ASCOLTARLI…

di Domenico Quirico

Lo so che è una sciocchezza. Anzi: peggio, è inutile. Capovolgere il discorso, non quello che noi pensiamo dei migranti, ma tentare di definire il contrario.

Cioè quello che loro pensano di noi, italiani, ospiti renitenti, samaritani ringhiosi o turbati dal dubbio di commettere, accogliendo, un errore. Che strana domanda: a chi mai potrebbe interessare il giudizio di un migrante? Diamine: non è un turista o uno scrittore o un uomo d’affari. Un migrante.

È vero. Non bisognerebbe chiederlo: lui, il migrante, è un uomo che ha solo un minuto di speranza, di farcela di essere accettato di avere il pezzo di carta, un minuto contro, due, tre, cinque anni di disperazione. Che è il tempo del suo viaggio. Lui vive di questo: del minuto di speranza. Come puoi chiedergli di buttarlo via con una risposta incauta? Non è molto, è una realtà quasi impalpabile. Non sa se la mia compassione sia finta. Forse lo è. Ma come rischiare? La sua inquietudine, sì, quella è sincera e ha ben motivo di essere inquieto.

Questa volta non vado a cercarli in mare o nel deserto, non è il suo viaggio, ora, che mi interessa; è il suo specchiarsi in ciò che gli sta intorno, il Nuovo Mondo che si è conquistato con la paura, il sudore, il dolore. Il suo Dopo nell’abnegazione di ogni istante. Non devo andare lontano: basta salire un mattino su una corriera qualsiasi di una linea locale nella zona in cui vivo, il Monferrato.

«Lì li trovi di sicuro, si spostano in bicicletta, ma qualche volta usano l’autobus se hanno un lavoro o solo per vagare in giro, qualcuno per fuggire verso qualche confine». Ci affanniamo a discutere se siano un bene o un male, e loro sono già normalità, paesaggio.

Ci sono infatti: quattro. Li ho subito ribattezzati il Grosso, il Triste, il Rasta e il Filosofo, tre gambiani e un maliano. Si tengono insieme, muti, nell’autobus semivuoto, qualche anziano che si sposta da paese a paese e ragazzi con lo zaino che chiacchierano e ridono fitto. Nessuno, salvo me, sembra badare a loro. Il bus avanza sulla via provinciale, una via familiare più che di transito, dove si sentono gli uomini con i loro costumi, le loro abitudini, perfino i pensieri. Le villette dei geometri degli Anni Sessanta, le cascine rimodernate, e i bar dove c’è sempre qualcuno che sembra aspetti l’arrivo di una gara. I quattro migranti non guardano quello che sfila fuori dai finestrini, forse hanno già fatto questa strada molte volte, forse ci passano solo stamane prima di fuggire.

Con i migranti non bisogna fare domande, è la polizia che fa domande: bisogna ascoltarli, parlare. Se fai domande ti risponderanno che qui tutto è magnifico, che sono felici, che la gente è buona. Ne trovi a centinaia di migranti che ti parlano così, è umano, è normale. È parlando a se stesso che il migrante si confessa, non a te occidentale, straniero, infedele. Hanno tutti una storia che dividono con innumerevoli sconosciuti, le cui figure tragiche e i gesti disperati si susseguono senza mai scomparire del tutto. La mutilano, la truccano la loro storia; ma sfigurarla non è per loro l’unico modo per non riconoscerla più?

Il Triste è un uomo che non potrò dimenticare. È grande, alto, eppure sta piegato, guarda sempre per terra come se avesse un gigantesco peso sulle spalle che lo opprime. Non ho mai incontrato nessuno così definitivamente vinto dalla vita, così tragicamente consapevole che ha perso la scommessa, bruciato l’unica possibilità. È perfino difficile restituire il suo parlare, perché è annegato in infiniti silenzi.

