UN DIBATTITO NECESSARIO

di Cinzia Nachira.

La situazione mediorientale è sempre più drammatica, ma l’evoluzione del dibattito nei nostri Paesi sta assumendo aspetti che sfiorano il grottesco. Tutto è reso evanescente e come dissolvenze cinematografiche, si mescolano fattori diversi senza alcun criterio che aiuti a districarsi nel caos che aumenta. Anche negli ambienti politici ed intellettuali più inattesi ormai ogni tentativo di riflessione è stato abbandonato. Ogni attenzione e prudenza viene rifiutata come una perdita di tempo. Sarebbe difficile diversamente definire quelle posizioni che invocano l’urgenza di uno schierarsi a priori, atteggiamento che pericolosamente avvicina versanti che un tempo erano contrapposti. Quell’antica contrapposizione, che era caratterizzata soprattutto dal tentativo di rifiutare di guardare agli accadimenti come a una partita di calcio, oggi è ripudiata.

Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma l’elenco risulterebbe troppo lungo e noioso. Un elemento comune è l’illusione che sia possibile scegliere “la barbarie più accettabile”, si tratti di aderire in fin dei conti alla teoria dello scontro militare aperto con l’Occidente, che individuare in questa o quella forma di integralismo religioso – nello specifico islamico – in concorrenza con l’ISIS, la soluzione, l’alleato e l’amico. Per questo motivo si leggono sempre più spesso analisi che, partendo da esegesi assai dubbie del Corano o della Sunna, propongono soluzioni fantasiose e originate da un fenomeno assai diffuso (e non da oggi): scambiare i desideri con la realtà. Oggi le tesi più ricorrenti sono essenzialmente tre. Quella secondo cui in Medioriente è in atto una «una guerra inter-fascista» (categoria confusa e sicuramente errata per comprendere ciò che accade in Africa e in Medioriente); quella favorevole alla scelta del governo giordano di liberare lo sceicco Abu Mohammed al Maqdisi, predicatore salafita, legato ad al Qaida. Al Maqdisi critica l’ISIS perché, secondo i canoni di Al Qaida, la guerra deve essere “limitata” agli infedeli e non estesa alla comunità musulmana. Insomma, combattere l’ISIS con l’aiuto di Al Qaida e soprattutto proporre la corrente ideologica che sostiene il qaidismo come più accettabile del progetto del Califfato. Infine, ma non per importanza, vi sono coloro che per affinità ideologiche con il preteso “laicismo” della dittatura di Bashar Assad sostengono che il vero “elemento propulsore” del cambiamento in senso progressista della regione sarebbero le organizzazioni sciite legate all’Iran, alleate del regime baathista siriano.

A questo proposito, ci limitiamo ad osservare, che tutte queste teorizzazioni alla fine dei conti sono frutto della cocente sconfitta intellettuale e politica di quelle aree che dalla prima guerra del Golfo nel 1991 all’invasione occidentale dell’Iraq del 2003 si erano opposte alle politiche occidentali, alla base del caos attuale. Quella sconfitta, cosa che non è una novità, ha dato il via ad una corsa insensata a cercare il male minore, come fosse la soluzione. Questi stessi ambienti in cui abbondano queste teorie, per altro, sono gli stessi in cui per mesi ci si è letteralmente eccitati di fronte alla battaglia di Kobané e dei progetti laici e progressisti della Repubblica del Rojava. E prima ancora si erano impegnati senza riserve ad esaltare il ruolo dei curdi iracheni nella battaglia per Mossul. Ora di tutto questo i “signori del pensiero corto” non parlano più e si rifugiano nel cercare gli elementi positivi di al Qaeda.

