DAL CIAD

Domenico Quirico

1. In Ciad sul lago che non esiste più la trincea dei taleban d’Africa

Boko Haram ha sconfinato. Il governo svuota i villaggi: “Chi resta sarà ucciso”

10/05/2016 KAYA (CIAD)

Mezzogiorno. Luce, luce. Così intensa da rimanere ammirati, stupefatti, come se uscendo da una sorta di semioscurità gli occhi si spalancassero, vedessero più chiaro, sempre più chiaro. Sulle acque del lago Ciad, che chiamiamo lago ma che è un mare, un errore della natura che ha colmato di acqua dolce questa enorme voragine nel cuore dell’Africa e l’ha imprigionata fra pareti di deserti incombenti come un lento destino e di fertili savane dai contorni azzurrognoli, danzano luminose frange di argento.

Sempre più luce… Da quali tenebre siamo dunque usciti? Eppure questa è una parte del mondo messa a soqquadro dalla rabbia sanguinaria dei Boko Haram, i taleban d’Africa. Di che natura è questa festa di chiarori bianchi che sembra in ogni luogo avere inizio? E invece: queste ombre fatte di massacri, kamikaze bambine o travestiti da donne, pulizie totalitarie fitte di stupri e sgozzamenti… Il lago Ciad è chiuso, vietato: ai battelli, alle piroghe, impossibile attraversarlo. Bisogna penosamente aggirarlo in questo paese senza strade, con lunghi percorsi di sabbia. La setta più temuta del mondo, i miliziani di una giovinezza frustrata e inferocita, ne ha assaltato le isole fertili, saccheggiato, sgozzato. L’esercito ciadiano ha brutalmente ordinato alla popolazione di andarsene in massa: campi villaggi acque, tutto deve restare vuoto. Chi disobbedisce sarà ucciso. Centomila profughi si accalcano già in villaggi di canne senza cibo e senza assistenza, i bambini muoiono di denutrizione. I Boko Haram hanno già vinto?

A prestar fede ai geologi e alle leggende che hanno preceduto di secoli i loro scientifici vaticini, l’Africa un giorno si spaccherà in due proprio qui, all’altezza di questa lunghissima cicatrice che corre tra il Sahara e le foreste, luoghi grandiosi e subdoli dove dalla decomposizione delle foglie sale il profumo della morte. Quando il continente si spezzerà, allora si realizzerà il sogno, che il Ciad torni ad essere il mare. Ventimila anni fa era già sparito, per riapparire poi come per un sortilegio. L’Africa è un tuffo non nella preistoria, ma nell’eternità, tutto qui è possibile.

Nella geopolitica la spaccatura è già avvenuta. Questa è una delle congiunzioni del mondo che l’islamismo rivoluzionario vuole controllare. Le Afriche si incontrano qui, in questi vecchi golfi di lago caldi e languidi, sulle polveri di intere umanità scomparse: l’Est degli Shabaab e l’Ovest dei Boko Haram, il Nord jihadista della Libia, del Sahel con le nuove frontiere della guerra santa sempre più a Sud, Centrafrica, Kenya… Come è articolata ed estesa la geografia del califfato universale…

Secondo la Nasa tra quindici anni il lago non esisterà più, prosciugato dalla siccità e dall’uso degli uomini. Ma ancora oggi è bello da ferirti gli occhi, un dio, visto che dà vita a trenta milioni di persone che si affollano sulle rive, su frontiere più che mai senza senso davanti alla lotta per sopravvivere. È un dio placido, senza malumori, nulla che ricordi le burrasche degli astiosi laghi dell’Africa australe. Le acque sono diventate basse, non più di tre metri. È perfino difficile pescare. Ma ora il problema non esiste più. L’esercito ha vietato di utilizzare le piroghe, non vuole impicci e testimoni mentre sul lago conduce una guerra senza sfumature e innocenti.

