SORRY FOR BRUSSELS

di Cinzia Nachira.

Un piccolo profugo, in un qualche punto d’Europa, innalza un cartello con su scritto “Sorry for Brussels”. Questo fermo immagine sta diventando il simbolo, sbagliato, delle stragi compiute a Bruxelles il 22 marzo. Sicuramente, come molte altre immagini che ci giungono dai quei luoghi infernali che sono diventate le frontiere europee, non è spontanea e vorremmo conoscere chi è stato a mettere tra le mani di quel bambino quel cartello osceno. Osceno perché neanche i più reazionari dei commentatori hanno avuto il coraggio di fare un collegamento così diretto tra i profughi che si ammassano in condizioni disumane dietro i fili spinati, che sbarrano loro il cammino alle frontiere di tanti Paesi europei e gli attentati terroristici che hanno colpito la capitale belga. L’aspetto sconcertante dell’uso strumentale di quel bambino che ci chiede scusa o che empaticamente si identifica con  le vittime europee (a seconda delle interpretazioni) è che la sua immagine è usata anche da quei siti on-line legati ad ambienti che passano il loro tempo a denunciare il giornalismo embedded. Mentre è assai noto quante immagini costruite ad arte sono state fatte circolare da quelle frontiere o dalle spiagge turche a partire dalla foto del piccolo Aylan.

sorry

La superficialità oramai imperante suggerisce, per di più, che non è detto che coloro che hanno usato quell’immagine per introdurre comunicati o articoli sulle stragi in Belgio si siano accorti dell’errore madornale. Diversamente è ben difficile poter trovare un filo logico tra quella fotografia e i testi che seguono e che denunciano, giustamente, tra le cause degli attentati in Europa anche la politica occidentale nel Vicino Oriente, soprattutto dal 2011 ad oggi. La denuncia dell’accordo che l’Unione Europea ha raggiunto con la Turchia per bloccare in quel Paese i profughi come si lega con l’accusa esplicita fatta a quella gente disperata di essere in massa dell’ISIS o comunque favorevole agli attacchi contro civili inermi negli aeroporti e nelle metropolitane delle nostre città? In nessun modo, è una contraddizione in termini che fa comprendere fino a che punto siamo giunti nel delirio collettivo di “trovare un colpevole”, un nemico purchessia, che vesta i panni di un bambino o di Salah Abdeslam non importa.

Questo è un modo anche assai rozzo di unirsi al coro infame di quegli xenofobi e razzisti che pretendono da parte di tutti i musulmani, europei o meno che siano, di “prendere le distanze” da attacchi che neanche vengono fatti in loro nome, ma che la religione che praticano li rende di fatto colpevoli. Ormai da molto tempo siamo ad un bivio e scegliere quale strada imboccare non ammette né errori, né leggerezze.

Le stragi di Bruxelles, come quelle di Parigi del 2015 e del 2016, hanno sicuramente una radice comune. Ma al contrario di quelle che hanno inaugurato il ventunesimo secolo nessuno degli autori è nato e cresciuto al di fuori dei confini europei. Al sostitutismo terroristico degli attacchi di Al Qaeda siamo passati alla ricaduta identitaria di quelli di sedici anni dopo.

Ancora una volta, l’ennesima e non l’ultima temiamo, identificare le inefficienze dell’apparato di sicurezza e della cosiddetta intelligence dei nostri Paesi è fin troppo semplice. Ma ancora una volta è la trappola per non comprendere se esiste e qual è una possibile via d’uscita. Non è la prima volta che nella storia recente le vicende vicino orientali hanno una ripercussione sul territorio europeo. Rintracciare le nostre responsabilità però non può essere solo una gara a chi si batte il petto contro coloro che aspirano alla “purezza europea”.

In altri termini, è giunto il momento di interrogarci su quelle periferie europee che non solo subiscono i colpi più duri della crisi economica strutturale e che non poche volte hanno, rivoltandosi, dato chiari segnali che si era in vista del punto di non ritorno. Il fallimento delle presunte politiche di integrazione è chiaramente dimostrato per un verso dal riflusso identitario delle seconde e terze generazioni, ma per un altro verso anche dalla considerazione inevitabile di quanto noi non conosciamo quelle periferie. I tanti giovani europei che soprattutto dal 2013 (un anno cruciale) hanno sentito l’impulso di partire per la Siria a combattere non lo hanno fatto per opporsi ad Assad, ma invece perché già in quel momento la guerra civile siriana assumeva ben altro profilo da come era iniziata.

Non ci dovremo mai stancare di ripetere che le vittime parigine e quelle belghe sono soprattutto il risultato dell’aver abbandonato nelle mani del loro carnefice quella generazione di giovani siriani, libici, tunisini, egiziani, etc., che ha messo in moto un movimento di massa straordinario, sia in termini qualitativi che quantitativi. Ma noi in Europa non lo abbiamo compreso e non siamo stati in grado di sostenerlo. Ci siamo esaltati per il fatto che nei Paesi coinvolti ci fossero dinamiche differenti tra loro, come fosse una rivelazione e non una banalità, senza cogliere il fondo delle differenze. Ci siamo seduti ancora una volta seduti alla finestra attendendo che le altrui rivoluzioni intraprendessero una via che ci piacesse per poterle applaudire acriticamente, ignorando le contraddizioni inevitabili e le loro conseguenze, o stroncarle altrettanto superficialmente quando invece non soddisfacevano i nostri desideri. Dall’altro lato dei nostri centri cittadini, accoglienti per pochi e respingenti per tanti, il meccanismo è stato analogo. Con una differenza essenziale: la deriva confessionale ha offerto una sponda politica a quei giovani europei di seconda generazione che si sono sentiti truffati dalla accoglienza europea riservata ai loro genitori ed invece impossibile per loro. La proclamazione del Califfato e il suo consolidamento territoriale è stato un fattore determinante in tante parti del mondo. La ragione di fondo di questo risiede nel fatto che il Califfato è il solo attore in campo nel Vicino Oriente ad avere un progetto politico preciso che sui giovani europei ha una forte attrazione perché li pone in una condizione attiva e non passiva.

Così mentre i nostri governanti continuano a preparare nuove guerre che a nulla serviranno, dall’altro lato noi non siamo in grado di offrire una sponda politica che disinneschi quel meccanismo mortale di cui alla fine tutti restiamo vittime. Questo è tanto più grave perché è chiaro che coloro che hanno scelto la via dello scontro militare in Europa sono una minoranza di quei giovani di seconda generazione, che oltretutto oggi si ritrovano a doversi quasi scusare di esistere perché in qualche modo i ghetti di invisibilità politica e sociale sono saltati, in un certo modo sono implosi.

Ora non sono pochi, che sulla scia di Barack Obama, rimpiangono la caduta dei dittatori. A sinistra questa tesi assume la variante di additare le responsabilità occidentali e delle politiche sbagliate e delle alleanze con quelle potenze regionali – Turchia e Paesi del Golfo – che indubbiamente hanno avuto un interesse specifico a sponsorizzare anche il Califfato, visto come il male minore rispetto ad un movimento che rimetteva in discussione anche i loro regni assoluti.

Tutto questo che impatto avrà in Europa? Sicuramente devastante se non riusciremo ad offrire un’alternativa politica credibile. Non si tratta di difendere la religione musulmana, ma di differenziarsi seriamente e concretamente dal coro indecente di coloro che vogliono creare un clima non solo di terrore, ma soprattutto di rassegnazione.

Cinzia Nachira 23 marzo 2016

 

 

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