USA: UNA VITTORIA PER NIENTE MERITATA

Intervista a Keith Mann

Primo test elettorale per Trump dopo la sua sorprendente vittoria nel 2016, le elezioni di Mid term dello scorso 6 novembre confermano l’approfondirsi della crisi istituzionale negli Stati Uniti. Obbligato dal fatto che non dispone della maggioranza nelle due Camere -il Senato resta a maggioranza repubblicano- a dover governare per decreto, Trump vede così le sue prerogative largamente limitate. Il che, vista l’imprevedibilità del personaggio – che Samuel Faber, professore emerito dell’università di Berkeley definisce un lumpencapitalista -, lascia presagire un aggravarsi durante i prossimi due anni degli scontri con la camera dei rappresentanti.

Quale sia la portata dei risultati del sei novembre, ce lo spiega Keith Mann, dirigente di Solidarity una formazione della sinistra radicale che partecipa alla costruzione dei Democrat Socialist of America.

Intervista e note di Paolo Gilardi

RProject: Le elezioni di martedì scorso: una vittoria del partito democratico?

Keith Mann: Sì e no. No, se si pensa che i democratici dicevano di essere in grado  prendere il controllo anche del Senato e non solo della Camera dei rappresentanti. Però, francamente, non ci credevano nemmeno loro. E in questo senso, si può dire che la vittoria democratica c’é stata per davvero. In maggioranza alla Camera sono in grado di bloccare i progetti più oltranzisti di Trump nella misura in cui le leggi devono essere approvate dalle due Camere del parlamento. E possono pure dare inizio alla procedura di impeachement anche se, non avendo la maggioranza dei due terzi richiesta al Senato, questo sembra cosa impossibile. E poi, e ciò conta per un partito dell’establishment, avranno il controllo delle influenti commissioni del Congresso.. Quindi, vera vittoria democratica, sì, ma per niente meritata.

RP: Cioè?

KM: I democratici hanno fatto tutto quanto potevano per evitare di polarizzare queste elezioni. Si trattava per loro di ribaltare la maggioranza, mica la politica degli Stati Uniti. L’esempio della difesa dell’Obama care é interessante. Durante la sua campagna nel 2016, Sanders era stato molto più radicale nella difesa dell’estensione a tutti della protezione contro i costi della sanità, mentre quest’anno i democratici si sono limitati a difendere la legge così com’é oggi. Niente di più. Certo, l’Obama care così com’é ha permesso a milioni di persone di assicurarsi, ma non é una ragione per non andare oltre, perché ci sono pur sempre più di trenta milioni di persone non hanno nessuna copertura sanitaria. E’ per questo che dico che la vittoria non é meritata.

RP: Non meritata, ma soddisfazione per aver tolto la metà dei comandi a Trump, no?

KM: D’accordo, sì. Però, malgrado il fatto che si presentino come gli ultimi baluardi contro la distruzione delle politiche sociali, i democratici restano un partito capitalista. Un partito capitalista e dell’ordine istituzionale. La loro logica è evidente. Secondo loro, il nodo centrale è rappresentato dalla Corte suprema, a maggioranza conservatrice. Perciò il messaggio agli elettori é chiaro: “avessimo avuto la maggioranza al Congresso, il giudice Kavanaugh non sarebbe stato eletto. Quindi…” Il problema però è che la Corte suprema non è un’istituzione impermeabile alle spinte venute dalla società, anzi.
Per esempio non è un caso se fu nel 1973 che prese  la famosa decisione in favore del diritto all’aborto (1): in quegli anni, le piazze erano occupate dalle manifestazioni del movimento di liberazione delle donne.
Oggi, invece, si alimenta l’illusione di poter cambiare le cose grazie alla pressione parlamentare mettendo in evidenza il fatto che il numero di donne elette in Parlamento non é mai stato tanto importante. Invece, é la mobilitazione sociale che bisogna costruire.

RP: C’é però un fatto incontestabile: i lavoratori, le tute blu, hanno votato repubblicano, cioè Trump…

KM: Sì, certo. Ma c’é da dire che, al di là della personalità di Trump, qui negli USA, le differenze tra i due grandi partiti capitalisti non saltano agli occhi. Quindi il voto operaio in favore di Trump è da relativizzare. Inoltre, non è un voto consolidato: nel 2008 e nel 2012 le tute blu avevano votato per Obama; alle primarie del 2016 avevano massicciamente votato per Sanders, prima di riportare su Trump in novembre il loro voto contro Clinton. Quindi non penso che questi settori di salariati siano condannati ad essere a lungo favorevoli a Trump.
C’é poi da dire che il protezionismo praticato da Trump incomincia a mostrare i suoi limiti: infatti è sulla popolazione laboriosa in generale e sui lavoratori in particolare che gli effetti si fanno sentire. L’aumento delle tasse sui prodotti importati dalla Cina si traduce in un aumento dei prezzi -dei generi alimentari, ma anche dell’acciaio- senza però che i salari aumentino…

RP: Ed è agitando temi sociali che Trump riesce a fare diversione?

