LA “NUOVA PALESTINA”. NON DENARO MA LIBERTA’

di Cinzia Nachira

Ci risiamo, ancora una volta un presidente statunitense annuncia di avere pronto un piano di pace che dovrebbe mettere fine al conflitto israelo-palestinese. Questa volta, con la consueta arroganza e spavalderia, Donald Trump lo definisce “l’accordo del secolo”. Jared Kushner, genero del presidente e consigliere per il Medioriente, ha partorito una bella alzata d’ingegno: eliminare dal tavolo delle trattative la “questione politica” puntando tutto sull’economia. Come se politica ed economia viaggiassero su binari paralleli e potessero ignorarsi a vicenda, assunto assai diffuso ma altrettanto falso. Infatti, anche Aaron David Miller, ex consigliere delle passate amministrazioni sia democratiche che repubblicane per il Medioriente, ha commentato su Twitter il piano di Donald Trump e l’idea di Jared Kushner con queste parole: “Il problema economico dei palestinesi non è una mancanza di denaro; è una mancanza di libertà” [1].

Volendo essere rapidi i commenti potrebbero chiudersi qui. Ma non è possibile.

Per decenni Israele e Palestina hanno rappresentato il cuore dei problemi mediorientali e si credeva che la soluzione di quel conflitto fosse la chiave per “pacificare” la regione. Ma anche questo non è stato altro che un pretesto per non vedere che il restante mondo arabo non aveva come unica bussola la sorte della Palestina. Certo, la sorte di quel Paese è stata determinante in molte fasi e per alcuni aspetti lo è ancora. Ma le rivolte arabe scoppiate nel 2011 e che si sono estese come un incendio in tutta la regione ed alche altrove, hanno ampiamente dimostrato che il conflitto israelo-palestinese per quanto importante non poteva coprire le diverse situazioni interne ai diversi Paesi. Specularmente, anche i palestinesi, per quanto in modo assai marginale, come era inevitabile sono stati coinvolti.

La marginalità dei palestinesi nelle vicende che stanno scuotendo il mondo arabo dal 2011 ha tre ragioni. Innanzitutto l’occupazione israeliana, in secondo luogo la natura delle due leadership palestinesi che governano a Gaza, Hamas, e in Cisgiordania, l’ANP, la prima legata ai fratelli musulmani e alle loro sorti nella regione (ci torneremo fra breve) mentre la seconda legata ai vecchi regimi contestati nelle piazze. Il terzo elemento è rappresentato dalla divisione tra i palestinesi dopo lo scoppio della guerra civile siriana.

Durante i venticinque giorni di proteste che si conclusero con le dimissioni di Hosni Mubarak in Egitto (dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011), Mahmud Abbas si precipitò ad esprimergli solidarietà, come aveva precedentemente fatto con Ben Ali, il dittatore tunisino, anch’egli costretto alle dimissioni. L’atteggiamento delle due direzioni politiche palestinesi era la logica conseguenza del timore che anche i palestinesi potessero, pur preservando le loro peculiarità, rivoltarsi contro di loro. Perché né in Cisgiordania, né nella Striscia di Gaza difettano crisi economica, politica e corruzione e sia l’ANP che Hamas sanno bene che il giorno in cui la pressione e la repressione israeliana dovesse allentarsi, le loro debolezze e contraddizioni non potrebbero più essere nascoste. In questo c’è un perverso interesse reciproco con Israele.

Ora con il cosiddetto “accordo del secolo”, l’amministrazione statunitense tenta di coronare definitivamente quel processo di resa incondizionato della leadership dell’ANP iniziato con l’accettazione del piano di pace di Oslo nel 1994. Puntare sulla crisi economica, che a Gaza è ormai crisi umanitaria disastrosa da anni, cercando di “eliminare” il piano politico di tutta la vicenda significa sperare che la disperazione e la rassegnazione prevalgano definitivamente tra i palestinesi; rendendoli pronti ad accettare qualunque cosa, anche un’eventuale nuova ondata di espulsioni di massa dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est e dei palestinesi israeliani, cosa cui punta Israele.

