di Daniela Amato

Nei mesi scorsi si è aperto un forte dibattito sulla gestazione per altri (GPA) o “maternità surrogata”, come comunemente è stata definita; gli animi si sono infuocati e le prese di posizione sono state tante e varie fino all’approvazione al Senato del ddl Cirinnà sulle unioni civili che ha chiuso la discussione sui media.

La gestazione per altri è però una questione importante e aperta e la sua attualità non si misura sulle polemiche per le scelte di vita di Nichi Vendola (tirato in ballo perché ha deciso con il suo compagno di adottare un figlio negli USA servendosi di questa possibilità) né dall’uso di una ideologia reazionaria e conservatrice che, per colpire l’estensione dei diritti alle coppie omosessuali, ha voluto associare il dibattito sulla GPA alla discussione del ddl Cirinnà sulle unioni civili, che nulla aveva a che fare con essa. Infatti, alla fine, il famigerato articolo 5 (stepchild adoption), inserito nel disegno di legge, è stato stralciato; la sua approvazione avrebbe permesso l’adozione del figlio naturale del partner a tutte le coppie eterosessuali ed omosessuali. Si sarebbe potuto far avere alle centinaia di bambini/e figli/e di coppie omosessuali due genitori e non uno, facendoli uscire dalla condizione in cui sono relegati, quella di bambini di serie B.

Abbiamo assistito ad una discussione accesa, a dichiarazioni perentorie, a proclami di molti, quando invece in una materia così complessa e delicata bisognerebbe essere cauti, aprirsi al confronto, porsi all’ascolto e fare un grande sforzo di comprensione. Da quel che è stato dichiarato e da quel che si è letto, in tutta questa vicenda ciò che è scomparso sono proprio le voci delle “surroganti”, ossia delle donne che hanno fatto la gestazione per altri nei paesi dove la pratica è legale.

Il tema investe molti piani discorsivi, ci interroga nel nostro più profondo sentire, ci pone molti dubbi e interrogativi; non abbiamo certezze ma alcune posizioni lasciano perplesse.
In primo luogo il dibattito, dapprima sollevato da Se non ora Quando-Libere, che ha fatto appello alle istituzioni europee – Parlamento, Commissione e Consiglio – affinché la pratica della maternità surrogata venisse dichiarata illegale in Europa e messa al bando a livello globale, ha riguardato proprio i termini con cui nominarla.

Michela Murgia, in un suo articolo, scrive “Non chiamatela maternità surrogata” poiché si pone in questo modo un legame indivisibile fra gravidanza e maternità. Proprio contro la naturalità di questo legame i movimenti delle donne hanno lottato affinché l’essere madri fosse una libertà di scelta e non un destino ineludibile e si potesse affermare nella società un diverso ruolo delle donne, che non fosse solo quello di madre.

Coloro poi che oggi prendono posizione contro questa pratica chiedendone il divieto (in Italia è già imposto dalla legge 40) affermano che la “maternità surrogata” trasforma la donna in oggetto e ne mercifica il suo corpo. Qualcuno è arrivato a definire queste donne come “tutte delle martiri, seppure consenzienti. […] vittime di traumi d’infanzia ai quali ora si assommava quello estremo di ridursi a insulse mammifere …”

Descritte così, sono donne pensate e considerate come meri contenitori di altrui volontà, sono delle vittime senza una capacità autonoma di poter scegliere e di poter decidere del proprio corpo.

È la considerazione di sempre: le donne non possono decidere perché non sono consapevoli e sono incapaci di scegliere per se stesse e allora c’è bisogno di tutela, che sia quella dello Stato, del marito, del patriarca ecc…

Ma come possiamo essere così presuntuosi e presuntuose?

Quando la materia attiene a scelte individuali e alla libertà personale, chi siamo noi per giudicare e per poter dire «tu non sei in grado di decidere»?

Non parliamo certamente di donne asservite, rapite, schiavizzate sessualmente ma quando abbiamo di fronte delle donne adulte, consapevoli della propria scelta, come emerge dalle interviste che si trovano facilmente nel web, ebbene loro meritano rispetto, anche se non siamo d’accordo e noi non l’avremmo mai fatto.