Diciamolo francamente, se non vivessimo un momento drammaticamente pericoloso, tutto questo sarebbe patetico e non degno di attenzione. L’aspetto più deprimente è che tutto questo è speculare a ciò che ufficialmente si rifiuta. Trovare gli elementi “progressisti” in Al Qaida fa pendant con il cercare l’islamico “buono” che si pretende sia rappresentato dall’imam Ahmed al Tayeb dell’università al Azhar del Cairo che ha invocato la crocifissione e la mutilazione di coloro che seguono l’ISIS. A nostro avviso l’Islam non è la soluzione e neanche il problema. Il problema più serio è che in questi ultimi trent’anni sono state ignorante e a volte derise le riflessioni più caute, che non significa ignave, che vedevano il ritorno identitario della religione come un pericolo ha prodotto tutti i danni possibili. Sostituire all’analisi della realtà gli slogan significa, in fin dei conti, accettare la tesi del vincitore di turno. Non è un caso se pretenziosi teorici, che un tempo non lontano enfatizzavano il ruolo insostituibile delle “moltitudini in rivolta”, oggi invocano il Je suis Maaz  e il Je suis Sajida per una sorta di equidistanza. Tutti costoro dimenticano disinvoltamente coloro che hanno pagato con la vita l’aver rifiutato l’omologazione allo slogan di turno. Il rifiuto e l’identificazione apriori significa cadere nella trappola di ogni integralismo che sia politico o religioso. Un essenzialismo pratico e teorico che non aiuta nessuno nell’unico tentativo in cui vale la pena impegnarsi: ricostruire le basi per delle categorie sociali, economiche ed etiche che ci consentano di offrire un contributo per uscire da questa folle concorrenza tra barbarie. Ma tutte le barbarie hanno un presupposto in comune: la vendetta e la teorizzazione di questa come “giustizia”. Un’assunzione minima delle nostre responsabilità è quella di rifiutare questo presupposto. Scegliere la barbarie che piace di più, o che riteniamo più accettabile, equivale a non capire più nulla dei sistemi sociali e politici che una malintesa “globalizzazione” ha creato. In ogni caso è una scelta che noi rifiutiamo di fare.

Ma per comprendere, come sempre, serve ritornare sui dati di fatto, abbandonando le teorizzazioni fantasiose. Ed in questo caso è necessaria anche fare un poco di cronistoria. È bene chiarire fin da subito che ricostruire i fatti e cercare di capire la loro concatenazione nel nostro caso non significa assolutamente cedere alle teorie complottistiche che vogliono l’ISIS come una creatura statunitense nata grazie  alla complicità di Paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar. Altro conto è sostenere che, nel caos della guerra civile siriana, il fatto che Arabia Saudita e Qatar abbiano sostenuto finanziariamente sia i gruppi legati ad Al Qaeda che lo stesso ISIS ha creato le condizioni per la crescita così imponente e rapida di questa organizzazione integralista e totalitaria che ora controlla parti significative dell’Iraq e della Siria.

Per tentare di spiegare come sia stato possibile di fatto accettare l’appiattimento sull’esistente può essere utile tornare sull’uccisione di Maaz al-Kassasbeh, il pilota giordano catturato e arso vivo dall’ISIS,  che ha impresso una forte accelerazione alla situazione regionale mediorientale. O almeno così sembra. È inevitabile constatare come la morte, per quanto atroce, di questo tenente dell’aviazione giordana abbia avuto un impatto maggiore della stessa proclamazione del Califfato, nell’agosto scorso in Siria e in Iraq. Da quel momento abbiamo assistito ad uccisioni altrettanto barbariche di molti ostaggi occidentali, persecuzioni e stragi di massa contro minoranze etniche e religiose. Gli stessi musulmani in Iraq e in Siria, che fossero sunniti non ortodossi secondo i canoni del califfo e a maggior ragione sciiti, sono stati bersaglio della violenza indiscriminata dell’ISIS. Ma nonostante tutto ciò la reazione a livello regionale e internazionale è stata per un verso contraddittoria e per un altro verso molto debole.

Quando nell’estate scorsa i cristiani iracheni, soprattutto nella piana di Ninive, sono stati perseguitati e massacrati insieme agli yazidi, l’Occidente, Stati Uniti in testa, si è limitato a sfruttare gli aspetti odiosi di quegli eventi per lanciare una coalizione internazionale a cui partecipano sessanta Paesi. Ma questa in realtà ha limitato la sua azione a dei raid aerei che avevano soprattutto l’obiettivo di coprire l’azione sul terreno portata avanti dai curdi; ai quali quello stesso Occidente che per decenni ha negato uno Stato indipendente aveva chiesto, e ottenuto, che fungessero a fanteria. Non ultima per importanza è stata la battaglia per la città di Kobané, dove i curdi siriani hanno sostenuto da soli una battaglia durata oltre due mesi e che ora sembra essersi conclusa con un arretramento significativo dell’ISIS. Anche in questo caso nessun Paese arabo né occidentale ha sentito la necessità di un intervento serio in aiuto dei curdi siriani, né di fornire loro aiuti militari adeguati.

