TIRANNIA DEL LAVORO E LA SUA CRISI

 di Daniel Tanuro 

Tirannia del lavoro, crisi della tirannia

Da un punto di vista antropologico, il lavoro si riferisce alla attività cosciente con cui l’uomo trasforma l’ambiente e le sue risorse per produrre la propria esistenza sociale. Il lavoro non è poi altro che l’indispensabile mediazione tra l’umanità e il resto della natura, che è caratteristica della nostra specie.

Da una prospettiva sociologica, questa definizione generale è di scarsa utilità perché non cattura la specificità nei diversi tipi di società. Infatti, il lavoro nella società capitalistica è molto diverso dal lavorare nella società feudale, e ancora più diverso dal “lavoro” ai tempi di cacciatori-raccoglitori.

Prendiamo per esempio il rapporto col tempo: nelle società precapitalistiche è il lavoro a strutturare il tempo mentre nel capitalismo è il tempo che struttura il lavoro.

Porre  adeguatamente la questione del lavoro oggi richiede di prendere in considerazione non solo la sua definizione generale, applicata a tutti i modi di produzione, ma anche e soprattutto la forma specifica che il lavoro ha assunto nel capitalismo.

Il capitalismo è una società basata sulla produzione generalizzata di merci.

Per la maggior parte della popolazione, il lavoro prende la forma del lavoro salariato, vale a dire, la vendita della propria  merce “forza-lavoro” ai proprietari dei mezzi di produzione. Il sistema è regolato dal valore, indicatore esclusivamente quantitativo che misura l’orario di lavoro.

La corsa al profitto spinge costantemente verso l’alto la produttività. Le decisioni su ciò che viene prodotto, come, a quale scopo e in quali quantità, non vengono prese dai produttori diretti, ma dai proprietari dei mezzi di produzione, a seconda delle loro aspettative di profitto.

Il lavoro è alienante. Lungi dall’essere vissuto come il dispiegamento delle potenzialità del lavoratore attraverso il suo contributo alla vita sociale, è vissuto come vincolo e come una espropriazione.

L’alienazione del lavoro ha una grande influenza sulla coscienza.

Mentre la socializzazione del lavoro avviene tramite l’acquisto e la vendita, le decisioni sono prese in ultima instanza dal «mercato», da «l’economia»”, vale a dire, da astrazioni che nascondono rapporti di sfruttamento sociale.

Queste astrazioni obbediscono alla legge del valore che, sebbene sociale, si impone, proprio come la legge di gravità. Nessuno gli può sfuggire. Il capitalismo è la prima società nella storia in cui l’obbligo del lavoro, l’aumento della produttività e la minaccia della disoccupazione sono una tirannia che è sorta a causa di “leggi dell’economia” che sembrano naturali.

Neppure lo schiavo o il  servo sono stati sottoposti a un meccanismo automatico, indipendente da una qualsiasi decisione umana.

E  stato a lungo creduto che il termine “lavoro” viene dal latino “Trepalium” [tortura]

Questa etimologia è oggi contestata, ma il lavoro capitalista non è un gioco da ragazzi. L’evoluzione del sistema porta a una crescente specializzazione e frammentazione. La meccanizzazione e l’automazione aumentano, la produzione e il commercio sono sempre più globalizzate. L’estensione della produzione di merci è come una gangrena che invade tutto. Esso stabilisce la legge per la ricerca e la creazione, distrugge l’ambiente, genera prodotti sempre più inutili o nocivi e tecnologie pericolose.

Non solo il tempo di mangiare, il tempo della vita lavorativa, ma anche il tempo non trascorso al lavoro è reso più flessibile, precario e scientificamente controllato per estrarre fino all’ultima goccia di valore. Si chiama “lavoro in briciole”, “lavorare senza qualità”, “perdita di senso del lavoro.”

La tirannia del lavoro è in crisi.

Questa crisi si esprime da un lato con l’epidemia di burn out (stress e insofferenza al lavoro) dall’altro con la rivolta contro il lavoro – quella dei giovani in particolare. È una crisi  sistemica, perché sostenuta da una grande contraddizione: da un lato il sistema cattura la ricchezza in forma di quantità di valore, attraverso la misura del tempo di lavoro; dall’altra parte, la legge del valore stessa crea una situazione in cui la vera ricchezza non dipende dal lavoro. Dipende dalla conoscenza e dalle macchine che creano la possibilità di ridurre drasticamente la quantità di lavoro, per migliorare radicalmente la qualità, per cambiare gli strumenti e per recuperare la vita.

Nello scritto ” L’economia dell’età della pietra, Scarsità e abbondanza nelle società primitive ” , l’antropologo Marshall descrive con malizia la felicità degli indigeni che non consacrano più di due ore al giorno alla attività produttiva.
Questa felicità è alla nostra portata per poter chiudere col capitalismo, il suo produttivismo e la sua concezione del lavoro.

da lcr-lagauche.org

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