di Antonella Napoli
Anche questa volta, grazie alla vicinanza e al sostegno di Articolo 21 e della Federazione nazionale della stampa, mi è stata manifestata grande solidarietà per le nuove minacce ricevute attraverso una lettera di estremisti islamici spedita proprio alla sede della Fnsi.
Ma la questione non è “minacce e solidarietà a Antonella Napoli”…
Siamo di fronte a un attacco al diritto all’informazione senza precedenti.
Mai, mai, in 15 anni che mi occupo di Sudan mi erano arrivate minacce di questa gravità. È evidente che ormai internet, i social, abbiano annullato ogni distanza e favoriscano l’individuazione di quei profili, da parte di estremisti, ritenuti ostili e che decidano di intimidirli o di colpirli.
A fronte di ciò l’unica azione che possa evitare l’isolamento di chi racconta vicende e storie che si vorrebbe relegare in un cono d’ombra è quella di amplificarne la diffusione.
Dopo aver scritto il primo giorno un articolo per il Corriere, alle nuove proposte l’interesse per il Sudan era già finito.
Ieri ho pubblicato su Focus on Africa il pezzo che trovate allegato in cui troverete tutte le informazioni che vi possono dare la misura della tragedia che si sta consumando nel Paese.
Ecco, se volete manifestarmi solidarietà in modo concreto, condividete, utilizzate, elaborate le mie parole, riprendere le mie inchieste.
Solo così non mi lascerete da sola.
Uccisi e gettati nel Nilo, sale a 108 bilancio vittime a Khartoum. 300 in tutto il Sudan
Stanno spuntando uno alla volta dal Nilo. Nonostante i mattoni legati alle gambe, i corpi di decine di manifestanti uccisi nel corso dell’assalto delle milizie agli ordini del Consiglio transitorio militare riemergono portando a galla tutto l’orrore che si sta consumando in queste ore a Khartoum. Non meno di 108 le vittime nella capitale del Sudan, 300 in tutto il Paese dove centinaia di migliaia di persone continuano a manifestare chiedendo l’avvio di un governo civile dopo la caduta del regime del presidente Omar Hassan al Bashir. Oltre 700 i feriti. E poi ci sono gli ‘scomparsi’. Anche attivisti e medici che al momento dell’attacco non erano al sit-in ma di cui non si sa più nulla, come Mohammed Naji, i fratelli Musab e Ahmed al-Dai Bishara, quest’ultimo anche giornalista, e Hashim Wad Galiba.
L’attacco pianificato dalle Rapid support force, con il sostegno dei Servizi di sicurezza e intelligence e della milizia islamista di AbdelHai, per una ‘potenza di fuoco’ di 10.000 uomini, è iniziato alle prime luci dell’alba di lunedì. I manifestanti nelle tende davanti al quartier generale dell’esercito sono stati colti di sorpresa. I primi sono stati picchiati picchiati a morte e gettati con dei pesi nel Nilo. Alcuni fatti a pezzi con machete. Altri bruciati vivi nei rifugi in cui passavano la notte per non lasciare il presidio. Poi sono iniziati gli spari.
Chi ha provato a fuggire è stato rincorso fin negli ospedali.
Le donne, prima di essere uccise, stuprate. Non solo le attiviste e le dottoresse che prestavano soccorso ai feriti ma anche le ‘signore del tè’ che erano lì solo per guadagnare qualche pounds sudanese.
Che qualcosa di grave stesse per avvenire era nell’aria da giorni e quando dalle 16 di domenica scorsa i veicoli dei militari davanti al ministero della Difesa sono stati sostituiti con quelli delle Rapid Support Force, i leader delle rivolte hanno capito che un attacco era imminente. Ma hanno chiesto a tutti i manifestanti di non lasciare il sit-in e hanno lanciato un appello per chiedere ad altri di raggiungere Nile Street.
È stato un massacro.
Uno schema già visto, atrocità perpetrate decine, centinaia, migliaia di volte in Darfur come sui Monti Nuba e in tutte le altre regioni sudanesi dove il governo di Bashir, prima, e la Giunta militare che lo ha deposto, oggi, hanno utilizzato miliziani, i famigerati janjaweed, che hanno cambiato nome ma mantenuto gli stessi metodi per reprimere il dissenso e sgomberare aree di cui volevano il controllo.
Finita l’era del regime precedente, il Sudan è caduto nelle mani di assassini altrettanto feroci.
E il braccio armato sotto il comando del generale Mohamed Hamdan Dagalo (nella foto) meglio conosciuto come ‘Hemeti’, è pronto a colpire ancora.
È dunque evidente che a guidare il Consiglio militare di transizione non sia il generale Abdel Fattah al-Burhan, ritenuto dalla crociera civile il ‘meno compromesso’ con il vecchio sistema, ma Hemeti, l’uomo forte che controlla le squadre della morte e che è in grado di mobilitare in qualsiasi angolo del Sudan.
Appare surreale, in tale contesto, l’annuncio del Cmt di voler istituire un’inchiesta sui fatti delle ultime 48 ore e di essere pronto a riprendere colloqui senza condizioni con i gruppi di opposizione.
Ma questi ultimi non hanno alcuna intenzione di intavolare nuove trattative con chi si è macchiato le mani del sangue di centinaia di sudanesi. “Prima di qualsiasi negoziato, serve giustizia”. È la ferma posizione dell’Associazione dei professionisti sudanesi che ha annunciato una resistenza, una forma di disobbedii che resta non violenta.
Nel frattempo, la diplomazia internazionale ha mostrato ancora una volta la propria inerzia. Nella seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu sul Sudan, riunito a porte chiuse, la Cina sostenuta dalla Russia, ha posto il veto su una risoluzione di condanna per violenze e che impegnava i paesi membri dell’Assemblea a fare pressioni sulla Giunta militare affinché cedesse il potere ai civili. Alla fine dal Palazzo di vetro è uscita solo una dichiarazione nel quale si ‘invita’ le parti a un ritorno al negoziato.
Ma non sembra sia questa la strada che i militari intendono intraprendere. Come dimostra l’arresto di numerosi oppositori ed esponenti delle Forze per il cambiamento e le libertà, tra cui Yasir Arman, vice comandante del Sudan people’s Liberation Movement-North prelevato da agenti del Niss, dall’abitazione dove si trovava a Khartoum, dopo essere stato picchiato. L’esponente della ribellione sudanese era rientrato nel Paese il 26 maggio per prendere parte ai colloqui tra i leader della protesta popolare e i militari dopo la fine del regime trentennale di Bashir. Il Splm-N combatte contro le truppe governative negli Stati del Blu Nilo e del Kordofan Meridionale dal 2011. Sostenitore del fronte delle rivolte, all’arresto del presidente Bashir aveva ordinato un cessate il fuoco di tre mesi.
Ora, dopo l’escalation di proteste, questo impegno potrebbe venir meno alimentando nuove violenze e seminando ancora morte.
5 giugno 2019
Tratto da: focusonafrica.info