SUL SIGNIFICATO DELLA MEMORIA

In occasione della Giornata della Memoria pubblichiamo una intervista a Enzo Traverso del  gennaio 2009. Enzo Traverso vive a Parigi dal 1985, specializzato in Storia della Seconda Guerra mondiale, nazismo e antisemitismo ha pubblicato, tra le altre cose, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra (Il Mulino, 2004), e A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945 (Il Mulino 2007).

La Giornata della memoria, allora…

«È difficile parlare, oggi, della Giornata della Memoria senza metterla in relazione con quello che sta avvenendo in Medio Oriente. Questo si vede nei commenti della stampa, di una certa parte dell’opinione pubblica in vari paesi europei, negli slogan che si sentono nelle manifestazioni. Questa è anche la conseguenza di un discorso politico soggiacente (non dico come slogan o propaganda) alla strategia israeliana: fin dalla guerra dei sei giorni Israele ha presentato l’occupazione dei territori palestinesi come una esigenza di autodifesa e come condizione per evitare un nuovo Auschwitz. Da cui le equazioni Hamas nuovo nazismo o come quando Sharon diceva che Arafat è il nuovo Hitler».

Cos’è la memoria della Shoah in Europa?

«Penso che la memoria della Shoah sia stata, storicamente, in Europa occidentale, una specie di motore per movimenti “antirazzisti”. Durante la guerra di Algeria, in Francia, la memoria della Shoah era parte della lotta contro le politiche di oppressione e persecuzione. Da vent’anni a questa parte, però, questa memoria è stata “istituzionalizzata”: ha cessato di essere una memoria “antagonista” nei confronti del potere, diventando una memoria condivisa, integrata nelle istituzioni e oggetto di commemorazioni ufficiali. Questo è un fenomeno contradditorio: da un lato, se le istituzioni se ne fanno carico, significa che è espressione di una vera coscienza storica che ne fa una sorta di religione civile; dall’altro lato ha conseguenze che dovrebbero far riflettere sugli usi pubblici del passato. In questo periodo di guerra (a Gaza, ndr) è stata usata come una sorta di assegno in bianco a Israele come Stato che incarna la memoria dell’Olocausto. Tutti deprecavano i bombardamenti ma ogni critica era preceduta dall’affermazione di una solidarietà di principio con Israele. Oppure pensiamo a un Paese come la Francia, dove la memoria della Shoah è così importante: nel febbraio del 2005, un mese dopo commemorazioni iper-mediatizzate, l’Assemblea Nazionale vota una legge che definisce il colonialismo come “positivo”. Questo a dire che le giornate della memoria, più che occasioni rituali e, spesso, retoriche e svuotate di contenuto dovrebbero essere l’occasione per una riflessione sugli usi pubblici del passato. E anche sugli usi politici della memoria».

E in questo senso che significato deve avere?

«Un principio etico – politico per me irrinunciabile è che la memoria, per sua stessa natura, non è un ricordo del passato congelato, immobile e immutabile. La memoria vive nel presente. Ricordare la Shoah oggi, in Europa, significa rimettere in discussione e combattere le forme di esclusione, razzismo e oppressione di oggi. Partecipare alle commemorazioni, per poi rimanere indifferenti al fatto che da quando Sarkozy è diventato Presidente si assiste a retate di immigrati “sans papier” davanti alle scuole significa che la giornata della memoria è solo una cortina di fumo. Credo che cose del genere vadano dette. Il fatto che queste commemorazioni avvengano in un clima cosi consensuale mi lascia perplesso».

A livello europeo esiste una memoria pubblica su cose come questa?

«Ci sono alcune tendenze che si stanno manifestando su scala europea. È evidente che la memoria della Shoah non può essere la stessa in Germania (Paese che l’ha concepita e messa in atto), in Francia (Paese che oggi ha la più grande comunità ebraica d’Europa) e la Spagna (che non ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale). Se prendiamo il caso della Spagna, la ley de memoria historica, che è stata votata un anno e mezzo fa, non esisterebbe senza le leggi memoriali che sono state promulgate in vari paesi dell’Europa occidentale negli ultimi anni. In Spagna oggi (divergenza che ho con alcuni colleghi spagnoli) è forte la tendenza ad assimilare le violenze del franchismo con un genocidio, cosa sbagliata dal punto di vista storiografico».

Per alcuni paesi la Shoah parte di un discorso di memoria nazionale. Per altri non è, come in Spagna, oggetto di commemorazioni…

«Di solito io distinguo tre spazi memoriali in Europa: uno occidentale, uno orientale e uno post coloniale. Il primo è quello del nucleo fondante dell’Ue (Germania, Francia, Italia e Paesi iberici) al centro del quale c’è la memoria di Auschwitz. In Germania questa memoria è più che presente nello spazio pubblico: oggi non è possibile considerarsi tedeschi senza mettere in questa “germanità” il passato nazista. C’è poi lo spazio orientale, cioè i Paesi dell’ex Patto di Varsavia: qui si sta costruendo un’identità nazionale in cui al centro c’è il passato comunista che fa diventare vittima la nazione stessa, perché oppressa dal dominio sovietico. È una memoria che ha un forte accento nazionalistico e che comporta una rimozione dell’Olocausto come parte del passato. Il terzo è la memoria postcoloniale di una parte delle società europee: vari milioni di persone con “origini postcoloniali” (sia cittadini che immigrati) e memoria del colonialismo, di rapporti conflittuali con l’Europa e di oppressione. È una memoria che esiste e che ci mette in discussione in modo più che salutare. Concludo con un esempio: l’8 maggio 1945, la fine della guerra. Per l’Occidente è la fine delle sofferenze e segna l’inizio di un’era di pace; in Europa orientale è la fine dell’occupazione nazista e l’inizio di quella sovietica. Se ci spostiamo, invece, in Algeria, l’8 maggio 1945 è l’anniversario della rivolta di Sétif, uno degli ultimi massacri del colonialismo francese».

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