Ora invece l’esecuzione brutale di un tenente dell’aviazione è diventata il motivo catalizzatore di una risposta da parte di uno dei Paesi più deboli della regione, la Giordania, che sembra aver preso in mano le redini effettive della coalizione. Osserviamo, en passant, che, per quanto sia sconcertante la crudeltà riservata a Maaz al-Kassasbeh, non dovremmo dimenticare che visto il suo “mestiere” non poteva non mettere nel conto la possibilità di cadere in mano nemica. Per spiegare questo improvviso “risveglio” militaresco e guerriero di re Abdallah II sicuramente serve ricordare che Maaz al-Kassasbeh apparteneva ad una delle tribù beduine più importanti che sostengono la corona hashemita. Inoltre, è necessario non dimenticare che, come nel resto degli altri Paesi arabi, anche in Giordania le organizzazioni politiche integraliste islamiche, dai Fratelli Musulmani fino ai salafiti, negli ultimi vent’anni sono cresciute molto e non poche volte hanno messo in pericolo il trono di Abdallah e la stessa monarchia.

Ciò che colpisce, però, è il cinismo con cui disinvoltamente sia l’Occidente che la stessa Giordania hanno sfruttato la fine orribile di questo giovane tenente. Soprattutto in Occidente si è creata una situazione paradossale perché ancora è forte lo shock per le stragi avvenute a Parigi, e per superarlo a poco è servita l’union sacrée messa in piedi da François Hollande.

Quando il 24 dicembre 2014 Maaz al-Kassasbeh è caduto prigioniero dell’ISIS, la notizia è passata quasi inosservata, salvo per un incredibile sondaggio in rete attraverso il quale l’ISIS chiedeva “al popolo del web” in quale modo giustiziare il tenente giordano. Qualche giorno dopo fu data la notizia dell’avvenuta esecuzione, di cui però si sono taciuti i particolari atroci ed anche la data. Il 20 gennaio l’ISIS ha chiesto 200 milioni di dollari al Giappone (la somma corrisponde non a caso a quella che il primo ministro giapponese Shinzo Abe aveva promesso ai Paesi mediorientali che combattevano l’ISIS. L’annuncio venne fatto dallo stesso primo ministro giapponese al Cairo in un tour regionale di metà gennaio) in cambio di due ostaggi, il contractor Haruna Yukawa e il giornalista Kenji Goto. Il governo giapponese però ha rifiutato di pagare e alla scadenza dell’ultimatum imposto dall’ISIS viene annunciata la decapitazione di Haruna Yukawa e a dare la notizia è costretto Kenji Goto. Nello stesso video viene annunciato che le condizioni per il rilascio del reporter giapponese  sono cambiate e a quel punto la richiesta dell’ISIS è la liberazione di Sajida al-Rishawi, una donna irachena che nel 2005 partecipò ad un attacco suicida in un albergo di Amman, che si salvò e da quel momento era detenuta nelle carceri giordane e condannata a  morte fin dal 2008. Per mettere con le spalle a muro la Giordania, sempre per il tramite del povero Kenji Goto, l’ISIS ha proposto uno scambio di prigionieri: Sajida al-Rishawi in cambio di Maaz al-Kassasbeh. Era il 24 gennaio 2015 e pressoché nessuno si è chiesto come fosse possibile che il tenente giordano fosse ancora in vita. Nessuno si è chiesto quando l’ISIS aveva imbrogliato a proposito della sua sorte, se a fine dicembre o dopo.

