HUSSON – CHESNAIS: DUE INTERVISTE SUL CAPITALISMO

UNA CRISI SISTEMICA CHE AFFONDA LE SUE RADICI NEI RAPPORTI DI PRODUZIONE CAPITALISTICI

Un’uscita capitalista dalla crisi non potrebbe che essere socialmente regressiva. Il sistema non ha più nulla da offrire che potrebbe legittimarlo. La questione dell’automazione permette di mettere a fuoco l’irrazionalità del capitalismo.

Henri Wilno – Il mondo cambia composizione. Alcuni economisti hanno analizzato la crisi attuale come al contempo (oltre ai suoi fattori) una crisi di governance del capitalismo. Saremmo ormai in una fase di declino dell’egemonia americana senza che nessun’altra potenza sia in grado di assicurarne la sostituzione, neppure la Cina. Cosa si può dire di questa tesi?

Michel Husson – C’è la geopolitica, detto altrimenti, le relazioni tra Stati e c’è la strutturazione dell’economia mondiale attraverso le imprese multinazionali. Le due mappe, quella dei capitali e quella delle potenze nazionali, coincidono sempre meno. Lo sfasamento è stato accentuato dalla globalizzazione, che va oltre gli scambi commerciali tra paesi. Oggi si tratta della produzione di merci e della loro commercializzazione a cavallo di diverse zone del mondo, quella che si chiama “filiera globale”.

Questo sfasamento tra le due mappe del mondo fa sì che gli interessi capitalisti non siano omogenei e non definiscano una politica unificata all’interno di uno stesso paese. Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti; alcuni settori capitalisti possono applaudire alle misure protezioniste che Trump prevede di prendere, ma queste si oppongono agli interessi di altri settori. Il Messico è particolarmente colpito, mentre una parte delle importazioni provenienti dal Messico corrisponde alla produzione di capitali statunitensi investiti in questo paese. La coppia costituita da Stati Uniti e Cina, la “Chimerica” (1), aveva funzionato in modo favorevole alle due potenze: crescita a credito per gli Stati Uniti, crescita tirata dalle esportazioni per la Cina. L’importazione di beni di consumo a bassi costi di produzione permetteva di fare scendere il prezzo della forza lavoro negli Stati Uniti e/o di gonfiare i sovraprofitti di WalMart. Tutti vi trovavano il proprio tornaconto.

Ma la “Chimerica” sta per rompersi e, in generale, tutto accade come se la globalizzazione avesse raggiunto il suo limite. Nel corso dei precedenti decenni, il commercio mondiale aumentava con una velocità doppia rispetto al PIL mondiale, ora avanza, nella migliore delle ipotesi, alla stessa velocità. L’estensione delle filiere globali è entrata in una fase di rendimenti decrescenti e si assiste persino a fenomeni di rilocalizzazione. Il riorientamento dell’economia cinese verso il proprio mercato interno contribuisce a questo fenomeno. In questo senso, la Cina non è candidata al ruolo di potenza egemonica e non si può leggere il periodo come una fase di transizione tra due potenze dominanti, ma piuttosto come una crisi di governance del capitalismo i cui sbocchi non sono esclusivamente economici.

D. La crisi è duratura. Chi la paga e come, al di là delle formule generali sull’1% contro il 99%?

R. La prima risposta evidente è che questa crisi è pagata dalle vittime delle politiche di austerità. Poi, è importante capire perché non possa essere altrimenti. La ragione essenziale è l’esaurimento degli incrementi di produttività: ciò che produce un salariato medio in un’ora di lavoro tende a stagnare o, in ogni caso, aumenta debolmente. Questo, però, significa anche l’esaurimento del dinamismo del capitalismo: esso può mantenere o aumentare il suo tasso di profitto solo a condizione di bloccare o diminuire quello che viene chiamato il costo del lavoro. E ciò si traduce in politiche di austerità salariale, ma anche di riduzione dello Stato sociale, della protezione sociale e dei servizi pubblici. In altre parole, un’uscita capitalista dalla crisi non potrebbe non essere socialmente regressiva. Il sistema non ha più nulla da offrire per riuscire ad essere legittimato.

