UNA GIOVENTU’ MAGNIFICA MA SCHIACCIATA

Intervista con Farouk Mardam Bey

Farouk Mardam Bey, nato a Damasco, è emigrato in Francia nei primi anni ’60 per proseguire i suoi studi di scienze politiche. A Parigi ha iniziato a lavorare come bibliotecario presso l’Institut national des langues et civilisations orientales – INALCO – dove i suoi interessi si sono spostati verso la storia, in particolare verso quella della regione da cui proviene: il Vicino Oriente. All’epoca il suo trasferimento in Francia fu volontario, ma successivamente non poté a lungo tornare nel suo Paese perché riconosciuto come un “pericolo” dalla dittatura degli Assad.
Nel 1982, insieme ad Elias Sanbar e Laila Shaid, fu chiamato dalla direzione dell’OLP a fondare la Revue d’études palestiniennes, della cui direzione ha fatto parte fino alla chiusura della rivista nel 2008. Nel frattempo il suo lavoro di bibliotecario è continuato presso l’Institut du Monde Arabe – IMA – di cui successivamente divenne consigliere. Grande amico di Pierre Bernard, fondatore nel 1972 delle edizioni Sindbad, alla sua morte nel 1995 e dopo che la casa editrice fu acquisita dalle edizioni Actes Sud, Farouk Mardam Bey è diventato direttore della collana Sindbad. Attraverso il suo lavoro paziente e meticoloso in Francia, e poi anche nel resto d’Europa, sono stati tradotti numerosi tra i più importanti autori arabi da Mahmud Darwish a Samir Kassir.
La sua triplice identità – siriana, palestinese e francese – lo ha portato a non abbandonare il suo attivismo tra gli emigrati mediorientali in Francia e in Europa, diventando dallo scoppio delle rivoluzioni arabe nel 2011 un punto di riferimento imprescindibile per i giovani che a migliaia sono stati costretti a lasciare i loro Paesi. 

Intervista raccolta e tradotta dal francese per Rproject da Cinzia Nachira

Rproject Le propongo di fare una conversazione libera, iniziando con il riflettere su un possibile bilancio della nuova amministrazione di Donald Trump, da un anno alla presidenza degli Stati Uniti; in rapporto con la Siria e alla Palestina. Soprattutto dopo l’ultima provocazione del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele.

Farouk Mardam Bey Vi è un elemento evidente riguardo alla situazione palestinese, ossia un disimpegno che risale a molto tempo fa e non solo da parte dei governi. Certo, c’è stata una reazione da parte dell’Egitto, dell’Arabia Saudita, del Bahrein, ecc., ma allo stesso tempo questi Paesi hanno già dimostrato quanto siano disponibili a fare tutte le concessioni possibili a Israele. Ma anche a livello popolare nel mondo arabo c’è qualcosa di nuovo: la sensazione che i governi arabi siano ancora più feroci verso i loro popoli di quanto gli israeliani non lo siano verso i palestinesi.

Questa sensazione già esisteva tra gli iracheni, oggi è sicuramente predominante tra i siriani. Per esempio, c’è una ragazza adolescente che è stata imprigionata dopo un atto di ribellione (Ahed Tamimi) (1), certo: ma questo non è paragonabile con le migliaia di donne violentate nelle carceri siriane. Il sentimento è quello di avere dei problemi che sono anche più gravi. Ottocentomila palestinesi sono stati espulsi nel 1948, oggi ci sono sei milioni di siriani costretti all’esilio. Sicuramente le popolazioni arabe continuano a sostenere i palestinesi, ma questi non rappresentano più la questione centrale, quella di cui occuparsi prima di tutto.

La stessa popolazione palestinese si rende conto che la situazione è tremenda e che non ci sono vie d’uscita, ossia: da soli non possono liberarsi dall’occupazione israeliana, non esiste una forza araba capace di sostenerla né con la guerra, né con la pace e a livello internazionale è tutto bloccato – nel senso che nessuno farà delle pressioni efficaci su Israele per fermare la colonizzazione, ecc. Senza dimenticare che l’opzione dei due Stati è diventata del tutto impraticabile vista la colonizzazione della Cisgiordania e la divisione tra quest’ultima e Gaza (tranne il fatto che gli israeliani dicono: volete uno Stato? Fatelo a Gaza…). L’idea di uno Stato palestinese sovrano in Cisgiordania e a Gaza è diventato qualcosa di molto difficile, quindi la gente si dice: rimaniamo così. Se restiamo qui col tempo si stabiliranno delle relazioni tra israeliani e palestinesi e forse arriveremo ad unico Stato nel quale potremo convivere… Secondo me questa è una totale illusione. Perché ormai gli israeliani parlano sempre di più di uno Stato ebraico, non di uno Stato ebraico-arabo. In secondo luogo, la tendenza generale in Israele non è verso la conciliazione e l’estrema destra si rafforza sempre più nel Paese.