Nessuno ha dubbi, si è ritenuto che Maaz al-Kassasbeh fosse ancora in vita, in Giordania le strade si sono riempite di gente per chiedere al re di accettare lo scambio. Dopo pochi tentennamenti il governo giordano ha accettato lo scambio, creando molto imbarazzo all’interno della coalizione internazionale di cui fa parte, soprattutto perché è il primo riconoscimento politico dell’ISIS come interlocutore. Per alcuni giorni sembrava che la sorte di Kenji Goto poteva essere più benigna di quella del suo sventurato compagno di prigionia, soprattutto perché il governo giapponese – incalzato dalla sua opinione pubblica – chiedeva alla Giordania di accettare le condizioni dettate dall’ISIS.

Solo il 28 gennaio la Giordania, che sembrava in procinto di liberare Sajida al-Rishawi, faceva in qualche modo marcia indietro chiedendo una prova in vita di Maaz al-Kassasbeh, oggetto dello scambio. In un tragico scambio di accuse tra il governo giordano e l’ISIS questa prova di esistenza in vita non è arrivata. Non poteva arrivare: Maaz al-Kassasbeh era stato barbaramente giustiziato già il 3 gennaio. Mentre l’opinione pubblica mondiale veniva clamorosamente ingannata da tutti, il 31 gennaio viene annunciata la decapitazione di Kenji Goto.

Il gioco macabro delle tre carte è proseguito ancora qualche giorno dopo l’assassinio di Kenji Goto. Il 3 febbraio viene diffuso dall’ISIS il video della confessione e dell’esecuzione del tenente giordano. Il governo di Amman ha reagito com’era prevedibile (e come sicuramente sperava l’ISIS), giustiziando subito dopo Sajida al Rishawi ed un altro membro di Al Qaida da tempo detenuto nelle carceri giordane. Contemporaneamente, però, quest’ultimo è costretto ad ammettere che già sapeva – mentre fingeva di trattare per la sua liberazione – che il pilota era stato giustiziato il 3 gennaio – esattamente un mese prima della diffusione del video. Altrettanto disinvoltamente le autorità statunitensi danno lo stesso annuncio. Tutto questo imbroglio alla fine dei conti sembra essere stato il modoin cui la Giordania si traeva dall’impaccio di essere stato il primo Paese della coalizione ad aver iniziato un’interlocuzione politica con l’ISIS. Lo shock collettivo ed unanime, che giustamente hanno provocato le immagini della morte di Maaz al-Kassasbeh, ha offerto alla Giordania l’opportunità di una vendetta senza esclusioni di colpi e di ricreare nel Paese quell’unità nazionale intorno alla corona che da anni non c’era. Ma anche di giocare in questo modo un ruolo regionale e internazionale insperato, anche perché le contraddizioni dell’Occidente, al di là delle roboanti manifestazioni di cordoglio, hanno spinto gli stessi Stati Uniti ancora una volta a fare dichiarazioni che non preludono ad un intervento militarmente più efficace.