I pescatori sono filosofi come in tutto il mondo, gente che vive senza fare rumore come se temesse di far male al dio, un malato fragile come è. Uomini e bimbi sparuti, strozzati dal bisogno, continuano a lavorare attorno alle loro canoe sempre più inutili, ne ricuciono le slabbrature con stoppie e argilla. Dove le hanno tirate in secco una lunga macchia scura ricorda che lì, solo poco tempo fa, c’era ancora l’acqua. Acque stanchissime, quasi impaludate, che avanzano senza un tremito, come di un canale morto. Lunghi gemiti rompono l’aria, uccelli spiccano il volo e palpitano come scossi da morte… Su un arenile nascosto qualcuno pesca ancora, di frodo, gettano a riva strani pesci di un verde splendido, dalle squamose branchie di corallo, che lasciano nella polvere le tracce della loro agonia. Tre pescatori hanno visi famelici di barbareschi. Non so qual muta disperazione infiammi i loro occhi, ma certo ci guardano con rabbia e paura.

Attorno al lago l’aria è fresca, la brezza porta odori di erbe giovani: dove l’acqua si è ritirata recentemente si stendono pianure umide, i contadini hanno preso il posto dei pescatori e mettono a coltura le nuove terre, avidamente. La gente è tanta. La terra non può, non deve riposare… Ma ora tutto è in pericolo: la pesca, l’agricoltura, gli uomini.

Il terrore soffia dall’altra parte del lago. La Nigeria, una «democrazy» come dicono, la democrazia folle d’Africa ha fabbricato un mostro. I Boko Haram non sono più la setta che si batteva contro la corruzione delle élites politiche e religiose del Nord, arricchite dal petrolio, mentre il sessanta per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Adesso l’islamismo è un progetto mondiale, c’è il Califfato: i miliziani portano uniformi come veri soldati, il loro capo Abubakar Shekau, sparito per un anno, si è addestrato con gli Shabaab somali, all’altro capo dell’ Africa. La setta è diventata un gruppo terroristico, ha fondato il suo Califfato, rapina banche e si arricchisce di sequestri e di usura, imita con cura gli uomini del Califfo di Mosul. I video, che all’inizio sembravano sgorbi di «Nollywood», utilizzano effetti speciali e sotto titoli in inglese e arabo.

Il reclutamento avviene non più con l’ideologia ma con la violenza, la magia nera, il denaro e la promessa di una moglie. I nigeriani dei villaggi del Nord sono poveri, non possono pagare una dote, una giovane rapita è un richiamo seducente. Soprattutto i Boko Haram uccidono: in sei anni ventimila vittime.

Seguiamo le svolte del lago, oltre Bol, alla ricerca dei segni di questa guerra spietata. Guerra tutta notturna che inizia dopo il coprifuoco. Guerra di chiatte, di imboscate, di silenziosi agguati su isole vuote e paludi fittissime. Attraversiamo villaggi di canne e di fango, qui sono di fango secco anche le moschee, non ci sono minareti e guglie che si slanciano al di sopra delle polvere, nella purezza dell’immutabile cielo. Non ci sono porte, si può guardare la miseria di ogni casa, i pavimenti di terra, le poche stoviglie. Il lago è già lontano, l’autista mostra i denti alla pista di sabbia con ringhioso accanimento. Bianca la polvere, bianche le case e la pista, bianche le vesti, bianca la folla in cammino a piedi, su asinelli, cavalli, dromedari solenni. Gli alberi ora hanno fronde di cenere, di un verde spento.

 

 

Ormai i piani dei Boko Haram hanno scavalcato i confini della Nigeria, controllare il grande lago vuol dire mettere in ginocchio il Ciad che importa tutto dalla Nigeria; il Ciad da punire perché aiuta i francesi a combattere gli alleati islamisti nel Sahel. Mescolano tattiche di guerra e attentati suicidi, disseminano le piste di mine artigianali, li precede un terrore che crea il vuoto. Sedicimila nigeriani sono fuggiti dall’altra parte del lago in cerca di sicurezza. E poi i centomila ciadiani che vivevano nelle isole del lago, espulsi con la minaccia di essere uccisi come complici dei terroristi e di cui il governo del presidente Déby, un dinosauro al potere da ventisei anni, non si occupa. Pensa di risolvere il problema con la violenza: come i nigeriani all’inizio della epopea sanguinaria della setta.