Questa non è una crisi finanziaria, è una crisi sistemica che affonda le sue radici nei rapporti di produzione capitalistici. È, tra l’altro, una delle tesi essenziali del libro di Attac (2) al quale ho contribuito, articolata con un’analisi del concetto di capitale fittizio. Questo concetto, che troviamo in Marx, è stato rivisto da François Chesnais (3) e Cédric Durand (4); esso designa l’accumulazione di titoli finanziari che sono altrettanti “diritti di prelievo” sul plusvalore.

Questa focalizzazione sul capitale fittizio permette di mettere in luce un’importante contraddizione nella gestione capitalista della crisi. Da una parte, servirebbe una svalutazione massiccia del capitale per rimettere i contatori a zero e ristabilire il tasso di profitto. Non si tratta solo di una fisima marxista: è anche il punto di vista dell’OCSE, che addita le “aziende zombie” (5) quali responsabili dei deboli aumenti di produttività e degli insuccessi dell’accumulazione. Questo implicherebbe però che i detentori di questo capitale fittizio accettassero di “assumersi le loro perdite”, cosa che, evidentemente, rifiutano. Le politiche condotte in particolare in Europa obbediscono a una logica di convalidazione di questi diritti di prelievo acquisiti prima della crisi, anche se la loro crescita è una causa della crisi e, in ogni caso, un ostacolo all’uscita dalla crisi. È questa contraddizione che rende valida l’opposizione tra l’1% e il 99% della popolazione, perché la concentrazione della ricchezza finanziaria è molto più grande di quella dei redditi. Ed è ciò che permette di pronosticare un ricorso duraturo a politiche di austerità e di regressione sociale.

D. Qualche anno fa, le nuove tecnologie erano presentate nel discorso ufficiale come la “nuova frontiera” che avrebbe rilanciato una fase lunga di espansione. Ora, il dibattito verte sul loro impatto distruttivo sull’impiego e sulle disuguaglianze. Cos’è la “stagnazione secolare”? Cosa se ne può pensare? Alla luce di questa tesi, quali sono le prospettive per il capitale?

R. Tutti questi interrogativi rinviano al fondo di una questione: cosa determina gli aumenti di produttività? Si tratta ancora una volta di una questione essenziale per la dinamica del profitto e dell’accumulazione. Tuttavia, di fatto, non se ne sa nulla. Nel passato, ciò ha dato luogo al paradosso di Solow, riferito a un breve articolo di giornale in cui quest’ultimo si chiedeva perché si vedessero dappertutto nuove tecnologie, salvo che nelle statistiche di produttività. Era il 1987 e si potrebbe raccontare la storia delle speranze e delle sconfitte degli economisti che annunciavano una nuova fase di espansione (“un nuovo Kondratieff”). Questo dibattito è stato particolarmente intenso negli Stati Uniti, dove i fautori della rivoluzione tecnologica si sono costantemente opposti ai “tecno-pessimisti” che vedevano solo un boom senza domani. Erano questi ultimi ad avere ragione, in particolare Robert Gordon, il principale sostenitore della futura “stagnazione secolare”.

D’altro canto, però, si moltiplicano i discorsi sulla “fine del lavoro”. I robot e quella che viene denominata “l’economia delle piattaforme” condurrebbero inesorabilmente a distruzioni massicce d’impieghi, nell’ordine di un impiego su due nei prossimi dieci o venti anni. Questo è l’argomento di massa a favore di un reddito di base universale che dobbiamo rifiutare, a meno che non ci rassegniamo all’idea che sia la tecnologia a dovere dettare l’organizzazione della società. Ora, le cose non devono funzionare così e non funzionano così: la tecnologia non decide affatto. I nuovi modi di produzione, le nuove merci, tutto questo si deve integrare nella logica di mercato. E questa è probabilmente la spiegazione di fondo del paradosso di Solow; per dirla in modo semplice: la robotizzazione non basta, bisogna anche che ci sia un potere d’acquisto per comperare quello che i robot producono e un modello sociale adeguato.

