verso l’Occidente, sia di dare l’impressione che la transizione dopo Mubarak fosse reale. Un’occasione gli è stata offerta da Israele che attaccando Gaza il 14 novembre scorso pensava di mettere in difficoltà l’Egitto. Al contrario, Morsy aveva saputo sapientemente sfruttare la crisi di Gaza. In primo luogo il Cairo è diventato il crocevia dei negoziati, ma nonostante questo Morsy non ha rinunciato a fare dichiarazioni di fuoco contro Israele, come non avveniva da decenni. L’invio del primo ministro egiziano a Gaza sotto i bombardamenti ha aperto la strada alla fine dell’isolamento politico di Gaza e della leadership di Hamas. Inoltre, dopo il primo ministro egiziano, a Gaza si sono recate delegazioni di tutti paesi in qualche modo coinvolti nella vicenda, dalla Turchia fino alla Lega Araba.
Tutto questo ha definitivamente convinto gli Stati Uniti che il quadro regionale era cambiato e che mantenere un atteggiamento di difesa ad oltranza delle scelte militari di Israele metteva a rischio i propri interessi strategici. 


  
L’aggressione a Gaza e il riconoscimento dell’ONU
Quanto analizzato finora dimostra chiaramente che la Palestina non poteva restare estranea agli eventi che si susseguivano a livello regionale. E se anche il popolo palestinese è rimasto ai margini delle rivolte arabe, inevitabilmente nessuno poteva onestamente pensare che queste non lo avrebbero influenzato. E questo anche perché Israele è invece rimasto saldamente ancorato alla vecchia visione regionale, sperando contro ogni evidenza che la nuova situazione potesse essere gestita con i metodi consolidati: guerra e copertura occidentale. In questo contesto regionale reso ben più fluido dalle rivolte e dai nuovi equilibri le  leadership palestinesi, quella dell’Autorità Nazionale Palestinese – in Cisgiordania – e quella di Hamas – a Gaza – sono state costrette a fare i conti con un distacco sempre più profondo tra le loro politiche e il popolo che intendono rappresentare.
   Hamas, evidentemente, ha avuto maggiore possibilità di rientrare nel gioco regionale per due motivi: perché gode ancora del fatto di aver vinto le elezioni legislative nel 2006 e perché grazie al prevalere dei Fratelli Musulmani ha maggiore visibilità e credibilità. Questo spiega anche il motivo per cui Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, nei mesi scorsi ha deciso di rompere l’alleanza con la Siria trasferendo il suo quartier generale a Doha, in Qatar. Quando in ottobre l’emiro qatariota si è recato a Gaza in visita ufficiale, Hamas cominciava a trarre i profitti delle proprie scelte politiche. Con l’ultima aggressione contro Gaza, Israele ha dato una nuova dimostrazione di aver compreso poco o nulla del mutato scenario politico regionale ed internazionale. A spingere Israele a scatenare la nuova, terribile, aggressione contro Gaza appare chiaro che è stata la fine dell’isolamento politico di Hamas molto più che le elezioni israeliane che si svolgeranno il prossimo 22 gennaio. Inoltre, fin dai primi giorni dell’aggressione di Israele contro Gaza era evidente che Hamas era riuscito a prevalere sulle altre organizzazioni politiche palestinesi della Striscia. Non a caso Meshaal, una volta giunto al Cairo per tentare di arrivare ad una tregua, ha potuto parlare anche in nome del Jihad Islamico. Inoltre, Hamas è in procinto di rinnovare i suoi quadri dirigenti e Meshaal, pur dichiarando di non ripresentarsi alla guida dell’ufficio politico di Hamas, deve affrontare anche il problema, soprattutto dopo il 21 novembre (giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco con Israele), del grande consenso ottenuto dalla leadership dell’interno. Non è la prima volta che nello scenario politico palestinese si propone la dicotomia tra le direzioni politiche in esilio e quelle che invece sono sul campo. Certamente, Meshaal è riconosciuto come l’architetto della tregua, anche se questa è stata possibile, ancora una volta, soprattutto grazie al mutato clima generale. Il suo trionfale ritorno a Gaza, per il 25° anniversario di Hamas, è stato anche un grande rito. Gigantografie dello Sceicco Yassin, leader carismatico fondatore dell’organizzazione nel 1987 e ucciso dagli israeliani nel 2004, erano al fianco di quelle di altri leader assassinati, da Abdel Rantisi fino ad Ahmed Jaabari. Meshaal era circondato dai membri del governo in carica a Gaza e il suo discorso ha sottolineato un dato: la direzione politica in esilio riconosce pienamente l’autorità di quella dell’interno. Tutto questo con una folla immensa di palestinesi con le bandiere verdi di Hamas. Meshaal nel suo discorso ha anche ribadito che non vi è riconoscimento possibile di Israele e che la resistenza continuerà fino alla liberazione. E ha concluso sostenendo che la riconciliazione è a portata di mano: un evidente invito all’Autorità Nazionale Palestinese e a Fatah. Inoltre, e non accadeva dalla rottura del 2007, una delegazione di Fatah era presente a Gaza. In definitiva, un discorso ampio e generico volto a preservare i risultati politici ottenuti con il cessate il fuoco. Ma non solo.
   L’Autorità Nazionale Palestinese durante la settimana di bombardamenti a Gaza sembrava definitivamente messa in un angolo. Ma nonostante il grande vantaggio di Hamas, anche grazie al tacito consenso internazionale, resta il fatto che in ogni caso l’organizzazione islamica palestinese non offre all’Occidente quella affidabilità dimostrata dall’ANP e da Fatah fin dal 1993.

Per questa ragione di fondo gli Stati Uniti hanno deciso di giocare su due tavoli contemporaneamente: far accettare il cessate al governo più oltranzista nella storia di Israele, mantenendo tuttavia un atteggiamento che reiterava l’accettazione del “diritto alla difesa” di Israele. Su un altro piano, pur chiedendo a Mahmud Abbas di rinunciare all’iniziativa di chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come Stato non membro e con status di osservatore, in realtà non hanno fatto nulla perché la richiesta dell’ANP venisse rifiutata. A differenza di Israele, gli Stati Uniti hanno compreso che i palestinesi con il voto dell’Assemblea Generale hanno ottenuto molto meno che con gli accordi di Oslo nel 1993. Anzi, passata l’euforia per le “vittorie” di Hamas e dell’ANP è probabile che la realtà si presenti pesantemente gravida di pericoli. Primo fra tutti quello che Israele imponga un accordo che registri di fatto la parcellizzazione della Cisgiordania creata con la costruzione del Muro di separazione unilaterale, iniziata da Israele nel 2002. 
   Evidentemente, il voto favorevole dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre  ha dato un sostegno fondamentale all’ANP di Abu Mazen, aiutandolo ad uscire dall’angolo in cui era finita. Ma tutti sanno che il consenso popolare seguito all’esito della votazione è legato da un fragile filo. Per questa ragione sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno reagito in modo negativo all’annuncio israeliano della costruzione di 3000 nuove abitazioni nei pressi della colonia di Maale Adunim alle porte di Gerusalemme. In definitiva, il cessate il fuoco del 21 novembre raggiunto con Hamas e il voto favorevole dell’Assemblea Generale sono due facce di una stessa medaglia. È evidente che Hamas e l’ANP, se vogliono conservare il consenso, dovranno raggiungere un accordo di riconciliazione, tutt’altro che scontato, e questo dovrà significare per il popolo palestinese, in tutte le sue componenti, un miglioramento effettivo delle condizioni di vita. 
   Ovviamente, è comprensibile il sollievo e perfino la gioia sia dei palestinesi della Striscia di Gaza sia della popolazione della Cisgiordania. Le stesse scene di giubilo collettivo si videro nel 1993 all’indomani della firma degli accordi di Oslo e tuttavia furono sufficienti pochi anni perché l’illusione fosse dolorosamente svelata. Certo, il clima politico regionale ed internazionale di oggi è profondamente diverso da quello degli anni novanta del secolo scorso e ciò che emerge fino a questo momento è che saranno determinanti sia le scelte delle due direzioni politiche palestinesi, sia la disposizione dell’Occidente a farsi valere nei confronti di Israele. In questo senso le speranze dell’Occidente di “chiudere” il dossier palestinese-israeliano con artifici diplomatici privi di sostanza politica potrebbe rivelarsi, ancora una volta, un boomerang i cui effetti sarebbero per l’ennesima volta dolorosamente pagati dal popolo palestinese.

Dicembre 2012

AGGRESSIONE A GAZA

L’ennesima aggressione militare israeliana contro la martoriata Striscia di Gaza è tutto tranne che una sorpresa. Da molti mesi oramai si aspettava solo di capire quale sarebbe stato il bersaglio che avrebbe scelto di colpire il governo Netanyahu. Molti osservatori sostengono che si tratta di una mossa elettorale di Netanyahu e di Lieberman. Essi hanno fatto una lista comune per le prossime elezioni del 22 gennaio, e questa tesi è indubbiamente fondata, ma allo stesso tempo è limitativa. Certo, non sarebbe la prima volta che ciò avviene.

Ciò che però costituisce, sicuramente, un altro elemento che ha spinto il governo israeliano a scatenare quest’ennesima aggressione contro la popolazione civile di Gaza è il mutato assetto regionale, che ha prodotto, fra l’altro, l’uscita dall’isolamento politico della direzione politica di Hamas. Nessuno poteva equivocare il senso del cambiamento di alleanze avvenuto nei mesi scorsi con la scelta di Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, di spostare il proprio quartier generale da Damasco a Doha, in Qatar. Questo cambiamento delle alleanze di Hamas ha sancito, innanzitutto, la fine dell’asse con l’Iran. Questa decisione ha dimostrato ancora una volta il pragmatismo che caratterizza Hamas. All’indomani delle elezioni legislative palestinesi del 2006, l’alleanza con l’Iran e con i suoi più stretti alleati nella regione, la Siria di Bashar el Assad e gli Hezbollah libanesi, ha permesso a Hamas di alleggerire l’assedio al quale la Striscia di Gaza è sottoposta da sei anni.

Ma il cambiamento politico nella regione a seguito delle rivolte che l’attraversano dal 2010 ha avuto come conseguenza l’ascesa in diversi paesi, innanzitutto l’Egitto, dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è la branca palestinese. Inoltre, anche se le rivolte in Medioriente e nel Maghreb non hanno avuto la Palestina come protagonista di primo piano è bene non dimenticare che, soprattutto in Egitto, alcune delle organizzazioni che sono state la base della rivolta che ha portato alle dimissioni di Mubarak sono nate sull’onda della solidarietà nel 2000 con la seconda Intifada. Anche se la prima decisione del governo Morsi, dopo le elezioni, è stata di rispettare i trattati internazionali stipulati dal precedente regime, compreso ovviamente il trattato con Israele, non poteva essere sottovalutato il fatto che comunque la Palestina non cessava di avere un impatto importante all’interno.

L’ultima aggressione israeliana, quindi, si iscrive in un contesto assai differente e ben più complesso della precedente del 2008-2009. Inoltre, i paesi del Golfo, che non sono esenti da manifestazioni interne – dei quali si parla pochissimo, ma che non lasciano tranquilli i diversi regni al potere, soprattutto in Arabia Saudita e in Barhein – sulla scia di ciò che è successo altrove, hanno ben compreso che il loro rinnovato protagonismo regionale e internazionale non poteva “limitarsi” ad aiutarsi reciprocamente nel reprimere i propri popoli e nel sostenere le opposizioni dei rivali. In questo quadro si inscrive la visita dell’emiro del Qatar a Gaza nell’ottobre scorso. Hamas, quindi, non ha colto solo l’opportunità di inserirsi a pieno titolo nello scenario politico regionale, ma ha anche tenuto conto della possibilità di imporre le proprie scelte alle altre organizzazioni islamiche nella striscia di Gaza, innanzitutto il Jihad islamico.

Ciò che è sempre stato chiaro ad Hamas è che dopo aver ottenuto il consenso popolare attraverso la vittoria politica nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’unico modo per consolidare il proprio potere e raggiungere l’obiettivo di diventare protagonista a livello nazionale palestinese era quello di riuscire a mettere fine all’assedio, in modo da dimostrare a tutti i palestinesi, compresi quelli della Cisgiordania, che i tormenti patiti non erano stati vani. Non è un caso se durante l’attacco a Gaza, i leader di Fatah, Hamas e Jihad Islamico e Fplp si sono precipitati a dichiarare la “fine delle divisioni”. L’aggressione israeliana ha visto moltissime manifestazioni in tutta la Cisgiordania, dove l’ANP è sempre più in difficoltà e dove l’intreccio del disagio economico e quello politico riesplode sistematicamente. Ma anche nella Striscia di Gaza il potere incontrastato di Hamas non è stato esente, in questi ultimi anni, dall’essere criticato anche duramente, soprattutto dai giovani che costituiscono una parte determinante della popolazione di Gaza e che si sono opposti alla crescente islamizzazione della società di Gaza.

È chiaro che, come è già accaduto nella storia recente, della vicenda palestinese si sono serviti i paesi arabi. Nello stesso Egitto, mentre il governo era impegnato nelle febbrili trattative per raggiungere il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, proseguivano le manifestazioni di piazza contro il presidente Morsi. Il quale grazie al successo dell’opera di mediazione si è “concesso” un’ampiezza di poteri superiore a quella di Mubarak. Evidentemente, lo scenario palestinese non ha avuto l’effetto di sopire il proseguimento del movimento popolare iniziato il 25 gennaio 2011.

Durante i giorni infernali dell’attacco israeliano a Gaza, come nel caso del massacro del 2008-2009, le strade delle città di molte capitali arabe, e non solo, si sono riempite di migliaia e migliaia di persone. In alcuni casi, come quello della Giordania, le manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza si sono intrecciate con quelle, massicce, contro il governo e contro il carovita. È chiaro che l’impegno istituzionale arabo verso Gaza, dove si sono recati tutti gli attori in campo — Qatar, Egitto, Tunisia, Lega Araba, Turchia — ha avuto un duplice obiettivo. Per un verso i governi si sono serviti dell’indignazione popolare diffusa dalla strage di innocenti compiuta anche questa volta. La strage è provata dai numeri: 162 vittime palestinesi, se non di più, perché ancora non è chiaro il numero delle vittime dei bombardamenti di mercoledì 21 novembre, poco prima dell’entrata in vigore della tregua. Oltre i morti, sono stati 1000 i feriti gravi, mentre in campo israeliano si sono contate 5 vittime, alcune decine di feriti e pochi danni infrastrutturali. Per un altro verso, rompendo l’isolamento politico di Hamas, i governi arabi potranno nel prossimo futuro dettare condizioni allo stesso movimento Hamas, che non può permettersi di perdere il consenso politico che deriva da questo accordo. Nel 2009, al momento della tregua che pose fine a “Piombo fuso”, Hamas uscì indebolito, mentre oggi il governo islamico della Striscia di Gaza esce molto rafforzato sia a livello palestinese che a livello regionale.

Nel contesto regionale, i governi arrivati al potere dopo le recenti rivolte hanno dimostrato di riuscire a ottenere dei risultati positivi più dei vecchi regimi. In questo senso, il fatto che la Casa Bianca abbia spinto il governo israeliano ad accettare un cessate il fuoco che non voleva, è indice di una semplice circostanza: gli Stati Uniti hanno l’interesse a consolidare i nuovi equilibri regionali, che sono gli unici che possano garantire i loro interessi nella regione. E il governo egiziano ha tutto l’interesse ad essere l’elemento chiave della stabilità della regione. Da questo punto di vista, dopo aver minacciato di rimettere in discussione gli accordi di Camp David del 1979 e aver raggiunto il cessate il fuoco del 21 novembre (che rafforza politicamente Hamas), i Fratelli Musulmani egiziani potranno tranquillamente rispettare gli accordi.

