FASCISMO ED ECOLOGIA

Ai bambini è vietato usare parole inglesi. I genitori praticano il ritorno alla terra e l’odio xenofobo. In Germania sono tornati i “protettori della zolla” che tirarono la volata al Führer. Siamo andati a vedere

di Tonia Mastrobuoni

KOPPELOW (Germania). Nessuno è benvenuto, nel regno degli econazisti. Dimenticate gli skinhead col bomber o gli hooligan con le svastiche tatuate sul petto. Siamo a Koppelow, nell’idilliaca “Svizzera del Meclemburgo”, nel laboratorio di un esperimento che fa paura. Qui i nazisti fondarono nel 1926 il movimento degli artamani, dei “protettori della zolla”. L’obiettivo era creare un’élite in piena campagna, isolarsi dalla liberale Repubblica di Weimar rendendosi autosufficienti, costruire un’élite völkisch, germanica e antisemita, cacciare i lavoratori polacchi. Prepararsi al Terzo Reich. Ne facevano parte gerarchi delle SS del calibro di Heinrich Himmler o il futuro comandante di Auschwitz Rudolf Höss.

Vent’anni fa, gli artamani sono tornati. Con ambizioni simili. Allora Huwald Fröhlich, tagliaboschi e produttore bio, scrisse varie lettere su riviste di estrema destra come Opposition für Deutschland, invitando i camerati a raggiungerlo nel luogo simbolo dell’avanguardia bruna. Con lui arrivarono il fabbro Jan Krauter, che vende coltelli e rune di ferro, e la rilegatrice Irmgard, sul cui sito web campeggia il Signore degli anelli di Tolkien, mito intramontabile dell’estrema destra.

Educazione hitleriana

«C’è nessuno?». Ci incamminiamo verso uno strano camper di legno, accanto all’ingresso. È curioso, sembra piombato qui da un altro secolo. Una gallina sbuca da dietro una ruota, ci guarda perplessa. All’improvviso un uomo vestito di nero esce correndo dalla fattoria. «Che volete?» urla. Ci presentiamo, gli chiediamo se conosce il suo vicino di casa, Huwald Fröhlich. E se conosce i neo-artamani. Abbiamo cercato di bussare anche da Fröhlich, inutilmente. L’uomo scopre i denti con un ghigno: «Leggende. Il mio vicino è un tranquillo boscaiolo. I neo-artamani non esistono». Poi si avvicina: «Ora basta, andatevene».

Niente teste rasate, da queste parti: hanno i capelli lunghi. Niente bronci: sui siti web sorridono gentili. E i vestiti hanno un’aria antica: lana grezza, cuoio. Bussiamo alla fattoria del fabbro Krauter, noto alla polizia per il passato da militante neonazista, a un paio di chilometri da quella di Fröhlich. All’ingresso balle di fieno e un cartello: “Vero miele tedesco”. Entrando scorgiamo il simbolo inequivocabile della nuova avanguardia hitleriana: l’Irminsul, una sorta di colonna alata, un simbolo germanico e pagano che gli artamani e gli econazi mettono all’ingresso delle loro case per riconoscersi a vicenda. Meno spettacolare delle rune o delle svastiche, più in sintonia con il loro culto della segretezza.

Dalla metà degli anni 90 sono almeno venti le famiglie che si sono trasferite nel triangolo Koppelow-Krakow am See-Klaber, su invito di Fröhlich. Con loro ci sono sessanta bambini che vivono in un ambiente soffocante e isolato, educati secondo i precetti del nazionalsocialismo. E Koppelow somiglia a decine di altri posti sperduti nelle campagne della Germania, in Meclemburgo ma anche in Nordreno-Westfalia, Sassonia o nel Baden-Württemberg. Ovunque si sta diffondendo nella quasi indifferenza generale una società parallela, sovversiva, che punta, per dirla con il neonazista Ralph Tegethoff, all’avvento della «libera nazione tedesca del popolo».

Ormai sono migliaia i “colonizzatori” in tutto il Paese. I servizi segreti sono continuamente costretti ad aggiornare al rialzo il numero delle proprietà che comprano, dei villaggi che conquistano. Che purificano, per usare il loro gergo.  Le famiglie degli insediamenti völkisch ragionano in termini di generazioni, non di mesi o anni. «La loro strategia è andare in luoghi dove devono temere poca resistenza, dove possono rendersi invisibili, dove possono comprare case, fattorie vicine. Da lì», ed è questo l’aspetto pericoloso, «cominciano a costruire colonie chiuse e a fare proselitismo tra i vicini. Detesto usare termini militari, ma posti come Koppelow sono le loro teste di ponte, le loro basi». Elisabeth Siebert, politologa della Evangelische Akademie der Nordkirche, è una pioniera degli studi sugli insediamenti neonazisti nel Meclemburgo. «Dieci anni fa, quando ho cominciato, nessuno mi credeva». Quando la incontriamo, appena fuori da Rostock, ci chiede di non fare foto: «Ricevo già abbastanza minacce».