Questa questione dell’automazione permette di focalizzarsi sull’irrazionalità del sistema capitalista. Ammettiamo che degli enormi aumenti di produttività stiano per verificarsi: ciò dovrebbe essere una buona notizia, perché i robot lavorerebbero al nostro posto. Nella logica capitalista però, si tratterebbe, al contrario, di una catastrofe sociale, con distruzioni massicce d’impieghi. Ecco perché la riduzione del tempo di lavoro è la risposta razionale e tale da costituire la base per un’altra società, una società ecosocialista. L’obiettivo di garantire un reddito decente a ognuno è evidentemente legittimo e ci sono delle misure d’urgenza da prendere in quest’ambito, ma non dobbiamo tuttavia rinunciare al diritto al lavoro.

D. Un dibattito ha diviso gli economisti critici in merito alle politiche di austerità: sono assurde o razionali? Per limitarci all’Unione Europea, sembra difficile pensare che Draghi, Merkel, Juncker o Hollande siano solo una banda d’imbecilli: quali sono dunque i risultati di queste politiche e della loro continuazione?

R. È un vero dibattito che abbiamo avuto all’interno della Commissione per la verità sul debito greco. I piani di aggiustamento imposti alla Grecia non potevano evidentemente funzionare. Era facile prevedere che massicci tagli al budget avrebbero generato una recessione profonda e che, in fin dei conti, il peso del debito sarebbe aumentato invece di diminuire. Il FMI ha d’altronde più o meno fatto la propria autocritica su questo punto. C’è quindi una prima lettura: le politiche di austerità sono assurde e hanno spezzato la ripresa che si affacciava nel 2010 in Europa. Sono necessarie altre politiche. Ma c’è evidentemente un’altra lettura: i dirigenti europei sanno quello che fanno e conducono una terapia choc che mira a ridurre significativamente le conquiste sociali, considerate altrettanti ostacoli alla competitività.

Il problema è che c’è del vero in entrambe le tesi o, meglio, che bisogna combinare i due discorsi. Per esempio, nel caso greco, non si può rinunciare all’argomento che le condizioni imposte alla Grecia sono non solo assurde, ma chiaramente demenziali, perché le si chiede di conseguire degli avanzi di esercizio del 3.5% prima del pagamento degli interessi sul debito. È al contempo possibile mostrare che i veri obiettivi non sono mai stati di rilanciare l’economia greca, ma di salvare le banche europee, di scoraggiare qualsiasi politica unilaterale e di assicurare il pagamento del debito.

La tensione che esiste tra questi due discorsi rinvia in fondo a una difficoltà programmatica e strategica: come costruire un progetto di transizione o di biforcazione verso un altro funzionamento dell’economia? Quello che io chiamo il “cretinismo keynesiano” non risponde alle sfide. Tuttavia, nemmeno una logica “ultimatista” che consiste nel dire che non è possibile fare nulla senza abbattere immediatamente il capitalismo permette di fare avanzare le cose. Secondo uno studioso come Friot, per esempio, “battersi per l’impiego equivale a spararsi in un piede” (6) e la lotta per una migliore ripartizione della ricchezza equivarrebbe a “evitare la lotta di classe”. Bisogna constatare che le coordinate del periodo sono favorevoli agli inventori di sistemi e ai guru. Ci vorrà senza dubbio del tempo per ricostruire un vero orizzonte di trasformazione a partire dalle lotte e dalle resistenze sociali.

Membro del consiglio scientifico di Attac, Michel Husson ha scritto, in particolare: “Un pur capitalisme” (Editions Page deux, 2008), “Le capitalisme en dix leçons” Editions Zones, 2012) e partecipato a un libro collettivo di Attac sulla crisi, “Par ici la sortie” (Editions Les Liens qui libèrent, 2017).

Il suo blog: hussonet.free.fr

La traduzione è stata curata dai compagni di Solidarietà del Canton Ticino.