Il lago è ormai alle nostre spalle, la vegetazione si è rarefatta, scomparse le grandi palme, la terra non è più scura: steppe di sabbia, lande bruciate pianori salati color calce, rare acacie spossate dalla siccità gettano la loro rara ombra intorno ai villaggi. L’islam ha impresso la propria impronta su questo mondo, l’islam sempre attratto dalle regioni desolate, dallo sfavillio dei deserti. Asinelli e cavalli si rotolano nella sabbia scura, cercando di respirare, stremati, un po’ di frescura dalla terra. Il Ciad dei fuggiaschi crepita, si affila al sole.

È un cortile tutto bianco questo mercato, gli uomini con le loro lunghe vesti siedono in gruppi, accigliati. Ma le donne no: strepitano con uno strepito di bambine senza risa, accanitamente loquaci. Hanno voci tremanti, anche se gridano, di un tono mite e denso, come d’olio, e scorrono una sulla altra. Voci cantanti, da fanciulle di sedici anni, le vecchie pure. Ci racconteranno, loro e i bimbi, le ferocie dei Boko haram.

2. Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio

In pochi hanno i soldi per partire, gli altri sono bloccati nei campi in mezzo al deserto. I fondi stanziati dall’Unione europea finiscono per alimentare la corruzione

12/05/2016  BOL (CIAD)

Xenofobi, innalzatori di muri, innamorati dei fili spinati e delle barriere, non state in ansia! La maggior parte di costoro non arriverà da noi su squarci di caravelle tarlate, non busserà inopportunamente a Lampedusa, Lesbo, Ceuta mossa dal fanatismo della povertà e dell’avventura. Sono troppo poveri, sono uomini, donne, bambini nudi.

Per la Grande Migrazione occorre avere un po’ di denaro, una mucca da vendere o le capre, un sacco di miglio che doveva servire per la semina, un parente pietoso già in Europa. Loro non hanno monete per pagare il passaggio su un camion che li porti fino a N’Djamena.

Non hanno scarpe per camminare su queste sabbie selvagge abitate dal torvo popolo dei fanatici del Dio musulmano, non hanno telefonini per cercare mercanti di esseri umani che li trasformino in un affare redditizio. Non hanno niente.

Sfollati dagli islamisti

Sono venuto qui, a questo lago-mare, per cercarli, vederli, parlare. Solo i ciadiani sono centomila, con i Paesi vicini gli sfollati dai Boko Haram salgono a due milioni. Nulla più, qui, di aperto e di buono, di giusto e di buono, come nulla di infantile o di vecchio. Vi è solo dolore; e la ferocia, che è del dolore.

La città di Bol è di un bruno calcareo, spoglia. Pare una necropoli, che dalle finestre delle case debbano uscire corvi, in volo. Tutto è di creta secca, scura. È ancor più in là dell’Africa, in un continente ulteriore dove sia città essa sola. Ma qui il lago c’è ancora, metti le mani nell’acqua e fosforo, ti sale tra le dita. Gli schiamazzi dei bambini occupano la cittadina solo a zone, ciuffi d’alberi nel deserto. Attorno la terra sfuma in nulla rapidamente, logora di stagni e paludi che sembrano spazi vuoti, spazi puri. E il Ciad anche lui è di nulla, di una bianchezza di mare morto.

Ora c’è nell’aria un eccitante squallore, il gran giallo delle sabbie. La canicola, la burrasca bianca dei cavalloni di polvere alzati dai pick up montati da soldati in sudice uniformi di tela e dai fuori strada delle organizzazioni umanitarie.