In tutto questo, non è di secondaria importanza il ruolo che sta svolgendo la Turchia. Questo paese, alleato di Israele, dopo la strage di 9 cittadini turchi sulla Mavi Marmara — una delle navi della Freedom flotilla che cercava di violare l’embargo marittimo imposto a Gaza da Israele – nel 2010 ha rotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv, ma si è ben guardato dal rinunciare agli accordi militari. E non è da dimenticare che il premier turco Erdogan è esponente del partito islamico — l’AKP — al governo da diversi anni e cerca di assicurare un ruolo di leadership regionale al suo paese, soprattutto a spese dell’Iran. Non a caso, nella giornata in cui veniva trattata la tregua tra Hamas e Israele, il presidente del parlamento iraniano ha dichiarato apertamente una cosa che tutti sapevano dal 2006: l’Iran ha fornito a Hamas armi e materiale militare. È stato un tentativo, assai maldestro in verità, sia di mettere in difficoltà Hamas verso i suoi “nuovi” alleati, sia di ricordare agli attori in campo che non potevano ignorare il fatto che l’Iran è sempre pronto a ritornare in campo. Il tentativo iraniano ha avuto come unico risultato immediato di offrire la possibilità a Netanyahu di sostenere che il “vero problema” era l’Iran e quindi giustificare la firma di un cessate il fuoco (che in ogni caso per Israele è stata una sconfitta politica).

Inoltre, ed è questo uno degli aspetti più preoccupanti, la società israeliana, nella sua componente ebraica, ha avuto un notevole spostamento su posizioni oltranziste. Questo ricorda la fine dell’aggressione del Libano nel 2006: un’aggressione il cui scenario è stato vicino a quello di oggi e che finì con un ritiro delle truppe israeliane dal sud Libano e un cessate il fuoco che per quanto fosse squilibrato a favore di Israele, non c’è dubbio che fosse anche il risultato di una sconfitta politica pesante. In quel caso le manifestazioni del popolo israeliano contro il governo non mettevano in discussione il “perché” fosse stata fatta la guerra, ma il “come la si era persa”. Due anni dopo, quando si scatenò il massacro di “Piombo fuso”, oltre l’80% dell’opinione pubblica israeliana si diceva d’accordo con le scelte del governo. Oggi, durante la settimana di bombardamenti indiscriminati su Gaza, la maggioranza dell’opinione pubblica ebraico-israeliana ha manifestato sia il proprio sostegno all’esercito, sia la propria contrarietà ad un’operazione terrestre che avrebbe senza dubbio aumentato le perdite israeliane.

Dopo il cessate il fuoco, il 75% degli ebrei israeliani ha dichiarato che questo era una sconfitta. I riservisti ancora dispiegati ai confini di Gaza si sono detti delusi dal governo. Shahul Mofaz, leader di Kadima che sarà concorrente diretto della coalizione Netanyahu-Lieberman alle prossime elezioni, definisce la tregua un cedimento. E il “pacifista” A.B. Yehoshua invita il governo israeliano a dichiararsi in guerra contro Gaza e auspica un assedio che tagli l’energia elettrica e i viveri alla popolazione palestinese. Le parole di Yehoshua possono sorprendere solo gli ingenui o i disonesti. Ma il dato grave e preoccupante è che ad opporsi a questa aggressione è stata una frangia assai marginale della società israeliana. Lo sciovinismo, il razzismo e l’oltranzismo dei quali in questi ultimi dodici anni sono stati nutriti gli israeliani – oltre all’aumento esponenziale della violenza in una continua escalation a partire dalla rioccupazione militare della Cisgiordania del 2000 – hanno dato purtroppo i loro frutti avvelenati.

Certamente, così come era in parte “elettorale” quest’ultima aggressione, lo è stata sicuramente anche l’accettazione del cessate il fuoco. Lieberman, razzista notorio, non è mancato di franchezza nel dichiarare che sarà compito del prossimo governo di “finire il lavoro” con l’invasione di terra. Grazie alle pressioni internazionali, al nuovo quadro regionale e alle elezioni politiche ormai prossime, questa escalation scelta da Netanyahu ha le sembianze di un boomerang. Ma può darsi che anche le previsioni di Lieberman non facciano i conti con la realtà. Alcuni osservatori hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale l’accettazione del cessate il fuoco da parte israeliana è stato un cedimento agli Stati Uniti in cambio della concessione di una possibile via libera all’attacco contro l’Iran. Questa tesi, però, non sembra molto fondata, per tutte le ragioni già esposte.

La popolazione di Gaza festeggia la fine dell’aggressione e Hamas, dichiarando il 22 novembre festa della “vittoria”, può, dal suo punto di vista, essere molto soddisfatto. Ma tutti i problemi in campo palestinese restano intatti, se non acuiti. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, essendo rimasto ai margini come mai in questi anni, dopo aver tentato di svolgere un ruolo ha dovuto “congratularsi” con Hamas per la sua vittoria. E per quanto sia assai dubbio che queste congratulazioni siano sincere, Abu Mazen ha dovuto fare questo passo per molti motivi. Anzitutto perché, dopo la cocente sconfitta alle elezioni municipali in Cisgiordania, la spinta popolare all’unità è stata tale che rischiava di ritrovarsi in una situazione impossibile da gestire. All’interno dell’ANP, sia in Cisgiordania che all’estero, molti esponenti di primo piano, ben prima che fosse firmato il cessate il fuoco, avevano espresso giudizi pesantissimi sulla cosiddetta “via del negoziato” che aveva mostrato tutta la sua debolezza. Di conseguenza, anche se molti hanno usato il falso argomento dell’annunciata richiesta presso le Nazioni Unite del riconoscimento della Palestina come Stato osservatore, questa iniziativa non può in queste condizioni fare da contrappeso al protagonismo di Hamas, che per la prima volta è stato l’interlocutore diretto di Israele. L’iniziativa presso le Nazioni Unite, quindi, anche se venisse fatta non potrebbe più rappresentare un’ancora di salvezza per l’apparato dell’ANP.

Peraltro è stato chiaro fin dall’inizio che, almeno in questa fase, l’amministrazione statunitense, chiedendo ad Abu Mazen di rinunciare all’iniziativa presso l’ONU, mirava a rendere meno difficile la posizione del governo israeliano. Per quanto solo simbolica, quell’iniziativa, pur non avendo alcuna possibilità di riuscire, sarebbe stata per Israele un secondo smacco. Ma adesso, al di là sia dell’esito che dell’eco che avrà l’iniziativa presso l’ONU, sta per giungere il momento in cui Hamas sarà chiamato a dimostrare di non avere a cuore soltanto il consolidamento del proprio potere a Gaza. In questo senso, i missili lanciati da Gaza e che hanno sfiorato sia Tel Aviv che i dintorni di Gerusalemme, erano un chiaro messaggio ai palestinesi di Cisgiordania e ai palestinesi israeliani – un milione e duecentomila persone – che vivono in segregazione razziale. La situazione del movimento islamico palestinese per quanto esca rafforzato dal cessate il fuoco potrà aggravarsi se dalla tregua non riuscirà ad ottenere dei miglioramenti tangibili per i palestinesi di Gaza.

Il popolo palestinese ha sicuramente dato prova di infinita pazienza, attuando una resistenza quotidiana all’occupazione, alla repressione, all’apartheid, all’assedio e ai massacri. Ma nello stesso tempo occorre riconoscere che il popolo palestinese non è fatto di soli eroi. Per questo è sicuramente positivo che nell’accordo di tregua siano contenuti impegni per l’apertura dei valichi e che dopo ventiquattro ore dall’entrata in vigore della tregua Israele abbia autorizzato i pescatori di Gaza ad andare oltre le tre miglia marittime e abbia deciso di ritirare il proprio esercito dai confini di Gaza. Ma tutti questi elementi sono indeboliti dal fatto che Israele nella sua storia non ha mai rispettato a lungo i suoi accordi. In questo senso sono più che mai esplicite le dichiarazioni di Netanyahu durante la conferenza stampa del 21 novembre nella quale annunciava l’accettazione del cessate il fuoco: “Ora io mi rendo conto che ci sono cittadini che si attendono un’iniziativa militare più forte e potremo benissimo doverla attuare. Ma al momento, la cosa giusta per lo Stato d’Israele è esplorare a fondo questa possibilità di raggiungere un cessate il fuoco a lungo termine.”

Questo accordo e soprattutto il fatto che esso abbia aperto la via a dei negoziati sulla fine dell’assedio è sicuramente un boccone molto amaro per Israele, ma occorrerebbe più prudenza nel definirlo una “sconfitta storica”. Infatti, sempre nella stessa conferenza stampa del 21 novembre Netanyahu ha affermato “Devo dire che abbiamo fatto questo con il forte appoggio delle principali autorità della comunità internazionale.[…] Desidero ringraziare, in particolare, il presidente Obama per il suo risoluto sostegno alle azioni di Israele, alle sue operazioni e al diritto di Israele all’autodifesa.” Il premier israeliano non ha torto: nessun governo o istituzione internazionale ha messo in dubbio che Israele ha scatenato l’aggressione a Gaza per “autodifesa”, ma alla fine il cessate il fuoco è giunto per calcoli di interesse e non per nobili motivi.

Per altro, il ruolo egemone dell’Egitto per un verso consolida le relazioni con gli Stati Uniti e per un altro verso toglie agli americani ogni responsabilità rispetto alle violazioni che Israele potrà commettere. E lascerà inoltre a loro la possibilità di non incrinare le relazioni di “amicizia forte come la roccia” (Hillary Clinton) con Israele, tenendo contemporaneamente sotto minaccia l’Egitto. Inoltre, enorme prudenza è necessaria anche nel sostenere che ora l’amministrazione statunitense, dopo la vittoria elettorale di Barack Obama, possa spingersi in una direzione alternativa a quella che tradizionalmente ha caratterizzato i rapporti tra gli Stati Uniti e Israele. Un conto è un accordo dettato da circostanze contingenti, altro è pensare che gli Stati Uniti e il loro presidente si siano convertiti al rispetto dei diritti dei palestinesi. Adesso Netanyahu ammette la necessità di “esplorare a fondo questa possibilità di raggiungere un cessate il fuoco a lungo termine”. Ma Jaabari — il leader dell’ala militare di Hamas, assassinato da un’aggressione “mirata” – già nel marzo scorso era in procinto di proporre una tregua di quindici anni. Questo non è un dettaglio secondario, perché significa che la situazione stava già andando in questa direzione. Ma è altrettanto evidente che con l’ultimo massacro Israele ha tentato di indurre Hamas alla capitolazione. Non c’è riuscito, anzi ha ottenuto risultati opposti a quelli sperati. Ma in gioco vi è anche il destino degli altri settori del popolo palestinese. Allentare la pressione sul fronte di Gaza consente a Israele di avere le mani più libere in Cisgiordania, rendendo definitivi i “confini” determinati dalla costruzione del Muro, rendendo irreversibile la colonizzazione di larga parte della Palestina. In questo contesto, i tre soggetti che hanno un ruolo determinante – il governo israeliano, l’ANP e Hamas – sono tutto tranne che affidabili. Soprattutto perché è chiaro che Israele farà di tutto per impedire che le leadership palestinesi ritrovino l’unità, vero ostacolo ai piani di colonizzazione. Ed in questa direzione non c’è nulla di più pericoloso dello scontro militare. La sproporzione sul campo è tale che questa scelta non può che avere come risultato finale, tutt’altro che auspicabile, l’avviamento di nuove aggressioni da parte di Israele che ne possiede i mezzi.

Il quadro complessivo, come è evidente, è tutt’altro che semplice e rassicurante. L’unica vera speranza è che all’interno dello scenario mediorientale e palestinese emerga una vera alternativa politica che rimetta in discussione gli assetti politici che fino ad oggi, in un modo o nell’altro, sono sempre stati funzionali ad interessi estranei, se non ostili, a quelli dei popoli della regione. E tutto ciò al di là delle buone intenzioni (di cui notoriamente è lastricata la via dell’inferno) e dei proclami roboanti di vittorie “definitive”.

LA CATTURA E L’UCCISIONE DI MUAMMAR GHEDDAFI

La cattura e l’uccisione di Muammar Gheddafi hanno sollevato uno strano ed inquietante coro di scandalo nella sinistra italiana.
   È bene fare luce su alcune note cruciali del coro per evitare equivoci e perché la discussione non si concentri sulle parole, anziché sulla sostanza degli eventi. È evidente che se Muammar Gheddafi fosse stato processato sarebbe stato meglio per tutti. Le immagini della cattura e del linciaggio di Muammar Gheddafi sono tremende e le zone d’ombra sulle sue ultime ore di vita sono molte e inquietanti. Lo sono, visto che vi è stato l’intervento determinante della NATO (grazie ai suoi «corpi d’élite») per individuarlo e consentire ai ribelli la sua cattura.
   È necessario, però, cercare di capire come è possibile che la sinistra italiana si sia dimostrata ancora una volta per un verso priva di memoria storica e per un altro verso cinica, pur mascherando il suo cinismo con riflessioni umanitarie. Forse è il caso di ricordare che quando Benito Mussolini fu giustiziato, uno degli argomenti principali dei giustizieri fu che in caso contrario sarebbe stato probabile che, invece di essere processato per i crimini commessi, Mussolini venisse riciclato in un modo o nell’altro nel nuovo sistema politico-istituzionale italiano. Questo per riflettere sulla percezione che in Italia, soprattutto negli ambienti politico-culturali della sinistra, si è avuto di ciò che sta avvenendo nel mondo arabo.
   Le reazioni scomposte di molta parte della sinistra italiana hanno dimostrato in modo evidente quanto poco fosse conosciuta la storia dei popoli dell’Africa del Nord e del Medioriente. Tranne rari e lodevoli casi, le analisi partono dal nostro punto di vista e non dal loro. Possono esserci dittatori di serie A e dittatori di serie B? Evidentemente no, se ci si pone dalla parte dei popoli che quelle dittature subiscono. Assolutamente sì, se invece si cercano facili e rassicuranti scorciatoie per evitare di ammettere che la Primavera araba ha sorpreso la sinistra europea per il buon motivo che il Maghreb e il Mashrek sono stati lo specchio delle nostre sconfitte politiche e culturali.

Nelle ore convulse che hanno seguito l’uccisione di Gheddafi e la diffusione dei video amatoriali del suo assassinio, si sono sovrapposte moltissime versioni della traduzione in italiano di ciò che Gheddafi gridava contro i ribelli. Per rendersene conto è sufficiente ripercorrere le immagini sottotitolate dalle varie emittenti e poi riportate dai giornali. Una di queste versioni era quella secondo cui Gheddafi avrebbe detto ad uno dei ribelli: “Perché mi fai questo? Che ti ho fatto?”. Se fosse vera (il condizionale è d’obbligo) sarebbe per un verso molto sconcertante, ma per altri versi anche quella più congeniale ad un dittatore che dopo quarantadue anni di potere assoluto sul suo popolo considerava ancora indiscutibile il suo potere. Quale despota oppressore ha mai ammesso che chi era oppresso potesse pensare che l’oppressione non fosse a fin di bene invece che il detonatore dell’odio contro la sua persona? Nessuno.
   Gheddafi non ha fatto eccezione. Ma, quanto al mondo arabo, vi erano dittature riconosciute come tali dalla sinistra italiana ed altre no. Nella seconda categoria sono state inserite la Libia e la Siria. Ma se la caduta di Ben Ali e di Hosni Mubarak è stata esaltata e si sono definiti questi eventi come l’esito di un processo rivoluzionario, quanto alla Libia e alla Siria si è parlato di manipolazioni esterne. Questo perché a loro giudizio sia Muammar Gheddafi che Bashar el-Assad non potevano non essere diversi da Mubarak e da Ben Ali. Per poter dimostrare questa tesi si sono portati ad esempio molti episodi. Nel caso libico si è sostenuto che la rivolta armata anti-gheddafiana provava che la Libia non faceva parte del processo complessivo delle rivolte arabe, ma che i ribelli erano al soldo dell’Occidente per dar vita ad un colpo di Stato cruento. Strana affermazione questa, visto che viene da una sinistra che giustamente negli anni passati si è schierata a favore di molte lotte armate di liberazione: dal Nicaragua alla Palestina. Sostenere la legittimità della lotta armata significa forse non riconoscere il valore delle masse che, smettendo di avere paura, scendono in piazza? Evidentemente no. Significa invece cercare di capire come e perché ci siano rivolte armate e rivolte pacifiche. E significa soprattutto non dimenticare che anche in Tunisia e in Egitto il costo umano della rivolta è stato altissimo e che se non c’è stata la guerra civile lo si deve al fatto che gli eserciti di quei paesi hanno scelto di non difendere i dittatori.
   Chi ha seguito la vicenda egiziana ha capito fino in fondo la logica della rivolta. Il tentativo di assalto da parte di una folla di sostenitori di Mubarak (mentre l’esercito rimaneva passivo) contro Piazza Tahrir occupata da decine di migliaia di persone accampate da giorni, disarmate e senza possibilità di difendersi è stato il momento in cui la deriva della guerra civile era dietro l’angolo. Soprattutto c’era la consapevolezza dell’equivoco in cui erano caduti gli egiziani, in particolare a causa di quelle forze politiche che, pur essendo all’opposizione, speravano di accordarsi con Mubarak: l’equivoco di pensare che l’esercito fosse parte integrante, se non il motore, della rivolta.
   In realtà, e questo era chiarissimo, il ruolo «super partes» dell’esercito derivava dalla spaccatura verticale dell’apparato del regime che aveva compreso una cosa molto semplice: per potersi salvare dall’ondata imprevista e possente delle proteste doveva abbandonare al suo destino il presidente Mubarak e tutti coloro che erano compromessi con gli aspetti peggiori del regime. Ma tra il 28 e il 30 gennaio niente e nessuno poteva essere certo che questo atteggiamento non cambiasse. Tutto era appeso ad un filo fragilissimo. Ciò che ha evitato una strage di proporzioni superiori è stata la capacità degli occupanti di Piazza Tahrir di difendersi malgrado tutto dall’attacco, non certo la sua «bontà».
   Il fatto che da questo episodio sia scaturito uno scontro non armato ma comunque molto forte – i morti furono decine e migliaia i feriti – e ne sia derivata la caduta di Mubarak, ha portato la sinistra italiana a considerare autentica la rivolta egiziana. C’è da chiedersi quale sarebbe stata la reazione se invece gli eventi avessero preso un’altra strada, più dolorosa se non tragica. Se si fosse aperto uno scenario diverso, non sarebbe stato possibile mettere in dubbio l’autenticità delle proteste del popolo egiziano e la sua volontà di sbarazzarsi della dittatura. Lo slogan che da Tunisi si era esteso all’intera regione: “Il popolo vuole la caduta del regime” non avrebbe perso di significato e di efficacia.
   Sicuramente il caso libico è stato diverso dagli altri soprattutto perché l’Occidente ha deciso di intervenire direttamente, nell’unico modo che conosce: militarmente. Nei casi degli altri paesi arabi (sia in Nord Africa che in Medioriente) l’Occidente era riuscito, in primis gli Stati Uniti, a fare pressione perché i dittatori fossero abbandonati. Non è un caso se, sempre in Egitto – uno dei paesi più importanti per gli interessi statunitensi in Medio Oriente – Barak Obama ripetesse come una cantilena che era necessaria la «transizione nell’ordine», dove evidentemente l’ordine era il mantenimento e la salvaguardia degli interessi degli USA.

