DO YOU REMEMBER BIANCIARDI?

Nicolas Martino

«Ma la luce acceca, piuttosto di illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio» 1. Probabilmente queste parole sarebbero piaciute a Luciano Bianciardi, sarebbero state bene nel suo romanzo La vita agra contronarrazione del boom economico italiano, controcanto «arrabbiato» alle mille luci della Milano capitale morale e dell’industria culturale di cui Bianciardi metteva all’indice l’alienazione, la solitudine e il fallimento generale.

E invece sono parole di Sigfried Kracauer e la città è la Berlino degli anni Trenta. Sorprendente coicidenza che non si ferma qui, mi pare, perché a rileggere le straordinarie pagine della ricerca micrologica di Kracuer dedicata a Gli impiegati sembra davvero di incrociare quello stesso sguardo spietato del nostro grossetano déraciné. Quelle classi medie, gli impiegati appunto che Kracauer descriveva come «spiritualmente senza tetto» 2 nella Berlino fra le due guerre – quella della vacillante repubblica di Weimar – potrebbero essere gli stessi ragionieri e le segretarie di Bianciardi in una Milano che «di notte sembra un Luna Park» 3. L’impiegato di Kracauer che «si salva dalla sua povertà con la distrazione» 4  e la folla di Bianciardi che «compra, compra compra» 5, sono temporalmente distanti ma ugualmente votati al culto del divertimento. Tanto che se – in un paio di preziose note del 1994 dedicate al nostro déraciné – Paolo Virno notava come il seguito sociologico della Vita agra potesse essere rintracciato nelle ricerche sul toyotismo di Benjamin Coriat, probabilmente è anche possibile considerare La vita agra come il proseguo letterario della ricerca sociologica di Kracauer.

Note non solo preziose ma davvero illuminanti quelle a cui facciamo riferimento  6, nelle quali riprendendo un brano de La vita agra Paolo Virno individua una formidabile intuizione da parte di Bianciardi. Riportiamo qui il brano ripreso da Virno: «E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro. Non è come fare il contadino o l’operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai. Ma altrimenti l’operaio va piano, in miniera per esempio non si mette mai a battere i piedi e il falegname se la fa con calma, la sua seggiola o il suo tavolino, con calma e precisione, e l’im bianchino ti resta in casa una settimana solo per scialba re una stanza. Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri, è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari.Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio, di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed e diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. […] Allo stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello» 7.

jamaica

L’intuizione è questa: l’emergere di una nuova natura del lavoro, un nuovo settore che non è più quello terziario, ma quartaro come lo chiama Bianciardi – lavoro caratterizzato dall’assenza di un’opera, ovvero dall’immaterialità. Le professioni legate alla comunicazione non danno luogo a un prodotto tangibile e quindi, proprio perché «non si fabbricano nuovi oggetti, ma situazioni comunicative», queste esigono attitudini di tipo politico. Il lavoro inizia ad assomigliare sempre di più all’azione e prassi pubblica. Insomma, ci dice Virno, in questo romanzo che racconta lo sviluppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta, Bianciardi intuisce quello che di lì a pochi anni sarebbe diventato un tratto costitutivo dell’intero processo produttivo postfordista, ovvero «la simbiosi – pervasiva – tra lavoro e comunicazione».

Due brevi note che costituiscono probabilmente una delle più illuminanti letture critiche del lavoro di Bianciardi, restituendone la straordinaria attualità, e anche i limiti. Limiti, perché è anche vero che Bianciardi considerava questi tratti del lavoro dell’industria culturale come delle stramberie rispetto al lavoro autentico che rimaneva per lui quello della grande fabbrica del Novecento. Su questi limiti è il caso di insistere ora, perché furono proprio questi che probabilmente impedirono a Bianciardi di riuscire a giocare fino in fondo la carta del cambiamento.

Eccone un altro: proprio negli anni in cui si preparava la stagione operaista e Milano, come anche Torino, era attraversata dalle lotte operaie, Bianciardi denunciava «l’assenza, palese, degli operai. Gli operai non ci sono – scriveva – almeno in quella Milano che è compresa nel raggio del movimento mio e dei miei colleghi, non entrano mai nel nostro rapporto di lavoro» 8 e neppure gli intellettuali che ci sono solo «come singoli, ma mai come gruppo» 9, quando invece proprio a Milano, solo per fare un esempio, l’esperienza della comune di via Sirtori iniziava a tracciare una via collettiva e alternativa al lavoro politico-culturale 10.
Giovanni Rubino, Champagne molotov (1973)

Bianciardi, nonostante la sua straordinaria intuizione, non riusciva a vedere fino in fondo quello che stava accadendo anche perché era rimasto prigioniero del ruolo assegnatoli dalla società in quanto intellettuale, così come notava Sergio Bologna in un sua bella testimonianza di qualche anno fa11. Un ruolo dal quale, al di là delle prese di posizione, occorre invece liberarsi, se si vuole davvero rovesciare lo stato di cose presente e cambiare la vita. E invece Bianciardi in quel ruolo tradizionale dell’intellettuale separato e chiuso nel recinto della sua individualità rimase completamente catturato, e costretto, dallo stesso successo del suo romanzo, a recitare la parte dell’arrabbiato di professione, «murato» nella sua condizione e «reso incapace di progetti per il futuro12. Del resto è ancora Bianciardi a intuire, in anticipo su altri, la sussunzione del lavoro culturale nell’industria culturale e quindi l’impossibilità di pronunciare qualsiasi parola che non diventasse spettacolo, qualsiasi critica autentica.

