di Antonello Zecca.
La COP21 (Conference of Parties, dall’acronimo inglese), è la ventunesima conferenza nell’ambito della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (acronimo inglese: UNFCCC), la quale fu adottata il 9 Maggio 1992 in occasione del Vertice della Terra di Rio de Janeiro, ed entrata definitivamente in vigore il 21 Marzo 1994.
La COP rappresenta l’organismo sovrano della convenzione, e si riunisce su base annuale in un vertice mondiale la cui discussione verte sulle misure necessarie a fermare i cambiamenti climatici.
La COP21 si terrà a Parigi dal 30 Novembre all’11 Dicembre e conterà più di quarantamila partecipanti in rappresentanza di 195 Stati e della c.d. “società civile” (imprese, ONG, ricercatori, sindacati, media ecc…).
L’attuale Conferenza cade in un momento particolarmente cruciale per il futuro del Pianeta, dopo che le precedenti conferenze, in particolare la COP3 del 1997 a Kyoto e la COP15 del 2009 a Copenhagen, si erano risolte in un fallimento annunciato: in occasione della conferenza di Kyoto era stato approvato l’omonimo Protocollo, entrato in vigore nel 2005, che avrebbe dovuto obbligare i paesi industrializzati a ridurre di almeno il 5% le proprie emissioni di gas serra tra il 2008 e il 2012 in relazione ai livelli del 1990. Tuttavia, la grande maggioranza dei grandi inquinatori, USA, Russia e Canada in testa sono venuti meno ai loro impegni e la Cina non era tra i Paesi allora coinvolti dal Protocollo. D’altra parte, la Conferenza di Copenhagen aveva visto un insuccesso ancora maggiore: a fronte della partecipazione questa volta anche dei paesi c.d. in via di sviluppo, l’obiettivo dichiarato era ridurre il riscaldamento globale a 2°C in relazione all’epoca precedente lo sviluppo industriale. Eppure non era stato raggiunto alcun accordo e ci si era limitati a generiche petizioni di principio sulla necessità della cooperazione e di limitare il picco delle emissioni il prima possibile.
Le successive conferenze di Duban, Doha, Varsavia e Lima non hanno fatto altro che preparare la COP21 di Parigi, che nelle intenzioni degli organizzatori, ONU in testa, dovrebbe rappresentare il punto di svolta riguardo alle politiche ambientali degli Stati in ambito globale.
Tuttavia, a fronte dell’ottimismo dei funzionari dell’ONU, e soprattutto della drammatica urgenza sottolineata a più riprese dai ricercatori e delle ricercatrici dell’ IPCC (acronimo inglese per Gruppo Intergovernativo di ricerca sul Cambiamento Climatico), sembra proprio che anche questo sarà annoverato nella lunga serie degli appuntamenti mancati. Gli Stati avevano infatti tempo fino alla fine del mese di Ottobre per comunicare gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra, ma ogni attore statale ha una sua propria agenda, sia in termini temporali che rispetto alla percentuale di riduzione dei gas. Così ad esempio, se da una parte l’Unione Europea ha comunicato l’impegno a ridurre i gas serra del 40% entro il 2030 in relazione al livello del 1990, dall’altra gli Stati Uniti hanno annunciato di voler ridurre i gas tra il 26% e il 28% entro il 2025 in relazione al livello del 2005. . È importante in tal senso notare che le decisioni possono essere solo assunte all’unanimità o con il metodo del consenso, per cui impegni così differenziati, tenendo conto anche della pluralità degli attori coinvolti e della diversità di interessi rappresentati, molto difficilmente si risolveranno in un impegno finale vincolante per tutti, e che abbia una qualche efficacia reale sulla diminuzione della temperatura globale.
In effetti non c’è accordo sull’entità degli sforzi che dovranno essere compiuti né sulla ripartizione del peso di tali interventi: i Paesi “in via di sviluppo” (tra questi c’è anche la Cina) sostengono che il peso maggiore debba incombere sui Paesi “industrializzati”, dal momento che loro è la responsabilità storica del cambiamento climatico. D’altra parte questi ultimi ritengono che la divisione tra paesi industrializzati e in via di sviluppo non sia più operativa.