Collegati quasi sempre con i neonazi vecchia maniera, i völkischen si considerano un’aristocrazia, e hanno modi di fare opposti. Al lavoro sporco pensano i camerati “classici”, col solito repertorio barbarico di minacce, assalti a migranti, omosessuali o autonomi, teppismi. Nelle colonie nazi invece la parola d’ordine è rendersi autonomi dallo Stato e crescere i figli alla rivoluzione, ma dissimulando. Rimanendo possibilmente fuori dal radar dei servizi segreti. «Sanno come muoversi» spiega Siebert, «partecipano alla vita dei villaggi», organizzano feste per bambini, campeggi, punti di consulenza per i disoccupati. «E tra un’attività e un’altra fanno cadere una battuta sui profughi “invasori”, raccontano una barzelletta sugli ebrei o sugli omosessuali. Tastano il terreno. Sono missionari del nazionalsocialismo e agiscono con enorme prudenza» puntualizza Siebert. Sono gli insospettabili nazi della porta accanto.

I bambini sono cruciali, ovviamente, per la strategia sovversiva dei völkischen. Sono le vittime principali, tragiche, di questo cancro che si sta mangiando la campagna tedesca. Vivono isolati: le bambine cresciute per diventare delle impeccabili madri nazionalsocialiste, i bambini uomini-guerrieri. «Se chiedi ad uno di questi bambini cosa vuol fare da grande» racconta Siebert «ti risponde: “Farò ciò che servirà al mio popolo”. Ogni impulso a sviluppare una personalità autonoma è brutalmente represso. L’individuo non conta nulla, conta solo il popolo». L’associazione di cui fa parte Siebert cerca di aiutare le scuole a difendersi dalla violenza psicologica delle famiglie neonazi: «Tendono a iscrivere i figli tutti insieme e in scuole possibilmente steineriane o evangeliche, insomma private, dove i genitori hanno molta più influenza sui programmi e sulle attività scolastiche». Dove sono tra di loro, il più possibile.

Andrea Röpke è una delle maggiori esperte dei figli dei colonizzatori e dei neonazisti. Giornalista e scrittrice, è perseguitata da anni, e nel 2006 fu picchiata violentemente per aver voluto filmare un ritrovo di un’organizzazione giovanile di estremisti. «Questi bambini» ci spiega «crescono in un mondo estremamente reazionario e autoritario. Non possono indossare jeans, il computer è vietato, devono usare solo termini tedeschi, gli anglismi sono proibiti e le bambine diventano molto presto iper-addomesticate. I maschi, invece, si fanno notare per comportamenti molto aggressivi». Nei casi più estremi «i genitori li costringono a citare Mein Kampf e a girare con vestiti antichi, le bambine con gonne lunghe e  lunghe trecce». E non è tutto.

Da decenni le campagne tedesche sono infestate anche da campeggi e da colonie dove i neonazisti mandano i loro figli a prepararsi per la guerra civile. Letteralmente. Röpke li documenta da anni: le autorità tedesche ne vietano una dopo l’altra, ma rispuntano come teste di Idra ogni volta che se ne sopprime una. Ci sono state la Gioventù vichinga, la Gioventù fedele alla patria e simili. Non muoiono mai. Organizzano marce, gare, prove di coraggio con coltelli, esercitazioni con fucili ed altre armi, ma anche riti germanici, feste pagane e pellegrinaggi alle tombe di vecchi nazisti come Ernst Otto Remer, il gerarca che fece giustiziare i putschisti attorno a von Stauffenberg che tentarono di ammazzare Hitler nel 1944. Ci sono anche incontri con discendenti delle Waffen-SS. L’obiettivo è uno solo, ha raccontato anni fa la neonazista pentita Tanja Privenau: «essere pronti per il momento della presa del potere». Ci credono ciecamente. E Röpke sostiene che sono «diverse migliaia» i bambini che continuano a partecipare regolarmente a queste barbariche scuole di sopravvivenza.

