IN RICORDO DI MAXIME RODINSON

A dieci anni dalla sua scomparsa.

Intervista realizzata da Gilbert Achcar nel 1986, inedita in Italia, pubblicata in inglese nelle rivista Middle East Report, Washington, n. 233, Winter 2004 .

Con la morte di Maxime Rodinson, avvenuta il 23 maggio 2004 all’età di 89 anni, scompariva une delle ultime grandi figure appartenenti ad una eccezionale tradizione di islamologi occidentali – quella dei Régis Blachère, Claude Cahen e Jacques Berque, solo per citare dei francesi come lui. Rodinson apparteneva a quella cerchia di autori con un approccio pionieristico, che hanno decodificato il terreno degli studi islamici ponendoli al livello di altre scienze sociali, essendosi anch’essi affrancati dai principali difetti dell’ «orientalismo» colonialistico ed essendo sensibili alla causa delle popolazioni musulmane contro la dominazione occidentale [1]. Autori (ancora) non corrotti dalla mediatizzazione ad oltranza della «competenza», divenuta attrice privilegiata della società dello spettacolo, nella nostra epoca in cui l’Islam ha ricoperto nell’immaginario occidentale, sotto forma di integralismo e di terrorismo, il ruolo di nemico privilegiato.

Maxime Rodinson si distingue, tra i suoi pari, per l’applicazione al mondo musulmano di una griglia di lettura critica marxiana. Il suo rapporto con Marx è d’altronde all’origine alla grande molteplicità di tematiche e interessi che  caratterizzano la sua opera e fanno sì ch’essa non sia confinata ai soli studi islamici. Il suo apporto teorico copre infatti i campi più generali della ricerca storica o sociologica del solo «mondo musulmano», in dialogo permanente con l’ispirazione marxiana che non ha mai rinnegato. Una dimensione non meno importante dell’opera di Rodinson è quella che specificamente si concentra sul conflitto israelo-arabo: il suo articolo «Israël, fait colonial?», apparso nel numero speciale di Les Temps modernes dedicato al dibattito acceso dalla guerra del giugno 1967, ha costituito un contributo fondamentale alla definizione di una critica di sinistra del sionism[2].

La riflessione di Rodinson sull’ «integralismo islamico» si pone, totalmente, sotto la stessa ispirazione marxista: sia per ciò che riguarda il suo approccio analitico, allo stesso tempo fondamentalmente «materialistico» e comparativo, sia per ciò che riguarda il suo atteggiamento politico, in cui la comprensione (nel senso più profondo del termine) dei meccanismi del risveglio di questa ideologia politico-religiosa non impedisce comunque all’ateo sostanzialmente anticlericale di non provare alcuna simpatia verso di essa [3].

L’intervista che segue è stata realizzata nel 1986 (non ricordo più la data esatta), nell’appartamento parigino di Maxime Rodinson, tra le pile di libri che coprivano il pavimento, non trovando più posto sugli scaffali che ricoprivano i muri. Ho ricostruito le sue risposte a partire dalle note quasi stenografiche che avevo preso durante l’ascolto della registrazione (andata persa) – prescindendo dalle mie domande e dai miei interventi – con lo scopo di pubblicare l’intervista in una rivista in gestazione che non è mai nata. La morte del grande pensatore mi ha spinto a riprendere questo lavoro e a pubblicarlo come un omaggio, tanto più che le sue risposte, come si potrà verificare, conservano, oltre alla attualità, una certa originalità in rapporto alla sua opera già nota. – G.A.

[1] Si veda la sua descrizione dell’evoluzione degli studi islamici in La fascination de l’Islam (1980, 1999).

[2] Articolo ripreso in  Peuple juif ou problème juif? (1981)

[3] Si possono trovare le principali riflessioni di Maxime Rodinson sull’integralismo islamico contemporaneo in L’Islam : politique et croyance (1993), completato dalla lettura di De Pythagore à Lénine : des activismes idéologiques (1993).

Maxime Rodinson: sull’integralismo islamico

Nella categoria di «integralismo islamico» – la definizione non è la migliore, ma quella di «fondamentalismo» lo è ancor meno; quanto al termine «islamismo», esso genera confusione con l’Islam; «Islam radicale» non è poi così male, ma nessuna definizione corrisponde esattamente all’oggetto — è possibile raccogliere tutti i movimenti che pretendono che l’applicazione integrale dei dogmi e delle pratiche dell’Islam, compreso in campo politico e sociale, porterebbe la comunità musulmana, se non addirittura il mondo intero, verso uno Stato armonioso, ideale, riflesso della prima comunità musulmana idealizzata, quella di Medina tra il 622 e il 632 dell’era cristiana.