Rproject In realtà la soluzione dello Stato unico è quella che renderebbe definitiva e irreversibile la colonizzazione…

Farouk Mardam Bey Esattamente, anzi oggi c’è da temere che Israele espella ancora una volta i palestinesi. Anche perché oggi l’espulsione è una pratica ricorrente nella regione: ci sono espulsioni un po’ ovunque. Degli arabi che hanno espulso dei curdi e dei curdi che hanno espulso degli arabi; dei governi che hanno espulso i loro stessi popoli. C’è indifferenza a livello mondiale verso ciò che avviene nel Vicino Oriente, anche a causa di una specie di stanchezza verso i problemi di questa parte del mondo: terrorismo, integralismo, rivolte, massacri… Le immagini che arrivano attraverso la televisione tutti i giorni… Nelle opinioni pubbliche c’è stanchezza, in Francia si tocca con mano, la gente non guarda più i telegiornali, non vuole ascoltare notizie…

Rproject In Italia la situazione è peggiore che in Francia…

Farouk Mardam Bey Sì, e quando Mahmud Abbas ha detto qualche giorno fa: è la fine di Oslo (anche se si sa che Oslo è finito da molto tempo) – lo ha detto lui che ne è il padre – e che l’Autorità Nazionale Palestinese si scioglierà, anche questa non è una soluzione. Questa affermazione avrebbe avuto un senso quattro o cinque anni fa, in quel momento avrebbe messo Israele di fronte al dovere di occuparsi della popolazione civile palestinese, perché per il diritto internazionale è la potenza occupante che ha questo compito. Mentre Israele si è sbarazzato di questo problema scaricandolo sulle spalle dell’Autorità Nazionale Palestinese, ora è troppo tardi, non serve a niente.

Tutto succede troppo tardi ed è completamente bloccato. Le organizzazioni maggiori della vecchia resistenza palestinese, Al Fatah e le altre, e Hamas non hanno risposte a questa crisi. Il problema è che altre forze non riescono ad emergere. Una situazione comune a tutto il mondo arabo, dove da più di trent’anni ci sono dei governi dispotici e di ladri, da una parte e dall’altra dei movimenti integralisti islamici (militanti, jihadisti, ecc.) e lo spazio per qualsiasi movimento democratico è strettissimo. Si è visto in Egitto dopo piazza Tahrir, straordinaria, ma quando le cose si sono calmate le uniche due forze rimaste in campo erano l’esercito e contro i Fratelli Musulmani. Nell’opposizione ogni speranza democratica è stata distrutta. Oggi la situazione in Egitto è catastrofica e non c’è una terza forza…ci sono giovani magnifici, dinamici, aperti al mondo – come in Palestina, in Siria, come ovunque – ma dappertutto questa gioventù è schiacciata da queste due forze che occupano il proscenio.

Immagini la situazione in Algeria, dopo trent’anni e con tutte le sue ricchezze: il petrolio, il gas, ecc. oggi è obbligata per evitare una guerra civile ad affidare un nuovo mandato a Bouteflika (2), che non riesce a parlare. C’è una vera crisi e nessuna nuova forza riesce ad emergere.

Rproject La Siria ha dimostrato per l’ennesima volta che il diritto internazionale non esiste. Altrimenti si sarebbe fatto qualcosa prima di arrivare alle centinaia di migliaia di morti, ai milioni di profughi e alla distruzione del Paese. Legato a questo disastro delle istituzioni internazionali c’è il ruolo che possono svolgere i giovani esiliati (che hanno fatto la rivoluzione) e la reazione internazionale alla rivoluzione. Forse, quella terza forza di cui lei parlava ha una possibilità di emergere grazie a questi giovani esiliati. Lei appartiene alla generazione di intellettuali arabi che è arrivata in Occidente quando il mondo arabo non era vittima dello scontro duale di cui ha parlato. Secondo  lei le nuove generazioni, in esilio o meno, che prospettive possono avere?

Farouk Mardam Bey Lei sa che la mia generazione ha vissuto un periodo molto particolare. All’epoca c’era un movimento mondiale straordinario. C’era il campo sovietico, ma emergeva anche la Cina, c’era Cuba. La guerra del Vietnam che diventava il caposaldo della vittoria contro gli americani. C’era la sensazione di essere sul punto di farla finita col vecchio mondo e di iniziare a costruirne uno nuovo. Le rivolte degli studenti in Occidente, un enorme movimento operaio…il partito comunista italiano che arrivava al trenta per cento di voti, ecc. Era un’altra atmosfera. Per esempio, io ho vissuto il mio sessantotto in Francia, ma nessuno nel maggio 1968 poteva immaginare che il mondo nel 2018 arrivasse in queste condizioni con Trump e Putin, era impossibile immaginarlo.

