QUANDO A SINISTRA LA COERENZA NON E’ UNA VIRTU’

di Cinzia Nachira

La strage di ragazzi disarmati al confine tra la Striscia di Gaza e Israele ha messo in difficoltà Israele e chi lo sostiene? Purtroppo temiamo molto poco, per diversi motivi. Innanzitutto, le stragi di civili, soprattutto nella Striscia di Gaza, non sono una novità. Ciò che ha messo in imbarazzo non tanto Israele quanto coloro che lo sostengono in maniera più o meno esplicita è il fatto che, come non si vedeva da molti anni, circa trentamila palestinesi residenti a Gaza hanno realizzato una marcia pacifica. Nelle settimane precedenti al 30 marzo, ricorrenza della “giornata della Terra” (che ricorda l’eccidio di tredici palestinesi uccisi nel 1976 mentre lottavano contro la colonizzazione in Galilea), un gruppo di giovani ha cominciato ad innalzare tende e gazebo poco distanti dalla barriera che divide la Striscia di Gaza da Israele. Questa iniziativa non sembra legata a direttive politiche né di Hamas né dell’ANP, che da qualche mese ha ripreso il controllo di Gaza, di fatto scalzando Hamas. Ovviamente, quest’ultimo, visto che l’iniziativa al confine cresceva di giorno in giorno, non poteva esimersi dal tentativo di assumerne in qualche modo la paternità; come d’altronde Fatah è stato costretto, per quanto tiepidamente, a denunciare il cecchinaggio israeliano e a rinunciare al braccio di ferro con Hamas.

La stragrande maggioranza dei commenti si è concentrata sul fatto – ripetiamo non nuovo – che i soldati israeliani hanno sparato sulla folla disarmata assassinando decine di giovani ragazzi e ferendone più o meno gravemente diverse migliaia. Certamente questo aspetto è il più scandaloso perché il governo israeliano pretende di “giustificare” i cecchini in divisa con la “difesa della sovranità nazionale” e con l’argomento del tutto infondato che i palestinesi “vorrebbero invadere Israele visto che le colonie nella Striscia di Gaza sono state evacuate nel 2005”. Quindi in buona sostanza: cosa vogliono di più? Coloro che raccolgono la tesi secondo cui i soldati israeliani sarebbero stati “provocati” dai palestinesi perché in decine di migliaia e disarmati si sono riversati verso la barriera di confine, forse neanche si rendono conto di sfiorare il ridicolo e di essere senza alcuna dignità. È più semplice poter giustificare le stragi di civili quando queste sono presentate come rappresaglie per razzi sparati da questa o quella organizzazione integralista islamica.

L’azione di massa palestinese è stato il vero corto circuito. Ma anche questa modalità di resistenza è tutt’altro che estranea alla resistenza palestinese. D’altronde la più grande rivolta palestinese (dopo quella del 1936-1939) la Prima Intifada scoppiata nel dicembre 1987 fu pacifica e coinvolse capillarmente la popolazione palestinese in tutte le sue componenti.

Più recentemente, nel maggio 2011, i palestinesi dalla Cisgiordania, da Gaza e anche dalla Siria, dal Libano e dalla Giordania, cogliendo di sorpresa l’esercito israeliano, in centinaia valicarono i confini artificiali dello Stato di Israele. Anche in quell’occasione oltre dieci persone furono assassinate dall’esercito e molte furono ferite. Sette anni dopo il governo di Benyamin Netanyahu ha dato l’ordine di impedire a tutti i costi che ciò che avvenne nel 2011 si ripetesse e la strage è stata assicurata. Ma il fatto che i circa trentamila palestinesi fossero disarmati è stato verificato e quegli assassinati (in due venerdì di protesta hanno superato i 50) e le migliaia di feriti sono un fatto troppo evidente, anche se ormai la vita umana nel Vicino Oriente dopo il massacro siriano è evidente che per noi occidentali non conta nulla. Per l’ennesima volta il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente che accerti lo svolgimento dei fatti e ancora una volta il governo israeliano l’ha sprezzantemente rifiutata, annunciando che mai avrebbe collaborato. Questo atteggiamento non è certo una novità, visto che l’unica inchiesta che abbia avuto degli esiti fu la commissione Khane, voluta da Israele ed interna, che nel 1982 portò alle dimissioni di Ariel Sharon dopo le stragi di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut, e il suo spostamento al ministero dell’agricoltura…

