UN REGALO ALL’IRAN

di Jean-Pierre Filiu

Gli Stati Uniti hanno regalato l’Iraq all’Iran?

Gli Stati Uniti hanno perso 5.000 soldati e sperperato 1.000 miliardi di dollari dal 2003 in Iraq, per infine regalare questo Paese? La domanda è di bruciante attualità, perché il raid americano del 3 gennaio in cui è morto a Baghdad il generale Soleimani decapita, ma senza disorganizzarli, le potentissime reti pro iraniane in Iraq. La navigazione a vista dell’amministrazione Trump inoltre ha offerto all’Iran e ai suoi sostenitori, contestatissimi da settimane dalla popolazione locale, la possibilità di mobilitare contro il “Grande Satana” americano, e solo contro di esso, il nazionalismo iracheno che denunciava con forza l’egemonia iraniana. Un disastro simile tuttavia non si sarebbe potuto produrre senza sedici anni di politiche sbagliate degli Stati Uniti in Iraq, da cui l’Iran continua a trarre grande profitto.

L’apertura di Bush dell’Iraq all’Iran

Tutto preso dalla sua “guerra globale contro il terrorismo”, George W. Bush non comprese che eliminando il regime talebano nel 2001, poi rovesciando Saddam Hussein due anni dopo, liberava la Repubblica islamica dell’Iran da due nemici giurati alle sue frontiere. I guardiani della rivoluzione, forgiati nella resistenza all’aggressione irachena del 1980 contro l’Iran, hanno costruito le loro reti sulle rovine lasciate dall’invasione e dall’occupazione americana dell’Iraq. Hanno colmato metodicamente il vuoto lasciato nel 2003 da Washington, dopo lo scioglimento dell’esercito, l’espulsione dei membri del partito Baas e l’avvio della contro-guerriglia sunnita. I partiti pro-iraniani sono, per di più, i grandi beneficiari della creazione nel 2005, sotto l’egida americana, di un regime di tipo comunitario, in cui sono state privilegiate le milizie più forti e con più radicamento confessionale. È contro questo sistema iniquo e corrotto, imposto da Washington, di fatto favorevole all’Iran, che è esplosa la contestazione irachena fin dall’ottobre scorso.

La protezione delle milizie pro-iraniane da parte di Obama

Determinato a chiudere con l’eredità disastrosa dei suoi predecessori in Iraq, Barack Obama involontariamente ha aggravato l’ingranaggio pro-iraniano della politica del suo Paese. Rafforzando in questo modo la posizione del premier Nouri al-Maliki, un fanatico sciita, strettamente legato all’Iran (dove aveva vissuto a lungo in esilio), nella prospettiva del ritiro del contingente americano nel 2011. I guardiani della rivoluzione, dopo aver tessuto la loro tela nell’Iraq del dopo Saddam Hussein, ormai occupano lo spazio politico-militare sfruttando il disimpegno degli Stati Uniti. Inoltre, Maliki ha accentuato la discriminazione verso la comunità sunnita, cosa che ha permesso a Al Qaida, anche se sconfitta militarmente, di rigenerarsi in Daesh, quello che in modo scorretto viene definito “Stato Islamico”. Lo sbandamento dell’esercito iracheno contro Daesh a Mosul, nel 2014, ha provocato come reazione l’insorgenza delle milizie sciite chiamate di “mobilitazione popolare”. Le loro componenti più efficaci sono inquadrate dai guardiani della rivoluzione e organicamente legate all’Iran. Queste hanno beneficiato nella lotta anti jihadista, della copertura aerea degli Stati Uniti, cosa che ha permesso loro di estendere il loro territorio e la loro influenza, sotto l’autorità del generale Soleimani. La lotta contro Daesh infine ha offerto a Teheran la possibilità di combinare l’azione dei sui affiliati nel teatro iracheno e siriano, dove le milizie pro-iraniane arrivate dall’Iraq hanno svolto un ruolo sempre più importante, in particolare nella battaglia di Aleppo.

La negazione del popolo iracheno da parte di Trump

Donald Trump ha ereditato da quel momento una politica estera in cui gli Stati Uniti intervengono con le forze aeree, controllando un certo numero di snodi aeroportuali da cui decollano i loro aerei, mentre l’Iran ha installato diversi satelliti e strumenti di pressione a Baghdad e nel resto del Paese. Un primo segnale è arrivato dall’ottobre del 2017: il referendum per l’indipendenza dei curdi dell’Iraq alleati storici degli Stati Uniti, ha scatenato un’offensiva delle milizie pro-iraniane che si sono impadronite di Kirkuk e delle sue straordinarie risorse petrolifere. I curdi dell’Iraq sono stati infine obbligati ad abbandonare il loro sogno separatista per negoziare, a condizioni largamente dettate da Teheran, la fine delle sanzioni loro imposte dal potere centrale. La rivolta democratica che scuote l’Iraq dall’ottobre 2019 avrebbe potuto rappresentare una vera opportunità affinché gli Stati Uniti si riallineassero con la realtà popolare in questo Paese. La forza della denuncia dell’ingerenza dell’Iran è infatti il tratto dominante di questa ondata di proteste, anche nel Sud a grande maggioranza sciita del Paese (i consolati iraniani nelle città sante dello sciismo, Kerbala e Najaf, sono diventati i bersagli di questa rabbia patriottica).

Ma Trump appare rapidamente incapace di considerare l’Iraq se non come un campo di manovra contro l’Iran. La sua decisione, come rappresaglia per la morte di un mercenario americano a Kirkuk, di bombardare delle postazioni di milizie pro-iraniane in Iraq ha provocato l’attacco all’ambasciata americana a Baghdad; Washington si è vendicata liquidando Soleimani, fino a ieri protetto dall’aviazione americana che questa volta lo ha eliminato. Questo raid senza precedenti è considerato dal regime iraniano e dai suoi alleati arabi come una vera e propria dichiarazione di guerra, con la tentazione di rispondere ben al di là dell’Iraq. Una simile escalation non poteva arrivare in condizioni peggiori per la contestazione popolare in Iraq e il suo tentativo di allentare la morsa iraniana sul Paese. Quanto al primo ministro iracheno, ha partecipato il 4 gennaio a Baghdad all’omaggio reso a Soleimani in un mare di bandiere delle milizie pro-iraniane e con lo sfondo di slogan antiamericani. L’indomani, il parlamento iracheno, ha votato con l’unanimità dei 170 deputati presenti (sui 328), a favore del ritiro immediato dei 5.000 soldati americani ancora presenti in Iraq, nel quadro della lotta contro Daesh.

Gli Stati Uniti non possono che rimproverare se stessi, con tre amministrazioni successive, per aver in questo modo spinto il Medio Oriente sull’orlo del baratro. Ma saranno le donne e gli uomini dell’Iraq e forse del resto della regione che ne pagano e ne pagheranno il prezzo più alto.

Da Le Monde, 5 gennaio 2020

Traduzione di Cinzia Nachira

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