Che l’intervento in Libia, anche prima della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del marzo scorso, fosse dettato principalmente dalla volontà di difendere i propri interessi era chiaro a tutti. Ma nel caso della Libia non esisteva un apparato statale o militare che si potesse conservare pur eliminando il dittatore. Per altri versi, inoltre, se l’Occidente avesse lasciato a Gheddafi la possibilità di schiacciare la rivolta nel sangue, si sarebbe trovato nell’impossibilità di gestire un processo di cambiamento radicale. Per questo motivo, inizialmente Francia e Gran Bretagna e poi la NATO hanno approfittato della richiesta di aiuto da parte del Cnt (Consiglio nazionale transitorio) e dei rivoltosi. E questo è stato uno degli elementi principali per screditare da sinistra l’opposizione libica, assumendo questa richiesta come la «prova» che in Libia la rivolta era eterodiretta dall’Occidente. Questo è stato l’alibi anche per nascondere ciò che realmente Gheddafi era da molti decenni. In modo sorprendente una buona parte della sinistra italiana ha rispolverato il Gheddafi del pan-arabismo e del pan-africanismo degli anni ’70 e del Libro Verde (bizzarramente ribattezzato come una interpretazione originale di un tentativo di uscita dal sottosviluppo) per sostenere che chi sosteneva che la rivolta libica era parte della Primavera araba si era venduto alla NATO o in procinto di vendersi.
   Tutto questo però significava non soltanto voler ignorare ciò che il regime aveva significato per il popolo libico, ma soprattutto dimenticare, o meglio occultare, i discorsi insolenti di Gheddafi e di suo figlio Saif al-Islam: per loro il popolo libico era una massa di topi, ovvero cani drogati e pagati da al-Qaeda. Infine la sinistra italiana che giustamente si era mobilitata da favore del popolo palestinese durante l’aggressione israeliana tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, non è stata colpita dal fatto che Gheddafi, in un’intervista trasmessa da una rete satellitare francese, per giustificare gli assedi di Misrata e Bengasi aveva sostenuto di “averlo dovuto fare così come Israele aveva dovuto bombardare Gaza per sradicare Hamas”.

In definitiva, se anche solo per puro esercizio intellettuale si rileggessero e si riascoltassero i discorsi che Gheddafi ha pronunciato dal 17 febbraio 2011 fino alla lettera che ha cercato di far pervenire a Silvio Berlusconi il 5 agosto scorso, una cosa sarebbe chiara: il dittatore libico ha cercato in tutti modi di ricordare all’Occidente e ai suoi governanti, da Barak Obama al governo italiano, i servizi resi durante gli anni in cui si era nuovamente allineato. Non è certamente un caso che due argomenti prevalessero in modo ossessivo: in caso di attacco alla Libia di Gheddafi nessuno più avrebbe controllato i flussi di migranti e avrebbe vinto l’opposizione anche perché pagata e infiltrata da Al-Qaeda.
   Al di là di ogni possibile giudizio sul Cnt, queste dichiarazioni avrebbero dovuto quantomeno indurre a domandarsi a quali miti era legata la sinistra italiana. Spesso l’attaccamento a questi miti è sfociato in un aperto, pericoloso eurocentrismo.
   Inoltre, nessuna delle accuse contro i libici in rivolta era fondata su analisi serie e non a caso non una di queste accuse ha poi trovato una qualche conferma sul terreno.
   Ovviamente, sottolineare questi aspetti non significa nel modo più assoluto voler credere che improvvisamente il diavolo sia diventato un angelo, nel senso che non è possibile in nessun caso adombrare un ruolo «progressivo» dell’Occidente e tanto meno della NATO. Anzi, proprio l’annuncio della fine degli attacchi NATO subito dopo la cattura e l’uccisione di Gheddafi dimostra che per l’ennesima volta il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato utilizzato solo per una copertura «legale» di un intervento militare altrimenti difficile da gestire.
   Ma in questa sede ciò che più interessa capire è perché proprio negli ambiti politici e culturali di rilievo è mancato un approccio approfondito e complessivo su ciò che accadeva nel mondo arabo. È prevalso invece un senso comune sparso a piene mani proprio da coloro che attaccavano Gheddafi in armi in nome della «loro democrazia». Giustamente Danilo Zolo in un articolo pubblicato dal Manifesto il 14 ottobre scorso ha scritto:
    /*Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che prevalgano gli interessi di  quella che Luciano Gallino ha chiamato la «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall’alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe» cercherà di dominare i processi dell’economia globale, quella occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d’affari, gli investitori istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via. Attendersi che in questo contesto la democrazia possa rapidamente fiorire nei paesi arabi come una istituzione politica aperta ai giovani, agli operai, ai disoccupati, ai poveri, ai migranti rischia di essere generosa retorica./

Ma anche queste parole, che fanno da controcanto al facile ottimismo, non negano che ciò che è avvenuto nel Maghreb e nel Mashrek dal gennaio scorso ad oggi sia una svolta da cui sarà impossibile tornare indietro. In Tunisia e in Egitto la strada del cambiamento dopo la caduta dei dittatori è già percorsa da mesi e tuttavia le strutture dei vecchi regimi sono ancora in piedi. Ciò che è profondamente cambiato, però, è il popolo egiziano e quello tunisino. Ed è con questo cambiamento che tutti noi dobbiamo fare i conti. Questo cambiamento viene tuttavia negato dalla sinistra italiana al popolo libico. Per cui la fine cruenta di Gheddafi viene assunta come il momento in cui la Primavera araba è morta. Ancora una volta si chiudono gli occhi su ciò che avviene nel contesto generale: la Siria, lo Yemen continuano la loro lotta contro despoti sanguinari; la Tunisia conta i voti delle prime elezioni libere dopo ventitre anni di dittatura, con un esito elettorale carico di incognite; l’Egitto prosegue il suo cammino irto di difficoltà e di pericoli. Perché identificare la fine di Gheddafi con la fine di tutto questo?

È tuttavia difficile poter credere che la fine del dittatore libico porti a un’inversione della rivolta araba. Non è certamente un caso se dopo la morte di Gheddafi in Siria decine di migliaia di persone affrontavano a mani nude la repressione sanguinosa del regime di Bashar el-Assad e ritmavano lo slogan: “Bashar ora tocca a te”. È bene chiarire che non si auspica la morte per linciaggio di Bashar el-Assad. Ma è necessario constatare che genere di eco ha avuto la fine di Gheddafi in Siria, in cui la repressione, secondo le stime più credibili, ha già mietuto 3.000 vittime, delle quali 200 bambini. Inoltre, non è da trascurare che sulla reazione dei siriani alla morte di Gheddafi ha probabilmente influito anche il fatto che a partire dalla caduta di Tripoli, nell’agosto scorso, Gheddafi ha avuto come unica cassa di risonanza la radio e la TV siriane, dalle quali ha potuto lanciare i suoi ultimi proclami.
   Certo, non si dimentica facilmente il monito che scaturisce dalle parole di Zolo, ma ciò non significa poter accettare il ragionamento secondo il quale, caduto un mito al quale la sinistra italiana si era appesa, tutto sia ormai finito. Il fatto che le rivolte negli altri paesi stiano continuando, a dispetto delle aspettative deluse della sinistra italiana, invece, è la prova della ininfluenza di quest’ultima rispetto a questi popoli, che per fortuna non la ascoltano, impegnati come sono in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se noi italiani, dal nostro comodo punto di osservazione, invece di giudicarli saccentemente riuscissimo ad avere quel tanto di capacità empatica necessaria, potremmo condividere questo cambiamento radicale del volto del Mediterraneo. Invece, ci stiamo negando questa possibilità.
   Nell’immensa manifestazione del 15 ottobre per le strade di Roma, tra le tante bandiere di altri popoli c’erano anche quelle della nuova Libia e della Siria che inneggiavano alle due rivolte. Ci dovremmo chiedere che tipo di rapporto intendiamo stabilire con quelle persone che in piazza a Roma, e non a Bengasi o a Damasco, hanno tentato di mettere in assonanza eventi diversi. È doveroso anche osservare, a questo proposito, che sulle pagine dei giornali che fanno riferimento alla sinistra (anche in quelli in formato elettronico) nel gran numero di articoli dedicati alla morte di Gheddafi non vi è stata nessuna voce dei diretti interessati, i libici. In alcuni casi vi è un silenzio molto significativo ma preoccupante sulla morte stessa di Gheddafi, come se non fosse mai avvenuta.

In questa prospettiva non possiamo chiudere gli occhi sul futuro incerto che si è aperto in Libia all’indomani della scomparsa del dittatore e sul fatto che ora, probabilmente, si potrà avere un quadro ben più chiaro di ciò che è avvenuto. L’incertezza del futuro della Libia è determinata in gran parte dal ruolo della NATO e dagli interessi occidentali che in quel paese sono enormi. Nessuno può credere ad un ruolo «positivo» della NATO ed è per questo ancora più grave che dall’inizio dell’intervento in Libia non vi sia stata la capacità di dar vita ad una minima opposizione a quell’intervento. Ma questa incapacità è largamente dovuta a tutte le contraddizioni che abbiamo fin qui illustrato e che hanno portato fatalmente ad allontanare la sinistra italiana dagli eventi libici.
   È evidente che ora gli esponenti del Cnt si trovano con più problemi interni da affrontare di quanti probabilmente immaginavano di avere. Questi problemi, peraltro, sono già emersi nei mesi scorsi con delle rese dei conti tutt’altro che rassicuranti. Uno dei problemi più gravi sarà senz’altro quello di giustificare agli occhi dello stesso popolo libico non tanto la morte di Gheddafi, quanto ciò che sta emergendo dall’ingresso nella città di Sirte delle agenzie internazionali, come Human Right Watch e il rientro di coloro che erano fuggiti durante i combattimenti. Sembra chiaro che in quella città la popolazione sia stata presa in ostaggio non solo dalle milizie gheddafiane, ma anche dal Cnt e dalla NATO, pagando un tributo umano altissimo. Nei giorni successivi alla fine del dittatore e alla «liberazione» di Sirte, Mohammed, un vecchio conducente di taxi, intervistato da una agenzia di stampa francese, dichiarava:    « Sono desolato di vedere la mia città ridotta in queste condizioni. I thowar (rivoluzionari) avrebbero potuto prenderla distruggendola molto meno. Ma c’era una forte resistenza da parte degli uomini di Gheddafi e penso che i thowar volessero punire Sirte». Lo stesso intervistato ammetteva che in città c’era un consenso maggioritario verso il regime e che, da una parte e dall’altra, si praticavano le punizioni sommarie e collettive. E ammetteva anche che questa spaccatura attraversava la sua stessa famiglia e che lui era stato l’unico a rifiutare questa logica e per questo motivo aveva abbandonato la sua città. Non può, però, essere messo in dubbio che questo meccanismo purtroppo è tipico di ogni guerra civile, non una «caratteristica» libica.
  Ora, ovviamente, la posta in gioco è aumentata, è diventata enorme. In gioco c’è la necessità di non assecondare il meccanismo delle rappresaglie. Le incognite che si addensano sul futuro della Libia sono moltissime e tutte pericolose. In questo senso, la richiesta da parte del governo transitorio della prosecuzione della missione della NATO è molto preoccupante, perché è chiaro che le forze fedeli al vecchio regime non sono in grado di ricominciare a combattere.

Questa richiesta sembra dunque legata alle contraddizioni interne al Cnt che nessuno nega o nasconde. Inoltre, non è un dettaglio il fatto che questa richiesta dia la possibilità alla NATO e all’Occidente di presentarsi come un paladino in «soccorso della democrazia». Non è un caso se Anders Rasmussen, il segretario generale della NATO, si è precipitato a Tripoli con un triplice obiettivo: 1) confermare la fine delle operazioni alla mezzanotte del 31 ottobre; 2) confermare, comunque, la disponibilità della NATO per una nuova missione se lo chiedono le nuove autorità libiche. Questa disponibilità è stata annunciata con la seguente dichiarazione: «Se le nuove autorità lo richiedono, la NATO è pronta a fornire aiuti per la trasformazione del paese verso la democrazia»; 3) dichiarare che la NATO non ha alcuna intenzione di stabilire delle basi in Libia. Molto probabilmente quest’ultima dichiarazione è stata suggerita dalla volontà di non finire in un pantano simile a quello iracheno o a quello afghano. Inoltre, non è un caso se, tramite il suo segretario, la NATO non ha confermato la dichiarazione del primo ministro libico dimissionario, Mahmoud Jibril, circa il ritrovamento di un arsenale di armi nucleari in possesso della Libia. La scarsa verosimiglianza di questa affermazione emerge dal fatto che queste armi prima sarebbero state nucleari e poi chimiche. Quello che è certo è il riecheggiare di un vecchio argomento, quello delle armi di distruzione di massa, che poi non vengono mai trovate.
   Ma, sia la richiesta per la prosecuzione della missione della NATO fino a fine anno fatta dal primo ministro uscente del Cnt, sia l’annuncio del «ritrovamento» di un arsenale di armi non convenzionali che Gheddafi avrebbe accumulato fin dal 2004 – venendo meno agli impegni presi con i governi occidentali – sono un regalo tanto inaspettato quanto immeritato per quei paesi occidentali che invece hanno portato, soprattutto negli ultimi vent’anni, alla devastazione di tanti Stati e non solo in Medioriente. In altri termini, se il futuro della Libia sarà determinato dalle «vocazioni democratiche» della NATO si può essere certi che sarà un futuro tutto in salita. Insomma, tutto ha senso tranne che fidarsi della NATO o delle «buone intenzioni» di paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e, naturalmente, l’Italia.
   Ma in questo contesto tanto denso di incognite e pericoli, vi è un attore che non può essere ignorato e tantomeno cancellato dagli eventi: il popolo libico. Tornando all’inizio di queste riflessioni, è il caso di sottolineare che in Libia la rivolta è stata innescata dagli stessi motivi che hanno dato vita alle altre rivolte arabe: la volontà di liberarsi dalle dittature. Questa è stata la priorità. Il popolo libico ha dovuto confrontarsi con un regime che per difendersi ha preferito la guerra civile all’abbandono del potere. L’intervento armato occidentale che inizialmente ha impedito che la rivolta finisse schiacciata nel sangue, non era né «umanitario», né «democratico», ma puntava a non perdere il controllo del petrolio libico. In questa fase in cui sembra che il governo transitorio libico stia cadendo nella trappola di puntare sull’aiuto della NATO per costruire il futuro della Libia, vi è la negazione della tesi di chi riteneva che il «caso libico» fosse estraneo alle rivolte che stanno ridisegnando il volto del Mediterraneo. Si può star certi, al contrario, che un popolo che ha tanto sofferto in quarantadue anni di dittatura e che ha pagato un prezzo così alto per liberarsene, si impegnerà perché il suo avvenire non venga confiscato da chi fino al 17 febbraio 2011 ha sostenuto la dittatura che lo ha oppresso.
   In questo senso, dare oggi per scontato il futuro della Libia sarebbe un errore gravissimo. E sarebbe anche una notevole responsabilità etica, prima ancora che politica, di cui tutti noi porteremo il peso. E porteremo ancora una volta il peso di non aver saputo ascoltare l’altro e di non aver capito. E a pagare il prezzo più alto saranno di nuovo i giovani, le donne e gli uomini che si sono fidati nel nostro esempio.