Ciò che è accaduto dopo, dagli anni ottanta, a mio parere, non solo nel mondo arabo – è il caso dell’Italia anche e che per me è incomprensibile – è come si è giunti a depoliticizzare i giovani fino a questo punto, con l’individualismo che predomina insieme all’incapacità di lavorare collettivamente. Oggi il massimo che si riesce a fare è di operare a livello umanitario, caritatevole o per diritti civili, ossia: i diritti degli omosessuali, ecc. Questo è un bene, ma senza cambiamento politico resta assai limitato.

In quello stesso momento nel mondo arabo i giovani si sono depoliticizzati e deideologizzati. Per esempio, quando io parlo con dei giovani siriani a Parigi mi dicono: ma voi siete degli ideologi, noi non vogliamo ideologie. Ed io a quel punto chiedo loro: ma scusate che significa, innanzitutto, ideologia? Non potete immaginare di realizzare dei cambiamenti se non avete in testa una linea direttrice. Ma loro insistono: non vogliamo delle direzioni, non vogliamo dei partiti che ci dirigano. Vogliamo essere liberi. Ed io ribatto: ma vedete cosa è successo quando è così, chi ha una direzione e un partito, come i jihadisti possono realizzare i loro obiettivi; mentre voi contro di loro non potete far nulla.

Conosco un po’ la situazione in Germania, dove c’è oltre un milione di rifugiati siriani, che sono persone brillantissime. Uomini e donne che scrivono, fanno del cinema, ecc. Ma sono totalmente incapaci di riunire dieci persone in un gruppo politico. Gli ho detto: ascoltate, se non volete fare un partito politico, allora fate un club letterario…anche questo è impossibile. C’è un ripiegamento individuale, che è un’eredità anche dei lunghi anni di dittatura e di controllo poliziesco sulle persone: anche ora conosco delle persone che se parlano in un Bar a Parigi si guardano le spalle per il timore che qualcuno le ascolti…

Rproject È comprensibile…In Occidente si è persa la percezione di cosa sia una dittatura…

Farouk Mardam Bey Sì, certo. Ciò che accade è pesantissimo. Quando si pensa ad un Paese come la Siria, ma anche l’Iraq o la Libia in questo senso non c’è scampo. Sono noti casi di persone che sono morte per aver detto una parola di critica verso Saddam o Assad. Ed è questo il problema dei giovani. Sono molto vicino a molti giovani rifugiati in Francia, che hanno partecipato alle manifestazioni in Siria e sono stati arrestati, ma per fortuna sono stati rilasciati e sono fuggiti attraverso il Libano o la Turchia riuscendo ad arrivare in Europa.

Sono in Francia ma non riescono a far nulla. Io sono presidente di un’associazione che abbiamo fondato subito dopo l’esplosione della rivolta siriana, nel maggio 2011, con persone che sono della generazione successiva alla mia, cioè dei sessantenni, io voglio lasciare il mio incarico, ma non c’è nessuno che voglia sostituirmi. Parliamo di un’associazione ormai assai rinomata, anche da parte del governo che ci invita a degli incontri presso il Quai d’Orsay (il ministero degli esteri francese, ndt) o dal presidente della Repubblica. Non si trovano delle persone che siano disponibili a proseguire un lavoro fatto per tanto tempo.

Rproject Ma secondo lei c’è una responsabilità della sinistra europea e anche degli ambienti che praticano la solidarietà internazionale per questa situazione tra i giovani rifugiati siriani?   

Farouk Mardam Bey Senza dubbio. Personalmente ho polemizzato moltissimo, insieme ad altri, con la sinistra europea. Visto che siamo conosciuti negli ambienti della sinistra radicale, queste polemiche hanno fatto un po’ di rumore, ma tutto è finito là. Per esempio, conosco dei militanti comunisti e del partito di Melanchon e non posso dire che sostengano Assad, non ci sono ragioni perché lo facciano, ma il problema è che non cercano neanche d’informarsi. Ossia, quando si cerca di spiegare loro la situazione nel Paese, non vogliono ascoltare. Per loro fin dall’inizio c’è un campo pro-americano e quindi non degno di essere sostenuto.

È quasi inimmaginabile sentire parlare un militante di Insoumise (3) di Putin come se fosse un rivoluzionario! Per loro l’opposizione all’imperialismo, al capitalismo è rappresentata da Putin! Queste persone che sostengono Putin non si chiedono nulla su cosa sia la Russia di oggi, non si fanno domande sull’economia siriana o quale sia la composizione della borghesia siriana e cosa detiene, chi sono i giovani che si sono ribellati e da dove vengono…Tutto questo non gli interessa, si limitano a dire che l’Iran e Putin bloccano l’influenza americana.