Ma il governo di Benyamin Netanyahu per togliersi d’impaccio ancora di più il 2 aprile ha annunciato uno storico accordo con l’ONU per la “ricollocazione”, ossia l’espulsione forzata, di sedicimila profughi eritrei e sudanesi, arrivati in Israele tra il 2005 e il 2012. Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR – l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi e che da decenni ha in carico quelli palestinesi – senza tema del ridicolo si è detta soddisfatta per lo storico accordo. Benyamin Netanyahu dal canto suo molto sicuro di sé ha annunciato che i profughi andranno in Italia, Germania e Canada. Ma nel giorno delle scampagnate di pasquetta, Italia e Germania si sono affrettate a smentire il governo israeliano che è stato costretto ad una penosa marcia indietro. I ministeri degli esteri italiano e tedesco si sono detti basiti perché ignari ed allora Netanyahu, cercando di usare la fantasia, ha dichiarato che quei Paesi erano stati nominati “come esempi” – non si capisce di cosa.

Aporie

Ma il tentativo di Benyamin Netanyahu di presentare l’accordo con le Nazioni Unite mostrando al mondo un’immagine rassicurante dello Stato israeliano aveva un duplice obiettivo: per un verso, distogliere l’attenzione da ciò che è avvenuto per ben due volte sulla collina che sovrasta la barriera (elettrificata ed elettronica) che divide Israele dalla Striscia di Gaza da dove i cecchini dell’esercito hanno ammazzato civili disarmati e, per un altro verso (non meno importante), cercare di salvare se stesso e il suo governo dal dilagare delle inchieste per corruzione. Come d’abitudine Benyamin Netanyahu ha avuto fortuna nel primo caso e sfortuna nel secondo. Infatti, all’annuncio dell’accordo raggiunto con l’ONU che di fatto metteva in salvo circa 38.000 persone tra eritrei e sudanesi, anche se la metà veniva espulsa forzatamente verso non meglio specificati Paesi, l’estrema destra fascisteggiante che regge il governo israeliano si è ribellata contro l’accordo, così come i residenti dei quartieri meridionali di Tel Aviv che hanno contestato Benyamin Netanyahu. Nel giro di poche ore, quindi, l’accordo con l’ONU è stato sospeso e Benyamin Netanyahu ha dismesso i panni dell’agnello che decisamente lo facevano sentire a disagio per tornare la bestia feroce di sempre.

Invece, nel primo caso – ossia, l’assassinio premeditato e a freddo di civili disarmati – Benyamin Netanyahu ha ottenuto l’effetto sperato: nessuno ha più parlato di quei ragazzi assassinati, né delle ragioni di quella lotta. Questo silenzio è dovuto essenzialmente al fatto che Israele non solo può contare sull’appoggio incondizionato di gran parte dei Paesi occidentali, e non solo, quando uccide, espelle e spoglia dei loro beni i palestinesi, ma anche sul fatto che ormai nella sinistra si è avviata da tempo una dinamica perversa che alla fine ha portato all’inversione dei dati di realtà.

È abbastanza impressionante leggere commentatori di sperimentata esperienza e conoscenza della vicenda israelo-palestinese e delle sue origini, come coloro che scrivono su il Manifesto, che parlano dell’accordo sui profughi eritrei e sudanesi come se a sospenderlo fosse stata la Svezia e non Israele. Chiariamo immediatamente che se si giungesse a salvare i 38.000 profughi eritrei e sudanesi non potremmo che tirare un sospiro di sollievo, cionondimeno impressiona l’assenza di qualunque contestualizzazione quando si parla di Israele, lo Stato che si è autoproclamato il 14 maggio 1948 grazie ad una “guerra di svuotamento” che tra il 1947 e il 1949 ha espulso dalla loro terra circa un milione di palestinesi e che nelle fasi successive, tra il 1956 e il 1967, ha di fatto reso il popolo palestinese profugo nella sua stragrande maggioranza e il resto sfollato e deportato in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Nei decenni successivi la sua autoproclamazione nello Stato di Israele non solo sono arrivati molti immigrati asiatici, ma anche, per esempio, etiopi e di altre nazionalità africane, sfruttati per aumentare il numero di abitanti quando erano ebrei, ma comunque trattati come persone di serie b e vittime di razzismo di Stato.