D’altronde, questo piano statunitense ha il pieno appoggio dei Paesi arabi e non poteva essere diversamente. Innanzitutto, perché dei 50 miliardi di dollari promessi quasi la metà sarebbero per i Paesi confinanti e che ospitano gran parte dei milioni di profughi palestinesi: Libano e Giordania ed Egitto. Paesi, questi ultimi, con gravi crisi politiche interne e in grandi difficoltà economiche, nonché dove c’è anche una buona parte dei profughi siriani. Ma ciò nonostante il lancio ufficiale di questa parte del piano a Manama in Bahrein è probabile sia una farsa come tante già ne sono state fatte. Infatti, tutte le delegazioni presenti saranno di basso profilo e soprattutto non vi saranno i palestinesi, che hanno rifiutato, almeno per ora, questa follia e per una sorta di par condicio Israele è stato invitato a inviare una delegazione di basso e non d’alto rango. Altrettanto faranno i Paesi arabi. Insomma sembra si stia preparando un seminario fra burocrati finanziari che avranno il compito di capire fino a che punto questo “piano del secolo” sia effettivamente realizzabile.

Per riprendere le parole di Aaron David Miller, siccome però la questione economica è soprattutto quella della libertà, il vero punto resta la parte del piano non resa pubblica, quella politica di cui però sono filtrate sulla stampa israeliana alcune indiscrezioni e che se dovessero corrispondere alla realtà significherebbero non solo la resa incondizionata dei palestinesi, ma la pura e semplice chiusura del dossier palestinese. Lo scambio di denaro in cambio della rinuncia a qualsiasi aspirazione palestinese è il punto. Molte altre volte i palestinesi si sono trovati di fronte a un bivio simile e le loro concessioni seppure non totali hanno spianato la strada a questa tragica conclusione cui oggi rischiano di trovarsi. Sicuramente, oggi le due direzioni palestinesi sono le più deboli e ricattabili dell’intera storia della Palestina fin dal mandato britannico. Quando nel 2000 Yasser Arafat rifiutò di firmare gli accordi di Camp David 2, poteva contare ancora su una residua credibilità della leadership storica che rappresentava, ma oggi Mahmud Abbas, come i leader di Hamas, sono in condizioni peggiori. Soprattutto ciò che rischia di aprire definitivamente le porte dell’abisso è il fatto che continua a mancare un’alternativa credibile all’ANP e a Hamas, senza la quale però tutto andrà drammaticamente perduto. E qui non si tratta di schierarsi a favore della cosiddetta “soluzione a due Stati” e per uno Stato unico (anche perché a leggere la parte politica del piano proposto da Jared Kushner e Donald Trump è la prefigurazione di quest’ultimo consolidando ciò che è diventata l’occupazione israeliana dal 1994 ad oggi). Si tratta di non rinunciare alla stessa esistenza dei palestinesi.

Il terzo elemento, gli effetti della tragedia siriana sui palestinesi, come anche sulle “soluzioni” avanzate dall’Occidente, è di gran lunga più significativo di quanto noi siamo disposti a credere ed ammettere.