La gente osserva i fuori strada che passano come astronavi, qui la luce è un miracolo, l’acqua una speranza. Se vieni nel Sahel senti, non è la prima volta per me, che l’Africa entra nel tuo destino come una condanna.

Capanne di rami e canne  

Le capanne di rami e di canne che credevamo asili per le capre si rivelano case, che sembrano, al sole, di sabbia pure esse. Ho visto il nulla della fatica quotidiana, una giovinetta che con grandi bracciate cercava di far salire l’acqua da un pozzo. Fatica che serve per un tozzo di pane, e tozzo di pane che serve alla fatica. Gli uomini stanno fuori, a crocchi, con le vesti avvolte attorno alle spalle fin sugli occhi per via della polvere. Stanno immobili come spettri che non hanno di vivo che lo scintillio degli occhi e guardano lontano senza mai dirsi una parola. Conducenti d’asini corrono agitando le braccia come indemoniati in una nuvola di polvere, emettendo brevi grida acute per impedire ai loro asini di farsi travolgere dalla vettura.

Villaggi interi in cammino  

Dove il deserto è assoluto, sprofonda, raschiato dalla canicola incontri gli sfollati. L’avanzata degli islamisti nigeriani e la brutalità dei soldati che dovrebbero difenderli li ha cacciati dalle fertili isole del lago, e dalle rive già fin troppo abitate. Allora, a gruppi di famiglie, a villaggi interi, si sono messi in cammino dove la memoria dei vecchi li portava. Senza avere con sé più nulla. Un tempo abitavano qui, prima di spostarsi sul lago: ma allora erano terre benedette perché il lago era molto più grande. Nessuno stavolta li ha cacciati: perché qui non c’è più nulla. Qui davvero è deserto: per questa solitudine di ogni cosa, di ogni duna che par chiusa in se stessa, e di ogni albero o viandante che si incontra. E per questa luce e per questa immensità di cespugli tutti eguali, tutti rachitici. La tempesta solleva un pulviscolo che non è terriccio e non è sabbia, una specie di polline vecchio che sa di muffa e avvolge tutto come un velo sterminato. La terra è saccheggiata da questo vento, lunghe pianure appaiono sospese nell’aria. Là è il lago, quell’aria. Disabitato come la luce del primo giorno. E le capanne sono accovacciate, storpie dalla furia che trascorre.

È vecchio, robusto, faccia dura, occhi duri, capelli fitti e crespi. Si dice contadino e se ne vanta. Ma la voce è un soffice brontolio, come di lana. È vestito di stracci che gli svolazzano addosso come piume, non ha più campi, o bestie. «I Boko Haram sono belve, serpi, ma è fare alle bestie un’ingiuria a dire così. Venivano, rubavano portavano via le donne, e i ragazzi giovani per farne sollazzo e combattenti. E noi ad aspettare i gendarmi e i soldati…. Sono venuti, dopo, e ci hanno detto: via, toglietevi di qua se no vi tratteremo da Boko Haram. Volete sapere dove andare? Dove vi pare, il Ciad è grande».

Ci guarda: «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che ci accadono». «Non bisogna piangere? Uomini, donne, bambini sono morti e non bisogna piangere?». «Se piangiamo li perdiamo, non bisogna perderli, se piangiamo rendiamo inutile ogni cosa».

Le donne passano invisibili sotto le grandi cappe colorate tra le cui pieghe si apre una specie di fenditura da dove sporge la testolina incantevole di un neonato tenuto in braccio.

A colloquio con i morti  

Il terrore dei Boko Haram lo capisco quando uno psicologo ciadiano che lavora in un campo di rifugiati mi racconta che le vittime hanno difficoltà a parlare con lui, non svelano gli orrori di cui sono stati vittime o testimoni: non parlano con me, vanno al cimitero, a parlare con i morti… a loro si possono confessare».