Leggere i commenti scandalizzati del voltafaccia israeliano sui profughi eritrei e sudanesi da parte di chi queste cose sicuramente le conosce, dà la misura di quanto si sia persa la capacità di analizzare la realtà in modo complessivo e non a compartimenti stagni. Ossia: possibile che non venga in mente di porsi e porre la domanda sul perché Israele e UNHCR possano raggiungere un accordo sui profughi eritrei e sudanesi, mentre per quelli palestinesi non una delle risoluzioni delle Nazioni Unite che li riguardano, a partire dalla 194 del 1948 che chiedeva il rientro dei profughi, è mai stata anche solo presa in considerazione? Una contestualizzazione ce la saremmo aspettata da Carlo Lania che su Il Manifesto del 4 aprile racconta i retroscena di quell’accordo e lo stupore nei piani alti dell’UNHCR dopo la sospensione unilaterale da parte israeliana con queste parole:

Da Ginevra, dove l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha la sua sede centrale, le vicende di queste ore vengono seguite con sbigottimento, quasi incredulità vedendo andare improvvisamente in fumo la possibilità per alcune migliaia di rifugiati di essere ricollocati, e quindi messi in sicurezza. Un lavoro seguito tra gli altri personalmente dall’Alto commissario per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, che non ha mai risparmiato critiche alla scelta di Israele di espellere i profughi africani. «Le politiche di ricollocamento forzato sono sbagliate e controproducenti. Ci sono alternative possibili», aveva detto Grandi a gennaio scorso sollecitando il governo israeliano a non dare avvio alle partenze. (1)

Se la situazione non fosse tragica, verrebbe voglia di consigliare ironicamente a Carlo Lania e a Filippo Grandi la lettura di un breve, ma importantissimo libro di Moshe Menuhin, padre di Yehudi Menuhin uno dei più grandi violinisti del XX secolo, dal titolo Un tributo alla memoria del Conte Folke Bernadotte (Edizioni East, 1970), in cui viene ricostruita la vicenda dell’inviato dell’Onu in Palestina per affrontare la questione dei profughi palestinesi e che fu assassinato il 17 settembre 1948 dalla banda Stern, il gruppo terroristico diretto da Yitzhak Shamir e autore della strage di Deir Yassin del 9 aprile 1948, che costò la vita a circa 100 civili palestinesi tra cui donne e bambini. La risoluzione 194 del dicembre 1948 fu “dedicata” al Conte Folke Bernadotte, ma visto che nessun provvedimento fu preso contro gli autori del suo assassinio questo suona più come l’ultima beffa che altro.

Se Carlo Lania avesse ricordato nel suo articolo lo sfondo storico nel quale si inscrive il rapporto tra Israele e le istituzioni internazionali non avrebbe solo fatto un atto di correttezza intellettuale, ma avrebbe anche potuto cogliere l’enorme aporia tra il segretario generale dell’ONU Guterres che chiede una commissione di inchiesta sui civili disarmati assassinati dall’esercito israeliano a Gaza il 30 marzo e le lodi che invece tessono di quello stesso Stato, che è il mandante di quegli assassinii, Filippo Grandi e Carlotta Sami per un accordo sulla “ricollocazione” dei profughi eritrei e sudanesi (che ovviamente non chiamano col loro nome: espulsione forzata di persone arrivate in Israele dal confine egiziano tra il 2005 e il 2012, evidentemente chiuso ermeticamente solo per i palestinesi di Gaza).

