IL CAPITALE DEL XXI SECOLO

Pubblichiamo due articoli di commento all’opera dell’economista francese Thomas Piketty: un testo ricchissimo di informazioni ma all’interno di un quadro teorico spesso non alla altezza dei dati forniti. Per una critica specialistica al testo di Piketty vedere l’articolo di Michel Husson in www.hussonet.free.fr

Fabrizio Tonello

Non capita tutti i giorni che un libro di 696 pagine diventi un bestseller negli Stati Uniti, almeno dopo Harry Potter e i doni della morte, che nell’edizione inglese riempiva ben 784 pagine. Capita ancora meno se il libro in questione è opera di un francese (era appena dieci anni fa quando le patatine fritte, french fries, vennero ribattezzate liberty fries in spregio alla codardia di Parigi, che rifiutò di approvare l’invasione dell’Iraq).

E, infine, ogni speranza di successo dovrebbe essere cancellata del tutto se il libro in questione ha come titolo Il capitale nel XXI secoloCapital in the Twenty-First Centurydove “Capital” è scritto a grandi lettere rosse, tanto per ricordare al lettore che la secolare lotta contro il comunismo iniziò con il libro di un barbuto giornalista europeo che scriveva per i quotidiani americani, Das Kapital.

Ebbene, le astuzie della Storia (e dell’editoria) a volte si fanno beffe degli esperti del mercato editoriale: Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty non solo è un bestseller ma è esaurito su Amazon, dove è in assoluto il libro più venduto, e la Harvard University Press lo sta freneticamente ristampando dopo averne venduto 80.000 copie in pochi giorni, oltre ai 12.000 in versione e-book. Per la casa editrice universitaria si tratta del maggior successo editoriale in assoluto: bisogna risalire al volume del paleontologo Stephen Jay Gould Dinosaurs in a Haystack: Reflections on Natural History e a quello del filosofo Charles Taylor A Secular Age per trovare dei volumi che abbiano venduto più di 60.000 copie nel primo anno dopo l’uscita.

Per chi segue i dibattiti sulla crescita della diseguaglianza, ovviamente, il nome di Piketty non è nuovo: benché giovane (compirà 43 anni fra pochi giorni) vent’anni fa era già professore al MIT di Boston, mentre nel 2001 pubblicava insieme a Emmanuel Saez Les hauts revenus en France au XXème siècle, Inégalités et redistribution, 1901–1998. Gli economisti sanno chi è, mentre la pioggia di recensioni che ha preceduto il suo tour promozionale americano lo ha fatto scoprire anche al grande pubblico progressista (Paul Krugman, Thomas Edsall, Robert Solow e molti altri). Il suo successo, in un certo senso, è la versione 2014 del movimento Occupy Wall Street (un altro libro sulla speculazione finanziaria, Flash Boys del giornalista Michael Lewis, ha venduto 130.000 copie nella prima settimana di lancio).

Ma di cosa parla Capital in the Twenty-First Century (uscito l’anno scorso in Francia con il titolo Le capital au XXI siècle, mentre in Italia non si sa quando arriverà)? In realtà parla pochissimo del ruolo produttivo (“rivoluzionario” avrebbero detto Marx e Schumpeter) del capitale per la crescita economica e parla quasi esclusivamente della distribuzione del capitale all’interno della società, arrivando a due conclusioni: primo, la diseguaglianza è fortemente aumentata negli ultimi anni, essenzialmente per scelte politiche (oltre che per ragioni demografiche) ed essa è destinata ad aumentare ancora; secondo, la crescita economica non tornerà ai livelli del dopoguerra (men che meno a quelli cinesi di oggi) e si assesterà su cifre modeste, attorno all’1%, per l’Europa forse ancora meno. Le due cose, ovviamente, sono legate.

Proposte? Una tassa mondiale sui patrimoni per ridurre la concentrazione di ricchezza nelle mani dell’1% più ricco della popolazione, ma lo stesso Piketty non sembra crederci troppo. Alla fine delle 696 pagine, quindi, si resta un po’ con l’amaro in bocca: malgrado l’immensa mole di dati sistematizzati e interpretati, il giovane francese (più allievo di Braudel che di Marx) sembra dire: “Non è mio compito fornire ricette di politica economica”.

tratto da: www.alfabeta2.it

L’imbarazzo del Corriere per le tesi di T. Piketty

di Carlo Formenti. L’assoluta impotenza del Corriere della Sera – da anni organo semiufficiale dell’ideologia neoliberista in Italia – a controbattere le tesi dell’economista neokeynesiano Thomas Piketty, è certificata dall’articolo di Stefano Montefiori apparso domenica 27 aprile sulle pagine del quotidiano di via Solferino.