1. Espressione coniata nel mondo accademico per indicare il legame simbiotico tra gli Stati Uniti e la Cina a livello economico (NdT)

2.  Cfr. «Par ici la sortie » Editons Les Liens qui libèrent, 2017

3. François Chesnais, “Finance Capital Today”, Brill, 2016

4. Cédric Durand, “Le Capital fictif”, Les prairies ordinaires, 2014

5. M. Husson, “Optimisme structurel a l’OCDE”, Alternatives Economiques, 9 mars 2017

6. Bernard Friot, “Emanciper le travail”, La dispute, 2014

 

L’USCITA DALLA CRISI, VALE A DIRE IL PROTRARSI DI UNA NUOVA PROLUNGATA FASE DI ACCUMULAZIONE DI CAPITALE, NON È POSSIBILE.
Intervista di Henri Wilno a François Chesnais

Secondo F. Chesnais, [1] il capitalismo, in preda alle proprie contraddizioni interne, ma anche di fronte alla crisi ecologica da lui stesso creata, si scontra con “limiti insormontabili”.

Henri Wilno – La discussione tra economisti sulle cause dell’attuale crisi non è assolutamente conclusa. Come sei schierato al riguardo? Come si articolano i vari fattori della crisi?

François Chesnais – Si suole datare l’avvio della crisi alla fine di luglio-inizio agosto del 2007. Negli anni trascorsi da allora, naturalmente la mia posizione è andata evolvendo. In un testo dell’autunno 2007 per il convegno “Marx International”, pubblicato nel n.1 della rivista congiunta A l’Encontre-Carré rouge, ho sostenuto subito che la crisi era cominciata in maniera del tutto classica nel sistema creditizio statunitense, che si trattava di una crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione basata su un massiccio indebitamento delle imprese e delle famiglie, facilitato da inediti strumenti di ingegneria finanziaria e il cui terreno era il mercato mondiale. La crisi di settembre 2008 a Wall Street si stava ergendo di fronte al sistema finanziario mondiale, e provocò una recessione mondiale parata al volo dalla Cina.

In prospettiva mondiale, si è avuta la ristrutturazione e non la distruzione del capitale produttivo. Non così è stato per il capitale fittizio, cioè nel caso delle azioni e obbligazioni private e dei buoni del Tesoro, da riscuotere tramite l’interesse del debito pubblico a carico degli introiti fiscali centralizzati. Per i detentori, questi titoli, che devono essere negoziabili in qualsiasi momento in mercati specializzati, costituiscono un capitale da cui sperano di ricavare una rendita regolare sotto forma di interessi e dividendi (una “capitalizzazione”). Dal punto di vista del movimento del capitale che produce valore e plusvalore non sono, nel migliore dei casi, se non il “ricordo” di un investimento già realizzato, donde il termine di “capitale fittizio”.

A partire da queste forme primarie, l'”ingegneria finanziaria” ha generato forme derivate (in inglese: derivatives). Ho posto in rilievo nei miei scritti l’attualità del “ciclo breve” del capitale-denaro (D-D’, vale a dire ricevere più danaro di quello apportato inizialmente), in cui gli investitori sperano di ottenere, senza uscire dai circuiti finanziari, flussi di introiti regolari, “come i peri danno le pere” (per riprendere un’espressione ironica di Marx).

Sul problema del saggio di profitto, rispetto al quale non avevo nulla da aggiungere, ho aderito alla posizione classica che lo lega alla composizione organica del capitale, ma ho insistito sulla necessità per il capitale industriale di realizzare l’intero ciclo, D-M-P-M’D’ (per ricavare D’ avendo anticipato D occorre che siano intervenuti acquisto di forza lavoro, produzione e commercializzazione), e che si sia poi tenuto conto della domanda.

Negli ultimi mesi in cui stavo scrivendo Finance Capital Today mi è capitato per le mani un testo in inglese di Ernest Mandel del 1986, che non si cita mai o quasi mai, sulle conseguenze di quello che chiamava il “robotismo” [la “robotizzazione”], allora incipiente. Mandel vi sostiene che “l’espansione dell’automazione oltre un determinato limite comporta inevitabilmente in primo luogo la riduzione del volume totale del valore prodotto, poi la riduzione del volume di plusvalore realizzato”.[2] Vi scorgeva un “limite insormontabile”, portatore della “tendenza del capitalismo al tracollo finale”. La robotizzazione blocca la possibilità di riduzione della composizione organica, vale a dire del rapporto tra la parte costante (il valore dei mezzi di produzione) e la parte variabile (il valore della forza lavoro, il monte salari), cosicché il gioco effettivo dei fattori “contrastando la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto” diventa sporadico e quello che era un limite relativo diventa un limite assoluto.