In questo senso, ancora più sconcertanti sono gli articoli di Michele Giorgio in quei giorni convulsi. Lo storico corrispondente de Il Manifesto e punto di riferimento in Italia e anche a livello internazionale per la sua conoscenza delle origini del conflitto tra Israele e i palestinesi, molto informato e stimato in Palestina e in Israele negli ambienti politici e culturali che si oppongono alle politiche governative, pur avendone sicuramente gli strumenti non si sottrae all’aporia. Leggendo i suoi editoriali, articoli e reportage sui fatti di Gaza e quelli sulle vicende dei profughi eritrei e sudanesi in Israele, sul voltafaccia del primo ministro Netanyahu, si ha l’impressione che siano scritti da due mondi diversi, forse paralleli, ma senza punti di congiunzione. In particolare colpisce in questa direzione un articolo pubblicato il 4 aprile dal titolo: Rivolta nel governo, Netanyahu cancella l’accordo con l’UNHCR. In questo articolo Michele Giorgio descrive con cura di particolari le dimostrazioni di gioia prima e sgomento poi dei profughi eritrei e sudanesi:

Eritrei e sudanesi si sono presentati in catene, a petto nudo, senza scarpe. Come gli schiavi. Però determinati a spezzarle quelle catene e a non rassegnarsi alla deportazione volontaria o al carcere a tempo indeterminato, le uniche possibilità che il governo israeliano aveva offerto loro ad inizio anno. Una offerta che non è destinata a migliorare dopo la clamorosa retromarcia fatta dal premier Netanyahu che lunedì ha annunciato un accordo con l’Unhcr, per il ricollocamento di 16 mila dei circa 38mila richiedenti asilo africani oggi in Israele, per poi sospenderlo appena qualche ora dopo. Assieme ai dimostranti eritrei e sudanesi ieri nelle strade di Tel Aviv c’erano decine di attivisti che mostravano cartelli con la scritta Le vite umane non sono in gioco. «Netanyahu non può giocare con gli esseri umani » ha ripetuto ai giornalisti Daniela Eliashar, che da mesi partecipa alle proteste contro il piano di espulsioni del governo. «Ieri (lunedì) eravamo in lacrime per la gioia e ora siamo in lacrime per la rabbia», ha commentato un’altra manifestante Veronika Cohen. La giornalista Sima Kadmon di Yediot Ahronot ha calcolato in 6 ore e 45 minuti la durata dell’accordo con l’Unhcr annunciato da Netanyahu. «Era una decisione importante e coraggiosa ma è calpestata dagli stivali dei contrasti nella destra », ha aggiunto. (2)

Ripetiamolo, se non si trattasse di Israele questa descrizione sarebbe ineccepibile, ma siccome così non è due osservazioni si impongono. La prima, essenziale, è che quelle decine di attivisti scesi in piazza in solidarietà con i profughi eritrei e sudanesi nulla hanno avuto da dire –  secondo il racconto del reportage – sulle “vite in gioco” dei palestinesi. Soprattutto, ci saremmo legittimamente aspettati che Michele Giorgio ponesse una domanda diretta, o almeno indiretta, su quanto valgano le vite dei palestinesi per i suoi interlocutori israeliani che in quel momento esprimevano una così alta empatia con i profughi delusi, amareggiati e disperati per la sospensione dell’accordo con l’UNHCR. Questo era sperabile perché altrettanto rilevante era che quegli attivisti israeliani dicessero come la pensavano sui fatti di Gaza avvenuti contemporaneamente. Ciò è ancora più importante alla luce del fatto che ormai da molti anni lo slittamento su posizioni oltranziste dell’opinione pubblica israeliana ha di fatto quasi annullato i rapporti tra gli ambienti israeliani che si oppongono ai governi e i palestinesi, mentre la storia insegna che l’alleato più prezioso dei popoli che lottano per la propria libertà e autodeterminazione è il dissenso all’interno della società dello Stato che li opprime.

La seconda considerazione è che se l’accordo con l’UNHCR è durato alcune ore, ci chiediamo perché non si sia sentito il bisogno di calcolare quanti minuti approssimativamente sono durati gli accordi che nei decenni sono stati fatti da Israele con i palestinesi, i quali per altro ad ogni intesa rinunciavano sempre a qualcosa.