Quello che sorprende maggiormente è che siano altre donne – dagli uomini ce lo saremmo anche aspettato – che si sentano di dover dire che esse, in ogni caso, non scelgono; sono quelle stesse donne con le quali ci siamo battute per la legge sull’aborto, per affermare l’autodeterminazione e la libera scelta delle donne sulla propria vita.

La questione che più viene invocata e che fa gridare allo sfruttamento è quella della remunerazione.

Alcune prese di posizioni, come quella della segreteria nazionale di Arci Lesbica, fanno una distinzione fra dono e commercio; in questo caso si afferma che “La GPA può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto. La libertà del gesto sta nella sua gratuità”.

Nelle storie che abbiamo letto ci sono donne che hanno donato il proprio utero a sorelle e/o amiche che non potevano avere figli e ci sono anche molte donne che lo hanno fatto dietro una remunerazione, ma il punto – come scrive Chiara Lalli nell’articolo “Nessuno scelga al posto delle donne sulla maternità surrogata” – è che “La volontarietà non ha a che fare con i soldi, ma con le condizioni in cui si decide. E anche con la proprietà del corpo. Se è una scelta allora non è “adita sul corpo delle donne”, non intrinsecamente, ma dovrebbero essere le donne a scegliere cosa fare del proprio corpo. Ognuna del proprio.”
Perché si pensa che le donne in povertà non siano consapevoli delle scelte che fanno?

Non entriamo nei parallelismi e nel merito della discussione che ritorna spesso soprattutto in merito alla prostituzione, cioè di quanto ci sia e sia uguale lo sfruttamento nel vendere la nostra forza lavoro al mercato della produzione, ma la scelta della GPA, per alcune donne, è ragionata e ritenuta più favorevole rispetto ad altre opzioni, che il più delle volte nemmeno esistono, considerate le condizioni di disagio economico e miseria in cui vivono.

Perché allora si guarda esclusivamente alla scelta e non alle condizioni economiche e sociali che quella scelta hanno determinato?

In una intervista Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, impegnata da anni nella lotta contro la “maternità surrogata” con la sua associazione CORP (Collettivo per il rispetto della persona) ha affermato: “l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista”.

Se è vero, come lo è, che esiste un mercato neo-colonialista, perché non ci si rivolge e ci si rivolta contro le politiche liberiste e neocoloniali dei nostri paesi che determinano la povertà in quei paesi? Se è la povertà il movente perché non si punta il dito verso le condizioni che la generano?

Che si debbano eliminare le cause economiche della povertà e dell’ineguaglianza, che ci debbano essere politiche sociali al riguardo, che si debbano cambiare i sistemi economici causa di ciò, è una questione di giustizia sociale che riguarda tutte e tutti noi e anche lo Stato, ma non la scelta personale della donna.

Finché non saremo in grado di eliminare le cause economiche che determinano alcune scelte non è invocando leggi che puniscono e proibiscono che riusciremo a cancellare lo “sfruttamento”; anzi, come dimostrano tutti i proibizionismi, si favorirebbero invece sempre più mercati clandestini, senza regole e senza diritti, con una maggiore esposizione agli abusi.

Quello di cui ci sarebbe bisogno, più che di leggi proibitive, è di una legislazione che ponga tutele e diritti. La questione è aperta e molte sono le domande: deve esserci obbligatorietà dei genitori intenzionali a coprire anche tutte le spese correlate alla gestazione quali assicurazione, assistenza medica, psicologica? Possono le parti, e in particolare la donna, cambiare idea a nascita avvenuta o ripensarci prima? Senza esaminare tutte le opzioni e le legislazioni oggi in vigore che la consentono la pratica della GPA, rimane che, come scrive Michela Murgia: “in assenza di leggi a tutela delle parti deboli, la forza del denaro può fare tutto. Prima della legge sul divorzio gli uomini sparivano, abbandonavano le donne e i figli e nessuno poteva obbligarli al mantenimento. Prima della legge sull’aborto le donne abortivano lo stesso, ma morivano nel tentativo clandestino e nessuno ne aveva responsabilità. Le leggi che consentono sono le sole che possono mettere dei limiti all’azione che stanno legittimando, per il fatto stesso di riconoscerla. L’assenza di leggi permette invece qualunque eccesso, perché nessuno degli abusi perpetrati sulla parte debole è definibile come tale: semplicemente, senza legge, non esiste.”