La morte è lì nel cimitero e diventa liberazione quando sulla terra più che per viver bene, ci si dura per prepararsi a morire. Conoscono la luminosa spiegazione che la loro fede dà della morte, per averla sentita nella preghiera o per averla quasi respirata nell’aria. Ricacciano il dubbio: il Dio in nome del quale sono stati martoriati non è lo stesso che li accoglierà alla fine dei giorni?

Ci prepariamo a rovesciare su questi Paesi altro, molto denaro: perché non abbiano più ragione di partire. Se percorrete la pista che dalla capitale porta qui, e sono trecento chilometri, nove, dieci ore, ad ogni villaggio trovate grandi cartelli colorati, in metallo, con la bandiera ciadiana e quella dell’Unione europea. Alcuni sono vecchi, semisommersi dalla sabbia, sghembi, altri hanno colori ancor vivi. Simboleggiano centinaia di progetti : acqua per il villaggio…; riabilitazione rurale del distretto…; progetto di incremento agricolo…; sviluppo sanitario… Non c’è nulla di tutto questo. Polvere, sabbia, pianure di terra riarsa, fiumi rinsecchiti. Dove sono finiti i soldi che abbiamo rovesciato qui, da decenni? Chi li ha rubati?

I nostri amici laici 

A N’Djamena ho visto solo tre cose nuove, moderne: la Versailles del presidente, una residenza-città lunga chilometri; i fucili e le uniformi dei soldati che fanno la guardia che sembrano cadetti usciti da Saint-Cyr; e il nuovo ministero degli Esteri, in vetrocemento, per un Paese così povero da non avere ambasciate. In Niger, in Mali, in Mauritania, in Nigeria è lo stesso. Ecco la spiegazione. Qui finiscono i soldi. E le cancellerie occidentali lo sanno: ma questi sono i nostri alleati, i nostri amici laici, organizzatori di elezioni, che si può fare? La volontà di aiutare c’era, il fallimento dà le vertigini. Oggi per svincolarci dall’incomodo dei sudditi di questi satrapi, sguaiati e maneschi inettitudini diplomatiche ripescano la stessa formula: aiutare l’Africa in Africa, ci pensino loro. È falso che la storia sia maestra di vita: e non perché la maestra non insegni ma perchè gli scolari sono zucconi, non imparano.

Il Ciad è proprietà personale del presidente Deby: che abbia conquistato il potere con un colpo di Stato non lo ricorda nessuno, forse perché è avvenuto ventisei anni fa. E dopo? Elezioni su elezioni, con tanti partiti e bandiere colorate di simboli. Solo che le vince sempre il suo, che ha come simbolo una zappa e un fucile. L’ultima due settimane fa, i rivali gridano alla ennesima truffa, lui festeggia e parla di sviluppo e rinascimenti. Durante i giorni del voto ha spento tutti i telefonini del Paese, inchiavardato Internet. Non si sa mai: questa è la modernità. Lo hanno suggerito forse i francesi, a cui è simpaticissimo e da cui trae importanti beneplaciti padronali: ovvio, fornisce loro economiche fanterie per combattere i jihadisti e soprattutto tenere in riga la «Francafrique».

Ah la «Francafrique»! Non tramonta mai, la conservano, Gauche e Droite, meglio del Louvre. Nell’albergo uomini di affari francesi si distendono tra un contratto e l’altro, a bordo piscina, con signorine locali la cui gentilezza ha curve commisurate alle grazie effettive. È incredibile quanto denaro si può estorcere nei Paesi più poveri del mondo! All’ingresso dell’enorme base militare francese vicino all’aeroporto ci sono gli stemmi della République: come in una qualsiasi gendarmeria dell’Exagone. È nelle tasche di obbedienti palafrenieri della Francia come Deby a cui l’idea del «nòmos» non entra in testa, che rovesceremo i miliardi per evitare i migranti: noi avremo ancora i migranti e la Versailles di Djamena sarà ancora più vasta e scintillante.

 

 

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