14/11/2011

VENDOLA E ISRAELE

Nichi Vendola ha una caratteristica predominante: il tempismo. A poco più di 15 giorni dall’assassinio di Vittorio Arrigoni non si è chiesto se fosse o meno il caso di incontrare l’ambasciatore israeliano Meir. Non si è nemmeno posta la stessa domanda riguardo ai grandi cambiamenti che sono in corso in Medio Oriente e nel Maghreb. 
Avrebbe dovuto tenere conto del fatto che l’Egitto del post-Mubarak ha annunciato la riapertura totale del valico di Rafah, di fatto annullando l’efficacia dell’assedio cui la popolazione civile della Striscia di Gaza è sottoposta fin dal 2006, per volontà di Israele e della cosiddetta “comunità internazionale”. Inoltre, avrebbe fatto bene a ricordare che Fatah e Hamas, dopo quattro anni di divisione geografica e politica (entrambe conseguenze dirette della politica israeliana), il 27 aprile hanno raggiunto un’intesa per superare la divisione politica. 
Forse, se avesse riflettuto su questi tre elementi, avrebbe capito (spes ultima dea) che incontrare ora l’ambasciatore israeliano significa dare un segnale negativo di controtendenza rispetto al vento di libertà che sta soffiando sul Mediterraneo. Le conseguenze del suo gesto le pagheremo tutti e tutte. C’è, poi, giusto bisogno di rimarcare l’infondatezza tutt’altro che innocente di alcune affermazioni che hanno segnato quella stretta di mano. La sua dichiarazione che: “[…] c’è una gamma assai variegata e ricca di possibilità di relazioni. Israele è un Paese che ha fatto investimenti straordinari sin dalla sua nascita, sull’innovazione. Un Paese che ha trasformato aree desertiche in luoghi produttivi e in giardini, un Paese che si confronta col tema mondiale del governo del ciclo dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti con pratiche di avanguardia. Penso che la possibilità di sviluppare reciprocamente le attività turistiche e la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale siano altri elementi importanti di una relazione che con la mia visita in Israele può raggiungere un punto di svolta”.
Neanche Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, avrebbe trovato una formula più fine per nascondere il carattere colonialistico e razzista dello Stato di Israele. Ci ha pensato, nel 2011, Nichi Vendola. È sconcertante come sia possibile che oggi, mentre gli aerei da guerra della NATO (compresi quelli italiani) decollano dalle basi pugliesi per aggredire la Libia, proprio Vendola rivendichi la “riappropriazione” delle radici ebraiche della Puglia. La nostra regione è un crogiuolo di culture che nei secoli si sono integrate e mescolate e certamente non saremo noi a negare che tra queste c’è quella ebraica. Noi, però, sappiamo che la cultura ebraica ha poco o nulla a che vedere con la creazione dello Stato israeliano ad opera dei colonialisti sionisti ed europei a spese del popolo palestinese e dei popoli arabi della regione. Noi difendiamo la cultura ebraica, per il buon motivo che identificarla con lo Stato di Israele significa negare semplicemente il suo valore positivo inserendola a pieno titolo nel contesto colonialistico ed esclusivistico. Vendola ignora o, peggio, vuole ignorare che “i deserti trasformati in giardini” sono le terre da cui un milione di palestinesi sono stati cacciati manu militari, che le fonti di acqua che fanno “fiorire i deserti” sono sottratte con la forza ai palestinesi. Il Presidente della regione ignora che Israele ha deviato il corso del fiume Giordano, condannando a una morte lenta il fiume e le terre circostanti. Per cui è più appropriato affermare che Israele è un grande creatore di deserti dove c’erano terre fiorenti. Oggi, grazie a Israele, la valle del Giordano è pressoché desertica.
Le dichiarazioni di Nichi Vendola sono eticamente, culturalmente e politicamente sconcertanti, non degne di una persona che sostiene di voler essere parte di quella battaglia improba, ma inevitabile, per rendere questo mondo vivibile per tutti gli esseri umani che lo popolano e la cui stragrande maggioranza vive in condizioni di povertà assoluta, per consentire ad una minoranza di poter “far fiorire i deserti”.
La Puglia, per la sua posizione geografica, è una regione mediterranea a pieno titolo e noi sentiamo il bisogno di dire ai popoli mediterranei, che stanno lottando per la loro libertà, che le dichiarazioni di Vendola, come la NATO, come il Presidente Napolitano che avalla la guerra NATO, non ci rappresentano. Lo diciamo anche al popolo israeliano, invitandolo caldamente a comprendere che i sostenitori incondizionati del governo israeliano che rifiuta tutti i tavoli negoziali sono in realtà i nemici più pericolosi del suo futuro. Noi rivendichiamo per tutti popoli del Mediterraneo, nessuno escluso, la volontà di essere protagonisti di un’alternativa vera. L’unica soluzione che possa portare la regione mediterranea ad una pace giusta ed equa. 04/05/2011

L’ASSASSINIO DI VITTORIO ARRIGONI

Cercare di spiegare, soprattutto di spiegarsi e dare un senso al non senso è in queste ore particolarmente difficile. L’assassinio di Vittorio ha un senso? Serve a spiegarlo chiedersi a chi giova un altro atto barbarico e insensato? L’assassinio di Juliano Mer Khamis avvenuto il 4 aprile nel campo profughi di Jenin e quello di Vittorio Arrigoni a Gaza sono inseriti nella medesima logica e da entrambi viene un segnale allarmante: il tentativo di ingabbiare la società palestinese all’interno di una visione del mondo nazionalistica-religiosa che pretende di risolvere il dramma palestinese con l’isolazionismo. E questo al di là del fatto se si riuscirà a stabilire le reali responsabilità di questo atto tremendo. In altri termini: la sostanza non cambierà se sarà accertata la responsabilità delle cellule salafite presenti nella Striscia di Gaza o, come pensano alcuni, si tratta di un «omicidio su commissione». Non è né una sorpresa, né una novità che Vittorio fosse sulla lista nera sia del governo israeliano, sia dei coloni e della destra estrema israeliana. Il fatto che Vittorio Arrigoni sembrava essere stato vittima di un rapimento poteva inquadrare il suo caso in un’altra ottica. Ma la differenza, tra l’assassinio di Juliano e quello di Vittorio, non è che apparente, perché ciò avrebbe offerto almeno qualche chance a Vittorio di poter continuare a vivere. Una cosa è certa: in Italia c’è chi sta festeggiando questo assassinio che elimina un testimone testardo, scomodo e seccante. Parliamo di quel primo ministro che aveva annunciato alla radio israeliana che avrebbe fatto di tutto per fermare la partenza della seconda Freedom Flotilla e della nave italiana «Stefano Chiarini». Anche il presidente Napolitano avrebbe fatto bene a tacere. Dopo aver ripulito il sionismo dalla sua essenza colonialistica, razzista e violenta, egli ha additato l’antisionismo come un’attitudine antisemita. Anch’egli dunque si è posto in qualche modo a sostegno di coloro che vedevano Juliano e Vittorio come nemici da eliminare.
 Chi ha condiviso la battaglia di Vittorio non può accettare che i complici dell’assedio di Gaza e quindi del suo assassinio, che oggi sono al governo del nostro sventurato Paese, si associno impunemente al nostro dolore e al dolore della famiglia. Ora molti saranno i pescecani che si butteranno sul corpo ancora caldo di Vittorio, facendo intendere che nulla può cambiare. Il loro messaggio sarà chiaro: i palestinesi sono dei barbari che uccidono brutalmente chi gli tende una mano d’aiuto. A tutti costoro dobbiamo imporre il silenzio, perché se in Palestina in questi anni l’integralismo islamico, armato o meno che sia, ha potuto prendere il sopravvento, i responsabili siedono comodamente a Tel Aviv, New York, Roma, ecc. Il loro cordoglio ipocrita non li assolverà dalle loro responsabilità concrete nell’aver contribuito a creare il clima nel quale crimini tanto orrendi e dannosi potessero verificarsi.
Tutti coloro e tutte coloro che da decenni chiudono gli occhi sulle atrocità di cui il popolo palestinese è vittima, in tutte le sue componenti, sono i veri responsabili di queste morti atroci, dell’imbarbarimento in cui vorrebbero che i palestinesi sprofondassero per poter giustificare i propri crimini, sempre rimasti impuniti. 
Quando Vittorio raccontava all’Italia l’orrore programmato del massacro di «Piombo fuso», dei crimini a «bassa intensità» contro i pescatori e i contadini palestinesi, raccontava anche il concretizzarsi delle responsabilità. Vittorio e Juliano sono vittime di quella logica complessiva di cui sono rimasti vittime molti altri e altre: da Tom Hurndall a Rachel Corrie, passando per Ciriello.
Oggi, apparentemente, Israele trae «solo» un vantaggio indiretto, «passivamente». Ma non è così. Già a metà degli anni ’80, precedentemente alla Prima Intifada, Israele aveva finanziato anche Hamas in funzione anti OLP. Con il fallimento evidente del processo «negoziale» di Oslo e gli eventi successivi, però, questa politica si rivelò un boomerang. Ancora una volta ciò che l’apprendista stregone aveva nutrito gli si era rivoltato contro e Hamas era diventato il nemico giurato «interno» dello Stato di Israele. È possibile che oggi stiamo assistendo ad una dinamica simile, con l’aggravante dello sgretolamento della società palestinese vilmente pianificato dagli israeliani. Essi sperano che questo sgretolamento possa creare in Palestina un «clima iracheno» che si riverberi negativamente sulla solidarietà internazionale verso i palestinesi. Il movimento internazionale a questo punto è chiamato a una prova importante di maturità, perché è necessario non chiudere gli occhi sugli effetti endogeni di quello che sta accadendo, ormai da molti anni, nella società palestinese. Se ciò non avverrà, i contraccolpi degli omicidi di Juliano e Vittorio saranno pesanti.
Oggi i popoli arabi in rivolta ci aiutano in questa prova. Anche in questo senso il legame è stretto ed evidente. I milioni di persone che dalla Tunisia all’Egitto, come in tanti altri Paesi arabi, sfidando regimi brutali e sanguinari, scendono in campo per riprendersi ciò che gli è stato barbaramente rubato, ci dicono che non siamo soli e non lo sono neanche loro. Sfidare l’assedio di Gaza e sfidare le dittature è un’unica lotta. Certo, dopo l’assassinio di Juliano e Vittorio saremo più soli, tutti e tutte: a «tutte le latitudini e a tutte le longitudini» come diceva Vittorio. Se riusciremo a non perdere il filo di questo legame, al di là delle frontiere, allora la morte atroce di Juliano e di Vittorio e le loro vite generose non saranno state vane.
18/04/2011

JULIANO MER-KHAMIS

Juliano Mer Khamis è stato assassinato. Questo assassinio costringe tutti e tutte noi ad aprire gli occhi su una realtà dolorosa e assai complicata. Quella stessa realtà che i giovani palestinesi che hanno dato vita al movimento del 15 marzo scorso vogliono rimettere in discussione. Juliano, come quei giovani, sapeva benissimo contro cosa combattere. Noi lo sappiamo? Noi sapremo essere accanto a quei ragazzi e a quelle ragazze del campo profughi di Jenin che hanno da oggi un compito enorme: continuare a camminare su quella strada iniziata a percorrere con Juliano Mer Khamis?
Queste sono le domande che ci pone davanti brutalmente l’assassinio insensato di Juliano Mer Khamis.
Juliano rappresentava la sfida più ardua: essere un ebreo-palestinese e non solo per le sue origini. La sua rabbia ci raccontava la sua sfida quotidiana, la necessità di dover combattere contro molti avversari, riconoscendoli uno per uno.
Quando sua madre, Arna Mer, iniziò la sua attività nel campo profughi di Jenin alla fine degli anni ottanta, era in armonia con il momento più alto della lotta di liberazione del popolo palestinese. A quell’epoca, ancora, si potrebbe dire, il nemico era in sostanza uno e ben riconoscibile: la violenza indiscriminata di uno Stato, Israele, contro un popolo inerme. Quella lotta la pose nella condizione di portare fino in fondo l’elaborazione della sua contraddizione, prismatica di un’esperienza individuale e collettiva. Arna sfidava, con la sua determinazione, l’ipocrisia dell’ «unica democrazia del Medioriente», si pose al centro del conflitto. Portò in quella zona difficile da abitare il figlio, il quale però subito dopo la morte della madre si trovò a vivere al centro anche dell’altra contraddizione. Essere ebreo-palestinese è negazione concreta della pretesa sionista. Essere ebreo-palestinese è la negazione di ogni pretesa integralista. È una sintesi.
Continuare a percorrere la strada indicatagli dalla madre non è stata per Juliano Mer Khamis una scelta né obbligata, né automatica. Una volta fatta la sua scelta, però, Juliano Mer Khamis ha scelto contemporaneamente di voler trasformare la sintesi delle due negazioni che egli stesso rappresentava.
Chi ha scelto di ucciderlo in nome di uno o dell’altro integralismo, religioso e nazionalistico insieme, ha commesso un atto suicidiario. Juliano Mer Khamis, ora dicono alcuni, era una bandiera, un simbolo. Non siamo d’accordo: era un uomo che costruiva la sua vita, privata e pubblica, senza rinunciare a nessuna delle sue «due parti» e lottando accanitamente contro gli aspetti deteriori di entrambe.

La sua determinazione nel voler ricostruire quel teatro terapeutico e formativo fondato dalla madre con altre madri, e distrutto dall’esercito israeliano nel 2002, amava ripetere, era la sua vendetta. La sua vendetta contro tutto ciò che deliberatamente ha fatto fare passi indietro da gigante alla lotta palestinese e contemporaneamente ha richiuso brutalmente le cesure che si erano aperte nella società israeliana. Juliano Mer Khamis non affrontava le sue sfide da solo, non ne aveva per altro nessuna intenzione. Per questo la figura del «simbolo», per come generalmente è inteso da noi, gli era estranea, non gli apparteneva da vivo e non appartiene alla sua memoria. I ragazzi e soprattutto le ragazze che insieme a lui sfidavano vecchi e nuovi avversari, politici, culturali e sociali rappresentano oggi al meglio la trasformazione della sintesi negativa.
Oggi che le giovani generazioni nel mondo arabo e musulmano sono protagoniste di un cambiamento sicuramente epocale, nessuno, neanche uno o più volgari assassini, possono riportare indietro la ruota della storia.
Certamente, senza Juliano Mer Khamis sarà più difficile, ma la strada intrapresa è l’unica percorribile.
Certo, senza Juliano la loro sfida si decuplica, si decuplica la fatica, ma è una sfida che nessuno può evitare di raccogliere.
A noi da quest’altra parte del Mare fra le terre si impone uno sforzo ulteriore di comprensione della vera posta in gioco. Per decenni ci siamo fatti molti sconti, abbiamo intrapreso comode scorciatoie. Sconti e scorciatoie impossibili per coloro che ogni giorno subiscono apartheid, guerra, spoliazione, umiliazione, paura e morte.
Il suo assassinio è certamente un danno gravissimo portato al popolo palestinese e a tutti e tutte coloro che dall’altra parte, in Israele, cercano di opporsi al grande scivolamento a destra della società israeliana. Oggi, dopo l’assassinio di Juliano Mer Khamis, tutto questo è amplificato in modo esponenziale.
Preferiremmo il silenzio al dover cercare parole, ma questa ricerca è parte della nostra solidarietà e, dove ci riusciamo, di empatia, non con i morti, ma con i vivi. Se falliremo ancora, come abbiamo clamorosamente fallito in questi anni, allora si, faremo bene a tacere. 06/04/2011

CAMBIA IL VOLTO DEL MEDIO ORIENTE:HOSNI MUBARAK SI E’ DIMESSO

L’immensa mobilitazione di massa che dal 25 gennaio ha visto milioni di persone protagoniste in Egitto, oggi 11 febbraio 2011, vive un passaggio cruciale.
Hosni Mubarak, dittatore dall’ottobre 1981, è stato costretto alle dimissioni e ad abbandonare Il Cairo alla volta di Sharm El Sheik, da dove è possibile che abbandoni il Paese. 
Giustamente le centinaia di migliaia di persone assembrate in  queste ore frenetiche in Piazza al-Tahrir (Liberazione) festeggiano il raggiungimento di un obiettivo prioritario.