Ben più di recente, in uno scritto illuminante del 2012, Robert Kurz[3] parla di “insufficiente produzione reale di plusvalore”, su sfondo di “terza rivoluzione industriale” (la microelettronica). La debolezza dell’investimento produttivo fa sì che il capitale fittizio viva sempre più in vaso chiuso. “I peri producono sempre meno pere”, tranne per i buoni del Tesoro, il lavoro dei traders consiste nel fare profitti, minuscoli per la maggior parte delle transazioni, passando da un compartimento di mercato all’altro. Il risultato è l’endemica instabilità finanziaria, il formarsi di bolle, che è un altro dei tratti della fase.

D. – Si può dire che l’unico orizzonte del capitalismo sia il perpetuarsi di questa crisi?

R. – Penso di sì, tanto più che si verificherà l’intreccio del cambiamento climatico con gli effetti economici, sociali e politici. Due poderosi meccanismi, che si consideravano “pro-ciclici”, sono diventati strutturali e aprono a questa situazione in cui l’uscita dalla crisi, cioè una nuova lunga fase di accumulazione capitalistica, non può verificarsi.

D’altronde la crisi economica, protraendosi, si combinerà con gli effetti economici, sociali e politici del cambiamento climatico; i rapporti che il capitalismo ha stabilito con la “natura” sono approdati a un ulteriore limite sul cui concretizzarsi si sta discutendo. Marx non poteva prevedere la distruzione ad opera della produzione capitalistica degli equilibri dell’eco-sistema, soprattutto della biosfera. Si è limitato ad intuire l’esaurimento dei suoli per effetto dell’industrializzazione della produzione agricola. Alcuni marxisti, a partire da O’Connor, hanno cercato di colmare il vuoto, cominciando a definire la distruzione delle risorse non rinnovabili nelle sue molteplici forme e più tardi il cambiamento climatico come “limite estremo”.

Io sostengo la tesi dell’internalizzazione del limite, la necessità oggi di abbandonare la contrapposizione tra “contraddizione interna” e “contraddizione esterna” in ragione dell’impossibilità per il capitalismo di modificare i suoi rapporti con l’ambiente. Infatti, l’infinita valorizzazione del denaro diventato capitale nel movimento di produzione e di vendita delle merci, a sua volta infinito, gli impedisce di rallentare le proprie emissioni di gas a effetto serra, di controllare il ritmo dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Il meccanismo che sfocia nella “società di consumo” e il suo sperpero dissennato è quello che segue: perché sia concreta l’autoriproduzione del capitale occorre che il ciclo di valorizzazione si chiuda con “successo”, quindi che le merci fabbricate, la forza lavoro acquistata sul “mercato del lavoro” e utilizzata a propria discrezione dalle imprese nei luoghi di lavoro, siano vendute.

Perché vengano soddisfatti gli azionisti occorre che venga riversato sul mercato un ampio quantitativo di merci che cristallizzano il lavoro astratto contenuto nel valore. Per il capitale, è del tutto indifferente che queste merci costituiscano realmente delle “cose utili” o che ne abbiano semplicemente la parvenza. Per il capitale, l’unica “utilità” è quella che consenta di liberare profitti e protrarre all’infinito il processo di valorizzazione, così che le imprese sono diventate maestre con la pubblicità nell’arte di dimostrare a coloro che dispongono realmente o in modo fittizio (il credito) del potere d’acquisto che le merci che offrono loro sono “utili”.

D. – A proposito della crisi ecologica, si utilizza spesso il termine “antropocene” per indicare la tendenza e denunciare le responsabilità. Puoi precisare le poste in gioco di questa discussione?

R. – La sfida è quella di fornire una base solida all’eco-socialismo. Non va dimenticato che il mio articolo uscito su Inprecor è la traduzione della conclusione del mio Finance Capital Today. Il mio obiettivo era quello di offrire un punto di riferimento a un pubblico anglofono. Il nome di Jason Moore gli è familiare. Il termine “antropocene” è stato inventato da alcuni scienziati per indicare l’attuale era geologica, contraddistinta dal fatto che l'”umanità” diventa una forza geologica a pieno titolo che interviene a modificare l’insieme dei fenomeni climatici, geologici, atmosferici.