Rproject Sull’Iran c’è un grande equivoco…che risale a molto tempo fa e che continua…

Farouk Mardam Bey Sì. Fanno differenza fra l’integralismo sunnita e quello sciita. Penso che ciò che è avvenuto in questi anni non sia una parentesi perché le ragioni che hanno spinto la gente a ribellarsi sono ancora più dure e con c’è stabilizzazione permanente nella regione. L’idea che, per esempio in Siria, Putin stabilizzerà la situazione non regge…sarà una stabilizzazione instabile. Perché il potere è diventato ancora più feroce e le contraddizioni sono ancora presenti. I governi pensano di aver vinto dappertutto, dimostrando che non ci sono rivolte o cambiamenti possibili.

Gli algerini lo hanno detto fin dall’inizio, quando sono comparse alcune manifestazioni nel Paese che sono state duramente represse: guardate cosa avviene in Libia e in Siria. Volete che l’Algeria torni alla guerra civile? La gente accetta per evitare una nuova guerra civile, ma non è certamente contenta. Non c’è giovane algerino che non sogni di emigrare.

Anche in Tunisia i giovani sognano di trovare anche solo un lavoro precario a Parigi. Sono riusciti a infrangere il sogno che fosse possibile costruire delle società un po’ più giuste, più aperte, ecc. Tuttavia le ragioni della rivolte ci sono tutte, per questo penso che non si vada verso la stabilizzazione, ma verso un inasprimento della repressione; con una possibile follia israeliana sempre presente che rischia di far esplodere tutta la regione.

In Egitto ci sono milioni di persone senza speranza… L’unica cosa che mantiene calma la gente è l’idea che qualunque rivolta finisca col riprodurre la tragedia siriana.

Fin qui non esisteva la possibilità che un governo decidesse di bombardare il proprio popolo, dopo la Siria è diventato, invece, qualcosa di banale fare qualunque cosa. Nessun diritto, né internazionale, né altro, protegge le persone.

La situazione è veramente esplosiva e la violenza è divenuta sempre più forte. Al Qaida e Daesh ora sono stati sconfitti, ma potranno ricomparire con altri nomi perché le ragioni della loro emersione sono ancora presenti. In queste condizioni è evidente la voglia di vendetta…

Vorrei aggiungere un’osservazione alla prima domanda sulla Palestina, ma che riguarda anche la Siria. Ora, c’è la convinzione sempre più diffusa, anche nei vecchi militanti, che ci sia la necessità di una terza Intifada, ma che non assomiglierà né alla prima, né alla seconda, sarà un’altra cosa. L’idea di ripetere le vecchie esperienze non serve. Non serve la violenza, perché loro sono molto più forti. Comincia a diffondersi l’idea di una disobbedienza civile che coinvolga anche i territori del ’48, sit-in che blocchino la vita quotidiana e questo, anche se non sarà l’elemento del cambiamento radicale, potrà essere l’inizio di qualcosa di nuovo, in grado di promuovere una nuova direzione del movimento nazionale palestinese; perché quello che abbiamo conosciuto noi diretto da Yasser Arafat è finito. E il movimento islamico, a mio avviso, è nato morto, ha solo riempito un vuoto, dimostrando molto presto tutti suoi limiti.

L’idea di un movimento pacifico, in Palestina, è l’unico modo per opporsi all’occupazione, all’apartheid… I palestinesi ne sono sempre più coscienti.

 

NOTE

(1) Ahed al Tamimi è una ragazza di 16 anni residente in un piccolo paese della Cisgiordania, Nabi Saleh, abitato da meno di 500 persone. Fin da quando era bambina ha partecipato a manifestazioni contro l’occupazione israeliana. Il 14 dicembre 2017, mentre alcuni soldati israeliani stavano cercando di entrare in casa, Ahed ne spintona uno e cerca di schiaffeggiarne un’altro. Prelevata a casa per questo, deve affrontare un processo con ben 12 capi d’accusa davanti ad un tribunale militare. https://www.agi.it/estero/ahed_tamimi-3322849/news/2017-12-29/

(2) Abdelaziz Bouteflika Presidente dell’Algeria dal 1999. Nel 2014 si è ricandidato per un quarto mandato, nonostante l’età (77 anni) e seri problemi di salute. Il 18 aprile 2014, è stato rieletto con l’81% dei voti.

(3) Insoumise “La Francia che si ribella” è un movimento politico di sinistra lanciato il 10 febbraio 2016 per promuovere la candidatura di Jean-Luc Melanchon alle elezioni presidenziali del 2017, dove arriva quarto. Alle legislative Insoumise risulta esser il primo gruppo di opposizione in parlamento.


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