Una di queste tante contraddizioni in campo occidentale, che vede riuniti   Paesi che hanno interessi diversi e a volte – se non spesso – in contrasto, è quella che il vicepresidente statunitense Joe Biden sottolinea in un’intervista a Le monde del 5 febbraio e ripresa da alcuni dei più importanti giornali europei. Le sue parole lasciano intendere molto chiaramente che nel quadro della politica  occidentale in Medio Oriente gli Stati Uniti hanno deciso, fin dall’agosto-settembre 2013, di privilegiare l’approccio diplomatico. Non a caso sottolinea il “successo” dell’accordo con Bashar Assad sulla distruzione delle armi chimiche, dicendo: “La prospettiva che queste terribili armi potessero rimanere nelle mani di un regime abbastanza brutale da usarle, o finire in quelle di terroristi affiliati Al Qaeda o all’ISIS, rappresentava una minaccia per la sicurezza della Siria, la regione, e il mondo, una minaccia che è stata enormemente attenuata dal corso delle azioni che abbiamo intrapreso”. Certamente, all’epoca dell’accordo con Bashar Assad sulle armi chimiche Stati Uniti e Paesi europei erano concordi nell’evitare un intervento diretto. Ma è da rilevare il fatto che ancora oggi il vicepresidente statunitense parla della Siria come di un Paese dove la fine della guerra civile (scatenata dal dittatore Assad), quando verrà, potrà preludere a ripristinare lo statu quo ante, senza tener conto che la divisione della Siria, come d’altronde dell’Iraq, è oramai una realtà di fatto. Ma non solo. Dopo gli attacchi terroristici in Francia del 7 e del 9 gennaio, l’Europa, in particolare la Francia, ha una necessità impellente: dimostrare alla sua opinione pubblica di avere pronte delle risposte efficaci che eliminino il rischio che analoghi attacchi possano ripetersi. In questo senso, si spiega anche il grande sforzo propagandistico messo in campo, non solo in Francia, nel creare una cortina fumogena sulle vere cause che sono alla base dell’attacco subito da Parigi: il fallimento contemporaneo di tutte le politiche messe in atto per favorire l’ “integrazione” al modello europeo di intere fasce di popolazione che, pur avendo solo lontane radici nei Paesi ex coloniali, restano ai margini delle nostre società, rendendo affascinante per molti il progetto politico-religioso del Califfato. Non a caso alla grande manifestazione di Parigi dell’11 gennaio, dove l’union sacrée è stata “imposta” a livello internazionale, le assenze pesavano più delle presenze alla testa del corteo. Gli Stati Uniti non inviando alcun rappresentante significativo dell’amministrazione già in quel momento davano un segnale chiaro di non aver intenzione di “cedere” all’intenzione francese di mettere in piedi nuove armade per fermare l’ISIS con un impegno diretto sul terreno. Nessuno, neanche i più ingenui, potevano seriamente credere che l’assenza statunitense l’11 gennaio fosse il frutto di una “svista” della Casa Bianca. Probabilmente, gli Stati Uniti non avevano neanche voglia di ricreare il clima di un nuovo post-11 settembre 2001. Perché altrimenti sarebbero stati costretti a trarne tutte le conseguenze. Meglio, in definitiva, lasciare il proscenio agli europei, come anche lasciare loro le responsabilità di scelte, ancora una volta, fatte per tacitare i malumori interni. Negli ultimi anni simili scenari si sono già proposti: uno per tutti l’intervento prima franco-britannico e successivamente della NATO in Libia nel 2011, dove il diniego di offrire la possibilità ai ribelli libici di sconfiggere Muhammar Gheddafi, dopo aver scongiurato una fine orribile agli abitanti di Bengasi sotto assedio da parte delle truppe gheddafiane, ha aperto la strada alle formazioni armate integraliste, con le conseguenze caotiche provocando il caos attuale.

Infine, ma non per importanza, l’élite politico-militare statunitense si rende perfettamente conto che per sconfiggere l’ISIS sarebbe necessario attuare (ragionando con i loro parametri, che non condividiamo) la politica esattamente contraria a quella pensata. Ma tuttavia sono consapevoli che la situazione politica e sociale in Medio Oriente continua ad essere esplosiva e che le grandi e profonde ragioni, sociali ed economiche, che hanno portato all’esplosione delle rivolte nel 2011 sono ancora tutte intatte con il loro potenziale. Quindi, pensano, meglio accettare e sopportare il Califfato anziché combatterlo.

Nella stessa intervista del 5 febbraio, a riguardo, Joe Biden è molto esplicito riferendosi ai loro progetti in Siria e in Iraq: “L’America e i nostri partner stanno lavorando per un’intesa politica per risolvere e finire il conflitto, sostenendo l’opposizione siriana, fornendo fino ad ora 3 miliardi di dollari in aiuti umanitari, e rafforzando i vicini della Siria” e più avanti (alla domanda a quali condizioni gli USA potrebbero negoziare con Bashar Assad): “Stiamo lavorando con varie forze, inclusi i leader iracheni dell’intero spettro etnico-settario, e oltre sessanta partner, per indebolire ed eventualmente sconfiggere l’ISIS. Molti Paesi hanno dato contributi significativi. Tutti possiamo fare di più. Questi Paesi, non Assad, formano la nostra coalizione contro l’ISIS. Non ci stiamo coordinando con Assad. È sottoposto a sanzioni e non vediamo come, avendo perso tutta la sua legittimità a causa delle proprie azioni, possa ancora presiedere la Siria stabile, pacifica e unita che cerchiamo. Lavoreremo invece con elementi provati dell’opposizione moderata, affinché possano stabilizzare le aree liberate e difendersi dagli attacchi dell’ISIS o del regime”.