Ora, però, la situazione resta molto fluida. Il potere effettivo in queste ore è stato assegnato da Suleiman, vice presidente della Repubblica (nominato dallo stesso Mubarak nel vano tentativo di far rientrare le proteste nei giorni scorsi), al maresciallo Al-Tantawi, capo del Consiglio Militare Supremo dell’esercito egiziano. 
Il ruolo ambiguo dell’esercito è proprio l’elemento che rende la situazione molto pericolosa. Nel pomeriggio di oggi (11 febbraio) il comunicato n° 2 dell’esercito annunciava di farsi garante delle modifiche costituzionali annunciate ieri sera dallo stesso Mubarak e della revoca dello stato di emergenza, in vigore dal 1981. Quest’ultima promessa a condizione che la gente torni a casa e a lavorare. Di fatto tra il 10 e l’11 febbraio  la posizione dell’esercito egiziano era di sostegno al dittatore. 
In questi 18 giorni l’esercito non ha avuto un ruolo repressivo almeno per due motivi: l’apparato militare non poteva avere la certezza che i soldati fossero disponibili a sparare sulla folla; in Egitto l’esercito è «popolare» nel senso che in ogni famiglia c’è almeno un soldato. È questo è ciò che spiega le scene di fraternizzazione tra le truppe spiegate sul terreno e la folla di Piazza al-Tahrir.
Ciò che ha spinto lo stesso Stato Maggiore alla decisione di dimissionare Mubarak è stata da un lato la determinazione del popolo egiziano in mobilitazione permanente, ma anche l’irritazione degli Stati Uniti e della UE, che fin dai primi giorni della rivolta hanno puntato ad una transizione «ordinata», in altri termini che garantisse comunque la loro posizione in Medio Oriente. Questa garanzia era oramai chiaro a chiunque passava attraverso l’abbandono del potere da parte di Mubarak.
La grande euforia che in queste ore attraversando tutto l’Egitto e altri Paesi dell’area mediorientale, dalla Tunisia alla Striscia di Gaza, è del tutto comprensibile e condivisibile. Ma è altrettanto chiaro un elemento cruciale: le rivendicazioni della popolazione egiziana sono molte: l’aumento dei salari, un’assemblea costituente, la richiesta di processare Mubarak e il suo apparato – che ora ha preso il potere – per i crimini commessi contro il popolo e non da ultima la restituzione del tesoro accumulato in questi decenni dalla famiglia Mubarak, calcolato in circa 70 miliardi di dollari (circa 51 mld euro). 
Gli eventi che stanno attraversando l’Egitto probabilmente rafforzeranno il vento di rivolta che a partire dal dicembre 2010 sta attraversando il Magherb e il Medioriente, dall’Algeria allo Yemen, passando per la Giordania e la Cisgiordania e Gaza. 
Nessuno può prevedere lo sviluppo degli eventi ed è questo che ci suggerisce la prudenza: il rispetto profondo di quei milioni di persone che ora in tutto il Medioriente si attendono che i loro immensi sforzi siano coronati da una democrazia vera. 11.02.2011

LETTERA APERTA SULL’ANTISEMITISMO E SUL MACHISMO DI BERLUSCONI

Albert Einstein, pochi giorni prima di essere costretto a lasciare la Germania e nel momento in cui fu escluso dall’insegnamento universitario perché ebreo, disse una frase che ancora oggi non è stata smentita: “Può essere che l’universo sia finito, la stupidità umana al contrario è infinita”.
Può sembrare un eccesso scomodare Einstein per la «battuta» antisemita e quella machista con cui Berlusconi ha sfoggiato la sua infinita stupidità.
Sottolineiamo che essere stupidi non è un’attenuante.
Noi viviamo in un Paese in cui il degrado culturale, sociale, economico e politico sta raggiungendo livelli pericolosi. E come in tutti i momenti di crisi profonda, non è strano che chi è al potere cerchi di avallare gli istinti più bassi. Non è strano che oggi, in piena crisi complessiva, in Italia si cerchino capri espiatori su cui riversare le angosce di chi, la maggioranza, non riesce a riemergere dalla crisi.
I migranti sono già nel mirino del razzismo fattosi legge. Il caso dell’espulsione di massa della comunità Rom in Francia e il plauso che questa politica ha ricevuto dall’establishment italiano è testimone molto esplicito del baratro su cui tutti siamo in Europa.
In questo contesto, gli insulti rivolti agli ebrei e alle donne sono ancora più pericolosi.
Non è un caso se la «barzelletta» antisemita raccontata per strada fosse centrata sul mito della ricchezza economica degli ebrei.
Ciò che colpisce è il silenzio, pericoloso, di molte, troppe figure pubbliche di questo Paese che se avessero un minimo di coscienza storica, dovrebbero insorgere.
Dal presidente della Repubblica, ai presidenti dei due rami del Parlamento, ai dirigenti delle comunità ebraiche italiane, tacciono, rendendosi di fatto complici ed artefici insieme del degrado, politico, morale e culturale di un Paese come l’Italia, che ebbe un ruolo attivo nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei.
L’On. Napolitano, alcuni anni fa ebbe a sostenere che l’antisionismo è un travestimento dell’antisemitismo (ben sapendo, si spera, che era un falso da ogni punto di vista). Oggi non sappiamo cosa pensa delle esternazioni berlusconiane. Non ha trovato il tempo per dire qualcosa, impegnato a stilare gli auguri ai nonni e alle nonne d’Italia.
Fini e Schifani non perdono occasione per recarsi allo Yad Vashem a rendere un falso omaggio a quelle vittime di cui sono politicamente e culturalmente responsabili.
I dirigenti delle comunità ebraiche italiane, nelle loro espressioni pubbliche e parlamentari (Riccardo Pacifici e Fiamma Nirenstein) il 7 ottobre prossimo si accingono a dichiararsi amici di Berlusconi, pubblicamente e spudoratamente.
Vorremmo dire a tutti costoro di stare molto attenti: razzismo, maschilismo, antisemitismo e volgarità sono tutti elementi comuni ad una cultura precisa, non sono «battute». Che nell’arco di pochi giorni in parlamento venga reiterata l’accusa di tradimento agli ebrei, venga reiterato il mito negativo della «ricchezza degli ebrei» e venga, infine ma non ultimo, reiterato l’assioma machista che le donne intelligenti non sono belle e quindi poco appetibili per i maschi, è un segnale terribilmente pericoloso.
Ogni qualvolta viene criticata la politica israeliana verso i palestinesi, chi oggi tace è pronto a gridare al pericolo del ritorno dell’antisemitismo.
Bene, ora è chiaro che costoro, che seggono anche sugli scranni parlamentari e rivestono cariche determinanti nel nostro sventurato Paese, sono i veri antisemiti, non più celati. E saranno loro i veri e soli responsabili del ritorno di un clima antisemita in Italia e non chi, invece, è al fianco dei popoli oppressi, ovunque si trovino e chiunque sia l’oppressore.
Molti ebrei di Israele e della diaspora, ormai da molti anni, hanno coniato il bello slogan “Not in my name”, per non essere additati come corresponsabili di politiche che in fin dei conti sono dannose, terribilmente, per tutti gli ebrei nel mondo.
Noi continueremo a sfidare l’embargo contro Gaza, continueremo a lottare al fianco dei palestinesi contro l’occupazione, continueremo a essere al fianco dei migranti e dei Rom, a denunciare il maschilismo e a lottare contro di esso e continueremo ad essere al fianco degli ebrei in Italia, e altrove, quando essi saranno vittime anche solo di «battute».
Chi è in grado di sentirsi in pericolo, al di là delle proprie appartenenze etniche o religiose, quando su queste basi altri vengono attaccati, rappresenta il vero e solo antidoto al ritorno dell’antisemitismo. 03/10/2010