Inoltre, un’altra patata bollente sarà la discussione sulla natura e le modalità di finanziamento per l’adattamento alle condizioni dovute al peggioramento del cambiamento climatico, che è surrettiziamente già considerato peraltro inevitabile: in sostanza, a fronte della previsione di un fondo di 10,2 miliardi di dollari, solo 4 miliardi sono stati effettivamente sbloccati, e mancano all’appello ben 6 miliardi il cui esborso non è certo né quanto a tempi né quanto ai donatori.
Insomma, si pongo tutte le basi per una seria impasse del processo, i cui esiti saranno prevedibilmente negativi per l’ecosistema nel suo complesso.
Ma quali sono le ragioni fondamentali di questa impasse?
I conflitti tra Stati, incluso rispetto alla distribuzione “equa” del fardello (dal loro punto di vista) della riduzione delle emissioni nocive, affondano le radici nel modo di produzione capitalistico e nella sua estensione su scala internazionale: un’estensione contraddittoria che non avviene su una superficie liscia e priva di asperità, ma nel fuoco di conflitti vecchi e nuovi, necessità di dominio e gerarchizzazione degli Stati, con la costituzione, sempre cangiante, di nazioni di oppressori e nazioni di oppressi. La logica tendenzialmente totalizzante del sistema imperialista mondiale non è estranea allo stravolgimento del clima, dell’ecosistema e dei cicli naturali di ricambio organico tra essere umano e natura, per dirla con Marx.
L’estrema difficoltà di praticare soluzioni la cui logicità e necessità appaiono evidenti, come ad esempio il progressivo abbandono di fonti di energia combustibile fossile (una delle principali cause del riscaldamento globale), non è dovuta solo e tanto alla cecità o alla miopia delle classi dominanti dei Paesi imperialisti e capitalisti dominanti ed emergenti, quanto alla centralità che queste fonti di energia rivestono nella riproduzione di questo sistema economico: produzione per il profitto, crescita fine a sé stessa, irrilevanza dei bisogni sociali, conseguente sfruttamento senza sosta delle risorse umane e naturali.
Non è certo per ignoranza che la stragrande maggioranza dei governi del globo non ha finora preso alcuna decisione efficace e cogente in tema di lotta ai cambiamenti climatici: questi infatti sono una realtà innegabile e nota, suffragata dalla maggior parte della comunità scientifica mondiale, inclusi i ricercatori della già citata IPCC, i cui studi costituiscono una delle basi fondamentali per le Conferenze sul clima. Tralasciando i negazionisti tout court, che ad esempio negli USA pure sono molto rumorosi avendo ampia audience sui media, si tratta piuttosto dell’incapacità e dell’impossibilità di queste stesse classi dirigenti di mettere in discussione uno status quo che per la sua riproduzione ha bisogno che le cose proseguano così come sono attualmente. Parafrasando le parole di Naomi Klein, una cambio di paradigma rispetto alle fonti di energia fossile a vantaggio di altre forme di energia, meno impattanti per l’ecosistema, avrebbe come conseguenza la necessità dell’abbandono progressivo di un modo di produzione, scambio e consumo che per le sue intrinseche necessità di crescita incessante non può che essere fondamentalmente energivoro, ma di un particolare tipo di energia: un’ energia che consenta, alle attuali condizioni tecniche, la prosecuzione delle attività economiche nella loro forma capitalistica. Immaginiamo la quantità di energia necessaria per la locomozione delle grandi navi oceaniche commerciali, per il funzionamento degli aeromobili, per i grandi impianti industriali, per lo spostamento di milioni di autoveicoli, solo per citare alcuni esempi di attività altamente indispensabili all’ordinario funzionamento della macchina economica capitalistica. Rinunciare a questo tipo di energia, e al PIL che le grandi multinazionali del carbone, del petrolio e del gas generano, provocherebbe una gigantesca distruzione di capitale e una altrettanto enorme crisi finanziaria.
Come abbiamo già detto, fermarsi per il capitalismo equivale a morire, e ogni inceppamento del motore richiede la distruzione di una quantità sempre più grandi di forze produttive e naturali che sono finite e non illimitatamente riproducibili. Marx sosteneva che il capitalismo distrugge le uniche due fonti di ogni ricchezza possibile: i lavoratori/le lavoratrici e la terra. Minando alla radice la possibilità stessa di garantire un ordinato ricambio organico tra l’essere umano e la natura, il capitalismo pone fine potenzialmente alla sua stessa riproduzione, ma così facendo rischia di trascinare nella barbarie l’intera umanità e le altre specie viventi.