KM: Chiaramente. E’ ricorrendo ai temi dell’ala più reazionaria della sua base che Trump ha organizzato la mobilitazione del suo elettorato. La violenza della campagna contro l’immigrazione, l’annullamento del riconoscimento giuridico delle persone transgender, la stigmatizzazione delle persone povere -e di colore- ne sono gli esempi. In questo caso Trump agisce anche sulla destabilizzazione del maschio bianco tradizionale che ha l’impressione di perdere il suo ruolo nella società.

Va inoltre detto che, ed il massacro di ebrei nella sinagoga di Pittsburgh ce lo rammenta tragicamente, le ambiguità di Trump e della sua corte in materia di antisemitismo sono gravissime. L’insediamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme avviene nel momento stesso in cui, negli Stati Uniti, la trumpiana rete conservatrice Fox News, denuncia la “sororsizzazione” dell’America. E’ il suo giornalista vedette, Lou Dobbs che dà ampio spazio nei suoi programmi alla campagna contro George Soros il “miliardario globalist amico dei democratici” che finanzierebbe la marcia dei centro-americani verso il Nord. Ritroviamo qui i classici elementi dell’antisemitismo: negli anni trenta, l’origine di tutti i mali era attribuirto al plutocrate, cosmopolita ed ebreo. Nell’America di Trump, i termini cambiano: il plutocrate é diventato miliardario, il cosmopolita, globalist, ma l’ebreo resta … ebreo.

RP: Nel contempo però, il numero di donne elette aumenta, per la prima volta una musulmana entra in parlamento, così come un certo numero di LGTB. C’è poi l’esperienza di Alexandria Ocasio-Cortez, a Nuova York. Lavoratrice di 29 anni, dichiaratamente socialista ha non solamente sconfitto alle primarie Joe Crowley, un pilastro dell’establishement democratico deputato da vent’anni, ma ha anche vinto il seggio diventando la più giovane eletta. Incoraggiante, no?

KM: Sì, però non illudiamoci. Le pressioni dell’establishement democratico saranno enormi. Ed hanno già avuto effetto nella misura in cui Ocasio-Cortez s’è schierata a favore del governatore Cuomo (2), uno splendido esemplare dell’apparato democratico ben lontano dalle posizioni difese da Democrats socialist of America, DSA, l’organizzazione di cui Ocasio-Cortez, come me, fa parte.

RP: Per l’appunto, DSA. Parliamone…

KM: E’ qualcosa di importante. Già ne avevamo parlato [intervista Rproject novembre 2017], ma il fenomeno si sta ampliando. Pensa un po’: nel 2016, DSA aveva circa 5000 membri. Oggi siamo più di 50’000 ed le adesioni, soprattutto di giovani, continuano. La sete di politica è grande in queste nuove generazioni. La campagna di Sanders due anni fa ha permesso una grande visibilità del concetto di socialismo. Cosa però significhi questo concetto resta confuso, così come confuse sono le strategie.

RP: Cioè? Entrare nel partito democratico per rafforzarne l’ala sinistra?

KM: Per una parte dei militanti la tattica è questa. Per tantissimi altri, ed anche per me, non lo è. La tattica – entrare o no nel partito democratico – non deve far passare in secondo piano la ricerca di soluzioni fondamentali. In questo senso, un dibattito strategico è aperto all’interno di DSA non sul tema “riforma o rivoluzione”, ma su “capitalismo o socialismo”. La prima alternativa supponeva una scelta strategica tra la riforma progressiva del capitalismo o la rivoluzione quale via al socialismo, fermo restando che quest’ultimo era la prospettiva. Qui, oggi, è la scelta socialista contro il capitalismo che si deve fare. Rinunciando, of course, a creare illusioni sul partito democratico.

RP: Come per la Corte suprema, il contesto dello scontro sociale potrà favorire o meno questo dibattito.

KM: Ed è qui che il dente duole. Infatti, la crisi di legittimità del progetto capitalista non si traduce in movimenti organizzati su larga scala. Io, a quell’epoca ero ancora troppo giovane, però da quanto leggo, il movimento contro la guerra in Vietnam così come quello in favore dei diritti civili ebbero una portata immensa. E le tematiche agitate da quei movimenti attraversavano tutto lo spazio pubblico. A pranzo, a cena, nelle famiglie, si parlava del Vietnam, il tema era una preoccupazione pubblica. Oggi, invece…

Però, mai dire “mai”, forse passate le elezioni il movimento sociale ritroverà vigore. Una prima scadenza sarà quella della mobilitazione delle donne contro Trump il 21 gennaio prossimo.

Note

(1) Decisione Roe v. Wade della Corte suprema del 1973 e che lascia alla donna incinta durante i primi tre mesi di gravidanza il diritto di portala a termine o no, cioè di partorire o abortire [nota PG].

(2) Andrew Cuomo, figlio dell’ex-governatore dello stato di New York, Mario Cuomo, ministro dell’alloggio durante il secondo governo Clinton, marito durante quattordici anni di una Kennedy, figlia di Robert, governatore dello stato di  New-York dal 2011. Dopo aver sconfitto alla primaria l’attrice Cynthia Nixon dell’ala sinistra del partito democratico, é stato rieletto governatore martedì scorso [nota PG]

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