Ma le due considerazioni si tengono insieme perché spiegare perché oggi la società israeliana, o almeno la parte “liberale”, è pronta a protestare contro la corruzione del governo o a scendere in piazza a fianco dei profughi africani senza far cenno ai palestinesi ed ai loro diritti calpestati, significa affrontare il problema centrale dell’involuzione avvenuta negli ultimi trent’anni. L’occasione per far questo era data dalla contemporaneità di due proteste, lontane tra loro solo apparentemente, per rivendicare dei diritti. Anzi, era l’occasione per far emergere l’ipocrisia di quella intellettualità “sionista illuminata e progressista”, alla Grossman o alla Amos Oz ed altri, pronta a firmare appelli contro l’espulsione degli eritrei e dei sudanesi voluta dal governo Netanyahu, ma altrettanto lesta a ignorare gli appelli dei palestinesi perché questi ultimi sono comunque visti come il pericolo maggiore, soprattutto quando la loro lotta non risponde ai desideri di coloro che in Israele si considerano “umani e giusti”. Quando i palestinesi rivendicano i loro diritti, gli israeliani sanno di averli calpestati e ignorati e che ora è certo ben più difficile avviare un qualunque dialogo.

Da questo punto di vista è sintomatico come i reportage dalla striscia di Gaza di Michele Giorgio siano esattamente speculari a quelli da Tel Aviv o Gerusalemme. In quello pubblicato il 5 aprile intitolato: “Che sparino, Gaza non ha nulla da perdere” ad un certo punto si legge:

B’Tselem noto centro per i diritti umani, ieri ha esortato i soldati a disobbedire agli ordini e a non sparare sui civili palestinesi se questi non porranno una minaccia per le loro vite. [] B’Tselem non nega il diritto di difendere il suo confine ma ribadisce che lo Stato ebraico deve osservare le norme internazionali per l’uso della forza. “Avvicinarsi alle barriere e persino danneggiarle non fornisce i presupposti per l’uso della forza letale che – ricorda il centro per i diritti umani – è limitato a situazioni che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di alternative”. È assai improbabile che ufficiali e soldati israeliani raccolgano l’invito di B’Tselem e comunque nell’accampamento ‘Abu Safieh’ neppure conoscono il centro israeliano per i diritti umani. (3)

Esattamente in quest’ultimo passaggio si situa il problema centrale, ma che ormai facciamo a gara per non vedere. Nel 2003, Leah Tsemel, avvocatessa israeliana che ha da sempre difeso quasi esclusivamente palestinesi o israeliani antisionisti, in un intervento in un convegno della Fondazione Cini sul tema Infanzia e diritti umani ad un certo punto osservava: 

[] Fino a qualche tempo fa coloro che venivano a consultarmi a Gerusalemme parlavano di “soldati” o di “coloni”, ora non usano più queste parole: dicono esplicitamente Elyahud (ebrei): “gli ebrei mi hanno confiscato la carta d’identità”, “gli ebrei mi hanno picchiato”, “gli ebrei hanno distrutto..” Quindi che lo Stato di Israele diventi il rappresentante di tutti gli ebrei del mondo mi terrorizza, perché tutti gli ebrei si vedranno accollare l’immagine dei soldati, dei poliziotti e dei coloni. [] (4)

Questa osservazione di Leah Tsemel è anche un allarme su un fenomeno che successivamente è diventato gravissimo: l’aumento sempre più acuto del livello di violenza della potenza israeliana contro i civili palestinesi (la colonizzazione, le rappresaglie collettive, le deportazioni dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza di migliaia di persone – ormai legge dal 2009 –, fino alle stragi di massa) unito all’impunità assoluta di cui gode Israele, ha ormai reso impossibile per i palestinesi fare la necessaria differenza tra gli apparati che li opprimono e la popolazione israeliana nel suo complesso. D’altronde, dall’altra parte, in Israele, è da lunghi anni che l’intero popolo palestinese è ritenuto dai più nel suo complesso “terrorista”, quindi tutti gli atti di resistenza – dal lanciare pietre al marciare disarmati verso una barriera – sono derubricati come “atti di terrorismo”.