Il 26 giugno 2019 in un grande hotel di Gerusalemme Benjamin Netanyahu ha lanciato la cosiddetta “Trilaterale della stabilità”. Questo incontro tra Israele, Russia e Stati Uniti a cui hanno partecipato John Bolton, consigliere per la sicurezza statunitense insieme a quello russo Nikolai Patrushev e quello israeliano Meir Ben Shabbat ha lo scopo di rendere definitivo il nuovo ruolo delle diverse potenze extra regionali in Medioriente, che sembra preludere ad uno sganciamento sempre più marcato degli Stati Uniti del ruolo centrale avuto fin dalla seconda guerra mondiale a favore della Russia, che con il suo massiccio e diretto intervento in Siria nel 2015 al fianco del dittatore Bashar Al Assad insieme all’Iran e a Hezbollah libanese ha rotto gli indugi ritagliandosi sempre più ampi spazi di influenza nella regione. La stabilità perseguita da questa nuova e per certi aspetti inedita Trilaterale ha come primo obiettivo quello di ridurre per quanto possibile il ruolo dell’Iran in Siria. Cosa che la Russia, alleato dell’Iran, è disposta anche a concedere purché nessuno tocchi Assad, ossia Israele la smetta di attaccarlo ciclicamente con l’alibi di Hezbollah, antico nemico. In questo senso, gli ultimi scontri tra Iran e Stati Uniti (iniziati con gli attacchi alle petroliere nel Golfo dell’Oman, seguiti dall’abbattimento del drone statunitense e conclusi con l’attacco prima ordinato e poi ritirato all’ultimo momento da Trump contro l’Iran per ritorsione), sicuramente hanno spinto la Russia a far concessioni più significative che in passato perché un’alleanza per quanto importante come quella con l’Iran è comunque sacrificabile – almeno parzialmente – se in gioco c’è tutto quello che si è acquisito negli ultimi quattro anni. 

Questi due incontri, quello in Bahrein e quello a Gerusalemme sono in realtà le due facce della stessa medaglia, perché la cancellazione definitiva di ogni diritto dei palestinesi non può realizzarsi che con l’assenso della Russia, ossia togliere alle due direzioni palestinesi ogni appiglio, anche solo formale. La nuova “Trilaterale per la stabilità” e il piano statunitense che dovrebbe preludere alla creazione della “Nuova Palestina” [2] sono intrecciati perché il secondo senza la prima rischia di non avere un futuro. A tutto questo occorre anche aggiungere che Benjamin Netanyahu tenterà fino alla fine di arrivare alla nuova scadenza elettorale con una carta importante: passare alla storia come colui che ha definitivamente coronato il progetto di colonizzazione sionista al di là di ogni previsione dei fondatori a partire da David Ben Gurion.

Questo scenario da incubo è possibile si realizzi grazie proprio al fatto che in questo momento nell’insieme della regione sono trionfanti i vecchi regimi. Quindi si potrebbe dire: ora o mai più. Ma anche dovesse concretizzarsi questo doppio piano di una rinnovata spartizione del Medio Oriente (non a caso alcuni hanno definito l’incontro a Gerusalemme una nuova Sykes-Picot – gli accordi che nel 1916 spartirono il Medio Oriente tra Francia e Gran Bretagna), l’unica speranza risiede ancora una volta nel fatto che il processo iniziato nel 2011 è di lungo periodo. A dimostrarlo sono lì le nuove ondate rivoluzionarie in Algeria e in Sudan. Le ragioni profonde delle rivolte arabe non sono state né affrontate, né risolte. Se a questo si aggiungerà anche la definitiva sconfitta dei palestinesi ciò potrà portare a nuove esplosioni. Per questo le incognite dell’equazione “soldi in cambio della rinuncia dei diritti fondamentali” sono assai più numerose e pericolose di quanto si creda.

[1] Cit. in. Josef Federman, US economic plan for Mideast peace met by harsh criticism, in “The Washington Post”, 23 giugno 2019: https://www.washingtonpost.com/world/middle_east/netanyahu-ally-says-west-bank-gaza-corridor-irrelevant/2019/06/23/1ef98170-95b1-11e9-9a16-dc551ea5a43b_story.html?fbclid=IwAR2cCP3DluPt1rPf4mTIO58lbeYPL7nw2KMxJonMZjdZM53jqH0HnGRhLPg&noredirect=on&utm_term=.aadfd4daf2a3

[2] Cfr: https://www.askanews.it/esteri/2019/05/07/giornale-israeliano-svela-piano-pace-trumpgerusalemme-condivisa-pn_20190507_00174/ e anche https://www.israeltoday.co.il/read/white-house-reveals-mideast-economic-peace-plan/

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