Ma nella Svizzera del Meclemburgo – ribattezzata tristemente “Nazi-Toskana” da qualcuno – ci sono anche sacche di resistenza. Reinhard Knaack è il sindaco di Lalendorf, villaggio di 900 anime nascosto nei boschi. Sei anni fa si rifiutò di consegnare il premio del capo dello Stato a Petra Müller per il suo settimo figlio. Aria fricchettona, capelli intrecciati e gonna lunga, Müller è una nota neonazista. Veste alla maniera tipica delle econazi, delle colonizzatrici, come le donne tedesche dei secoli scorsi. Dopo il rifiuto, ci racconta Knaack nel suo piccolo ufficio, il sindaco si è ritrovato un gruppetto di teste rasate in giardino che lo minacciavano. Nazi vecchia maniera venuti a difendere una nota famiglia di Siedler, di colonizzatori. A conferma che la rete tra gli hitleriani, antichi e moderni, è invisibile ma c’è. E la cosa più inquietante, Knaack ce la racconta quasi sussurando: «È arrivata la polizia e prima di cacciarli ha preso le generalità di tutti. Nomi e cognomi. Guarda caso, quel rapporto è sparito». La polizia è connivente?, chiediamo. Knaack ci guarda negli occhi, poi annuisce lentamente: «Qualcuno sì».

Proseguiamo il nostro viaggio fino a uno dei villaggi più famosi del Meclemburgo colonizzato dai nazisti. Poco distante da Wismar, quasi sul Mar Baltico, c’è Jamel. All’ingresso del paesino di appena 38 abitanti, un cartello indica la distanza da Braunau am Inn, città natale di Hitler. E sul grande murale che adorna una fattoria sono dipinti un’inquietante famiglia “ariana” e l’Irminsul, il simbolo che abbiamo già incontrato molto più a sud, davanti alla casa del fabbro Krauter, nella “Nazi-Toskana”. In questo villaggio dall’aria tranquilla, i neonazisti sono riusciti negli anni a cacciare quasi tutti. Qui i colonizzatori sono ancora vecchia maniera, con look da skinhead e modi da teppisti. Ma la fattoria dei Lohmeyers, Birgit e Horst, resiste da anni ai loro brutali tentativi di cacciarli. Su 38 abitanti, 36 sono neonazisti. Loro due no.

Nella testa delle teste rasate, Jamel doveva diventare un modello, un villaggio purificato, “ariano” al cento per cento. E invece. Dopo anni di gomme bucate, inseguimenti, minacce, pressioni psicologiche, i due artisti continuano a resistere. L’anno scorso le teste rasate hanno persino dato fuoco al loro fienile, di fronte a casa. Per un pelo, non li hanno ammazzati.

L’occasione per andarli a trovare è un concerto antinazi che organizzano ogni anno, Jamel rockt den Förster. Ma, arrivati nel villaggio, la prima cosa che notiamo è un gruppo di teste rasate che dietro un recinto, proprio di fronte alla fattoria dei Lohmeyers, arrostiscono un enorme porco allo spiedo. Una scena medievale. Sullo sfondo, una montagna di immondizia che brucia. Gli hitleriani più estremisti come questi, rifiutando lo Stato, si bruciano i rifiuti da soli. Tre bambini giocano ad acchiapparella tra il rogo e un tavolaccio dove si sono riuniti una quindicina di skinhead che bevono birre. Ci avviciniamo, non riusciamo a estorcere agli energumeni rapati altro che parolacce irripetibili. Uno di loro, il capo della colonia bruna, è il noto ex skinhead Sven Krüger, ex esponente degli Hammerskin, poi consigliere locale del partito di estrema destra Npd. Si incammina verso di noi con una sorta di macete in mano. «Bugiardi, giornalisti di m… che cercate? Tornatevene da quella feccia comunista! Aria!».

Attraversiamo la strada e un prato, passiamo davanti al murale e tre volanti della polizia che presidiano i preparativi del concerto antinazi. È ancora presto, sono le sei di pomeriggio e Birgit Lohmeyer ci aspetta all’ingresso della fattoria. «Dopo tanti episodi brutti, finalmente è arrivato un capo della polizia che ci protegge» sorride. Che solitudine, quella dei Lohmeyers. Dieci anni fa il sindaco Uwe Wandel ammise: «Jamel è persa», ormai caduta in mano ai nazisti. Ma Birgit e Horst continuano a dimostrare che non è vero. Ci sediamo al tavolo della cucina con lei mentre lui si occupa degli ultimi dettagli prima del concerto. Birgit ci guarda negli occhi, i lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle, lo sguardo indurito da anni e anni di assedio crescente. Chiediamo come fanno a resistere. «Come sempre. Un giorno alla volta. Il problema, al momento, è questo: Krüger ha appena fatto domanda per costruire altre quattro case. Dobbiamo prepararci ad altre quattro famiglie naziste». Per loro un incubo, per la Germania un’altra tappa del contagio.

13 ottobre 2016

Tratto da: http://www.repubblica.it/venerdi/

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