Il punto è che gli allarmi lanciati in tempo utile da alcuni israeliani e palestinesi non sono stati raccolti e ora sembra essere troppo tardi per una correzione di rotta.

Ovviamente, siamo consapevoli che non è compito di Michele Giorgio, né di altri giornalisti, quello di sostituirsi alle leadership politiche, ma allo stesso tempo siamo convinti che una onesta descrizione della realtà sia la base necessaria per rendere coscienti i lettori di quale sia  veramente la posta in gioco di un conflitto. Siamo anche convinti della inesistenza di una presunta “neutralità” di chi racconta, in una qualunque forma, un conflitto. Perché a meno che non si aspiri ad una schiera di giornalisti lobotomizzati – prospettiva da qualcuno ritenuta possibile, mentre a noi appare un orizzonte orribile – chiaramente chi vede e racconta si schiera, ed è giusto che sia così. Generalmente, coloro che sbandierano la “neutralità” o peggio l’ “oggettività” dei loro racconti, prese di posizione, ecc., mentono spudoratamente, anzi sono coloro che più di altri si prestano alla pura propaganda. Per queste ragioni abbiamo rilevato le aporie di quei giornalisti che hanno, a volte loro malgrado, un ruolo anche politico, che per noi non significa prestarsi alla propaganda di una parte o dell’altra, ma l’esatto contrario.

In conclusione, come giustamente scrive Michele Giorgio in un suo articolo del 6 aprile, sostenere che la “Grande Marcia del ritorno” sia solo un piano orchestrato da Hamas per lanciare atti terroristici contro Israele con l’argomento che l’organizzazione palestinese ha promesso un aiuto economico alle famiglie dei ragazzi assassinati e a quelle di chi è rimasto ferito (spesso diventando disabile permanente), significa accettare supinamente la propaganda israeliana che deve trovare un modo per giustificare assassinii a freddo di persone disarmate.

Solo un profondo disprezzo per i palestinesi può far scrivere cose del genere che riflettono unicamente la posizione di Israele. (5)

Il riferimento è alla gran parte della stampa italiana che in questo modo ha presentato i due venerdì di protesta di massa e pacifica nella Striscia di Gaza, facendo intendere che alle prossime scadenze programmate fino al 14 maggio coloro che saranno uccisi o feriti se la saranno cercata perché sono stati pagati. Non capiamo, però, il contemporaneo silenzio sulle implicazioni (inesistenti e appunto per questo gravissime) dell’accordo con l’UNHCR per i palestinesi, che lottano da settant’anni per uscire dalla loro condizione di profughi fuori e dentro la loro terra.

Il vero problema sono le aporie, le assenze e i silenzi. Le denunce selettive dei massacri fanno il gioco dei massacratori e questi lo sanno. Soprattutto nel mondo di oggi dove l’illusione dell’informazione diretta e a getto continuo è fonte sistematica di diffusione di menzogne più o meno orchestrate ad arte oppure originate dalla semplice ignoranza o malafede. Chiunque si trovi in una posizione pubblica (a qualsiasi livello e con qualunque ruolo) ha una responsabilità maggiore.   

In un contesto simile, pur rischiando di essere accusati di ingenuità, continuiamo a credere in un ruolo significativo del giornalismo, non solo come “bacchettatore dei potenti” ma come uno strumento necessario, se non indispensabile, a rendere la conoscenza dei fatti, dei luoghi, delle storie come fonte di coscienza collettiva. Non stiamo qui facendo appello solo all’etica, ma pensiamo necessario non dimenticare che non molto tempo fa i reportage giornalistici, della carta stampata o anche della TV, hanno avuto un ruolo molto importante nell’influire sul corso della storia. La guerra del Vietnam, quella di liberazione algerina e non ultima la lotta dei palestinesi lo testimoniano.