In un articolo significativamente intitolato “Piketty mania? Non nella sua Francia: lì lo chiamano Marx”, Montefiori non spende una sola parola per discutere le teorie dell’economista francese; si limita a presentarne sinteticamente (è un eufemismo) alcune tesi di fondo, dopodiché descrive ironicamente (“l’impazzimento americano per Piketty”) il successo del libro nel mondo accademico e giornalistico (non solo di sinistra!) anglosassone, difficilmente imputabile di simpatie criptomarxiste, ma soprattutto inanella una serie di pettegolezzi per depotenziarne l’attendibilità senza fare i conti con l’incredibile mole di dati e fatti sotto i quali Piketty seppellisce le teorie economiche mainstream e le loro menzogne.

In particolare, rispolvera le accuse di percosse alla ex moglie (formidabile argomento teorico!), cita l’economista conservatore (appunto!) Nicolas Bavarez che ha definito Piketty un “Karl Marx da sottoprefettura” e ricorda come il presidente Hollande si sia affrettato, una volta eletto, a rinnegare i suoi suggerimenti di una forte tassazione progressiva di redditi e capitali. Sorvolo sul ridicolo di cui si coprono tanto l’autore del pezzo che il titolista (la scelta di Hollande e l’insulto di un accademico reazionario basterebbero a dimostrare che “nella sua Francia” Piketty non gode di alcuna stima!?), per venire al sodo.

In un articolo  di qualche giorno fa sul NYT, intitolato “The Piketty Panic”, il premio Nobel Paul Krugman fa a pezzi le reazioni della stampa conservatrice alle tesi di Piketty (“Wall Street Journal” in testa) dimostrando come l’unico argomento di questi attacchi (che, al pari di quello del Corriere, non si misurano minimamente con i dati di fatto incontrovertibili esposti nel libro) consista nel definire marxista l’autore, una sorta di esorcismo linguistico privo di senso: Piketty, come Krugman, è infatti neokeynesiano e non marxista, visto che propone riforme fiscali senza mettere minimamente in discussione il mercato, per cui vuole regolare e non abbattere il capitalismo.

Ma ancora più interessante dell’articolo di Krugman mi è parso un interventodi Jonathan Moreno sull’Huffington Post. Moreno nota giustamente che a essere più imbarazzati dal discorso di Piketty dovrebbero essere i politici e gli economisti che appartengono all’area della sinistra moderata, nella misura in cui vedono totalmente smentiti gli argomenti in base ai quali hanno deciso di allinearsi all’ideologia neoliberista, sposando tesi come quelle secondo cui i processi di globalizzazione e deregulation dei mercati favorirebbero la riduzione delle disuguaglianze fra Paesi e all’interno di ogni Paese e premierebbero la mobilità sociale e i valori meritocratici, o come quelle che collegano la crescita al rapporto Debito/PIL, giustificano i tagli alla spesa pubblica e al welfare, affermano che si può creare lavoro solo aumentando la flessibilità (insomma tutto l’armamentario di quella che Luciano Gallino ha definito la “guerra di classe dall’alto”).

In America il “panico” dei conservatori e dei democratici di destra è giustificato dalla paura che riemergano posizioni riformiste radicali come quelle della senatrice Elizabeth Warren, che sta duramente contestando sia la politica economica e che le tendenze oligarchiche in atto nel suo Paese (vedi due recenti articoli apparsi, rispettivamente, sull’Huff Post e sul NYT). Il panico delCorriere nasce invece dal timore che si alzino voci “eretiche” a disturbare il suo idillio con la ex sinistra del Pd che ha finalmente imboccato, sotto la guida di Renzi, la strada di Tony Blair.

Carlo Formenti

(28 aprile 2014)

Per altre recensioni vedere:

http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-francese-a-new-york-da-lezioni-di-economia/

Potrebbe piacerti anche Altri di autore