In questo c’è una similarità con un’ideologia politica laica come il comunismo, secondo la quale l’applicazione integrale delle soluzioni formulate dal fondatore deve condurre ad una società armoniosa, senza sfruttamento né oppressione. Invece, non vi è alcun elemento ideologico simile nel cristianesimo: gli integralisti cristiani pensano che l’applicazione integrale dei precetti del Cristo renderebbe tutti buoni e gentili, ma non cambierebbe per forza la struttura della società.

Ciò attiene alla differenza profonda tra la genesi del cristianesimo e quella dell’Islam. I cristiani, all’inizio, formavano una piccola «setta», un raggruppamento ideologico intorno a una figura carismatica, in una provincia periferica di un vasto impero, l’Impero romano, dotato di un’amministrazione impressionante. Questa piccola setta non poteva avere all’inizio la pretesa di formulare un programma politico e sociale. Non era né l’intenzione di Gesù, né quella dei primi padri della Chiesa per due o tre secoli.

Prima che l’imperatore Costantino dichiarasse, nel 325, che questa Chiesa (in latino ecclesia, ossia «assemblea») doveva essere religione di Stato, quest’ultima aveva avuto il tempo di costruire un apparato ideologico ben rodato. In questo, anche dopo Costantino, verrà mantenuta la tradizione di due apparati distinti, quello dello Stato e quello della Chiesa, che potevano essere in simbiosi o alleati, e spesso lo sono stati (l’alleanza tra la spada e il pastorale, il cesaro-papismo, ecc.); ma che possono anche entrare in conflitto (la lotta tra il Sacerdozio e l’Impero, Luigi XIV e Filippo Augusto scomunicati, ecc.). Vi sono anche esempi protestanti di Stato-Chiesa (Ginevra nel XVI° secolo,  il Massachusetts nel XVII° secolo), ma queste rappresentano delle eccezioni nella storia del cristianesimo.

L’Islam è nato in una immensa penisola al di fuori del campo della civiltà romana, dove vivevano alcune decine di tribù arabe, completamente autonome solo con alcune strutture in comune: la lingua, alcuni culti, il calendario, delle fiere e delle gare di poesia. Nel suo periodo di Medina (dal 622 fino alla sua morte nel 632) Mohammad (Maometto) era considerato come il dirigente supremo, a un tempo politico e religioso. Egli era il capo religioso, in rapporto con Dio, ma anche capo della comunità, non sottomessa alla legge romana. Egli regolava le controversie, otteneva la raccolta dei tributi e rispondeva alle necessità di difendersi e, all’occorrenza, di attaccare – che all’epoca era il modo di vita dominante in questo mondo senza lo Stato dell’Arabia. In questo modo è possibile trovare, alle origini dell’Islam, una fusione tra politico e religioso in un unico apparato – almeno in teoria, poiché quando sarà creato il vasto impero islamico, si imporrà la specializzazione delle funzioni.

La separazione della religione dallo Stato è contraria all’ideale dell’Islam, ma non alla sua pratica, poiché ci sono sempre stati degli apparati di ulema specializzati: i giudici nell’Islam appartengono all’apparato religioso, con competenze diverse rispetto ai giudici in diritto romano in Occidente. In questo caso, d’altronde, è possibile trovare un legame forte con il giudaismo, dove, come nell’Islam, gli uomini di religione, i rabbini, non costituiscono un clero sacro, ma sono dei saggi (la sinagoga, il beit midrash è un luogo di studio), come gli ulema.

Oggi permane l’ideale nato a Medina di un’unica autorità politica e religiosa. È vero che è raro trovare un caso simile a quello dell’Islam in altre comunità politico-ideologiche – salvo il comunismo dopo il 1917, che ha conosciuto degli scismi come l’Islam e dove le autorità politiche determinano la dottrina tanto sui problemi teorici che l’ideologia primaria. Ma mentre il comunismo è un modello proiettato nel futuro, l’integralismo islamico aderisce a un modello reale, ma vecchio di quattordici secoli. È un ideale indefinito. Quando agli integralisti musulmani si chiede: «Voi, sostenete, di avere delle soluzioni che superano il socialismo e il capitalismo», essi rispondono con esortazioni molto vaghe, sempre le stesse, che possono trarre origine da due o tre versetti – in genere, mal interpretati – del Corano o del Hadith.