Joe Biden, quindi, chiarisce molto bene i confini politici all’interno dei quali gli Stati Uniti intendono procedere anche cercando di convincere i partner europei a seguirli. Inoltre, in questo senso, diventa più chiara la ragione del “risveglio giordano”, che avviene, per altro, in un momento in cui nella intera regione mediorientale, dall’Egitto alla Tunisia, i vecchi apparati (che le rivolte non sono riuscite a sconfiggere) tornano al potere, seppure in modalità differenti a seconda delle condizioni interne. La Giordania, attaccando con decisione l’ISIS nella regione di Raqqa in Siria e spostando le sue truppe ai confini con l’Iraq, si candida a diventare la fanteria della coalizione, dando in questo modo un messaggio assai chiaro.

La Giordania è stata appena sfiorata (per svariate ragioni) dalle rivolte del 2011 ed ora, quindi, si appresta a diventare il simbolo “vincente”, sperano in molti, di quell’antico assetto mediorientale che le rivolte hanno cercato di abbattere. Inoltre, l’emergere politico e militare della Giordania riduce di molto il ruolo dei curdi, sia in Iraq che in Siria, risolvendo all’Occidente due problemi importanti contemporaneamente. Per un verso ridimensionare molto le possibili rivendicazioni curde e per un altro verso togliere molte castagne dal fuoco alla Turchia, che nei mesi della battaglia di Kobané non a caso è rimasta alla finestra perché il ruolo del PKK, il partito curdo turco in Siria, rischiava di far esplodere la questione curda anche al suo interno.

Nei processi politici, economici e sociali a lungo termine, come quello inaugurato nel 2011 fare previsioni è da irresponsabili, per cui ora come ora non è possibile sapere se nei prossimi mesi, o anche anni, assisteremo al consolidarsi del quadro politico attuale. Invece, sembra sicuro che l’eventuale cancellazione dei confini mediorientali, frutto dell’eredità coloniale, non pare essere sgradita né alle potenze regionali, né a quelle internazionali. Ed in questo nuovo assetto geografico e politico sembra essere compreso il Califfato, ricondotto a dimensioni geografiche accettabili e reso più tollerabile nella “comunità internazionale”.

Non è un caso se da molte parti, escludendo l’efficacia di uno scontro militare, da molte settimane ormai sono numerose le posizioni che ritengono possibile un accordo con il califfo. Da questo punto di vista è sintomatico che sulla questione degli ostaggi ancora nelle mani dell’ISIS o di altri gruppi integralisti islamici emanazione di Al Qaida (ad oggi non si sa quante persone siano sequestrate) si cerchi da parte delle nazioni interessate, Stati Uniti in testa, un modo per liberarli, senza pensare ad una strategia per combattere la radice del problema. Evidentemente, le notizie, che come folate di vento invadono i giornali, e i mezzi di informazione più vari, in Occidente sulla brutalità del regime instaurato dal califfo nelle zone che controlla non sono che armi propagandistiche ad uso e consumo per l’opinione pubblica sempre più disarmata culturalmente. Un incrocio tra il gossip e il voyerismo.

L’ approccio politico degli Stati Uniti e dell’Europa agli eventi che hanno ridisegnato il Medioriente a partire dal 2011 è il risultato non di una strategia lucida e ragionata, ma del suo contrario. Speculare alla confusione che regna tra le potenze occidentali è l’atteggiamento liquidatorio di quegli ambienti intellettuali a cui si è fatto cenno all’inizio le cui speranze riposte nelle grandi rivolte iniziate nel 2011 sono state deluse perché la loro evoluzione non è coincisa con i loro desideri.

Ma, lo ripetiamo, viviamo in un mondo complesso e le scorciatoie teoriche e pratiche non ci aiuteranno a trovare una via d’uscita che non sia l’accettazione rassegnata della barbarie.

 

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