È anche importante aggiungere che il cambiamento climatico non è l’unico aspetto relativo al deterioramento dell’ambiente ma è al tempo stesso causa ed effetto di altre conseguenze estremamente nocive all’ecosistema e quindi a tutte le specie viventi presenti sul pianeta:
* l’acidificazione degli oceani – costituisce una minaccia seria per numerosi organismi marini il cui scheletro esterno in carbonato di calcio non resisterebbe ad una acidità troppo elevata;
* il declino della biodiversità – conosciamo attualmente ciò che i biologi chiamano “ sesta onda di estinzione” del vivente, ed essa è più rapida della precedente, che corrisponde alla scomparsa dei dinosauri, sessanta milioni di anni fa;
* lo sconvolgimento dei cicli dell’azoto e del fosforo – potrebbe provocare un fenomeno poco conosciuto di morte improvvisa, che sembra già essersi prodotto naturalmente nella storia della terra;
* la distruzione dello strato di ozono stratosferico – che ci protegge dai raggi ultravioletti- è il solo dossier ambientale sul quale dei punti in positivo sono stati segnalati, su cui tornerò più avanti;
* il degrado e il supersfruttamento delle riserve di acqua – attualmente, il 25% dei corsi d’acqua non arriva al mare a causa degli eccessivi prelievi, in particolare per l’agricoltura irrigua.
* l’avvelenamento chimico della biosfera– in un secolo, l’industria chimica ha creato centomila molecole che non esistono in natura e di cui un certo numero – chiaramente dei composti tossici- non possono essere decomposti con agenti naturali;
* la distruzione dei suoli e la perdita delle terre arabili.
* la diminuzione della produzione agricola. Con un riscaldamento globale di 3°C rispetto al 18° secolo si stima che la produttività globale aumenterà. Ma, fin d’ora, diminuisce in alcune regioni tropicali, in particolare nell’Africa sub sahariana;
Tutti questi fenomeni sono interconnessi e il cambiamento climatico occupa un posto centrale. L’acidificazione degli oceani, per esempio, comporta concentrazioni atmosferiche crescenti in biossido di carbonio, che nello stesso tempo è il principale gas a effetto serra. Il declino delle biodiversità è ugualmente dovuto in parte al riscaldamento, ed e talmente rapido che alcune specie non riescono a salvarsi con la migrazione.
È evidente che ci troviamo di fronte ad una sfida epocale, la più grande che l’umanità abbia mai dovuto affrontare.
Ma come risolvere questa situazione?
La risposta di chi pensa che il capitalismo possa essere in fondo compatibile con la preservazione a lungo termine dell’ecosistema è racchiusa nella definizione di “economia verde”: il problema ecologico è visto come un’opportunità per l’apertura di nuovi mercati (fonti rinnovabili, quello dei diritti di inquinamento, l’agricoltura falsamente biologica ecc…), il cui dispiegamento, insieme al progresso tecnologico, dovrebbe gradualmente risolvere il problema e consentire la transizione a un “capitalismo verde”. Il punto è che, per le ragioni più sopra esposte e per la caratteristica incapacità di programmazione coordinata collettivamente che impedisce al capitalismo di prospettare soluzioni a lungo termine, queste risposte sono essenzialmente fasulle e irrealistiche. Neanche la fede in soluzioni miracolistiche provenienti dalla tecnologia è fondata: da un lato le attuali tecnologie relative alle fonti di energia rinnovabile non sono applicabili su scala globale senza generare una dinamica di collasso del sistema che oggi è imperniato sulle fonti di energia fossile; dall’altro, ammesso e non concesso che si potessero sviluppare tecnologie in grado di sostituire le fonti di energia fossile a parità di efficacia in termini di sostegno alla crescita illimitata capitalistica, queste stesse tecnologie non verrebbero impiegate su larga scala a causa degli enormi investimenti richiesti per la loro applicazione a fronte di un ritorno non prevedibile e pianificabile a breve/medio termine in termini finanziari.
Il capitalismo, e in generali i sistemi fondati sulla divisione in classi della società, non impiegano la tecnologia se non quella che è immediatamente funzionale alla riproduzione del sistema stesso in rapporto alle sue basi. Noto è l’esempio che Marx faceva riguardo alla forza vapore, già scoperta al tempo degli antichi greci, le cui applicazioni non furono mai esplorate perché non se ne “vedeva” l’utilità rispetto all’uso degli schiavi nel quadro di rapporto di produzione imperniati sulla schiavitù.