iSRAELE STATO TERRORISTICO

L’assalto portato dalle truppe d’élite della marina militare israeliana contro la nave ammiraglia della Freedom Flottilla e alle altre cinque navi, in rotta verso Gaza assediata, ha due possibili definizioni, entrambe adeguate: terrorismo di Stato e pirateria internazionale. 
Ciò che non può sorprendere è che Israele faccia ricorso a queste due pratiche: fin da prima della sua creazione, all’epoca delle milizie della Haganah negli anni ’30, i gruppi dirigenti sionisti hanno abituato il mondo alla loro disinvoltura e arroganza.
Operazione “Vento dal cielo”
L’operazione militare era pianificata da giorni e nei dettagli. Non si tratta di un errore, “uso sproporzionato della forza” o, ancora più ipocritamente, di “eccesso di difesa”.
Quando la stampa israeliana annunciava l’arrembaggio alla flottiglia nessuno poteva mettere in dubbio la serietà del rischio.
Ma nessuno poteva prevedere il mélange devastante di stupidità e arroganza.
Anche gli alleati degli israeliani pensavano che la prudenza avrebbe prevalso, risparmiando il massacro.
Tutti sapevano, perché annunciato dalla stampa, che le navi sarebbero, dopo l’arrembaggio, state scortate nel porto di Ashdod e non certo per un giro turistico.
Si sapeva che erano state allestite tendopoli nel porto per «accogliere» gli oltre 700 attivisti internazionali, una volta sequestrati per essere poi espulsi.
In altri termini, era chiaro ed inequivocabile che Israele non avrebbe tollerato la messa in discussione dell’assedio alla Striscia di Gaza.
Certo, forse potevano sperare che gli attivisti internazionali si lasciassero trascinare a Ashdod passivamente e senza difendersi dall’assalto.
O, ancora meglio, facessero marcia indietro al primo alt intimato dalle navi di guerra israeliane.
Chi aggredisce chi?
Solo dopo che nessuno dei suoi «amici» ha gradito gli assassinii, Israele ha iniziato a «denunciare l’aggressione da parte dei pacifisti». Inondando i media internazionali e il web di video che avrebbero dovuto dimostrare questa pretesa aggressione, mentre non hanno che confermato che gli attivisti e i membri dell’equipaggio altro non hanno fatto se non difendersi, appunto, dall’arrembaggio da parte dell’ «unica democrazia del Medio Oriente».
Il vero obiettivo di Israele
Oggi, a pochi giorni da un massacro di cui ancora non si conosco i veri contorni, Israele cerca, come molte altre volte, di arrampicarsi sugli specchi, per evitare che il boomerang dal mediterraneo gli arrivi al centro degli occhi.
Ma molti membri dell’establishment israeliano hanno il pregio della chiarezza.
È il caso di Tzpi Livni, la criminale di guerra che ha sulle spalle la responsabilità di Piombo Fuso e il suo carico di morte e distruzione. Ad una televisione francese ha dichiarato che è fuor di dubbio che Israele svolgerà un’inchiesta sull’accaduto, anche se, ovviamente, questa «inchiesta interna» non metterà in discussione l’obiettivo vero dell’attacco del 31 maggio 2010: il proseguimento dell’assedio che lentamente sta strangolando un milione e mezzo di persone, rinchiuse nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, la Striscia di Gaza.
La Livni, in modo esplicito, come le è di costume, risponde a chi pensa che ora sia giunto il momento di mettere in discussione l’assedio contro Gaza. Il suo ragionamento: togliere l’assedio significherebbe dare legittimità al governo di Hamas, cosa che sarebbe un problema, non solo per Israele, ma anche per l’ANP di Abu Mazen e il governo di Salam Fayyad, l’Egitto di Mubarak, la Giordania di Abdallah e molti altri ancora.
Di fatto, sembra, che la Livni si rammarichi che l’eco avuta dalla sorte della Freedom Flotilla, rischi di mettere in discussione uno degli assi portanti della politica israeliana.
Ed ha ragione.
Proprio questo è il merito più grande della flottiglia: l’aver spezzato lo scandaloso silenzio sull’assedio di Gaza e le sue conseguenze.
Oggi, «grazie» all’attacco israeliano, molta più gente nel mondo ha capito cosa è in concreto l’assedio di Gaza. 
L’impatto della strage attraverso il mondo è ben superiore a quello che Israele poteva attendersi.
Le manifestazioni popolari nei Paesi arabi e nel resto del mondo hanno dimostrato ancora una volta, da un lato, la dicotomia tra governi e popoli e, dall’altro, spingono i primi a prendere posizioni più rigide.
È il caso lampante dell’Egitto di Mubarak.
Solo qualche mese fa era proprio l’Egitto a farsi carico di bloccare la Gaza Freedom March, con oltre mille partecipanti, impedendo l’ingresso degli attivisti internazionali attraverso il valico di Rafah. Ma l’atteggiamento egiziano fu, dal punto di vista dei difensori dell’embargo a Gaza, molto più intelligente di quello israeliano. E non facciamo alcun complimento alle autorità egiziane.
In quel caso, anche le cancellerie europee poterono scaricare i propri cittadini alla mercé dei dinieghi di ogni tipo delle autorità egiziane.
Intervenne anche Madame Mubarak che con una trappola clamorosa riuscì a spaccare il fronte degli attivisti.
Per evitare equivoci, non vogliamo offrire, con questo, alcun apprezzamento alle autorità egiziane, ma solo rilevare che nonostante tutto, la Gaza Freedom March, non è riuscita a rimettere in questione, in modo concreto, il ruolo dell’Egitto nell’assedio voluto da Israele contro Gaza.
Mentre oggi, Mubarak è costretto ad aprire per «un tempo illimitato» il valico di Rafah.
Le stesse cancellerie europee che nel dicembre scorso non batterono ciglio, oggi, dopo l’arroganza dimostrata da Israele, iniziano a mettere in dubbio l’appoggio incondizionato all’assedio.
In altri termini, queste ultime cominciano a chiedersi se il gioco vale la candela. 
Mettere all’indice il governo di Hamas a Gaza attraverso un embargo terribile, soprattutto dopo l’eccidio di Piombo Fuso, dopo le conclusioni del rapporto Goldstone, appoggiandosi esclusivamente alla debolissima Autorità Nazionale Palestinese, può valere la collera turca? Turchia che da poco ha stipulato, inoltre, un accordo sul nucleare con l’Iran? Ponendosi di fatto come quell’interlocutore necessario tra l’ Occidente e l’Iran di Ahmadinejad.
Con l’attacco alla Freedom Flotilla Israele ha tentato di mettere in soffitta i problemi che l’embargo produce a livello internazionale, creandone di nuovi. Ha tentato anche di poter archiviare i contatti con il governo di Hamas, che tutti sanno essere in piedi da mesi, seppur «segretamente».
Dopo l’attacco del 31 maggio, è difficile per chiunque sostenere che parlare di assedio, affamamento, presa per fame e malattie dei palestinesi di Gaza, è fare propaganda pro-Hamas.
Il peso dei morti
L’aver dichiarato il porto di Ashdod «zona militare chiusa», ossia chiuso ai giornalisti israeliani e internazionali, alle organizzazioni internazionali, il rapimento in acque internazionali di circa 700 cittadini di 40 nazionalità e la loro traduzione nelle carceri israeliane, con la sospensione di tutti i loro diritti, con l’accusa ridicola di “ingresso clandestino in Israele”, l’impedire ai loro avvocati di poterli vedere, per constatarne le condizioni, era parte integrante dell’attacco e della tattica che lo sosteneva.
Anche qui, purtroppo, il peso dei morti ha avuto un ruolo non secondario.
Ci ricordiamo, infatti, che anche Gaza, nel dicembre 2008, fu dichiarata «zona militare chiusa» a chiunque, ma in quel caso gli oltre 1.400 morti palestinesi sulla bilancia mondiale non avevano, e mai hanno avuto, lo stesso peso delle vittime di oggi. 
Non è cinismo è constatazione cruda.
Questo può essere considerato l’ultimo dei molti autogol che l’attuale governo israeliano ha fatto pur di forzare la mano agli Stati Uniti.
È cosa nota che oggi gli Stati Uniti, non avendo una posizione di forza in Medio Oriente, ma, al contrario, trovandosi in difficoltà (dall’Iraq all’Afghanistan) non sono in grado di premere più di tanto su Israele. 
Per questo motivo, nelle ore convulse seguite all’attacco, il coro di indignazione, piuttosto ipocrita dei Paesi europei, che si limitano a chiedere un’inchiesta e non una condanna con conseguenti sanzioni contro l’atto di pirateria di Stato, gli Stati Uniti hanno prima taciuto a lungo per poi annullare l’incontro che martedì avrebbe dovuto avere Obama con Netanyahu. Incontro che avrebbe dovuto rimettere ordine nei rapporti difficili tra i due alleati di ferro.
Ma pur se burrascosi ancora una volta i rapporti tra la sedicente «comunità internazionale» e Israele sono improntati alla legge del «cane non morde cane».
In qualunque altra situazione un’azione simile avrebbe comportato sanzioni e condanna esplicita.
Ora, invece, si assiste allo spettacolo indegno per cui anche un’inchiesta internazionale viene frenata con il veto di USA, Italia e Olanda e l’astensione ridicola di Francia e Gran Bretagna.
Per quanto riguarda l’Italia nulla di sorprendente. Il nostro Paese è stato l’unico dei 40 coinvolti nell’aggressione israeliana che, pur avendo sei suoi cittadini vittime del rapimento in acque internazionali, non ha chiesto ufficialmente spiegazioni all’ambasciatore israeliano in Italia, non ne ha richiesto il rilascio immediato e senza condizioni. Anzi, ha espresso il rammarico che i sei cittadini italiani non avessero firmato la dichiarazione di «colpevolezza», allungando i tempi della loro detenzione. In altri termini: se lo vogliono.
Frattini, ministro degli esteri, si è affrettato a dire, inoltre, che essendo Israele un «Paese democratico» è in grado di svolgere da sé un’inchiesta credibile! Posizioni del genere non hanno bisogno di commento.
Viviamo in un Paese in cui la legalità è un eufemismo, perché meravigliarsi se la legalità internazionale viene considerata un optional? 
L’indignazione, invece, resta intatta, come l’opposizione a questi «signori» che con la loro irresponsabilità e insipienza politica non si rendono conto di portare l’Italia sull’orlo di un baratro pericoloso.
Gli Stati Uniti certamente non hanno gradito l’alzata di ingegno israeliana, ma fino a questo momento le belle frasi roboanti di Obama non si sono trasformate in uno, che fosse uno, atto concreto per far pressione su Israele.
La marcia indietro sull’inchiesta internazionale la dice lunga in merito.
La vera posta in gioco
In questa situazione, ovviamente la posta in gioco è al rialzo. È al rialzo perché, attaccando una nave battente bandiera turca, Israele impone di fatto il cambiamento dell’agenda politica internazionale. 
Le manifestazioni popolari che invadono fin dalla notte del 31 maggio le strade di Istanbul sono politicamente sostenute dal governo i cui esponenti più importanti, Erdogan e Gül ripetono in continuazione che «niente sarà come prima».
Per ora queste dichiarazioni di fuoco hanno sicuramente avuto come riflesso il fatto che i Paesi occidentali, per quanto di malavoglia, abbiano dovuto rimettere in discussione l’embargo di Gaza. Anche se non per motivi di non-legittimità, ma di opportunità. 
Embargo che ormai da molto tempo viene denunciato da diverse agenzie internazionali per le sue conseguenze, umanitarie soprattutto. 
Certamente ora chi trae il maggior profitto dall’attacco israeliano è il governo di Hamas. Esso ha ottenuto varie cose: sicuramente una nuova legittimazione internazionale, che se non era in discussione tra le popolazioni dei Paesi arabi, certamente, non era data per scontata nell’opinione pubblica occidentale.
Anche l’Autorità Nazionale Palestinese che, nelle ore subito successive all’attacco, aveva taciuto, si è dovuta poi schierare, non solo, in modo chiaro, ma ha dovuto anche e soprattutto definire terrorismo internazionale, l’atto di Israele. Cosa che sicuramente avrebbe fatto volentieri a meno di fare.
Con il clima che c’è in Cisgiordania anche la «guerra delle parole» non è di dettaglio: se Hamas definisce l’azione israeliana come «crimine di guerra», l’ANP non poteva limitarsi a condannare l’atto in modo generico.
Ma coloro che hanno inondato in questi giorni le pagine dei giornali sostenendo che il risultato peggiore dell’azione israeliana sarebbe quello di «bloccare il tentativo di riavviare il processo di pace» continuano a mentire spudoratamente o a ingannarsi in modo cocente. Sono anni ormai che il preteso «processo negoziale» è un puro esercizio diplomatico senza ne scopo ne esiti, ovviamente.
Ancora, in molti sottolineano che la vera svolta estremistica in Israele si è consolidata con l’operazione Piombo Fuso. Per molti aspetti è sicuramente quella una svolta fondamentale. 
Ma non ci si deve mai stancare di ripetere che l’impunità favorisce l’estremismo israeliano senza limiti. 
Nell’ultimo anno, Israele ha preso una serie di iniziative tali da lasciar presagire addirittura una nuova Nakba: l’ebraicizazzione sempre più violenta di Gerusalemme, l’editto militare che definisce «clandestini» i cittadini palestinesi residenti da anni in Cisgiordania che non possono «dimostrare di essere originari delle città dove risiedono» (che nel momento in cui è stato promulgato, l’11 aprile 2010, avrebbe colpito circa 65.000 persone e già ci sono stati diversi casi di espulsioni forzate verso Gaza o verso altri Paesi arabi), il proseguimento della confisca delle terre e del Muro in Cisgiordania, le discriminazioni sempre più forti verso il milione e duecentomila cittadini palestinesi-israeliani, il proseguimento caparbio nonostante i costi umani dell’embargo contro Gaza.
Tutti questi atteggiamenti, in buona sostanza, non sono stati né sanzionati, ma neanche messi in dubbio dai Paesi occidentali, USA in testa, né, in sostanza da quelli arabi.
Per chi oggi si stupisce della reazione della Turchia, ricordiamo che Erdogan fu uno dei pochi dirigenti politici che all’indomani dell’attacco del dicembre 2008- gennaio 2009 attaccò platealmente Israele. 
Questo atteggiamento della Turchia, quindi, non è una novità conseguenza, solo del fatto che, nove cittadini turchi sono stati assassinati in acque internazionali su una nave battente bandiera turca dalla marina militare israeliana.
La Turchia ha, dal canto suo, una serie di punti da risolvere e non pochi scheletri nell’armadio: a partire dall’oppressione e repressione delle rivendicazioni nazionalistiche kurde.
Erdogan facendo della Palestina il suo cavallo di battaglia recupera il consenso interno che era in calo.
Inoltre, nelle ultime settimane Israele si è visto più volte mettere in difficoltà.
Anche se è un segreto di Pulcinella, recentemente, si è iniziato apertamente a parlare dell’arsenale nucleare israeliano, l’unico veramente esistente nella regione. Ed inoltre, non è stata una buona notizia il fatto che, i promotori della conferenza per il Trattato di non Proliferazione Nucleare del 2012, abbiano puntato direttamente il dito contro quell’arsenale in modo esplicito. Sicuramente, infine, non è stata una lieta novella l’accordo della Turchia con la Siria e il suo ruolo di mediatrice con l’Iran, sempre a proposito di nucleare.
In questo senso, l’atteggiamento così determinato della Turchia, il suo non voler «passare sopra la “Navi Marmara” ha il sapore della palla colta al balzo per rinnovare il proprio ruolo regionale. Anche per consolidare i propri rapporti con l’Iran, Paese in cui, inoltre, la Turchia ha fatto notevoli investimenti economici come anche in altri Paesi arabi.
In questa situazione il fatto che la Turchia sia un membro della NATO è sicuramente un dato determinante. 
Non è da escludere che questo episodio sia usato dalla Turchia anche per vincere le resistenze al suo ingresso nell’Unione Europea.

La «Rachel Corrie»…i pacifisti buoni e quelli cattivi
Il 5 giugno un nuovo assalto in acque internazionali da parte della marina militare israeliana ha costretto la «Rachel Corrie» a fare rotta ancora verso il porto di Ashdod, ancora una volta dichiarato «zona militare chiusa».
Questa volta non ci sono stati spargimenti di sangue e assassinii a sangue freddo, come è avvenuto sulla «Navi Marmara». Gli attivisti internazionali, circa venti persone di varie nazionalità, tra cui un premio Nobel e un ex-vice segretario delle Nazioni Unite, Mairead Maguire e Denis Halliday, hanno comunque dovuto fare la stessa trafila dei precedenti 700, anche se più brevemente, perché, questa volta, Israele li ha espulsi direttamente. Anche se in molti sono rimasti reclusi nell’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, perché rifiutavano di firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non avviare azioni legali contro Israele, una volta tornati in patria. Quindi, anche se è stata loro risparmiata l’accusa ridicola di «ingresso clandestino», è evidente come Israele faccia, come dice il detto, «le umane e divine cose» per evitare che il suo operato sia oggetto di decisioni giuridiche esterne. Ancora una volta è chiaro che l’immagine, per Israele, è cosa da difendere, anche contro l’evidenza dei crimini commessi.
Come era logico attendersi, visto che i passeggeri della «Rachel Corrie» non hanno opposto che resistenza passiva, ora Israele tenta una rimonta mediatica. 
Si cerca di «dimostrare» che il fatto che sulla «Rachel Corrie» non sono scorsi fiumi di sangue, significa che, effettivamente il precedente convoglio di aiuti per Gaza, non aveva scopi pacifici.
Questo è un sillogismo illogico che non regge. Tranne gli assassinii e i ferimenti, anche il 5 giugno, lo Stato di Israele ha commesso un atto di terrorismo internazionale e di pirateria! Che il governo irlandese si accontenti del fatto che la propria sovranità nazionale sia violata senza spargimenti di sangue, che le stesse diplomazie internazionali, che una settimana fa, gridavano, oggi, tacciano o si compiacciano della «moderazione israeliana», non toglie alcunché ai reati ancora una volta commessi.
Non sono i morti, pochi o molti che siano, a rendere più o meno esecrabile il crimine.
Inoltre, l’altra tattica israeliana è quella di addebitare al governo di Hamas il rifiuto gli aiuti, che Israele si impegnerebbe a dare dopo il «filtro».
La posizione del governo di Gaza, al contrario, è inevitabile: accettare gli aiuti «filtrati» significherebbe da un lato, accettare la lista dei prodotti che Israele unilateralmente ha decretato essere proibiti: dal cemento ai biscotti. Dall’altro, significherebbe accettare, di fatto, l’embargo.
Intanto, la sfida di Israele continua. Nella serata del 6 giugno, Netanyahu e Barak annunciavano di rifiutare l’inchiesta internazionale come proposta dal segretario dell’ONU Ban Ki Moon. Ribadivano il fatto che il «diritto di Israele a intervenire per la propria difesa» non poteva essere oggetto di inchieste internazionali. Ribadivano anche che un’inchiesta interna è già in previsione.
Ma, nonostante questa facciata di spavalderia, contemporaneamente, sempre nella serata del 6 giugno, veniva convocata una riunione ristretta dei sei ministri del governo più direttamente interessati. Questa riunione aveva come ordine del giorno: «soppesare la richiesta di inchiesta internazionale». Essa si è conclusa a notte fonda senza arrivare a nessuna conclusione, cosa che lascerebbe pensare a divisioni nel governo in merito.
Evidentemente, l’apprendista stregone sta rendendosi, forse, conto di aver esagerato e che rischia di ritrovarsi nelle condizioni di perdere formula, formulario e di essere bocciato.
Anche perché la Turchia non molla la presa: Erdogan è arrivato ad annunciare che sul prossimo convoglio navale di aiuto a Gaza sarà lui in prima persona al timone. Sicuramente demagogia, ma comunque questa «promessa» rende ancora più esplicite le intenzioni.
Ancora, l’Iran si è detto disponibile a scortare nuovi convogli umanitari e a inviare due navi con aiuti umanitari e con personale della Mezzaluna Rossa a bordo verso Gaza.
La Gran Bretagna annuncia, dal canto suo, l’intenzione di stanziare 23 milioni di euro per la popolazione civile di Gaza.
Tutto questo sullo sfondo di un coro, come si è già detto, che vede dall’ONU al Vaticano e anche la NATO definire ormai «insopportabile» l’embargo a Gaza e l’occupazione israeliana nel suo complesso.
Questo probabilmente è il momento in cui la frizione tra gli interessi di Israele e dei suoi alleati tradizionali è giunta al limite più alto.
Certo, togliere l’embargo a Gaza, passo che è fondamentale, soprattutto per il milione e mezzo di uomini, donne, vecchi e bambini palestinesi, non è la soluzione del conflitto. Né ci si può aspettare miracoli sull’esito di questa crisi. Ma gli elementi fin qui descritti non lasciano prevedere che sia sufficiente un’operazione di maquillage da parte di Israele.

Chi vince, chi perde e chi ne paga il prezzo…e chi lo deve pagare
Una quasi completa rottura con l’unico Paese dell’area mediorientale, la Turchia, che fino al 30 maggio 2010, era il solo ad avere un’attiva collaborazione militare con Israele (operazioni militari congiunte, ecc.) è il prezzo che Israele è pronto a pagare, ancora spavaldamente sicuro dell’impunità. 
Se è vero ciò che prima abbiamo già sottolineato come merito della Freedom Flotilla, è vero altrettanto che da questa parziale vittoria non devono uscire né eroi, né martiri. 
Diciamo questo perché nulla andrebbe più a vantaggio di Israele che perdere di vista il vero obiettivo: la Palestina, in tutte le sue componenti.
Non è la prima volta che, nella sua storia, lo Stato di Israele appare molto isolato a livello internazionale. Ma i passi indietro che è stato, in passato come oggi, costretto a fare, in realtà, si sono rivelati prezzi sopportabili rispetto al progetto di fondo: non rinunciare al progetto colonialistico nel suo complesso.
Per questo motivo, il movimento internazionale di solidarietà fa bene a ribadire che, nonostante tutto, le sue azioni non si fermeranno, anzi, che debbono intensificarsi.
A cominciare dall’intensificazione della campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Per parafrasare Primo Levi: «Se non ora, quando?».
È questo il messaggio che viene raccolto per primo dai lavoratori portuali svedesi che, fin dal 5 giugno, hanno lanciato il boicottaggio attivo di tutte le merci israeliane, fino a che non sarà tolto il blocco a Gaza.
C’è da sperare che il loro esempio venga seguito a livello mondiale, occorre lavorare in questo senso e con questo obiettivo.
Oggi l’immagine di Israele è assai compromessa e non possiamo permetterci di sprecare l’occasione.
Dopo ciò che è avvenuto, dobbiamo più che mai essere consapevoli che il prezzo dei nostri errori lo pagheranno i palestinesi e non noi.
Occorre che diventi patrimonio comune, senso comune, una logica elementare: i crimini si pagano, se restano impuniti non possono che ripetersi, sotto forma di tragedia. 07/06/2010

PALESTINA: DALLA CRISI USA-ISRAELE AD UNA NUOVA INTIFADA?

Le frizioni tra la nuova amministrazione statunitense e Israele tutto possono essere tranne che sorprendenti. Compreso lo stile di brutalità con le quali sono emerse.

La brutalità diplomatica, e non solo,  del nuovo governo israeliano…e dell’ “opposizione”

Tzipi Livni, ex primo ministro israeliano, criminale di guerra, durante i bombardamenti sulla striscia di Gaza del 2008-2009 rivendicò, in modo chiaro, che la politica israeliana sarebbe stata costellata da azioni “folli”. Lei è una che se ne intende: in 22 giorni, sotto la sua responsabilità, sono stati assassinati 1.400 civili palestinesi, di cui un numero intollerabile di bambini.
La Livni è la rappresentante moderata di un’«opposizione» al governo il più oltranzista, razzista e xenofobo della storia israeliana.  Il governo è peggio.  
In questo quadro, appena abbozzato, non è sorprendente che il ministro dell’interno israeliano  Eli Yishai, esponente dell’estrema destra religiosa, abbia contribuito a tendere i rapporti con gli USA, annunciando, durante il viaggio nella regione del vice presidente John Biden, la costruzione di 1.600 nuovi alloggi nella colonia di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Tutto questo dopo che l’inaugurazione, in grande stile, di una restaurata sinagoga, risalente al XVII secolo, sita a poche centinaia di metri dalla Moschea di Al Aqsa, aveva già prodotto, agli inizi del mese di marzo, scontri tra palestinesi e esercito israeliano.
Si può perfettamente concordare con Gideon Levy, una delle poche voci rimaste lucide del giornalismo israeliano, che in un editoriale su Hareetz, il giorno dopo l’annuncio di Yishai, ringrazia il ministro per aver sollevato la nebbia della patina dorata con cui si voleva avvolgere la visita di Biden in Palestina.