Il problema non si poneva all’epoca del Profeta, perché nessuno pensava di cambiare la struttura sociale: si prendevano le cose come venivano. Mohammad non ha mai detto qualcosa contro lo schiavismo (come Gesù non ha mai detto qualcosa contro il lavoro salariato). Certo, l’idea di una comunità sociale organizzata con delle gerarchie esiste nel Corano, ma ciò è del tutto normale per l’epoca. Mohammad si situa nella società, mentre Gesù si situa al di fuori di essa. L’Islam, come il confucianesimo, s’interessa allo Stato, mentre le dottrine di Gesù o di Buddha sono [delle dottrine] morali, basate sulla ricerca della salvezza personale.

L’integralismo islamico è un’ideologia nostalgica. I movimenti integralisti musulmani non tentano, nel modo più assoluto, di sconvolgere la struttura sociale, se non come obiettivo del tutto secondario. Essi non hanno modificato le basi della società, né in Arabia Saudita, né in Iran. La «nuova» società che i «rivoluzionari islamici» hanno costruito assomiglia in maniera stupefacente a quella che hanno appena abbattuto. Io sono stato rimproverato, nel 1978, quando avevo affermato, in modo molto moderato, che il clericalismo iraniano non lasciava prevedere alcunché di buono. Io sostenevo «nel migliore dei casi, Khomeini sarà Dupanloup, nel peggiore Torquemada». Purtroppo, si è realizzato il peggio.

Quando si è incalzati dalla storia, si è costretti a prendere  delle decisioni. Allora si formano delle correnti politiche: sinistra, destra, centro. Sotto l’influenza europea, il mondo musulmano ha preso in prestito molte soluzioni dall’Occidente, liberal-parlamentari o socialiste marxisteggianti. Alla fine si è rimasti alquanto disgustati da tutto questo: il parlamentarismo portava al potere proprietari fondiari, il socialismo le caste amministrative militari e altre. Allora si è voluti tornare alla vecchia ideologia «meglio il nostro»: l’Islam. Ma l’influenza europea ha lasciato delle tracce profonde, in particolare l’idea che i governanti debbano essere ispirati dai governati, in generale attraverso il voto. Questa è un’idea nuova nel mondo musulmano: così la prima cosa che ha fatto Khomeini è stata quella di organizzare delle elezioni e una nuova costituzione.

Riguardo alle donne, è possibile rintracciare nell’Islam un intero arsenale tradizionale a favore della superiorità maschile e della segregazione [femminile]. Una delle ragioni del fascino seducente dell’integralismo un po’ dappertutto, è che degli uomini che sono spogliati dei loro privilegi tradizionali dalle ideologie moderniste, sanno che, nella società musulmana per come essi la propongono, possono avvalersi di argomenti sacri a favore della superiorità maschile. Questa è una delle ragioni –  che molto spesso viene nascosta, ma che è profondamente radicata, e che d’altronde talvolta è inconscia – della diffusione dell’integralismo islamico: le esperienze modernizzanti andavano nella direzione di concedere più diritti alle donne, e questo esasperava un buon numero di uomini.

Nel 1965, mi ero recato ad Algeri: era l’epoca in cui Ben Bella faceva degli sforzi prudenti per promuovere l’uguaglianza delle donne. Un’organizzazione femminile ufficiale, che non era fasulla come quella di oggi, teneva un congresso nella capitale. All’uscita dal congresso, Ben Bella aveva appena preso la testa di una manifestazione di donne nelle vie di Algeri. Dai due lati, sui marciapiede, degli uomini disgustati fischiavano, gridavano battute, ecc. Sono convinto che tutto questo ha avuto un ruolo nel colpo di Stato di Boumedienne e abbia spinto molta gente a guardarlo con simpatia.

L’integralismo islamico è un movimento temporaneo, transitorio, ma può durare trenta o cinquant’anni – non so. Là dove non è al potere, resterà come un ideale, fino a quando vi sarà questa frustrazione di fondo, quest’insoddisfazione che spinge le persone a impegnarsi fino all’estremo. Occorre avere una lunga esperienza del clericalismo perché si arrivi ad averne disgusto: in Europa, c’è voluto non poco tempo! Questo periodo resterà a lungo dominato dagli integralisti musulmani.

Se un regime integralista islamico  subisse dei fallimenti ben visibili e sfociasse in una tirannia manifesta, una gerarchizzazione abietta e subisse dei fallimenti anche sul piano del nazionalismo, questo potrebbe far avvicinare molta gente all’alternativa che denuncia questi difetti. Ma occorrerebbe un’alternativa credibile, entusiasmante e stimolante, e ciò non sarà facile.

Traduzione di Cinzia Nachira

 

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