In questa discussione si è anche molto parlato del concetto di “maternità”. Si è scritto del “legame indissolubile” che si crea nella gravidanza, del “percorso di vita” e ancora di “avventura umana straordinaria”, di bambini che diventano merce “se vengono programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce”.

Come detto all’inizio, non si può automaticamente legare la gravidanza alla scelta di essere madre; nelle lotte che da sempre conduciamo per il diritto all’aborto, abbiamo sempre affermato il principio dell’autodeterminazione, di essere madri quando si sceglie di esserlo, quando si assume la responsabilità e la cura del bambino. Che possiamo dire allora di quelle madri che alla fine della gravidanza decidono di non riconoscere il bambino e per le quali nella maggior parte dei casi la motivazione è sempre di natura economica?

Non c’è dubbio che non tutti i desideri possono trasformarsi automaticamente in diritti e il desiderio di maternità non può essere un diritto a “tutti i costi”.

A questo proposito ci fa riflettere l’intervento di Luisa Muraro quando afferma: “un altro punto su cui dobbiamo interrogarci: ed è l’idea di «non disponibile», che non vuol dire proibito. Non tutto è disponibile all’essere umano. Non è questione di tecnologia e non deve diventare questione di soldi, è una questione di misura interiore, è fondamentale che si accetti la corporeità vivente, il nostro essere corpo con le sue determinazioni”.

La misura interiore ci rimanda alla coscienza del limite, che ha attraversato la riflessione femminista come modalità di approccio con tutto ciò che è altro da sé. Per questo, più che proibire si dovrebbe aprire una riflessione sulla maternità attualmente, anche in considerazione delle nuove tecnologie che mettono in campo altre possibilità: ci sono donne oggi che scelgono di donare (o conservare) i propri ovuli, altre che si sottopongono alle diverse tecniche di procreazione assistita (omologhe ed eterologhe).

Si dovrebbe indagare il desiderio di maternità e paternità biologico, che è un desiderio uguale sia nelle coppie fertili come in quelle non fertili, riflettere su cosa è la famiglia oggi, quante tipologie di famiglia esistono, quali relazioni si stabiliscono all’interno di essa e, non ultimo, far presente a chi contrappone ideologicamente l’adozione come l’alternativa “non egoistica” in che modo il percorso di quest’ultima sia fortemente restrittivo per chi lo voglia intraprendere e impraticabile per le coppie non sposate, omosessuali e non, in virtù proprio della legge appena approvata al Senato.

Torniamo così al punto dal quale siamo partite. Non abbiamo certezze, ma sappiamo che in questioni che riguardano le scelte delle donne dobbiamo avere rispetto. Ne va dell’autodeterminazione, un principio e una pratica per cui tanto abbiamo lottato e lottiamo ancora.

Le ambivalenze, i dubbi, gli interrogativi sono molti ma non si può chiudere il dibattito proibendo; è necessario invece mantenere aperta una riflessione pubblica a partire soprattutto dall’ascolto delle donne che hanno fatto questa scelta.

Non ci lascia indifferente e riconosciamo quanta ingiustizia possa esserci nella scelta della gestazione per altri fatta da una donna povera del Sud del mondo. È la stessa ingiustizia che porta molte donne ad abbandonare le/i proprie/i figlie/i per andare a badare alle/ai figlie/i di un’altra madre più ricca di lei o ad anziani all’altro capo del mondo. Per questo lottiamo ogni giorno contro il sistema che genera questa ingiustizia: il capitalismo.

Potrebbe piacerti anche Altri di autore