D’altro canto ci sono correnti di pensiero che sostengono la fuoriuscita da questa situazione per mezzo di una radicale inversione di tendenza rispetto alla crescita illimitata propria del capitalismo. La cosiddetta teoria della decrescita è infatti entrata da qualche anno nel dibattito a sinistra riguardo al tema ecologico: non abbiamo qui lo spazio di discutere questo approccio nel dettaglio ma basterà dire che sostanzialmente propone di ridurre la crescita economica fino a prospettare un indicatore negativo della misura della ricchezza prodotta: in poche parole, meno ricchezza, meno beni materiali, meno produzione di beni e servizi, meno consumi.
Apparentemente questa proposta è affascinante, e coglie indubbiamente un aspetto della “alienazione quantitativa” cui il capitalismo sottopone la specie umana e le altre specie, ma dal nostro punto di vista tralascia un aspetto non meno importante in merito alla prospettiva di costruzione di una società radicalmente diversa: in che modo sarà organizzata la produzione di beni e servizi? E’ davvero possibile prospettare la costituzione di piccole unità autosufficienti e tendenzialmente localizzate in piccole aree geografiche, senza che vi sia un’organizzazione almeno federalistica di queste stesse unità? E’ possibile rovesciare la universale ricchezza dei bisogni sviluppata in tutta la storia dell’umanità, e dal capitalismo in particolare, e rompere l’interconnessione creata dalla formazione del mercato mondiale? La generale riduzione dei beni e dei servizi non si risolverebbe in una povertà generalizzata e in un nuovo conflitto per l’accaparramento dei mezzi di sussistenza e di vita, e con esso “tutta la vecchia merda”? E’ davvero possibile e auspicabile ipotizzare la chiusura autarchica della produzione e del consumo in aree ristrette? Benché in qualche misura si renderà certamente necessario, il “chilometro zero” non sarebbe altro che penuria in assenza di una forte interdipendenza globale.
In breve, è possibile far girare la ruota della storia all’indietro, verso sistemi sostanzialmente precapitalistici?
Noi pensiamo invece che il punto sia porre un termine all’anarchia di unità economiche separate in competizione le une con le altre, organizzare la produzione secondo un piano gestito democraticamente dalla collettività dei cittadini-lavoratori e le cittadine-lavoratrici, e per questa via eliminare il carattere di merce ai beni e ai servizi. In tal modo sarà possibile anche orientare le scelte di consumo in un’ottica di soddisfazione dei bisogni di tutte e tutti, ma soprattutto sarà possibile controllare razionalmente le scelte energetiche che dovranno sostenere la nuova società in accordo con le leggi di riproduzione dell’ecosistema nel suo complesso.
SI tratta di denunciare l’impossibilità di soluzioni interne allo stesso sistema che ha generato gli enormi problemi che abbiamo di fronte, o che non prendano in considerazione la necessità di una soluzione globale e altrettanto sistemica.
Si tratta di sostenere tutti i movimenti e le mobilitazioni che mettano concretamente in discussione le conseguenze del capitalismo sull’ambiente con rivendicazioni non importa quanto parziali o limitate: anche soltanto dibattere del problema riconoscendone l’esistenza e l’importanza può essere un primo passo verso la ricerca di soluzioni stabili, durature e radicali. Si tratta di orientare e approfondire queste mobilitazioni in senso anticapitalista contribuendo attivamente a costruirle.
SI tratta di spingere per l’alleanza di classi, settori di classe e settori sociali che, con la loro azione combinata su scala internazionale possono avere un ruolo determinante: classe lavoratrice dei paesi capitalistici avanzati e contadini dei paesi emergenti in lotta per la riforma agraria e la redistribuzione delle terre; movimenti per il consumo responsabile e movimenti per la sovranità alimentare; e ancora movimenti per la riconversione ecologica dell’industria e movimenti sindacali per il diritto al lavoro. In questo quadro, e con un orientamento opposto e contrario al sindacalismo complice e concertativo, strutturalmente subalterno alla logica produttivista dominante, sarà possibile praticare anche una soluzione all’attuale dicotomia lavoro/salute, lavoro/ambiente, in ultima istanza irrisolvibili nel sistema capitalista.
Per parafrasare la nota alternativa formulata dalla grande rivoluzionaria polacca alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, la scelta che ci si pone davanti non potrebbe essere più netta: Ecosocialismo o barbarie.