L’agenda degli USA non coincide con quella israeliana

È chiaro che ora, a poco più di un anno dall’annunciato ritiro dall’Iraq, l’amministrazione USA ha bisogno urgentemente di allentare la tensione sul dossier palestinese. 
Il tentativo avviato ormai da mesi dall’amministrazione Obama è quello di tornare al “clima di Oslo”. Per questo motivo, Biden aveva il compito di approntare un “negoziato indiretto”. Indiretto perché è evidente l’impossibilità di poter avviare un negoziato reale. Sarebbe bastato poco a Obama, Biden e Clinton per ritenersi soddisfatti. 
In cambio di una loro posizione intransigente contro l’Iran e il suo nucleare, si sarebbero accontentati di una promessa di congelamento degli insediamenti a Gerusalemme est. Ovviamente, anche se ciò è insufficiente, una cosa simile sarebbe bastata agli USA per imporre all’ANP di Abu Mazen di accettare dei negoziati. 
Se lo scompiglio prodotto da Yishai ha provocato una crisi che non possiamo prevedere come si concluderà, tuttavia conferma un dato: le agende di Stati Uniti e Israele, oggi, non coincidono.
A Tel Aviv, durante il discorso tenuto all’università, Biden ha detto parole precise in questo senso: « A volte proprio un vecchio amico di Israele, appunto come me, deve far sentire la sua voce».
Questo, ovviamente, non significa che concretamente, come si è già detto, gli USA siano pronti a rimettere in discussione la politica di colonizzazione della Cisgiordania, che prosegue indisturbata, né, ancor più, la costruzione del Muro di separazione e l’assedio feroce alla striscia di Gaza. Ciò significa che, come ribadito da Netanyahu nel suo viaggio negli Stati Uniti, il suo governo rivendica il «diritto» a costruire a Gerusalemme perché si rivendica Gerusalemme come capitale eterna dello Stato ebraico di Israele. Per altro a Gerusalemme, compresa la sua periferia, già vivono 200.000 coloni. 
Moshe Dayan, il generale che nel giugno 1967 conquistò la parte est della città, con questo slogan attraversò la Porta di Damasco, uno degli accessi alla città vecchia di Gerusalemme.
Oggi, nel 2010, Netanyahu inscrive l’azione politica del suo governo in questa direzione, mai abbandonata in questi quarantatre anni di occupazione.
Netanyahu e il governo israeliano si possono permettere questa disinvoltura perché è chiaro che l’alleanza di fondo con gli Stati Uniti – soprattutto quella militare – non è scalfita neanche dalla brutta figura di Biden in Medioriente e neanche dalla vendetta attuata dallo staff della Casa Bianca che ha tenuto, la visita di Netanyahu negli USA e soprattutto il suo incontro con Obama, nell’ombra.

Verso una terza intifada?

L’altra carta in mano a Netanyahu è il caos che regna sovrano in campo palestinese e arabo.
Certo, l’ANP di Abu Mazen, sempre più in crisi, cerca di recuperare credibilità presso il suo stesso popolo grazie a questa crisi. 
In molti scordano facilmente tre cose elementari: la subalternità dell’ANP verso Israele, la complicità dell’ANP nei massacri di un anno fa a Gaza e il ruolo attivo dei Paesi Arabi, soprattutto dell’Egitto, nell’assedio di Gaza. I palestinesi, anche di Cisgiordania e di Gerusalemme Est, non dimenticano, al contrario.
A guardare la mappa degli scontri esplosi a marzo, ci si rende conto che essi sono scoppiati lì dove l’ANP e le sue forze di repressione erano meno presenti. I centri più grandi della Cisgiordania erano totalmente controllati ed era impossibile una qualsiasi forma di protesta.
Questo a dimostrazione del fatto che l’ANP sta puntando a inserirsi nello scontro tra Stati Uniti e Israele come elemento passivo. Di questo atteggiamento evidentemente cerca di approfittare Hamas. 
Con la proclamazione della giornata della collera, il primo venerdì dopo l’annuncio dei nuovi 1.600 alloggi a Gerusalemme Est, l’organizzazione di ispirazione islamica ha cercato di inviare un messaggio all’ANP: state attenti che riusciamo, se vogliamo, a prendere la leadership della rivolta anche in Cisgiordania. Ma questo, oltre all’effetto propagandistico, è tutto da dimostrare.
Ciò che invece emerge in modo chiaro è che Hamas cerca di riprendere il ruolo che aveva prima del 2006, quando, anche se può sembrare paradossale, la vittoria schiacciante alle elezioni legislative, lo ha messo più in difficoltà di quanto si aspettasse.
Negli anni precedenti al 2006, Hamas ha costruito il suo consenso e il suo radicamento tra la popolazione palestinese, grazie al fatto che si presentava contemporaneamente come l’unica forza politica in grado di garantire un sostegno concreto alla popolazione e contraria agli accordi di Oslo.
A causa dell’assedio a Gaza sicuramente la capacità di garantire il sostegno concreto è molto diminuita. Inoltre, in vari momenti, le conseguenze di questo si sono trasformate in scontri armati anche all’interno della Striscia prima contro Fatah (giugno 2007) e poi contro altre formazioni politiche di ispirazione islamica ben più estremistiche di Hamas (2009).
Inoltre, non è un dettaglio secondario, Hamas deve far fronte a condizioni di vita a Gaza sempre più intollerabili. 
Una vera e propria catastrofe economica: nell’arco di due anni, il 95%  delle imprese hanno chiuso e il 98% degli impieghi, nel settore privato, sono andati distrutti. L’impossibilità di importare cemento ed altri materiali edili, impedisce di fatto la ricostruzione dopo la devastante distruzione del 2008-2009.
Inoltre, a meno di non volersi bendare gli occhi, il clima politico a Gaza è tutto tranne che rose e fiori.
Questo, ovviamente, non significa sposare l’idea che stia per realizzarsi il progetto israeliano, europeo, statunitense e arabo di una rivolta della popolazione palestinese di Gaza contro Hamas. Significa non perdere mai di vista di che natura è l’organizzazione politica Hamas: un’organizzazione conservatrice e reazionaria che fa della religione lo strumento privilegiato di controllo politico, culturale e sociale.
Il compito di Hamas viene «facilitato» da Israele che l’assedia e tenta di «sradicarla» militarmente e dall’ANP che cerca di usare questo assedio e le aggressioni militari perché non ha speranza alcuna di sostenere il confronto, dai Paesi arabi e l’Occidente che partecipano a pieno ai piani di Israele. 
Ma la decomposizione quasi totale delle organizzazioni politiche in Cisgiordania sia che siano  o no legate all’ANP e, l’inefficacia assoluta sul piano politico ed economico dell’ANP,produce anche l’effetto, che, a lungo termine, non può che dare risultati implosivi, dell’impossibilità di sfruttare in positivo l’afflusso consistente di aiuti economici che essa riceve dall’estero.
L’ultima iniezione, 500 milioni di dollari, l’ha ricevuta in queste settimane dalla Lega Araba.
Lega Araba che, riunita d’urgenza dopo le dichiarazioni israeliane su Ramat Shlomo, non ha potuto che prendere atto del fallimento del piano lanciato, del tutto ignorato da Israele, nel 2002 dall’Arabia Saudita e, che consisteva nell’impegno da parte araba a riconoscere Israele in cambio della restituzione dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est.
Si può osservare che la Lega Araba ha impiegato otto anni a capire ciò che era chiaro già nel 2002, quando Sharon iniziò la costruzione del Muro e che aveva come obiettivo quello di annettersi di fatto gran parte della Cisgiordania, creando l’ennesimo fatto compiuto.
Oggi, dopo le enormi mobilitazioni di un anno fa al fianco dei palestinesi di Gaza, i Paesi Arabi hanno (come molte altre volte nella storia) la necessità di far finta di schierarsi per evitare che le proprie popolazioni scelgano fino in fondo la via dell’opposizione interna. Tra l’altro, al contrario di ciò che si pensa, nei diversi Paesi arabi non tutto è piatto e inamovibile. 
Gli scontri di queste settimane in Cisgiordania, con quattro giovani adolescenti assassinati, in meno di dodici ore tra il 20 e il 21 marzo, hanno fatto ricordare in parte ciò che avvenne nel dicembre 1987 allo scoppio della prima Intifada e nel settembre 2000 allo scoppio della seconda.

Ma oltre alla banale constatazione del mutato contesto generale, le differenze con le due precedenti rivolte sono abissali, soprattutto con la prima Intifada.
All’epoca, quello che sembrava un episodio (un camionista israeliano che investì otto lavoratori palestinesi) di  « ordinario razzismo e colonialismo»  divenne, invece, la miccia che avrebbe incendiato tutti i Territori Occupati e, si rivelò una rivolta auto-organizzata che riuscì  a mantenere, a lungo, lo scontro con l’esercito occupante,  a coordinarlo ed a renderlo efficace politicamente.
Ciò che rese tutto questo possibile furono diversi fattori, ma tre di essi influirono in modo determinante: la Cisgiordania e Gaza erano occupate direttamente dall’esercito israeliano; il gruppo dirigente dell’OLP, nell’esilio dorato di Tunisi, solo dopo alcuni mesi, riuscì a prendere il controllo della rivolta; le organizzazioni che, nei Territori Occupati,rappresentavano la galassia dell’OLP, con l’esclusione di Hamas, nei venti anni di occupazione avevano sviluppato un coordinamento  «di base » e una collaborazione politica che non era assolutamente caratteristica dell’OLP  «dell’esterno». 
Soprattutto il terzo elemento portò alla nascita del Comando Nazionale Unificato, di fatto una direzione all’interno dei Territori Occupati che non si contrapponeva ufficialmente all’OLP, ma, che era comunque alternativa ad essa. Si era creato quello che si può definire un  «dualismo di potere» tra interno ed esterno. L’organizzazione interna consentì il coinvolgimento capillare della popolazione palestinese, sganciando le rivendicazioni dirette del popolo in rivolta dalle alchimie diplomatiche in cui era invischiata all’esterno l’OLP.
Questo  « dualismo di potere » era inaccettabile per la direzione dell’OLP a Tunisi che riuscì alla fine, a disarticolare l’auto-organizzazione interna, grazie anche a Israele che chiuse gli occhi sulla nascita (nel 1988) di Hamas e sulla sua crescita. Anche se,  è necessario sottolinearlo, la carta vincente per Hamas fu quella di presentarsi presso i palestinesi come alternativa all’OLP, di cui non mancava di sottolineare la corruzione.
Come  è noto, la prima Intifada  « finì  » con gli accordi di Oslo dopo sei anni di strenua lotta che la popolazione palestinese pagò con un prezzo umano altissimo.
Ma sicuramente la pantomima che si svolse sul prato della Casa Bianca nel 1993 non sarebbe stata possibile senza la prima Intifada. 
Quegli accordi erano il risultato dell’incrociarsi di tre interessi: Israele aveva capito che, nonostante l’OLP avesse determinato lo  « svuotamento » dell’Intifada, doveva creare le condizioni perché una cosa simile non si ripetesse; l’OLP aveva bisogno come l’aria di un  «risultato» da esibire al proprio popolo; i Paesi imperialistici, in primis gli USA, avevano bisogno di un  «risultato» sul versante più pericoloso del Medio Oriente, soprattutto dopo il fallimento della prima guerra del Golfo nel 1991.
I sette anni di tregua che dividono la firma degli accordi di Oslo e lo scoppio della seconda Intifada nel 2000 rivelano in pieno alla popolazione palestinese l’intreccio degli interessi di cui prima si parlava.
La colonizzazione anziché essere fermata, o anche solo diminuita, raddoppierà. 
Il rientro, con grande clangore di trombe, della direzione dell’OLP, in primis di Yasser Arafat, nei Territori Occupati, invece di essere il presupposto per la costruzione di una direzione politica in loco che avesse come obiettivo quello di arrivare ad uno Stato indipendente, si trasformò, in breve tempo, al contrario, nella crescita esponenziale di un apparato che, di fatto, aveva come compito prioritario il controllo dei palestinesi, perché gli obiettivi di Oslo, tutti favorevoli a Israele, si realizzassero.
Quando Ariel Sharon, nel 2000, con la piena collaborazione del governo allora presieduto da Ehud Barak, compì la provocazione, passeggiando, attorniato dalla stampa internazionale e dall’esercito, sulla Spianata delle Moschee, era chiaro che i palestinesi avrebbero reagito. 
Quella che fu chiamata la seconda Intifada, però, aveva profonde differenze con la rivolta del 1987. 
Le divisioni all’interno dell’apparato dell’ANP portarono alla militarizzazione della rivolta, con l’esclusione della popolazione. Al posto degli scioperi generali, le milizie dell’ANP che non avevano a disposizione che poche armi leggere, iniziarono a reagire agli attacchi dell’esercito israeliano, che, non facendosi sfuggire l’occasione, rispose usando, contro i fucili,tutte le armi a sua disposizione: dagli elicotteri di guerra ai carri armati. Il conto è presto fatto se si tiene conto che quello israeliano è l’esercito più tecnologizzato del Medio Oriente.
Il costo umano fu enorme e pagato molto più rapidamente che in precedenza.
La leadership di Arafat era sempre più in difficoltà: dal lato militare (cosa scontata visto la sproporzione dei mezzi in campo), dal lato politico, ancor di più, perché si sforzava di tenere insieme il «profilo diplomatico di Oslo» e, contemporaneamente, di apparire comunque a capo della rivolta. Cosa che ovviamente risultava impossibile.
La marginalizzazione delle masse portò lo scontro su un livello insostenibile, ossia quello militare.
Nel 2002 Sharon lancia l’operazione «Scudo di difesa» che altro non era che la reinvansione militare della Cisgiordania. 
In seguito a questa operazione fu iniziata la costruzione del Muro di separazione, che, in realtà,  serve solo  ad appropriarsi delle terre palestinesi e alla messa sotto assedio di Yasser Arafat, nel suo quartier generale alla Muqata a Ramallah, dove rimase prigioniero e malato in pratica fino alla fine dei suoi giorni, nel novembre 2004.
Dopo la sua morte, l’ANP non ha alcun gruppo dirigente reale e credibile e, la scelta di investire nella successione, un burocrate scialbo come Mahmud Abbas, non fa che acuire le contraddizioni.
Contraddizioni che nel gennaio 2006 si traducono nella vittoria imponente di Hamas alle elezioni legislative.
Hamas, nel corso degli anni, si delineò come un’organizzazione assai pragmatica, ben lontana dall’estremismo confessionale che caratterizzava altre organizzazioni politiche di ispirazione islamica in altri Paesi arabi. In altri termini, essa portava avanti la lotta in nome di Allah, ma soprattutto contro Israele: infedele, ma anche occupante, o almeno in questo modo l’ha percepita la maggioranza della popolazione palestinese, soprattutto a Gaza.
Questo pragmatismo ha messo in sordina il suo carattere religioso. Anche perché, a differenza di altri Paesi arabi in cui lo scontro confessionale è più drammatico (l’Iraq), sia a Gaza che in Cisgiordania, l’omogeneità religiosa, ossia la stragrande maggioranza sunnita e una minoranza cristiana, ha permesso a Hamas di presentarsi innanzitutto e sostanzialmente ancora come l’organizzazione che privilegiava la resistenza agli accordi a tutti i costi.
Quando nel giugno 2007 forzando l’acceleratore dello scontro arrivò a cacciare gran parte dei dirigenti di Fatah, ancora presenti a Gaza, la situazione mutò radicalmente.
Questo mutamento consisteva fondamentalmente in due fattori: Hamas si trovava a gestire e non cogestire il potere, il blocco imposto da Israele, con la complicità esplicita di alcuni Paesi arabi, soprattutto l’Egitto, gli USA e l’Europa diventa totale.
L’ANP, dal canto suo, cerca di approfittare della divisione tra Cisgiordania e Gaza, ma nonostante tutto il conto è ancora sbagliato.
Da un lato, come abbiamo già detto, c’è l’incapacità di gestire in modo appropriato le risorse economiche di cui dispone, dall’altro, la volontà di non uscire dalla «logica di Oslo» porta l’ANP a restare, di fatto, estranea alla lotta quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania: dal Muro all’espansione delle colonie, alla sempre maggiore violenza dei coloni e dell’esercito.
Quando poco più di un anno fa l’ANP accettò l’aggressione israeliana contro Gaza, sperando le risolvesse, così, un po’ i problemi, essa per non precipitare nell’abisso dei propri errori,cercò goffamente di fare marcia indietro, ovviamente, senza riuscirci.
E gli scontri di questo drammatico inizio di primavera lo dimostrano.
Non possiamo prevedere ora se si andrà verso una «terza Intifada». Certo, il clima resta incandescente e, come abbiamo tentato di spiegare, molto più confuso rispetto al passato.
Prospettive