Intuizioni e limiti dunque, che oggi è possibile ripercorrere leggendo un paio di libretti che fanno seguito alla ripubblicazione da parte di Feltrinelli della trilogia della rabbia 13, ovvero Bianciardi d’essai di Irene Blundo (Stampa Alternativa, 2015) – dedicato al lavoro culturale svolto a Grosseto prima del salto milanese e ricostruito dalle testimonianze di Isaia Vitali, del fotografo Mario Dondero e dalla sua compagna Maria Jatosti – e Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale (Edizioni Clichy, 2015) a cura di Gian Paolo Serino, piccola antologia per parole e immagini pensata come una prima introduzione all’autore che mette in evidenza la velocità del nostro nell’anticipare Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini sui mass media e sulla trasformazione antropologica.

Per concludere, eccolo quindi il grande, autentico, limite di Bianciardi: l’incapacità di presagire, nell’ambivalenza della realtà che gli dispiegava davanti, la via di fuga che trasformando in un progetto politico e culturale collettivo la sua rabbia, lo avrebbe salvato da quella vera e propria «crisi della presenza»14 che invece lo travolse consegnandolo allo smarrimento del soggetto, a quella «disgiunzione tra individuo e mondo» che ne avrebbe decretato la morte a soli 49 anni. Rimase prigioniero insomma, pur intuendo il passaggio produttivo dal fordismo al postfordismo, di quella individualità iperegotica tipicamente moderna sulla quale la controrivoluzione neoliberista di fine anni Settanta avrebbe costruito la fortuna della sua ideologia, soprattutto nell’Italia del decennio successivo.

E proprio per questo, ancora adesso «un attacco privo di tatto all’«ideologia italiana» degli anni ’80 resta un punto imprescindibile», come recitava l’editoriale del primo numero della rivista «Luogo comune» ormai un quarto di secolo fa15. Da qui, ancora una volta, occorre ripartire. Con Bianciardi, oltre Bianciardi.

  1. Sigfried Kracauer, Gli impiegati, Einaudi (1980), p. 90. Gli scritti che compongono quest’opera uscirono originariamente tra il 1929 e 1930, nel feuilleton della Frankfurter Zeitung. []
  2. Ivi., p. 88. []
  3. Mario Terrosi, Bianciardi com’era. Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano, Il paese reale, 1974, p. 40. []
  4. Sigfried Kracauer, cit., p. 98. []
  5. Mario Terrosi, cit., p. 40. []
  6. Le note sono la n.10 e la n.11 contenute el saggio Virtuosismo e rivoluzione pubblicato come seconda parte diMondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, Manifestolibri (1994), pp.116-118. Una prima versione di Virtuosismo e rivoluzione era apparsa sulla rivista «Luogo comune», n.4, maggio 1993, ma senza note. Queste due note ulteriormente sviluppate diventeranno poi un paragrafo di Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi (2001), pp. 45-49. []
  7. Luciano Bianciardi, La vita agra (2013), pp. 110-111. []
  8. Luciano Bianciardi, Lettera da Milano in «Il Contemporaneo» 5 febbraio 1955, ora in Luciano Bianciardi, L’antimeridiano, Isbn/ExCogita 2008, vol.II, pp.702-703. []
  9. Ibidem. []
  10. Sull’esperienza della Comune di via Sirtori vedi l’intervista a Giairo Daghini in Gli operaisti, DeriveApprodi (2005), pp. 108-120. []
  11. Sergio Bologna, Luciano Bianciardi, il pane e la pentola: ripensare il lavoro della conoscenza, «Il Quinto Stato», 3 aprile 2012. []
  12. Giuseppe Nava, «L’opera di Bianciardi e la letteratura dei primi anni Sessanta», in Luciano Bianciardi. Tra neocapitalismo e contestazione, Editori Riuniti, 1992, p. 17. []
  13. Il lavoro culturale (1957), Feltrinelli (2013), L’integrazione (1960), Feltrinelli (2014) e La vita agra (1962, Feltrinelli (2013). []
  14. Per il concetto di crisi della presenza si veda Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi (1977), p. 50; Per un’interpretazione attualizzando di De Martino vedi Federico Chicchi, Soggettività smarrita, Bruno Mondadori (2012), pp. 20-25. []
  15. Cionondimeno in «Luogo Comune» anno I, n.1 nov. 1990, p.5. []

13 giugno 2015

Tratto da: www.alfabeta2.it

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