Folle immalinconite dalla constatazione che il mondo girava a vuoto si precipitavano in strada ululando. In mano avevano pietre bastoni e forconi? Niente affatto: avevano giornali, impugnavano reportage, pagine di denuncia, ripetevano come slogan occhielli, titoli e catenacci che inveivano contro i padroni del vapore, i signori della guerra e le Guide Supreme. [] Diciamolo con forza: l’editoriale ha ucciso l’anima del giornalismo che è racconto, immersione nella realtà, contagio del presente. È come se parlassimo di un cadavere. Non è più che il superstite della sua fama. Non c’è un editoriale che abbia cambiato la storia del mondo, ci sono molti onesti racconti della realtà che lo hanno fatto. [] È esattamente quello che non scriviamo più, o non sappiamo più scrivere. (6)

Si dirà che il mondo è molto cambiato in peggio e che l’unilateralismo barbarico si è impossessato del nostro quotidiano: in qualsiasi ambito le lotte per i diritti o contro i soprusi della legge ottengono ben pochi risultati. Ma ciò giustifica, o può almeno spiegare la denuncia e la solidarietà selettiva? No. Piuttosto spiega perché occorre riflettere e trarre delle conclusioni concrete, cioè atti, sulle aporie, sulle assenze e sui silenzi. Non c’è altra via, se non, forse, quella della delega in bianco a coloro che pretendono di rappresentare diverse istanze, ma purché “non si disturbi il manovratore”.

Coloro che pretendono di poter fare questo, ossia solidarizzare con l’aggredito a seconda se l’aggressore piaccia o meno, dal 2011 stanno tentando anche di sostenere che le rivolte scoppiate nel dicembre 2010-11 in Tunisia e poi diffusesi in tutto il Vicino e Medio Oriente (con diversi livelli di intensità) hanno in buona sostanza danneggiato i palestinesi, oscurando la loro causa, togliendole il “primato” di “questione chiave” sia a livello regionale sia internazionale.

Diciamolo con chiarezza: non esiste sciocchezza più grande. Chi sostiene questa tesi ignora o finge di ignorare che molti movimenti, soprattutto giovanili, che nei Paesi arabi sono stati promotori e protagonisti delle rivolte del 2011, si sono formati e costituiti in solidarietà con i palestinesi. Certamente ciò che è vero è che dal 2011 sono emerse diverse priorità ed evidentemente per i popoli arabi e maghrebini queste sono rappresentate – è quasi una banalità dirlo – dalle proprie dittature e dagli sfaceli sociali che queste hanno provocato. Ovviamente, per i palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele la priorità è ancora l’occupazione israeliana, la repressione e l’espulsione. Ma nondimeno è fondamentale – e la Grande Marcia del Ritorno lo dimostra per chi lo vuole capire – il fatto che le due leadership, dell’ANP e di Hamas, invece di battersi veramente per la liberazione del popolo che pretendono di rappresentare, in realtà sono in lotta permanente per la propria sopravvivenza come apparati. È deprimente, ma molto significativo al riguardo, il fatto che nell’agosto scorso l’ANP abbia chiesto a Israele di tagliare la fornitura di energia elettrica alla Striscia di Gaza. Queste cose i palestinesi, vivendole sulla loro pelle, le sanno bene, ma purtroppo ancora non esiste un’alternativa credibile.

Infine, ma non per importanza, è da ribadire con decisione che invece è proprio la solidarietà selettiva a danneggiare enormemente i palestinesi. L’esempio più clamoroso è la vicenda del campo profughi di Yarmuk, vicino Damasco, messo sotto assedio per anni dall’esercito del regime di Assad e dai suoi alleati e di cui in Occidente si è persa memoria e conoscenza, dove i morti per fame, malattia, oltre che per i bombardamenti sono stati migliaia e in gran parte palestinesi – vittime anch’essi del caos instauratosi in Siria per l’intervento diretto o indiretto di potenze straniere e/o regionali in concorrenza tra loro.