«Perché sono qui? Perché voglio ricomprare la mia casa laggiù in Gambia, la casa che non è più mia, che mi hanno preso, e metterci dentro mia madre perché possa invecchiare e morire in pace. Mia madre! Che ha raccolto uno ad uno i soldi per farmi arrivare qui. Ho solo lei, non ho amici, non ho nessuno da nessuna parte del mondo. Tutti, nel centro dove stavo, telefonano, parlano. Io ho solo lei da chiamare, le dico che va bene, che è bello qua, che tutti sono gentili e non è del tutto vero. Io devo guadagnare quei soldi, devo. Sono qui per nient’altro. Quella casa la rivoglio. Non mi fermo, andrò in giro a cercare lavori a tempo, caporali che mi assumano in nero, va bene, così guadagnerò più rapidamente. Dormirò alla stazione, in strada, non mi importa, è la casa che devo ricomprare, la casa. Ho attraversato l’inferno, tre anni di Libia sai cosa vuol dire? Sono ancora vivo: per cosa? Per niente: ho fallito, ho perso».

Il Rasta: «Che penso dell’Italia, penso che vado via, che vado a Malta, parto lunedì! Non c’è niente qua. Che ci vado a fare? A vendere sulle spiagge, affitto una cassa di roba da uno e mi tengo una percentuale di ciò che vendo. Se ho amici laggiù? Non conosco nessuno. Tutti a dirmi: sei scemo, resta qua, hai un posto dove stare e un lavoro. Ma io voglio andare a vendere a Malta. Dio sono certo che mi farà andare perché gliel’ho chiesto. Dio è buono, me lo deve dare. Voi italiani non capite, noi ci sentiamo sempre provvisori. Io so fare mille cose il muratore, il contadino, riparo biciclette, faccio miracoli con le nostre bici africane che non sono belle come le vostre. Ho trovato un posto in un vivaio in un paese qua vicino e ti racconto una cosa: quello che lavorava con me è italiano, ha la macchina, non mi dava un passaggio e dovevo fare venti chilometri in bici ad andare e altrettanti a tornare. Diceva che ha paura di avere guai in caso di un incidente. Solo se pioveva forte mi dava un passaggio, ma si faceva pagare la benzina».

Il Grosso: «Ero muratore al mio paese, come qui. Sì, il lavoro è lo stesso, ma non è lo stesso il resto: i soldi per esempio, franchi Cfa si chiamano, e non valgono niente. Quando c’era qualcosa da fare, facevano a metà, altrimenti niente per nessuno. Qua il padrone mi guarda e dice: i soldi, i soldi te li do a fine mese, è scritto nel tuo contratto, non siamo mica in Africa qui. Va bene: quando arriva fine mese non mi dà nulla. E dai, non c’è lavoro, mica ti devo pagare se non c’è lavoro. Voi africani siete sempre a chiedere, chiedere. Sapere se posso o non posso fidarmi di lui mi fa impazzire: forse ridacchia appena volto le spalle e le spalle me le volta sempre fingendo di avere qualcosa da fare, va su e giù, prende una martello, un secchio, fa finta lui, fa finta di essere occupato. Una volta ho fatto una prova: ho fatto un balzo in avanti e l’ho guardato. Ho visto solo un po’ di paura. Voi italiani sapete controllarvi meglio di noi, siete una cricca piena di forza e di sicurezza: noi, noi che aspettiamo, noi africani non abbiamo niente , viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da una minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tenete ben stretti al morso, due parolette e la nostra vita è di nuovo andata al diavolo. Amministrate il paradiso, amministrate la speranza, la consolazione. Avete tutto in pugno, noi possiamo solo accostare le labbra per qualche minuto».

Il Filosofo: «Tu vuoi sapere cosa pensiamo di voi? In Africa vedevamo i turisti, anche italiani; ricchi, tutti ricchi, spendevano, pagavano. Così pensiamo che da voi tutti abbiano soldi. Adesso, arrivati qui, sappiamo che non è così, ma nessuno lo racconta. Anzi si assicura che va tutto bene, stiamo come signori. C’è uno al centro di accoglienza che è andato via e ora fa il mendicante. Non ci crederai: si fa delle foto con il telefonino vicino ad auto di lusso o a ristoranti famosi e le manda a casa, perché credano che è così che vive. Perché? Perché in Africa non si racconta agli altri il tuo problema, è tuo e basta, e nessuno può fare niente per noi».

Tratto da: www.lastampa.it

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