In un lavoro che vuole “moltiplicare i punti i vista”, Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz hanno proposto una “lettura eco-marxista dell’Antropocene” consistente “nel rileggere la storia del capitalismo attraverso il prisma non solo delle ripercussioni sociali negative della globalizzazione come nel marxismo standard (cfr. il concetto di “sistema mondo” di Immanuel Wallerstein e quello di “scambio disuguale”), ma anche dei suoi metabolismi materiali insostenibili (fatti di ricorrenti fughe in avanti verso l’investimento di nuovi spazi in precedenza vergini rispetto a rapporti estrattivisti e capitalisti) e delle relative ripercussioni ecologiche”.[4] Bonneuil e Fressoz, come Jason Moore, stabiliscono entrambi un nesso tra la svolta nei rapporti dell’uomo con la natura teorizzata da Francis Bacon e Cartesio e quella nei rapporti tra gli uomini con la creazione della schiavitù e la conseguente costruzione del predominio imperialista.

Moore è meno ecumenico degli autori francesi e affonda il chiodo. Il termine “capitalocene” serve a sostenere che viviamo “l’età del capitale” e non “l’età dell’uomo”. L'”età del capitale”, per lui, non ha solo un’accezione economica, ma indica un modo di organizzare la natura, facendone qualcosa di esterno all’uomo ed anche qualcosa di “cheap”, nel duplice significato che il termine può avere in inglese: a basso costo, ma anche, dal verbo “cheapen”, ribassare, deprezzare, degradare. Questo vale per i/le lavoratori/lavoratrici, con l’intensità dello sfruttamento della forza lavoro che ha raggiunto l’apice nelle miniere e nelle piantagioni.

D. – Tu di nuovo attualizzi il dibattito sui limiti del capitalismo. Questo innalza le sfide della fase attuale. Ora, contrariamente agli anni Trenta, è evidente l’ascesa delle forze reazionarie di ogni tipo, ma non quella del movimento operaio, il movimento altermondialista nel migliore dei casi ristagna, gli ecologisti sono capaci di feroci resistenze locali ma niente di più… In un simile contesto quali possono essere le prospettive e i punti d’appoggio dei marxisti rivoluzionari?

R. – Bisogna fare attenzione all’analogia degli anni Trenta sempre più marcata dalla prospettiva di una nuova guerra mondiale. Per altro verso, tuttavia, hai ragione. Tutto sta nelle mani di “quelli/e che stanno in basso”. Il peso della disoccupazione grava sulle lotte operaie. Il compito del momento è trasformare l’indignazione in collera sui tanti terreni in cui le disuguaglianze la suscitano, seminarne i germi e sostenerla quando esplode. È essenziale rivoltarla contro il capitale e contro la proprietà privata. A fare la forza delle lotte ecologiste sono la convinzione e l’individuazione precisa del nemico cui puntare. Viceversa, il movimento altermondialista ristagna perché ha espunto la quota di anticapitalismo che ha avuto per un momento.

 

[1] Membro del Gruppo di lavoro economico del NPA e del Comitato scientifico di Attac, François Chesnais ha scritto tra l’altro “Les Dettes illégitimes” (Editions Raisons d’agir), e ha diretto “La Finance mondialisée” (Editions La Découverte, Parigi 2004). La conclusione della sua opera più recente, Finance Capital Today, è stata pubblicata in Inprecor, nn. 631-632 (settembre-novembre 2016).

[2] Ernest Mandel, Introduction, in: Karl Marx, Capital, Libro III (Penguin, 1981), p. 78.
[3] Cfr. Attac, Les Possibles, n. 3, primavera 2014, in cui si riassumono le posizioni sostenute in J. Baptist Fressoz, Christophe Bonneuil, L’Événement anthropocène – La Terre, l’histoire et nous, Le Seuil, 2013

[su Robert Kurz cfr: http://www.palim-psao.fr/tag/sur%20robert%20kurz/]

[4] Jason Moore, Capitalism in the Web of Life, Ecology and the Accumulation of Capital, Verso, 2015.

Potrebbe piacerti anche Altri di autore