Oggi Hamas è certamente più in difficoltà.
Da un lato, per le conseguenze dell’aggressione e dell’assedio, come rilevato sopra, ma anche, se non soprattutto, perché è chiaro che una «stabilizzazione religiosa» che le consenta di conservare il controllo della Striscia, non è scontata.
La galassia dei gruppi «jihadisti», che si riconoscono nella rete di Al Qaida e che, come obiettivo, hanno la costituzione a Gaza di un emirato islamico, cresce e cerca di approfittare del fatto che, dopo la devastante aggressione del 2008-2009, il governo di Hamas a Gaza sta cercando una via d’uscita politica, non solo militare.
Questo, ovviamente, passa anche attraverso il cercare di fermare i lanci di razzi contro Israele, cosa che avviene utilizzando una forza di sicurezza interna di quindicimila agenti, che su una popolazione di un milione e mezzo di persone non è poca cosa.
Hamas cerca anche di edulcorare il proprio pragmatismo introducendo leggi che impediscono alle donne di andare in moto e ai parrucchieri di avere clientela femminile.
Inoltre, per garantirsi i fondi economici ha imposto una tassa sulle «merci di importazione» che a Gaza significa solo una cosa: tassare i beni di prima necessità che riescono ad entrare nella striscia dai tunnel sotterranei che la collegano all’Egitto.
Sulle prospettive occorre essere prudenti perché, nonostante la divisione tra Gaza e Cisgiordania, è chiaro che, è una pura illusione, poter pensare che queste due porzioni del popolo palestinese abbiano destini separati.
Sia in Cisgiordania e che a Gaza vanno formandosi delle nuove aggregazioni politiche diffuse in cui confluiscono sempre più persone. Queste non si possono però confondere con quella che in Occidente amiamo chiamare «società civile»  che significa niente, sia qui che lì.
L’organizzazione di comitati in Cisgiordania che nascono sempre più spesso per lottare contro il Muro, i check-point, la colonizzazione, che non di rado vedono anche la presenza di israeliani; e, la nascita, a Gaza dei comitati per la lotta contro la «zona cuscinetto» imposta da Israele, una vasta zona frontaliera che di fatto impedisce a molti contadini di lavorare quelle terre, tra le più fertili della striscia, sono lì a dimostrare, ancora una volta, che nulla si può dare per scontato in Palestina.
Ma tutti questi sono segnali da tenere presenti per poter comprendere  se ci potrà essere o no una terza Intifada sulle orme della prima.
Per altro, i giovani palestinesi che, nel mese di marzo, si sono più volte scontrati con l’esercito israeliano non fanno certo riferimento organico a Hamas, né, ovviamente, all’ANP.
Certo, i giovani palestinesi non hanno alcun timore di scontrarsi con uomini in divisa, siano israeliani o palestinesi, ma è anche vero che, se non troveranno una sponda politica adeguata alle loro richieste, ma solo un rimaneggiamento di vecchi slogan, magari sotto mentite e «nuove» spoglie, i loro sforzi, e certamente le loro vite, andranno sprecati.

07/04/2010

BOMBE SU GAZA

L’ennesimo massacro premeditato contro la striscia di Gaza, lanciato da Israele il 27 dicembre, che si prevede lungo e che nei primi tre giorni ha già provocato la morte di oltre 400 persone, è tutto tranne che un atto difensivo.
Certo, Israele aspettava un pretesto e dato che la tregua unilateralmente dichiarata da Hamas sei mesi fa reggeva, come ha ben ricostruito Joseph Halevi sul Manifesto del 30 dicembre, il 4 novembre scorso è stata formalmente rotta da Israele. Un copione ben noto. Come note erano le proporzioni, preannunciate da tutti gli alti papaveri del potere politico e militare israeliano, della vendetta contro la popolazione di Gaza architettata nei dettagli da lungo tempo.
Questo dato incontrovertibile smonta anche il debolissimo pretesto di Israele per lanciarsi in modo cannibale contro i palestinesi di Gaza.
Smonta anche i balbettii ipocriti di chi cerca in tutti i modi di nascondere le proprie responsabilità dietro i razzi Qassam. A volte è meglio il silenzio dell’ipocrisia!
Gli obiettivi del massacro
All’indomani dell’aggressione contro il Libano nel 2006, alcuni generali israeliani preannunciarono entro due anni una vendetta che lavasse l’onta della sconfitta politica e militare subita, nonostante la devastazione di un Paese intero.
I due anni coincidono con la fine dell’amministrazione statunitense guidata da Bush, artefice del più volgare oltranzismo pro sionista degli ultimi vent’anni. Qualcuno ricorderà che addirittura Reagan, nel 1982, dopo lo shock dell’assedio di Beirut e delle stragi di Sabra e Chatila, ricattò Begin, allora primo ministro israeliano, con una fornitura di F16 se non avesse almeno ritirato le truppe da Beirut.
Oggi in parte si ripete il copione dell’aggressione al Libano di due anni fa.
Dei civili, soli, affamati, disarmati contro tutti e nulla per difendersi. Nessuna pietà per un milione e mezzo di persone sotto embargo da oltre due anni. Una punizione collettiva di proporzioni enormi, che se fossimo in un mondo appena civile dovrebbe vedere alla sbarra per crimini contro l’umanità chi lo attua, Israele, chi lo sostiene, USA e Europa, e anche chi lo giustifica, anche solo parzialmente.
Ora i vertici militari e politici israeliani sono stati fin troppo chiari: Hamas deve essere «sradicato», il controllo della striscia di Gaza (o meglio di ciò che ne resterà…) deve passare all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen.
Questo è il vero obiettivo. Ormai troppe volte si è ripetuto che quel governo è legittimo perché esito di elezioni, il cui carattere democratico non è stato mai messo in dubbio da alcuno. Neanche da quella Hillary Clinton (all’epoca delle elezioni politiche palestinesi del gennaio 2006 faceva parte degli osservatori internazionali e si congratulò con i palestinesi per la gestione di quelle elezioni!), che sarà la prossima segretaria di Stato statunitense e che oggi non ha nulla da dire, come colui che l’ha chiamata a quella carica: Barak Hussein Obama. Il quale, è meglio ribadirlo, non rappresenta alcuna speranza per le aspirazioni legittime dei popoli che oggi lottano per la propria libertà. Egli, avrà, comunque, non poche gatte da pelare. Gatte da pelare tutte ampiamente meritate.
Certamente non sarà sufficiente spostare più truppe in Afghanistan, per togliersi dal pantano mediorientale, che ora dopo questi massacri indiscriminati diventerà ancora più ingestibile.
La «mano tesa» da Obama verso il dialogo con l’Iran, per ridurne la potenzialità regionale, rischia grosso di ricevere un morso.
Ancora una volta la compagnia degli apprendisti stregoni è destinata a non superare l’esame e restare a livello di apprendista.
I problemi interni allo Stato sionista che hanno pesato almeno quanto la resistenza di Hezbollah nella sconfitta del 2006 sono tutti interi e non risolti!
E ciò che è avvenuto nelle scorse settimane in Cisgiordania, con gli scontri tra i coloni e l’esercito israeliano, denuncia che le fratture interne alla società israeliana esploderanno e che questa vendetta per il momento è un tampone.
Come dicono i palestinesi, due israeliani non sono mai d’accordo su alcunché tranne che sull’ammazzare i palestinesi.
Sulla via di Abdallah I e di  Sadat
L’elemento più scandaloso, anche se non sorprendente, è l’aperta complicità dei Paesi arabi, cosiddetti moderati e della leadership dell’ANP in questo massacro.
Ripetiamo, non è sorprendente che Mubarak l’egiziano, Abdallah II il giordano e Mahmud Abbas il palestinese, pensino di poter sfruttare a loro vantaggio queste montagne di morti. Ciò che stupisce è la stupidità. Profonda.
Dopo aver avallato l’assalto, premurandosi di «chiedere che fosse breve e mirato» (sic!), Mahmud Abbas getta la maschera e fra le montagne di cadaveri di Gaza assume come propria la versione israeliana: tutta responsabilità di Hamas, se si fosse piegata al suo volere a Gaza oggi «fiorirebbe il deserto».
Come è stato opportunamente osservato, Abbas non può non sapere che ha un’unica possibilità di rientrare a Gaza: scortato dai mezzi corazzati israeliani. Che accoglienza si attende?
E mentre le piazze del mondo arabo si riempiono di migliaia di dimostranti contro l’assalto ma anche, e forse soprattutto, contro l’avallo arabo, possibile che a nessuno torni in mente la fine fatta da quel re Abdallah I di Giordania, ucciso da un palestinese a Gerusalemme nel 1951 dopo gli accordi raggiunti con Golda Meir; di Anwar Sadat, ucciso nel 1981 da un ufficiale dell’esercito egiziano, mentre pensava di raccogliere i frutti dell’entrata trionfale nella Knesset (il parlamento israeliano)? Evidentemente non ricordano e fanno molto male.
Fanno male perché la disperazione del tradimento esplicito e rivendicato può accendere micce ben più lunghe e veloci di molte altre cose.
Inoltre, l’Egitto si trova con un problema in più: dover respingere alla frontiera di Rafah donne, bambini e vecchi che cercano rifugio dai bombardamenti e i feriti che non possono più essere curati nei già disastrati ospedali di Gaza.
In Giordania si bruciano le bandiere israeliane, in parlamento.
Mentre nelle città della Cisgiordania i palestinesi tornano a lanciare pietre contro l’esercito israeliano e fare manifestazioni possenti e scioperi generalizzati.
I palestinesi di Cisgiordania sanno bene che la strategia di fondo di Israele è quella di sempre: «regalare» Gaza all’ANP per non dover fare «troppe concessioni» in Cisgiordania. Quanto tempo impiegheranno a rivoltarsi massicciamente, ben più di quanto non sia avvenuto fino ad oggi, contro la stessa autorità palestinese, la cui burocrazia è saldamente installata al governo di Ramallah?
Mahmud Abbas rischia di essere il leader palestinese più isolato dal suo popolo che la storia di questo popolo martoriato ricordi.
È chiaro, d’altronde, che l’ANP in Cisgiordania, oltre che a Gaza, ha perso qualsiasi capacità di «sentire il polso» della popolazione.
Se è vero che attraverso il sistema elettorale, in Cisgiordania, Fatah e l’ANP hanno una risicata maggioranza nelle istituzioni è bene ricordare che questa si basa ed è «protetta» dal fatto che decine di deputati eletti al parlamento e che sono espressione di Hamas, giacciono da anni nelle carceri israeliane, nel silenzio più totale. All’epoca degli arresti dei deputati e delle deputate da parte di Israele, esattamente come ora, l’ANP pensò di essere riuscita a togliersi dei problemi. O meglio, pensò di poter nascondere, prima di tutto a se stessa, un dato di fatto: nonostante tutto anche in Cisgiordania Hamas è ben più popolare di Fatah, delle forze della sinistra palestinese e di quelle che sono espressione della cosiddetta «società civile».
Dire questo non significa, in alcun modo, approvare incondizionatamente le strategie e le tattiche di Hamas. Ma ignorare questi dati significherà a breve farsi travolgere dagli eventi.
Eventi che evidentemente non possono, dati i presupposti, che essere favorevoli all’integralismo islamico…non solo in Palestina.
Noi e loro
Già in diverse occasioni abbiamo sottolineato che molte delle contraddizioni esplose in Medioriente all’indomani del 2001 e l’avvio, nel 2003, ufficiale del tentativo di ricolonizzare quella parte del mondo manu militari a partire dall’Iraq, si sono riflesse in Europa sotto forma di confusione quasi totale sulle loro implicazioni concrete.
Nelle ore immediatamente successive all’inizio dei massacri in non poche capitali europee manifestazioni organizzate in brevissimo tempo hanno visto la protesta di alcune migliaia di persone.
Londra, Parigi, Madrid, Ginevra e, anche se più debolmente che altrove, Roma. Certo è cosa importante. Soprattutto tenendo conto di due fattori importanti: fino a oggi dalle lotte contro i costi della crisi economica mondiale, la guerra sembrava espunta, come fosse un argomento a parte; l’ubriacatura mediatica sui «cambiamenti» che avrebbe portato con sé l’elezione di Barak Hussein Obama alla Casa Bianca.
Come non mai siamo, ora, in una fase in cui rischiamo anche in Europa di finire come il movimento «pacifista» israeliano che in maggioranza, come fu osservato giustamente tempo fa: ha il suo Vaticano a Washington. Questo rischio porta con sé, inoltre, anche un secondo elemento di grave incomprensione: perché larghe masse statunitensi hanno appoggiato Obama.
Ma restiamo a noi.
Nel quadrante mediorientale noi europei, non dimentichiamolo, siamo pesantemente presenti all’interno di una missione NATO/ONU in Libano.
Non possiamo pensare beatamente che nelle prossime settimane queste truppe «di pace» continuino a restare immuni dal conflitto.
Il Libano è stato, fin dalle prime ore del massacro a Gaza, uno dei Paesi arabi dove le manifestazioni sono state più massicce. E non possiamo dimenticare che il caos determinato dalla aggressione del 2006 ha determinato una situazione interna delicatissima e molto fragile: continuamente sul filo del rasoio.
È del tutto chiaro che in questa situazione chi si avvantaggerà è Hezbollah, che dal canto suo ha già promesso un «aiuto concreto» ai palestinesi di Gaza.
Ancora una volta, sembrerebbe, ripetersi senza troppe varianti lo scenario dell’estate del 2006. Con una variabile che ci coinvolge direttamente: le «nostre» truppe nel quadro di guerra.
Dovremmo, per una volta, fare lo sforzo di avere la lungimiranza e non aspettare che Israele allarghi il teatro delle aggressioni.
Chiedere ora il ritiro di quelle truppe NATO e lo smantellamento di quella missione è più urgente che mai. Non ci si può illudere, come avvenne miseramente nel 2006, che l’odierna «mediazione» europea porti a una qualche soluzione. Neanche ora che Ehud Barak, incallito criminale di guerra, «apre a una tregua umanitaria». Non confondiamo i termini delle questioni. A Gaza non c’è una «emergenza umanitaria», ma è in atto da anni un crimine di guerra. Quindi ciò che è da ribadire è che con i criminali di guerra, l’intero governo israeliano e i vertici dell’esercito, non si tratta!
Sarkozy, Kouchner, Merkel, Frattini (e con poche varianti Fassino e D’Alema), puntano solo a che non si allarghi lo scenario. Quando la Livni sbarcherà a Parigi il 2 gennaio, speriamo sia accolta da persona non grata e da un’accusa per crimini di guerra. Come chiedono da dentro Israele.
È una colossale balla la teoria che vuole che, ben inteso dopo lo «sradicamento» di Hamas o almeno il suo indebolimento, si possa «tornare alla via del dialogo». Per la sola, ma ottima ragione, che non esiste alcun dialogo interrotto.
Dopo il via libera totale avuto da Israele, non c’è alcuna ragione perché esso debba tornare sui suoi passi. Non lo indurrà a ciò neanche dovesse, speriamo di no, accadere qualche atto spettacolare di disperata reazione, con molte vittime civili israeliane.
Boicottaggio, sanzioni ed estromissione dalle istituzioni internazionali. Queste sono le sole richieste credibili per cercare di evitare che altre tragedie ben più gravi di quelle fin qui viste (compreso l’11 settembre 2001) si verifichino. 31 dicembre 2008

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