Le vicende di queste settimane con i massacri nella Ghouta orientale spiegano questo meccanismo meglio di tante parole: la barbarie che è stata raggiunta in Siria certa sinistra l’ha accettata come il “male minore” e con lo stesso argomento giustifica i suoi autori. Aggiungendovi un altro punto funzionale al primo: fin dall’inizio delle rivolte arabe alcune sono state  ritenute vere e spontanee, mentre altre (in particolare quella libica e quella siriana) sarebbero state, in buona sostanza eterodirette dalle potenze regionali e internazionali, per spodestare un regime, quello assadiano, presunto baluardo della laicità (cosa falsa visto che due degli alleati principali, l’Iran e gli Hezbollah libanesi sono integralisti religiosi almeno quanto i gruppi salafiti sunniti appoggiati da Arabia Saudita, Qatar e Turchia). Con questo si dice che i crimini di Assad, Russia, Iran ed Hezbollah semplicemente non esistono: le immagini dei civili uccisi a migliaia sarebbero fotomontaggi e soprattutto mai sarebbero state usate armi chimiche (la famosa “linea rossa” posta da Barak Obama nel 2013). Qui si impone una considerazione elementare: che differenza passa tra un civile (bambino, vecchio, uomo o donna) ucciso col gas nervino o col cloro e uno ucciso da bombardamenti a tappeto? Nessuna. Dopo settimane di massacri generalizzati con centinaia di morti e migliaia di feriti, all’apertura di “corridoi umanitari” nella Ghouta orientale, video girati dalle stesse truppe di Assad e russe, facevano vedere civili in fila per uscire da quell’inferno, mentre un soldato russo sventolava un kit alimentare che “concedeva” ai malcapitati solo se questi inneggiavano ad Assad.

Dopo di questo, è stato diffuso un video in cui un soldato israeliano, dopo aver ucciso un palestinese disarmato che si era avvicinato alla barriera tra Gaza e Israele, urla di gioia, insultando la sua vittima, mentre il suo commilitone che girava questa “prodezza” esultava per “il grande video”. Le reazioni a questo video, salvo le solite “proteste virtuali”, sono state nulle. Il perché di questa ennesima “assenza” riteniamo risieda nel fatto che avendo fatto sì che l’opinione pubblica accettasse il massacro siriano come possibile e giustificabile, qualunque altro lo sia altrettanto.

La Palestina è parte del Medio Oriente, non è su Marte, quindi è da stolti pensare che il popolo palestinese possa essere indifferente a ciò che gli accade intorno. Anzi, è tanto vero il contrario che, volendo essere onesti, non si può non vedere come, prima che scoppiassero le guerre civili in Libia, Yemen e in Siria, proprio in quest’ultimo Paese la rivolta si sia organizzata ispirandosi alla Prima Intifada.

Questo lo sottolineiamo perché sentiamo la necessità di prendere le distanze da visioni e atteggiamenti “orientalisti”, secondo l’interpretazione che di questo termine ha dato Edward W. Said che fin dal 1994 denunciava quanto pericolosa fosse l’involuzione delle direzioni politiche palestinesi. Edward W. Said ci ha insegnato a riflettere sulla eredità avvelenata del colonialismo classico, ma purtroppo anche lui è rimasto inascoltato ed il risultato è la nostra responsabilità diretta nell’aver ridotto a zero la capacità di reazione, indignazione e protesta contro i crimini di massa che si consumano ogni giorno da sette anni sotto i nostri occhi.

[Un ringraziamento particolare dell’autrice va a Cesare Quinto e Joseph Halevi per i suggerimenti preziosi e la pazienza di leggere il testo]

(1) Carlo Lania: «Un accordo voluto dall’italiano Filippo Grandi per mettere fine alle espulsioni» in il Manifesto, 4 aprile 2018

(2) Michele Giorgio, «Rivolta nel governo, Netanyahu cancella l’accordo con l’UNHCR», in il Manifesto, 4 aprile 2018

(3) Michele Giorgio, «Che sparino, Gaza non ha nulla da perdere», in il Manifesto, 5 aprile 2018

(4) Leah Tsemel,  «Enfants qui meurent, enfants qui tuent», in Le Monde Diplomatique, novembre 2003

(5) Michele Giorgio, «“Come Ghandi e Luther King”: oggi Gaza riprende la marcia», in il Manifesto, 6 aprile 2018

(6) Domenico Quirico, Il tuffo nel pozzo – È ancora possibile fare del buon giornalismo?, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 2017, p. 45 e p. 13

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